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Tag: ucraina

PUTIN ACCOLTO DA IMPERATORE NEL GOLFO – Il Nord Globale è in preda al panico

Fermi tutti! Fermi tutti, che qui c’è da brindare; è tornata – più in forma che mai – la mia crush numero 1: Nathalie Tocci! Dopo averci deliziato per mesi e mesi con una quantità infinita di vere e proprie perle di doppiopesismo suprematista e previsioni strampalate di ogni genere, sistematicamente smentite tempo zero dalla realtà, la Tocci – ultimamente – aveva iniziato a battere un po’ la fiacca e, per spiazzarci ancora di più, era arrivata addirittura a scrivere cose non dico condivisibili, ma – tutto sommato – perlomeno ragionevoli sullo sterminio in corso a Gaza. Ma quando poi, venerdì mattina, abbiamo aperto la prima pagina de La Stampa, lo spiazzamento si è trasformato in vero e proprio stato confusionale; accanto alla sua graziosa fotina, infatti, campeggiava un titolo sconcertante: Perché adesso in Ucraina rischia di vincere Putin. E’ stata rapita? Lo zio Vladimiro gli ha segretamente fatto impartire un vecchio trattamento Ludwig? L’ha sostituita con una sosia?

Nathalie Tocci

Fortunatamente, però, era solo un falso allarme: superate le prime righe, infatti, ecco che riappare subito la vecchia Natalona che tutti noi abbiamo imparato ad amare, determinata come non mai a sacrificare ogni minimo residuo di dignità in nome della propaganda e del suprematismo. D’altronde la posta in gioco è alta; la Tocci, infatti, che – va detto – ha sempre tifato escalation senza se e senza ma, convinta che le minacce di Putin fossero sempre e solo bluff e che il dovere dell’Europa fosse distruggere la Russia senza tanti fronzoli, lamenta il fallimento di una strategia europea che definisce eccessivamente cauta e attendista. E’ l’abc di ogni suprematista che si rispetti: l’Occidente collettivo è una civiltà superiore e, in quanto tale, non può perdere; se perde è perché ha deciso, per eccesso di ingenuità, di essere troppo docile e gentile, come d’altronde dimostra anche la guerra a Gaza. Proprio la civiltà dei guanti di velluto, diciamo. La Tocci, quindi, torna a lamentare la “stanchezza” dell’Occidente nei confronti di una guerra che – ovviamente – sarebbe in grado di vincere con la mano destra legata, e accusa “chi pensa che da questa stanchezza possa uscire qualcosa di buono”, ovvero “un negoziato che porti un compromesso tra Kiev e Mosca, magari mandando a casa il presidente ucraino Zelensky”.
Poveri illusi! Non tengono in conto, sottolinea la nostra Nathalie, che “per arrivare a un compromesso serve l’accordo tra le due parti. E a questa soluzione il presidente russo Vladimir Putin non pensa proprio” e non tanto perché ormai la Russia ha asfaltato sul campo di battaglia l’Occidente collettivo e quindi ormai, prima di trattare, vuole finire l’opera – che ne so – prendendosi pure Odessa, o per lo meno Kharkiv – che è un’ipotesi tutto sommato verosimile. No, no! Secondo la Tocci, semplicemente, “Putin ha bisogno di uno stato di conflitto perpetuo per sorreggersi”; infatti, sottolinea, “Se dovesse finire la guerra, il regime sarebbe chiamato a fare i conti con” – udite udite – “centinaia di migliaia di morti”: cioè, non 100 mila, che è già una barzelletta, e nemmeno 200, ma proprio centinaia e centinaia di migliaia. Cioè, non solo tutti quelli schierati in Ucraina, nessuno escluso, ma pure quelli rimasti a casa, che sono morti dal dispiacere. E viste le basi fattuali così solide su cui fonda il suo ragionamento, ecco che la Tocci, spregiudicata, decide di fare un passo oltre e si lancia in un’altra delle sue fantastiche previsioni: se, infatti, un compromesso adesso è impensabile – sostiene la Tocci – le cose potrebbero cambiare tra un anno, una volta terminata la lunga corsa per le presidenziali USA, soprattutto se alla Casa Bianca arrivasse Trump; allora un accordo sarebbe il regalo di investitura di Putin all’amico The Donald. Ma non fatevi illusioni, perché “naturalmente, per Putin, questo sarebbe soltanto una pausa temporanea”, giusto “il tempo di riarmarsi, e poi proseguirebbe la rincorsa dell’obiettivo rimasto invariato sin dall’inizio della guerra” che indovinate un po’ quale sarebbe? Ma ovviamente “il controllo di Kiev” scrive Natalona, ma non solo, perché – a quel punto – perché fermarsi? Perché “non proseguire” dice la Tocci “con la casella successiva, cioè la Moldavia e poi, magari, avventurarsi in territorio NATO, nei Baltici”? E poi ancora più in là, dritti verso Lisbona e, da lì, in canotto verso il nuovo continente. Ma chi gliel’avrà messa in testa questa gigantesca sequela di puttanate? E perché proprio adesso, quando – dopo qualche intervento ragionevole sulla guerra a Gaza – stava lentamente riuscendo a ricrearsi un minimo di credibilità?
Washington, martedì 5 dicembre: il Congresso degli Stati Uniti è in procinto di discutere il pacchetto da 100 e oltre miliardi messo assieme dall’amministrazione Biden; in larga parte, dovrebbero servire a permettere all’Ucraina di tenere occupato Putin ancora un po’ senza dichiarare definitivamente la bancarotta, almeno fino al voto per le presidenziali USA del prossimo novembre e, tra le fila del partito repubblicano, le perplessità si sprecano. Ovviamente sanno benissimo che tirare il freno a mano adesso significherebbe, potenzialmente, permettere a Putin di aumentare a dismisura il suo bottino di guerra e, anche, che questo comporterebbe un danno enorme per gli interessi strategici USA, ma sanno anche che, dopo due anni di umiliazioni sul campo, il loro elettorato di questa guerra per procura ne ha le palle piene e per recarsi alle urne vuole vedere tornare in cima all’agenda politica qualcosa che li riguarda da vicino, a partire dalla lotta senza se e senza ma a quelle che ormai definiscono apertamente le invasioni barbariche dei migranti latinos dal confine meridionale – che vorrebbero blindato e con licenza di uccidere. Ecco allora che il segretario alla difesa Lloyd Austin prova l’ultima carta: un lungo incontro riservato con i senatori più riottosi per provare a cercare una quadra prima che inizi il voto; ma è un fallimento totale. Dopo appena 20 minuti – riporta il buon vecchio Stephen Bryen su Asia Times – ecco che i senatori repubblicani escono in fretta e furia dalla sala, inviperiti. Cos’è successo? Secondo le prime ricostruzioni, appunto, i repubblicani volevano impegni formali sostanziosi sul muro col Messico, ma sono stati rimbalzati. Ma c’è dell’altro: secondo Tucker Carlson, Lloyd Austin li avrebbe letteralmente minacciati:

“Il segretario alla Difesa Lloyd Austin” – ricostruisce il Messengers – “avrebbe sostenuto che se i legislatori non riusciranno ad approvare ulteriori aiuti all’Ucraina, ciò molto probabilmente porterà le truppe statunitensi sul terreno in Europa a difendere gli alleati della NATO in altri paesi che la Russia potrebbe prendere di mira”; insomma, gli aveva letto l’editoriale che poi avrebbe pubblicato anche il suo ufficio stampa in Italia Nathalie Tocci. Carlson, come sempre, aggiunge, anche un altro po’ di pepe: Lloyd Austin infatti – sostiene – avrebbe detto esplicitamente che “Se non stanziamo più soldi per Zelensky, manderemo i vostri zii, cugini e figli a combattere la Russia”; insomma, “O paghi gli oligarchi o uccideremo i tuoi figli” sintetizza Carlson, con Musk sotto che gli chiede “Ma ha davvero detto così?”. “Lo ha fatto davvero” replica Carlson. “E’ confermato”. Ora, io di Carlson mi fido più o meno come della Tocci ma, comunque si sia svolto davvero il colloquio segreto, un paio di cose risultano chiare:
uno – la minaccia, comunque sia stata formulata, non ha convinto i repubblicani, che infatti – alla fine – hanno bocciato il pacchetto di aiuti;
due – la minaccia, invece, ha convinto Nathalie Tocci, che l’ha trasformata nel suo ennesimo illuminante editoriale indipendente e privo di condizionamenti.
D’altronde, fallita miseramente la controffensiva ucraina, l’unica speranza che i sostenitori senza se e senza ma della guerra per procura contro la Russia hanno di salvare almeno un pezzettino di faccia è portare avanti una controffensiva mediatica in grande stile. Il primo tassello di questa controffensiva consiste nel riformulare gli obiettivi della guerra: se fino a due settimane fa l’obiettivo era, attraverso la controffensiva, riprendersi tutti i territori conquistati dalla Russia dopo il 24 febbraio – e magari, già che ci siamo, pure la Crimea – e poi mettere fine al regime di Putin, ora che – con poco meno di un annetto di ritardo – si è costretti a prendere atto del fallimento, non rimane che rivedere gli obiettivi retroattivamente; ed ecco così che la debacle diventa una mezza vittoria perché, comunque, abbiamo impedito a Putin di conquistare Kiev.

Euromaidan

Ma chi l’ha detto che Putin voleva conquistare Kiev? Certo Zelensky, Biden, la Tocci, ma Putin – di sicuro – no (e anche noi abbiamo avuto sempre più di qualche dubbietto, diciamo); la storiella è sempre stata che s’è ritrovato di fronte una resistenza ucraina che non si aspettava – per carità, tutto può essere -, ma la resistenza che s’è ritrovato di fronte mica era la resistenza ucraina dei patrioti armati di fucili di legno che ci rifilavano ovunque all’inizio. E’ la resistenza della NATO che, in 8 anni dal colpo di stato dell’Euromaidan, ha trasformato l’esercito ucraino, in assoluto, in uno dei più cazzuti del vecchio continente, e mica era un segreto eh? Cioè, magari non lo sapevano Jacoboni e David Parenzo, ma Putin tendenzialmente sì, ecco. Ciononostante, gli uomini impiegati dalla Russia erano pochini e la loro avanzata non era stata anticipata da qualche campagna democratica di bombardamento a tappeto in stile NATO; quindi, o Putin e tutti i suoi generali e tutta la sua intelligence sono scemi, oppure – probabilmente – il piano non era esattamente quello che gli attribuisce la propaganda occidentale e io, se fossi un hooligan della propaganda suprematista, su questa cosa che sono tutti scemi non ci punterei troppo, ecco, perché se sono scemi loro, te – che ti sei fatto a prendere a pizze in faccia per due anni – probabilmente proprio proprio un aquila non sei, ecco.
Ma al di là di tutte le deduzioni che possiamo fare – che comunque, ovviamente, rimangono sempre opinabili – ora finalmente sembra emergere qualcosa che tanto opinabile non è: come sottolinea il buon vecchio Mearsheimer, infatti, ormai “esistono prove sempre più convincenti che dimostrano che Russia e Ucraina erano coinvolte in seri negoziati per porre fine alla guerra in Ucraina subito dopo il suo inizio”. La prima testimonianza eccellente di questi negoziati risale allo scorso ottobre; a parlare è l’ex cancelliere tedesco Gerard Schroeder, secondo il quale Mosca aveva proposto un piano di pace molto concreto in 5 punti: “Il rifiuto dell’Ucraina di aderire alla NATO, due lingue ufficiali in Ucraina, l’autonomia del Donbass, le garanzie di sicurezza per l’Ucraina e i negoziati sullo status della Crimea”. Altro che conquista di Kiev, quindi: “Durante i colloqui” ricorda però Schroeder “gli ucraini non hanno accettato la pace perché non gli era stato permesso. Dovevano prima coordinare tutto ciò di cui parlavano con gli americani”; ma Schroeder, si sa, è uomo di Gazprom e non è indipendente come Nathalie Tocci. A novembre, però, ecco che arriva un’altra conferma; a parlare, a questo giro, è nientepopodimeno che Davyd Arakhamia, leader parlamentare di Servitori del Popolo, il partito di Zelensky: “I russi” avrebbe dichiarato “erano pronti a porre fine alla guerra se avessimo accettato la neutralità e ci fossimo impegnati a non aderire alla NATO” ma “quando siamo tornati da Istanbul” ricorda Arakhamia “Boris Johnson è venuto a Kiev e ha detto che non avremmo firmato nulla con loro e che combattevamo e basta”.

Francesco dall’Aglio

A confermare il vero scopo della Russia e il ruolo dell’Occidente collettivo c’ha pensato pure l’ex premier israeliano Natali Bennett, presente ai negoziati: “Tutto ciò che ho fatto” avrebbe affermato “è stato coordinato fino all’ultimo dettaglio con Stati Uniti, Germania e Francia. E la decisione è stata quella di continuare a colpire Putin”. I partner occidentali, quindi, hanno deciso di bloccare l’accordo e “io ho pensato che si sbagliassero” ha concluso Bennet; è esattamente la stessa identica cosa che il nostro Francesco Dall’Aglio ha sostenuto – durante le nostre dirette – ogni benedetta settimana da quando è iniziato il conflitto e che ora, finalmente, diventa sostanzialmente ufficiale – ma, evidentemente, non abbastanza per spingere la Tocci a prendere consapevolezza della realtà e a smarcarsi un po’ dai deliri dell’amministrazione Biden. Purtroppo per la propaganda analfoliberale, però, continuare a sostenere vaccate che cozzano palesemente con la realtà non sembra ormai più essere una strategia vincente; nonostante il bombardamento mediatico ininterrotto, il grosso della popolazione mondiale – anche nel cuore dell’Occidente collettivo – ormai il giochino l’ha capito eccome; ma allora perché continuare imperterriti sulla stessa strada, rilanciando con questa buffonata di Putin che, una volta conquistata Kiev, invade pure i paesi Baltici?
Per capirlo, basta vedere le immagini dell’arrivo di Putin, giovedì scorso, negli Emirati Arabi Uniti: ad aspettarlo c’erano “il picchetto d’onore, bandiere russe ovunque, l’inno russo eseguito dall’orchestra, il saluto dell’artiglieria” sottolinea Ria Novosti, e anche gli aerei acrobatici che hanno disegnato una gigantesca bandiera russa nel cielo ; un’accoglienza un po’ diversa da quella che, pochi giorni prima, aveva trovato il presidente tedesco Stenmeier in Qatar. Se l’erano dimenticato; è rimasto lì ad aspettare per mezz’ora. I media occidentali hanno rosicato di brutto: “L’accoglienza disgustosamente sontuosa del despota Putin ha titolato il britannico Sun. “Vladimir Putin” scrive La Bretella Rampina sul Corriere della serva “umilia i suoi nemici con la tournée nel Golfo”; “tutto” rilancia Libero “per mandare all’Occidente una sorta di pernacchia metaforica”. Dopo il tour nel Golfo, Putin ha ricevuto a Mosca il presidente iraniano Raisi e, poche ore prima, era stato il turno del principe ereditario dell’Oman che, con Putin a fianco, avrebbe affermato di fronte alle telecamere che “L’ingiusto ordine mondiale dominato dall’Occidente deve finire”; “è necessario” ha continuato il principe “creare nuovi meccanismi per le relazioni internazionali che non impongano alcuna ideologia”. “Gli Stati Uniti” ha dichiarato Putin “hanno cercato di utilizzare la globalizzazione come strumento per garantire il proprio dominio nel mondo”; “ora, tuttavia” ha continuato “il vecchio modello con un processo drammatico e irreversibile sta per essere sostituito da un nuovo ordine multipolare”. E la Russia darà il suo contributo per la creazione di un nuovo modello economico globale veramente democratico, basato sulla concorrenza leale tra tutti gli attori. Il palcoscenico era il forum annuale organizzato da VTB Bank: seconda banca del paese, a quest’ora si sarebbe dovuta ritrovare in ginocchio a causa delle sanzioni; nel 2023 registrerà i profitti più alti della sua storia. Bene, ma non benissimo, diciamo.

E ora una brevissima interruzione pubblicitaria: i nostri media provano a fuggire a questo destino – che per i loro editori è drammatico e irreversibile – cercando di cambiare retroattivamente la storia: mi sa che servirebbe un media che la storia cerca di capirla per quello che è per evitare di farsi prendere sempre e solo a sberle per l’eternità. Per costruirlo, serve un editore un po’ diverso: tu; aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è… Spe’ che sono emozionato, che non lo dicevo da tanto…
E chi non aderisce è Nathalie Tocci

IL CALENDARIO DELL’AVVENTO DELLA POST – VERITA’ Un anno di previsioni mainstream – pt. 2: FEBBRAIO

2 febbraio, La Repubblichina: “La guerra non durerà, Putin è in un angolo”; 11 febbraio, Corriere della serva: “La Moldavia trema, Putin la vuole invadere”; 12 febbraio, di nuovo La Repubblichina: “I dubbi sull’offensiva di Putin. Non ha più risorse”; 13 febbraio, La Stampa: “Strage di russi”; 21 febbraio, La Repubblichina: “Ecco il piano ucraino per la guerra breve. Vinceremo nel 2023”; 27 febbraio, Libero: Dario Fabbri “La Russia ha perso”.
Carissimi ottoliner, benvenuti a questo secondo appuntamento con il calendario dell’avvento ottolino che ci accompagnerà da qua al 25 dicembre, quando festeggeremo l’arrivo ufficiale dell’era della post – verità. Oltre alla solita tiritera sulla vittoria immaginaria in Ucraina, il mese di febbraio è stato più che altro il mese della spy story più ridicola della storia delle spy stories: il giallo del pallone gonfiabile cinese, una polemica talmente farlocca che, nei mesi successivi, è stata totalmente rimossa nel tentativo di farcela dimenticare ma che, nel febbraio 2023, ha interessato prime pagine e decine e decine di articoli per la bellezza di 10 giorni, e che è finita solo quando ha lasciato il palcoscenico a un’altra crociata sinofoba totalmente infondata: la fake news sul Cina – gate per convincere l’Europa a mettere al bando le auto endotermiche a favore di quelle elettriche. E anche sulle analisi economiche ci sarebbe qualcosellina da obiettare…
1 febbraio, Il Foglio: “Perché i dati sorprendenti sull’economia italiana ci ricordano che l’ottimista non è altro che un pessimista bene informato”; 13 febbraio, La Stampa: “Eurozona, sale il PIL e l’inflazione frena”; 20 febbraio, di nuovo Il Foglio: “Crescita, export, investimenti, occupazione: analisi del nuovo miracolo economico”; “Una girandola di record che ha stordito i catastrofisti”. Sostituisci la parola record con cazzate e sì, a sto giro c’hai preso. In effetti ‘sta girandola di vaccate un po’ c’ha stordito davvero e, forse, era proprio quella la strategia: dirne talmente tante e talmente grosse che poi, alla fine, uno se le dimentica. Fino a che non è arrivato il calendario dell’avvento per gli ottoliner!
Il secondo mese dall’anno zero dell’era della post – verità non si apre all’insegna della vittoria immaginaria dell’Occidente collettivo sulla pelle degli ucraini, ma con una bella overdose di wishful thinking in campo economico; ad aprire le danze, il primo febbraio, è un vero e proprio gioiellino made in Il Foglio, la rivista ufficiale dell’internazionale analfoliberale: “Perché i dati sorprendenti sull’economia italiana ci ricordano che l’ottimista non è altro che un pessimista bene informato”, titola. L’articolo mette in fila un po’ di dati veramente entusiasmanti: il Fondo Monetario aveva appena rivisto al rialzo le stime della crescita italiana per il 2023 – dallo 0,2% a un fantasmagorico 0,6%. Ripeto: 0,6%; un decimo della Cina che Il Foglio – un giorno si e l’altro pure – dice essere ormai in crisi irreversibile. L’altro dato entusiasmante sarebbe stato quello pubblicato poco prima dall’Istat: l’esplosione dell’occupazione, che ha raggiunto la strabiliante quota del 60,5%; peccato che, contemporaneamente, le ore complessive di lavoro diminuivano. I famosi nuovi occupati nell’arco di un mese avevano raccolto una cassetta di pomodori o servito due cappuccini per un paio d’ore ed erano stati pagati 12 euro con qualche voucher (e, magari, si lamentavano pure). Il più bello dei dati citati, però, è questo: aumento delle retribuzioni contrattuali nel 2022 dell’1,1%; un successo clamoroso. Per i padroni. Con l’inflazione superiore all’8%, significa una perdita netta del potere di acquisto di circa il 7%, che aumenta mano a mano che si scende nella scala sociale: uno stipendio pieno in meno all’anno. “Le notizie sorprendentemente positive che da qualche tempo arrivano sulla nostra economia” commentava l’editoriale “dovrebbero spingere i catastrofisti di professione a porsi alcune domande”; noi, in particolare, ce ne siamo fatti una: ma com’è che ancora c’è qualcuno che vi paga per scrivere ‘ste vaccate?
Nel frattempo comunque, mentre l’economia italiana viaggiava col vento in poppa, quella russa era sull’orlo del baratro: è quello che risosteneva, per la milionesima volta, La Repubblichina. Putin rischia un golpe” titolava; “Tra un anno” si legge nell’articolo “quando il protrarsi dell’operazione militare speciale in Ucraina avrà portato a un numero ancora maggiore di morti e l’economia della Russia sarà al tracollo, il presidente Vladimir Putin potrebbe vedersi costretto a sospendere le presidenziali previste nel 2024, innescando un colpo di Stato”. D’altronde il collasso è inevitabile, come titolava, il giorno dopo, sempre La Repubblichina; “La guerra non durerà, Putin è in un angolo” è un virgolettato di Oleksey Danilov, il segretario del consiglio nazionale per la sicurezza e la difesa ucraino: una fonte super parte insomma. Attendibilissima! E che – diciamo – non è che faccia proprio di tutto per risultare esattamente credibilissimo: “Per ogni ucraino ucciso” afferma “ci sono sette morti russi. Ma” ovviamente, sottolinea Danilov “a loro non importa, li spediscono all’assalto a ondate”. In un rarissimo sussulto di dignità, il giornalista fa notare che anche tra le loro fila le perdite risulterebbero abbastanza ingenti; macché: “La Russia ha fatto una grande campagna di disinformazione a suon di fake news” risponde l’affidabilissimo Danilov. “Vogliono descrivere la nostra situazione come terribile” e per farlo – sottolinea Danilov – “hanno coinvolto una grande quantità dei mass media occidentali”, anche se poi non cita né Ottolina, né dall’Aglio e manco Alessandro Orsini. Mai una gioia. La strategia suicida della Russia – sostiene Danilov – avrebbe una sola causa: “Sono sicuro che da dieci anni Putin è malato” afferma Danilov; “ha problemi mentali: vive nel suo mondo e non capisce cosa gli succede intorno”. “Perché lei e Zelensky avete detto di non sapere se sia vivo?” chiede il giornalista; ma ovvio, che domande! E’ “Perché non c’è un solo Putin” risponde piccato Danilov; “Non è una tesi cospirazionista” continua Danilov; “Potete fare analisi comparative sulle sue immagini pubbliche. Osservate anche il suo modo di camminare, la paura ad avvicinarsi anche ai suoi stretti collaboratori e poi il bagno di folla il giorno dopo… Sono cose tipiche del KGB”.

Federico “Er bretella” Rampini

In attesa di poter decretare ufficialmente la morte di Putin e il crollo della Russia, ecco che i nostri media si dedicano anima e cuore alla spy story dell’anno: il giallo dei palloni cinesi; è il 4 febbraio, il giorno in cui un pallone gonfiabile sconvolse le sorti del mondo. La storia ovviamente la sapete: stiamo parlando del pallone aerostatico cinese utilizzato per misurazioni e ricerche scientifiche che a febbraio, a causa dei forti venti, era sfuggito al controllo ed era finito sopra i cieli del Montana; “Nella migliore delle ipotesi” scrive Paolo Mastrolillo & Greg su La Repubblichina “l’incidente dimostra l’irresponsabilità e l’inaffidabilità della Cina”. L’apparizione di un pallone bianco gigante sui cieli del Montana sarebbe un “atto di sfida” che rivelerebbe “il vero umore di Xi”; “L’autogol di Pechino” rilancia Er Bretella Rampini dalle pagine del Corriere della serva :“La vecchia regola” sottolinea Rampini “è che tutti spiano tutti, ma non bisogna farsi beccare in flagranza”. Manco a spia’ so capaci ‘sti cinesi! Cioè, sono 20 anni che gli USA sostengono che tutti i progressi tecnologici fatti dalla Cina sono dovuti allo spionaggio industriale e al furto di informazioni riservate, e ora scopriamo che manco a fa’ quello so’ boni. Ma allora è proprio vero che sono in declino o, come dice la sempre equilibratissima e brillantissima Giulia Pompili, “nel pallone”: “La Cina nel pallone” titola il suo articolo su Il Foglio; la Pompili ricorda come la Cina abbia sostenuto si trattasse – come poi è stato confermato ufficialmente – di un dirigibile civile di quelli usati “da quasi tutte le agenzie meteorologiche”. Ma alla Pompili non la si fa: “E’ falso!” tuona; “I palloni sonda meteorologici sono di piccolissime dimensioni, e poi esplodono automaticamente a una certa altezza”. Manco Wikipedia, maremmampestata ladra: i palloni ad alta quota, come sanno tutti, vengono utilizzati da sempre (attualmente in cielo ce ne sono svariate centinaia) e – a seconda della strumentazione – raggiungono dimensioni decisamente importanti. E nessuno li fa saltare per aria, perché possono valere anche svariate centinaia di migliaia di euri. Comunque, nonostante gli sforzi, la Pompili in fatto di vaccate rimane sempre una principiante: per la vera chicca bisognerà aspettare un altro giorno.
5 febbraio, Libero: “Il pallone cinese è un’arma”; a firmare l’articolo è il sempre lucidissimo Carlo Nicolato, vice redattore capo della prestigiosa testata filo – governativa. “I palloni” scrive “potrebbero anche trasportare armi biologiche da rilasciare silenziosamente nell’atmosfera. Oppure farlo nel momento stesso in cui vengono abbattuti”; ma non solo, perché “Potrebbero anche trasportare bombe che possono essere rilasciate in qualsiasi momento, come anche lanciare sciami di droni”. Ma soprattutto – conlcude Nicolato – “Potrebbero scatenare un attacco ad impulsi elettromagnetici (EMP) in grado di spazzare via la rete elettrica americana e di rendere così il Paese inoffensivo e non più in grado di difendersi”: fortunatamente, però, sembra che non siano ancora attrezzati di alabarda spaziale. E la tiritera è andata avanti per settimane: 9 febbraio, Il Giornale: “Sonde spia in 5 continenti. L’operazione in mano all’esercito di Pechino”; 10 febbraio, ancora Il Giornale: “Anche l’Italia spiata da Pechino”. “I timori dei nostri Servizi: rischi di incursioni peggiori”, la sonda spia è “solo l’avvisaglia di azioni più sofisticate”; “La domanda che sta agitando il sonno degli italiani è” si legge nell’articolo “che cosa stanno preparando i cinesi?” Boh, non lo so. Due raviolini? Un risino alla cantonese? E ancora, il 13 febbraio, La Repubblichina rilancia: “Palloni spia o Ufo? Il mistero degli oggetti abbattuti in America” e di nuovo, il giorno dopo, La Stampa: “La guerra dei palloni”. “La Casa Bianca: una campagna di spionaggio”.
L’incredibile campagna attorno a questa vaccata epocale finirà soltanto il 17 febbraio – 13 giorni dopo la prima notizia – e solo per essere sostituita da un’altra vaccata sinofoba. Libero: “L’ombra del Cina – gate dietro il bando sulle auto a benzina”; in ballo, ovviamente, c’è la querelle sulla messa al bando dei motori endotermici entro il 2035 che, in effetti, senza politiche industriali adeguate – che in Europa non ci saranno mai perché in Europa politica industriale è considerata una parolaccia – è palesemente una scelta piuttosto demenziale. Ma che c’azzecca il Cina – gate? La pistola fumante di Libero è un vero gioiello di giornalismo investigativo: “Negli ultimi anni” scrivono “la Cina è diventato uno dei paesi che ha invitato con più frequenza a Pechino gli eurodeputati”; a parte che mi piacerebbe sapere chi sono gli altri paesi che invitano gli eurodeputati a Pechino, ma – insomma – a parte l’analfabetismo di ritorno, ma dove dovrebbero andare le nostre delegazioni? In Guatemala? In Papua Nuova Guinea?
La scelta europea era così dettata dalla lobby cinese che, da qualche mese, l’Unione Europea non fa altro che cercare una scusa per imporre nuovi dazi: l’accusa è che la Cina si sarebbe addirittura azzardata a fare politiche industriali per rendere la sua industria dell’automotive elettrico ultra competitiva sui mercati globali. Insomma: un Cina – gate c’è eccome, solo che a fare lobbying sono sempre e solo le nostre oligarchie che vogliono impedire ai cinesi – che hanno investito una montagna di quattrini – di venire a fare concorrenza alle case automobilistiche autoctone che i loro profitti, invece che reinvestirli, se li sono intascati (di solito dopo essere passati da qualche paradiso fiscale). O almeno, questa è l’analisi che abbiamo sempre fatto noi gufi catastrofisti e che però – spiega Il Foglio – era tutta sballata: secondo Il Foglio, infatti, in realtà siamo di fronte e un vero e proprio nuovo miracolo economico fatto di “crescita, export, investimenti e occupazione”, la famosa “girandola di record che ha stordito i catastrofisti” (anche perché gli altri, forse, erano storditi già da prima). “Gufi e catastrofisti” scrive Il Foglio “sono andati avanti imperterriti fino all’ultimo a pronosticare dinamiche negative imminenti della manifattura che non si sono mai verificate”. No, mica: 10 mesi dopo – come puntualmente anticipato e ampiamente previsto – la crescita tendenziale dell’industria italiana segna un -2% abbondante.

Un’alabarda spaziale

E, a questo punto, non ci rimane che chiudere con una bella carrellata sui trionfi ucraini immaginati nelle redazioni dei nostri giornali; 12 febbraio, La Repubblichina: “I dubbi dei servizi sull’offensiva di Putin. “Non ha più risorse””; 13 febbraio, La Stampa: “Strage di russi”. “In questi giorni” scrive La Stampa “il numero dei caduti tra le file russe è il più alto dalla prima settimana di guerra”. La fonte? Il ministero della difesa britannico; e come fa il ministero della difesa britannico a saperlo? Semplice: riporta il comunicato della difesa ucraina. Non fa una piega; d’altronde a cosa ti servono i numeri affidabili quando la realtà è così evidente? E’ quello che spiega Lorenzo Cremonesi sul Corriere della serva appena 3 giorni dopo: “La trappola di Vuhledar” titola; “Un cimitero dei russi”. “Ancora una volta” – spiega Cremonesi nel trecentesimo articolo in un anno che annuncia avanzate e trionfi inimmaginabili per la resistenza ucraina – “abbiamo visto scontrarsi due filosofie della guerra opposte”. Da un lato, sogna Cremonesi, “quella russa, che è ferma alle tattiche e strategie della seconda guerra mondiale” mentre, dall’altro, “quella ucraina”, cioè dei popoli evoluti e civili che, ovviamente, “è proiettata nella tecnologia della futura terza guerra mondiale”. Ecco perché Zelensky può affermare a cuore leggero che “Il golia russo? Può perdere entro l’anno” e chi legge Cremonesi, alla fine, ci crede pure. E pure chi dà retta a Biden che, di lì a poco, vola a Kiev – e Paolo Mastrolillo & Greg è in brodo di giuggiole: “Un anno fa” scrive con i lucciconi “il capo del Cremlino si aspettava di conquistare Kiev nel giro di una settimana, adesso deve testimoniare impotente la passeggiata davanti alla cattedrale del capo della Casa Bianca”.
Dopodiché i giornalisti di professione – evidentemente – hanno chiesto qualche giorno di pausa perché inventarsi sempre una puttanata nuova, alla fine, è logorante, e per inventare puttanate nuove di pacca hanno chiamato i rinforzi, come il celebre scrittore franco – americano Jonathan Littell, che non ha dubbi: “Putin ha perso” è il titolo a 12 colonne della sua doppia paginata; il problema ora, sottolinea Littell, è farlo capire a Putin stesso. “Non stiamo facendo tutto ciò che è necessario per obbligarlo ad accettare di aver perso la guerra”: ad esempio, immagino, costringerlo a leggere i giornali italiani. E invece niente, “e la colpa” sostiene Littell “ è da ricercare indubbiamente in quella nostra vena di insicurezza e vigliaccheria, che questo ex agente del KGB sa fiutare benissimo sotto tutti i nostri interventi, per quanto robusti, a favore dell’Ucraina”; dovremmo invece mandargli un messaggio chiaro: “Hai perso, metti fine a questa guerra e siediti al tavolo dei negoziati, se non vuoi che le tue forze in Ucraina vengano travolte e annientate senza pietà, con tutti i mezzi disponibili”. Come? Smettendo di combattere “con una mano legata dietro la schiena”. Artisti democratici per l’escalation militare e l’armageddon – che però, in compenso, non capiscono un cazzo né di guerra né di politica – per farsi dare due paginate intere sul Corriere della serva: un curriculum esemplare.
Noi ci rivediamo presto per il terzo appuntamento con il calendario dell’avvento ottolino;nel frattempo, se 12 mesi di post verità ti sono bastati, forse anche te cominci a sentire il bisogno di un vero e proprio media che provi a raccontare il mondo per quel che è, e non per quello che vorrebbero fosse Mastrolillo & Greg e Cremonesi. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giulia Pompili

ALESSANDRO ORSINI SCATENATO – la debacle ucraina, lo sterminio di Gaza e l’ipocrisia del PD

Carissimi ottoliner ben ritrovati, il grande momento è arrivato. Finalmente su Ottolinatv un Alessandro Orsini a tutto tondo in forma più che smagliante. Stamattina abbiamo pubblicato un estratto della lunga intervista registrata ieri. Ed eccovi ora tutto il resto: nell’estratto di stamattina avevamo commentato l’affermazione del professor orsini secondo il quale l’ucraina, e quindi, con lei, anche l’intero blocco occidentale, hanno definitivamente perso la guerra contro la Russia.
Ora ripartiamo esattamente da dove ci eravamo lasciati, e cioè dalle conseguenze di questa debacle disastrosa, a partire proprio dalla nostra europa.

Ma non è che l’antipasto.

Perché abbiamo parlato anche dell’ipocrisia del PD che a guerra persa si riscopre magicamente pacifista, dello sterminio in corso a Gaza, e di come Orsini pensa questa carneficina si potrebbe ripercuotere sulla supposta superiorità morale della civiltà liberale occidentale.

Buona visione

L’era dei Media Mainstream è Finita? – con Andrea Legni ed Enrica Perucchietti

Oggi parliamo di media e di informazione e lo facciamo con Andrea Legni, direttore dell’indipendente, e Enrica Perucchietti, giornalista free lance e uno dei volti di Visionetv. L’occasione è questa: l’uscita della monografia mensile de l’indipendente, con il quale abbiamo avviato già da qualche tempo una collaborazione,e il numero di questo mese è proprio dedicato all’informazione e in particolare, come dice il titolo, alla crisi della disinformazione di regime. Una crisi che va avanti da tempo, ma che si è approfondita dall’inizio della guerra per procura della nato contro la russia in ucraina, e ancora di più con lo scoppio della guerra di israele contro i bambini arabi a Gaza, che, appunto come titola il suo articolo proprio enrica, nel tentativo disperato di giustificare la ferocia genocida di quella che ancora inspiegabilmente viene definita l’unica democrazia del medio oriente, ha fatto raggiungere “nuove vette” alla “disinformazione di regime”.

IL CALENDARIO DELL’AVVENTO DELLA POST – VERITA’ Un anno di previsioni mainstream – pt. 1: GENNAIO

4 gennaio 2023, Il Giornale: “Russi in crisi, caos nell’esercito”;
6 gennaio, La Repubblichina: “Putin chiede il cessate il fuoco perché sta perdendo”;
25 gennaio, Il Giornale: “Arrivano i tank, la guerra è a una svolta”;
26 gennaio, La Repubblichina: “Ora l’esercito russo potrebbe sgretolarsi” e “Pechino scarica Mosca”.
Tra debacle ucraina, crisi economica e – per chiudere in bellezza l’anno – lo show in mondovisione della natura genocida della cosiddetta unica democrazia dell’Occidente, per la propaganda suprematista il 2023 è stato un anno decisamente complicato. In vista delle festività natalizie, allora, Ottolina Tv ha deciso di fare un suo personalissimo calendario dell’avvento dove a ogni casellina corrisponderà un video dedicato alle vaccate più incredibili apparse sui principali quotidiani italiani in un determinato mese e, alla fine, invece che la nascita di Cristo si festeggerà la nascita della Nuova Era della Post – Verità: tenetevi forte perché quelle che apparivano chiaramente come puttanate anche lì per lì, ma contro le quali – per prudenza, a suo tempo – abbiamo deciso di non inveire con troppa ferocia, concedendo il beneficio del dubbio, a un anno di distanza assumono chiaramente le sembianze di caricature satiriche esilaranti. Buon avvento a tutti!
Il 2023, in realtà, non si è aperto all’insegna delle magnifiche sorti e progressive della gloriosa guerra per procura dell’Occidente globale contro la Russia in Ucraina. La psyop suprematista che ha inaugurato l’anno della Post – Verità era talmente sconclusionata che l’abbiamo immediatamente rimossa; in ballo c’era la fine delle rigide misure zero covid in Cina che, secondo i nostri sempre obiettivi ed equilibrati media, avrebbe necessariamente causato milioni di morti e riportato il dragone al Medioevo, dal quale – peraltro – ovviamente non era mai completamente uscito. Nonostante la Cina minacci il Mondo Libero, i valori fondamentali di giustizia e di fratellanza che caratterizzano l’Occidente collettivo ci avevano spinto ad offrire al barbaro regime di Xi Jinping una via d’uscita sicura dalla catastrofe: una montagna di vaccini Pfizer a gratis. Ma Xi Jinping – che, come sempre, aveva messo davanti il suo culto per la personalità al benessere del suo popolo – ci aveva rimbalzato: “Il no di Pechino ai vaccini occidentali” titolava Il Giornale; “Xi sacrifica il popolo per salvare la faccia”. “Aprire a Bruxelles” scrive Gian sinofobia portami via Micalessin “significherebbe riconoscere il flop della cura cinese e il disastro della politica covid – zero”.

Il virus SARS-CoV-2

Ovviamente oggi sappiamo che quell’offerta, più che con la generosità della civiltà dell’uomo bianco e “la superiorità scientifica degli USA” – come sottolineava il Giornale – aveva a che fare col fatto che, per due anni, tutto l’Occidente ha lasciato che a dettare la sua politica sanitaria fosse una spregiudicata multinazionale come Pfizer, che ha registrato per due anni profitti record vendendoci una quantità spropositata di vaccini dei quali non sapevamo assolutamente cosa fare; e anche l’annunciato disastro della politica covid – zero che, secondo la propaganda, non aveva fatto altro che rinviare l’appuntamento con la pandemia aggravandolo – dopo aver imposto per due anni inutili misure draconiane a un popolo sostanzialmente schiavizzato – non si è rivelato esattamente conforme alle previsioni: secondo i numeri di Our World in Data aggiornati al 2 dicembre, la Cina – in tutto – avrebbe registrato appena 85 morti ogni milione di abitanti, contro una media di oltre 2700 nell’Unione europea e i circa 3400 degli USA e della Gran Bretagna, ovviamente distribuiti in modo incredibilmente diseguale tra le diverse classi sociali all’interno dei singoli paesi. Il fallimento della politica covid – zero cinese, quindi, sarebbe consistito nel salvare la vita a circa 4,5 milioni di lavoratori mentre, nel frattempo, il prodotto interno lordo cresceva di poco meno del 25%; quello dell’eurozona sarebbe cresciuto dello 0,1%. Un po’ diverso dalle previsioni che Angelo Panebianco, mosso da disinteressato senso civico, aveva deciso di condividere con il pubblico dalle pagine del Corriere della serva quel fatidico 4 gennaio: “è al tempo stesso spaventoso e rassicurante” scriveva “il clamoroso fallimento cinese nella gestione della pandemia. E’ spaventoso” argomentava “per le conseguenze sanitarie: quel fallimento sta facendo ammalare milioni di cinesi e mette tutto il resto del mondo a rischio di una nuova ondata pandemica”. Ma allo stesso tempo – ci risollevava il morale l’umanissimo Panebianco – “è rassicurante per due motivi. Il primo” continuava “è di carattere geopolitico. I teorici dell’inevitabile tramonto dell’Occidente forse si sbagliano”. D’altronde – spiega lucidissimo l’Angelone nazionale – “l’autocrazia ha un prezzo: il prezzo di una rigidità che impedisce ai governanti di fronteggiare sfide impreviste con pragmatismo e capacità di correggere gli errori”. Giuro, scriveva proprio così: la Cina è destinata a fallire perché non è pragmatica. Ma non è tutto; c’è anche un altro motivo per festeggiare perché – scrive con sprezzo per il pericolo Angelo Panesuprematistabianco – “il fallimento cinese dimostra urbi et orbi la superiorità delle società aperte e democratiche rispetto alle autocrazie. Una superiorità molto concreta,” sottolinea “non astratta e ideologica. Il confronto sui risultati concreti è impietoso”.
Insomma, l’anno zero dell’era del ribaltamento radicale della realtà iniziava alla grande, e non solo per questo delirio anti – cinese; sempre il 4 gennaio, infatti, Il Giornale titolava così: “Russi in crisi, caos nell’esercito”, e con l’immancabile Ian ndocojocojo Bremmer che rilanciava dalle pagine de La Stampa: “Mosca non riesce a fermare gli ucraini”. Secondo Bremmer, Putin – ormai – era già nel panico e a un passo da “arrivare a utilizzare tecniche terroristiche” ed era solo l’inizio, perché “con l’arrivo dei sistemi di difesa Patriot” a breve “la capacità russa di rispondere alle controffensive sarà limitata” e quindi, nell’arco di poco, c’era da aspettarsi di poter assistere a qualche grande successo ucraino, addirittura “nell’arco delle prossime settimane”. Ancora aspettiamo.
2 giorni dopo arriva l’ora del Natale ortodosso; Putin, cogliendo l’appello del patriarca Kirill, avanza l’idea di una tregua, e sapete perché? Ma “perché sta perdendo”, ovvio: così titola la sua intervista su la Repubblichina Paolo Mastrolilli, probabilmente – in assoluto – uno dei giornalisti più divertenti viventi. Per l’occasione, Mastrolillo & Greg ha avuto l’intuizione di farci spiegare come funziona il mondo dall’ex comandante della NATO, marchio di garanzia di equilibrio e ricerca spassionata della verità: “Quindi la proposta di Putin è un segnale di debolezza?” chiede Mastrolillo & Greg con quel tono inquisitorio da vero giornalista d’inchiesta di razza; “Assolutamente” risponde Clark “non ci sono dubbi. È chiaro che il Cremlino ha preso l’iniziativa perché è in difficoltà. Ciò segnala solo la sua debolezza, tanto sul fronte ucraino, quanto su quello interno”. Due pagine dopo, a rincarare la dose ci pensa il migliore amico del nostro Francesco Dall’Aglio, il grandissimo esperto di armi e di guerra Gianluca di Feo, che ci mette in guardia: “I timori delle cancellerie” titola. “Dopo le nuove offensive la Russia si sgretolerà”; “Nelle cancellerie del pianeta” ci svela Di Feo “c’è la sensazione che sia scattato un conto alla rovescia”. D’altronde, basta guardare le simulazioni: alcune, un po’ pessimistiche, dicono che ci sarà uno stallo ma il grosso – rivela Di Feo entusiasta – ci anticipano che “sarà Mosca a uscirne peggio, subendo una distruzione di quel che resta del suo potenziale bellico”. A quel punto, però, bisognerà fare attenzione perché “l’avanzata ucraina” sottolinea Di Feo “rischia di far crollare Putin aprendo un’era di instabilità”; da lì in poi, questo sarà uno dei grandi cavalli di battaglia della propaganda suprematista: ormai Putin è finito, però attenzione a menarlo troppo forte perché prima bisogna capire bene come garantire alla Russia una transizione dolce. Un concetto che, il giorno dopo, viene rilanciato da Viviana Mazza sul Corriere della serva: per non correre il rischio di essere accusata di privilegiare interlocutori non esattamente imparziali, come l’ex capo supremo della NATO Clark, la brillantissima Viviana decide di interpellare nientepopodimeno che Anne Applebaum, già premio Pulitzer nel 2004 grazie a Gulag, un originalissimo e coraggiosissimo lavoro di propaganda antisovietica in un periodo in cui erano diventati antisovietici anche i sovietici stessi. Anne, nell’intervista, ammette che a un certo punto, nella primavera scorsa, si era anche quasi rassegnata all’idea che, per chiudere la partita, l’Ucraina dovesse sì – ovviamente – riconquistare tutti i territori perduti a partire dall’invasione, ma magari, per il momento, rinunciare alla Crimea e anche a umiliare Putin obbligandolo a presentarsi davanti a una qualche corte internazionale. Ma, di fronte a tutti questi incredibili successi sul campo dell’Ucraina, “Vittoria per Kiev ormai non significa solo recuperare territori, ma anche ottenere risarcimenti economici e giustizia per i crimini di guerra”: ovviamente questo significa necessariamente “mettere fine al regime di Putin” e questo, però, “in assenza di meccanismi chiari di successione, comporta opportunità, ma anche rischi”. Che Putin ormai stia con le pezze al culo è così eclatante che – come il giorno dopo svela Marco Imarisio sul Corriere della serva – “oltre ai trecentomila coscritti richiamati alle armi lo scorso ottobre se ne aggiungeranno presto molti altri, tra cinquecentomila e un milione”. Ma che dico un milione… un miliardo! Ma che dico un miliardo… un fantastilione di milioni di triliardi!
In mezzo a questa disfatta, però, fortunatamente c’è anche chi trova il tempo per riflessioni più profonde, che vanno oltre gli aridi numeri della cronaca e aprono uno squarcio negli abissi dello spirito umano; a questo giro tocca a Carlo Nicolato, brillante vice caporedattore di Libero. Ad ispirarlo è questa foto:

Vladimir Putin

“Guardate il suo sguardo,” sottolinea Nicolato “il destino segnato in quelle pupille appuntite perse nel nulla”; è un attento osservatore Nicolato, un profondo pissicologo, ma anche un discreto esperto di politica internazionale che ci ricorda come Putin non sia semplicemente ormai “solo e isolato in patria”, come svelano le sue pupille, ma anche “nel mondo, perché anche i suoi alleati lo stanno abbandonando o lo hanno già abbandonato”. L’unica cosa che ancora “resta da capire” – riflette Nicolato – è “se la guerra la perderà sul campo di battaglia, o sul tavolo delle trattative. Resta da capire” cioè, continua Nicolato, “fino a che livello vorrà scendere negli abissi della ignominia e dell’umiliazione”; “ma la sua fine” conclude Nicolato “è già lì in quello sguardo, in quella postura sconfitta in un angolo di una chiesa”. Raga’, questo non è solo grande giornalismo: questa è grande letteratura. A confermare che Putin è stato definitivamente mollato da tutti gli alleati, due giorni dopo ci pensa di nuovo Il Giornale: “Pechino scarica mosca”, titolano. Nella settimana successiva, però, tutta questa ondata crescente di entusiasmo subisce una piccola battuta d’arresto e a la questione ucraina sostanzialmente sparisce dalle pagine della stampa di regime, ma quando una settimana dopo comincia a riapparire, lo fa in grande style: “Kyev, ti armo da impazzire” titola Il Foglio il 18 gennaio; in ballo c’è la fornitura di nuovi carri armati all’ultima moda all’Ucraina che, scrive il Foglio, permetterebbero di “passare dalla resistenza alle forze russe all’espulsione delle forze russe dal territorio ucraino”. E’ solo l’ultima gocciolina di un vaso che trabocca di successi incredibili per l’Occidente collettivo, anche se l’onnipresenza della propaganda putiniana prova, in ogni modo, a screditarli; ed ecco allora che Il Foglio ci propone la sua AGENDA ANTI – CATASTROFISMO. “Le sanzioni?” si chiede retoricamente il Foglio: “Funzionano. L’economia russa? Crolla. Il prezzo del gas? Cala. I consumi? Non si fermano. L’inflazione? Rallenta.” Ma per quanto sia spinto, il premio di titolo della giornata il 21 gennaio per me rimarrà sempre al Giornale: “Altro che democratici” scrive; “sono sempre i soliti comunisti”. Sapete di chi stava parlando? Di Bonaccini. Giuro: manco della Schlein o di Zingaretti, che ovviamente fa ride’; di Stefano Bonaccini, che è un po’ come dare a Berlusconi del bacchettone o a Gasparri dell’intelligente. Comunque al Giornale non sono da premiare solo i titolisti, eh? Per apprezzare in pieno il talento, gli articoli li devi pure leggere; questo, ad esempio, firmato Martina Piumatti (che non sapevo chi fosse ma, ora che l’ho scoperta, non me la lascerò sfuggire più). L’altro giorno, riguardo ad Hamas, ha tirato fuori questa perla: “Godono per i civili morti” ha scritto. Martina però è preoccupata: “non si può più dire niente” scrive “come funziona la dittatura del politically correct”. Ha ragione. Di questo passo non si potrà dire neanche più che i neri hanno il ritmo nel sangue, però – fortunatamente – si potrà continuare a fare un titolo così. “Putin perde consenso. Il collasso della Russia sarà senza precedenti”; ad essere intervistato è Vladimir Milov, che non ha dubbi: “Nessun tentativo dello zar di contrastare le sanzioni” afferma “salverà la Russia da un collasso economico senza precedenti”. La gente lo sa, e infatti il sostegno per Putin di cui parliamo in Occidente, in realtà, è tutta fuffa: “I sondaggi che lo danno oltre il 70%” afferma infatti Milov “nascondono una realtà molto più complessa. Chi è contro” – svela – “non lo dice perché teme per la propria incolumità”. Ma ora che Putin, innegabilmente, sostanzialmente è finito – gli chiede la Piumatti – chi lo sostituirà? Prigozhin? Kadyrov? Macché, dice Milov: “Prigozhin e Kadyrov non hanno nessuna chance. La loro importanza è gonfiata dai media. Nel futuro della Russia è Navalny che può avere un ruolo”. Firmato Vladimir Milov, numero due del partito di Navalny; l’ultimo sondaggio sulla popolarità di Navalny lo dava abbondantemente sotto al 10%: è un po’ come quando Matteo Renzi parla a nome degli italiani, diciamo.
D’altronde, però, si sa: perdere una guerra cambia rapidamente tutto e Putin è incredibilmente vicino a perderla; lo ribadisce il solito Mastrolillo & Greg sulla Repubblichina il 25 gennaio, tramite un’intervista all’affidabilissimo falco neocon Kurt Volcker. “La fornitura dei carri armati” afferma Volcker “può diventare la svolta che metterà Kiev in condizione di vincere la guerra”. Il giorno dopo, sempre su La Repubblichina, è il turno dell’ex capo della CIA David Petraeus che, ultimamente, ha bazzicato parecchio l’Italia perché è un alto dirigente del fondo speculativo KKR e doveva convincere il governo a lasciargli comprare una delle infrastrutture più strategiche del paese – la rete delle telecomunicazioni – e, per farlo, ha puntato tutto sulla credibilità: “Ora l’esercito russo potrebbe sgretolarsi”, ha affermato; “Esiste la possibilità dello sgretolamento o addirittura del collasso delle unità russe”. Insomma: la nostra rete di telecomunicazioni è in ottime mani, direi.

Merchandising bello bello

Tra le cose che stavano per mettere nei guai Putin, il fatto che ormai aveva finito i missili. Due giorni dopo,
Corriere: “Ucraina, tempesta di missili”. Potremmo andare avanti per giorni; ci fermiamo qui per pietà di patria. Ci rivediamo presto con un’altra puntata del nostro calendario dell’avvento dell’era della Post – Verità. Per tutti quelli che, invece, sono eretici di fronte a questa montagna di monnezza, è arrivato il momento di unire le forze e costruire davvero un vero e proprio media che, invece che ai deliri della propaganda suprematista, dia voce al 99%; per farlo – anche di fronte alla censura democratica delle piattaforme che, come ovvio e prevedibile, ci stanno segando le gambe – abbiamo sempre più bisogno del tuo aiuto: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E siccome insieme alla natività dell’era della Post – Verità si avvicina anche quella del Bambingesù, se sei in vena di regali visita il nostro sito e accàttati un po’ di merchandising bello bello!

E chi non aderisce è Paolo Mastrolillo & Greg

Boom economico e tecnologie all’avanguardia: il clamoroso autogol delle sanzioni alla Russia

Nella migliore delle ipotesi – o nella peggiore (dipende dai punti di vista) – l’economia russa nel 2024 crescerà 3 volte più rapidamente di quella dell’eurozona – +1,5, contro +0,5% – e il gap continuerà anche per tutto l’anno successivo, il 2025, durante il quale l’eurozona dovrebbe crescere dell’1,2%, e la Russia del 2, poco meno del doppio. Ad affermarlo non è qualche propagandista filo – putiniano estratto a sorte dalle liste di proscrizione del Corriere della serva, ma qualcuno che non è certo imputabile di remare contro le magnifiche sorti e progressive dell’Occidente collettivo: si chiama Amundi ed è di gran lunga il principale fondo di investimenti del vecchio continente, il braccio armato delle oligarchie finanziare europee o, almeno, di quello che ne resta dopo due anni di guerra per procura alla Russia. In soldoni, “Significa che Stati Uniti, Europa, Giappone e Australia non sono in grado di sanzionare un paese in modo efficace” avrebbe affermato il capo degli investimenti di Amundi, Vincent Mortier, durante una conferenza stampa; “Possiamo deplorarlo” ha sottolineato, “ma è una realtà”. Certo, le sanzioni sono servite a congelare il patrimonio di un certo numero di persone – ha continuato Mortier – ma gli effetti sulle importazioni e le esportazioni russe nel complesso sono stati, tutto sommato, irrilevanti. Il mese scorso il Fondo Monetario Internazionale aveva rivisto al rialzo le stime sulla crescita della Russia nel 2023 , di parecchio: dall’1,5% di luglio al 2,2; nell’aprile scorso stimavano una crescita dello 0,7%.

Vladimir Putin

Secondo Putin, si tratta di stime eccessivamente caute: “Abbiamo sempre detto con cautela che la crescita sarebbe stata intorno al 2,5%. Ora possiamo affermare con sicurezza che supereremo senz’altro il 3%. Nel frattempo la Commissione europea, invece, ha rivisto al ribasso le stime sulla crescita dell’eurozona: dallo 0,8 ad appena lo 0,6%. “Se facciamo il punto sulla guerra in Ucraina” ha concluso Mortier “per gli USA l’impatto è stato neutrale; Turchia, Asia Centrale e Asia in generale ne hanno beneficiato; e l’unica a soffrire direttamente e fortemente è stata l’Europa”. Ma te guarda alle volte il caso, eh? Fortunatamente, però, ora che ad ammettere che le sanzioni contro la Russia sono state principalmente sanzioni contro l’Europa ci s’è messo anche il gotha del capitalismo finanziario europeo stesso: la Commissione, finalmente, ha deciso di intervenire. Come? Ma con altre sanzioni – ovviamente – e con meccanismi più rigidi che dovrebbero garantire che anche quelle vecchie, finalmente, siano implementate come si deve ma che – come sottolinea giustamente il nostro amato Andrew Korybko – anche a questo giro potrebbero non fare altro che “uccidere definitivamente la competitività delle nostre stesse aziende tecnologiche”. Cosa mai potrebbe andare storto?
Certo, dal punto di vista economico le sanzioni alla Russia sono state come darci una martellata sui coglioni, ma chissà almeno quanti danni gli abbiamo fatto dal punto di vista militare! Eh, come no… Tantissimi proprio: “La Russia sta iniziando a far valere la sua superiorità nella guerra elettronica” titola l’Economist; “Gran parte dell’attenzione su ciò di cui l’Ucraina ha bisogno nella sua lunga lotta per liberare il suo territorio dalle forze d’invasione russe si è concentrata sull’hardware: carri armati, aerei da combattimento, missili, batterie di difesa aerea, artiglieria e grandi quantità di munizioni. Ma una debolezza meno discussa” sottolinea l’autorevole rivista inglese “risiede invece nella guerra elettronica; e i sostenitori occidentali dell’Ucraina finora hanno mostrato scarso interesse nell’affrontarla”.
La discrepanza tra le capacità ucraine e quelle russe era evidente sin dall’inizio del conflitto, ma – sottolinea l’Economist – “ha avuto a lungo un impatto limitato. Ora però che le linee di contatto sono diventate relativamente statiche, la Russia è stata in grado di posizionare le sue formidabili risorse dove possono avere il maggiore effetto”. “Già a partire dal marzo scorso” ricostruisce l’Economist “l’Ucraina ha cominciato a notare come i suoi proiettili Excalibur guidati dal GPS avevano improvvisamente iniziato ad andare fuori bersaglio, a causa del disturbo russo” e lo stesso era cominciato a succede alle bombe guidate JDAM e anche ai razzi a lungo raggio GMLRS che nella maggioranza dei casi – sottolinea l’Economist – “ora vanno fuori strada”: parliamo di armi intelligenti a cui sono stati dedicati decine e decine di titoli dalla propaganda occidentale e che avrebbero dovuto cambiare per sempre l’andamento del conflitto ma che ormai, grazie alla tecnologie per la guerra elettronica sviluppate negli anni dai russi, non fanno quasi mai il loro dovere. E ancora peggio sembrerebbe andare con gli sciami di droni: “l’Ucraina” scrive l’Economist “ha addestrato un esercito di circa 10.000 piloti di droni che ora sono costantemente impegnati in un gioco del gatto e del topo con operatori di guerra elettronica russi sempre più abili” che sono in grado di “confondere i loro sistemi di guida o bloccare i collegamenti radio con i loro operatori” e fanno fuori qualcosa come “oltre 2.000 droni la settimana”. Ma non solo, perché i russi sarebbero in grado “di acquisire con una precisione di un metro le coordinate del luogo da cui il drone viene pilotato, per trasmetterle poi ad una batteria di artiglieria” che a quel punto avrebbe un bersaglio facile.
Quello che manca all’Ucraina in questa guerra impari contro gli armamenti per la guerra elettronica dei russi, svela l’Economist, è “il sostegno degli alleati occidentali”: “La guerra tecnologica” spiega l’Economist “rientra infatti in una categoria di trasferimento tecnologico limitato da un regime di controllo delle esportazioni rigidamente vigilato dal Dipartimento di Stato” e “c’è una certa riluttanza, soprattutto da parte degli americani, a mostrare la mano alla Russia, anche perché le informazioni utilizzabili, ad esempio sulle frequenze o sulle varie tecniche utilizzate, dalla Russia potrebbero finire anche in mano ai cinesi”. Quello che speravano gli alleati occidentali, piuttosto, era che anche i russi prima o poi potessero trovare delle difficoltà a fornire il fronte continuamente di nuovi strumenti per la guerra elettronica, che sono sì progettati e prodotti in Russia, ma dentro – spesso e volentieri – hanno anche tecnologia a stelle e strisce che non dovrebbe arrivare più e invece – misteri della fede – arriva eccome; come sottolinea infatti Bloomberg, nonostante la Russia sia il paese più sanzionato della storia delle sanzioni “anche impedire a tecnologia sensibile di raggiungere la Russia si è rivelato più complesso del previsto”. Attraverso “triangolazioni tramite paesi come il Kazakhstan, la Serbia e la Turchia” la Russia, infatti, sarebbe stata in grado “di mettere le mani sui cosiddetti articoli ad alta priorità” inclusi in questa lunga lista aggiornata dall’Unione nel settembre scorso (https://finance.ec.europa.eu/system/files/2023-09/list-common-high-priority-items_en.pdf ) e che possono essere “utilizzati per scopi militari”. “I recenti dati commerciali visti da Bloomberg” sottolinea l’articolo “mostrano che le esportazioni da quelle nazioni, oltre che da Armenia, Azerbaigian e Uzbekistan, sono sì diminuite parzialmente nella seconda metà di quest’anno, ma rimangono perlopiù superiori ai livelli prebellici”. Ancora più importanti nella fornitura di questi articoli ad alta priorità alla Russia risulterebbero essere Cina ed Hong Kong, dai quali proverrebbe – sottolinea Bloomberg – “oltre l’80% degli acquisti esteri russi. E la Russia” continua Bloomberg “sarebbe stata in grado di costruire anche nuove vie commerciali attraverso paesi come la Thailandia e la Malesia”. L’unico paese che ha costituito un altro canale prezioso per le triangolazioni e che si è detto disposto a introdurre norme più restrittive sarebbero gli Emirati Arabi; purtroppo però, sottolinea Bloomberg, “non forniscono dati commerciali tempestivi, rendendo difficile valutare i progressi”.
Contro le scappatoie che hanno reso le sanzioni totalmente inefficaci – allora – la Commissione ha proposto di provare a stringere la cinghia, proponendo una nuova serie di regole “che impedirebbero agli importatori di rivendere alla Russia i cosiddetti articoli ad alta priorità”, ma non solo: la proposta prevede infatti anche di obbligare le aziende importatrici a depositare dei soldi in un conto ad hoc dal quale la Commissione sia in grado di prelevare automaticamente qualora venissero contestate delle violazioni.

Andrew Korybko

“Almeno metà dei soldi depositati” riporta Bloomberg “verrebbe trasferita a un fondo fiduciario per l’Ucraina” e vederseli sottrarre potrebbe essere estremamente facile perché le aziende non risponderebbero soltanto per se, ma anche nel caso non avessero prontamente segnalato comportamenti illeciti da parte di aziende terze con le quali sono in affari; un pacchetto di manovre che – commenta l’analista Andrew Korybko – rischiano di “uccidere la competitività delle aziende tecnologiche europee” – un problema che sarebbe stato sollevato, riporta Bloomberg, anche da “inviati diplomatici di un gruppo dei principali stati membri”. A preoccupare, in particolare, la potenziale arbitrarietà dell’applicazione della regola sul congelamento dei beni depositati, dal momento che non passerebbe preventivamente da un tribunale, ma non solo: a preoccupare i potenziali partner commerciali, infatti, sarebbe anche il fatto che “chiunque si ritrovasse a fare affari con le società tecnologiche dell’Unione” commenta Korybko “dovrebbe essenzialmente permettere alla Commissione di spiare le sue attività al fine di monitorare il rispetto delle sanzioni”. Di fronte a tutti questi rischi – sottolinea Korybko – i clienti potrebbero essere scoraggiati “e optare invece per accordi molto più semplici e senza vincoli con aziende cinesi”. D’altronde che je frega?
A spingere per questa nuova ondata di restrizioni e ovviare, così, al fallimento di tutte le sanzioni con sanzioni ancora più nocive sono paesi che hanno poco da perdere perché – a parte una bella montagna di ideologia pro Washington – di aziende tecnologiche che producono “articoli ad alta priorità” semplicemente non ne hanno. A partire, ad esempio, dai paesi baltici – la punta di lancia degli USA contro gli interessi dei concorrenti europei: “Il loro interesse” sottolinea Korybko “è esclusivamente quello di limitare l’accesso della Russia a tutti i costi, compreso far perdere quote di mercato ai partner europei a favore della Cina”. L’industria tecnologica che – già di per sé – in Europa non è che sia particolarmente in forma, non sarebbe comunque l’unica ad essere penalizzata da questo dodicesimo pacchetto di sanzioni: un’altra mossa geniale, infatti, consisterebbe nell’aggiungere alla lista delle importazioni dalla Russia sottoposte a sanzioni anche i diamanti; Washington lo ha già fatto da mo’, l’Unione europea – invece – per ora ha declinato. Tutta colpa del Belgio: come ricorda il Brussels Time, infatti, “Si stima che circa l’86% dei diamanti grezzi del mondo passino ancora da Anversa almeno una volta”. Quello dei diamanti è un mercato che, a livello globale, vale oltre 100 miliardi e oltre un terzo dei diamanti di tutto il mondo arrivano proprio dalla Russia; tagliare le gambe così ad Anversa non sarebbe esattamente un ottimo affare e – soprattutto – sarebbe totalmente inutile. Gli indiani, infatti, non aspettano altro: già oggi la cittadina di Surat, 300 chilometri a nord di Mumbai, è la capitale mondiale della lavorazione dei diamanti e – in attesa di scippare ad Anversa tutto quello che proviene dalla Russia – al commercio e alla lavorazione dei diamanti ha dedicato quello che è stato descritto dai media l’edificio in assoluto più grande del mondo: 5 mila uffici che occupano la bellezza di 700 mila metri quadrati di superficie, collegati da oltre 130 ascensori; tanto a pagarlo saremo noi, sempre pronti a martellarci i coglioni quando si tratta di fare un regalino a zio Biden.
Contro la vocazione al suicidio delle elité degli svendipatria europei abbiamo bisogno di un media che dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Gentiloni

[LIVE LA BOLLA] Petromonarchie vs Asse delle Resistenza – con Fabio Mini, Matteo Capasso e il Bulgaro

Diretta domenicale con “La Bolla”: dalla risoluzione bocciata dalla Lega Araba, alle prove di intesa all’interno dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica, passando per gli annunci di Nasrallah e per la gigantesca mobilitazione propalestinese nell’occidente collettivo che comincia a far emergere qualche crepa nell’asse del male del suprematismo bianco, riusciremo mai a creare un’alleanza in grado di arrestare la guerra ingaggiata da Israele contro i bambini arabi? Ne parliamo con Matteo Capasso, Marie Curie Global Fellow tra l’Università Ca’ Foscari di Venezia e la Columbia University di New York, il generale Fabio Mini, Clara Statello e il nostro amato bulgaro Francesco dall’Aglio.

TAGLIARSI LE PA**E PER FAR DISPETTO ALLA MOGLIE – la politica energetica europea vista dalla Russia

Tagliarsi le palle per far dispetto alla moglie”: è così, in soldoni, che quello che probabilmente è in assoluto il principale esperto di energia di tutta la Russia descrive la politica energetica europea dopo l’adesione, senza se e senza ma, dell’intero continente alle sanzioni made in USA.

Konstantin Simonov

Si chiama Konstantin Simonov, è a capo del dipartimento di politologia dell’università finanziaria del governo della Federazione Russa e, da oltre 10 anni, dirige la NESF – che sta per National Energy Security Foundation – la fondazione per la sicurezza energetica nazionale, il più importante think tank specializzato sull’industria energetica del gigante eurasiatico. Una voce molto nota anche ai media mainstream dell’Occidente collettivo, almeno fino allo scoppio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina quando, oltre all’energia, abbiamo deciso di porre l’embargo anche sul buon senso; da allora, la voce di Simonov e della sua fondazione sono state gradualmente ma inesorabilmente espulse dal circo mediatico occidentale, dove il pluralismo – ormai – è ristretto esclusivamente alle diverse sfumature della propaganda suprematista, dalla più rozza alla più sofisticata. Meno male, però, che in mezzo a mille difficoltà c’è chi non si arrende e continua a remare controcorrente, come il professor Antonio Fallico, presidente di Banca Intesa Russia e fondatore del Forum Economico Eurasiatico di Verona che, dopo 14 anni di attività nel capoluogo veneto – durante i quali si sono alternati sul suo palco tutti i principali rappresentanti della politica e del mondo degli affari europeo -, da due anni si è trovato costretto a traslocare nell’Asia centrale: l’anno scorso a Baku e quest’anno a Samarcanda.
Ed è proprio a Samarcanda che abbiamo avuto l’opportunità e l’onore di intervistare in esclusiva, insieme alla nostra allegra brigata di agit prop, proprio Simonov; un grande motivo d’orgoglio e anche l’ennesima prova provata che se volete capire qualcosa del mondo nuovo che avanza, dovete spegnere i vecchi media e accendere Ottolina Tv.
Se la fantomatica controffensiva ucraina è ormai definitivamente scomparsa dai radar, figurarsi che fine ha fatto sui media mainstream l’annosa vicenda dell’attentato al Nord Stream, il caso più clamoroso di sempre di fuoco amico rivolto direttamente contro un’infrastruttura strategica, che più strategica non si può, di un fedele alleato:

Konstantin Simonov: “Dal mio punto di vista, la vicenda del Nord stream continua a mettere l’Unione Europea in forte imbarazzo. Per oltre un anno si è parlato di fantomatiche indagini ma senza nessun risultato, e questo è molto sospetto. Nel caso dei danni causati al gasdotto baltico che unisce Finlandia ed Estonia, le autorità si sono espresse nell’arco di pochi giorni; ora, in oltre un anno, nemmeno una parola. È decisamente molto sospetto, e io credo che il motivo sia che l’Unione Europea è molto cauta nel portare avanti le indagini perché teme che queste non possano che rivelare qualcosa che, dal mio punto di vista, è molto chiaro dal primo minuto, e cioè che esiste un unico beneficiario di tutta questa storia. E questo beneficiario, ovviamente, sono gli Stati Uniti d’America: basta vedere cosa sta succedendo al loro mercato del Gas Naturale Liquefatto, con decisioni molto importanti su nuovi massicci investimenti per aumentarne in modo importante produzione ed esportazione. Ovviamente tutto questo non ha niente a che vedere con la concorrenza e la competizione e, senza concorrenze e competizione, a pagare il prezzo più alto alla fine saranno i consumatori perché il gas, molto semplicemente, sarà più caro. Ora, se il tuo obiettivo è aumentare la spesa, benissimo. Ma, dal mio punto di vista, se l’Unione Europea tornasse a occuparsi dei suoi interessi, o l’Italia tornasse a occuparsi degli interessi economici degli italiani, beh, allora sicuramente la situazione potrebbe cambiare rapidamente. Vedete: l’Unione Europea, da un po’ di tempo, sta perseguendo questa idea della diversificazione delle forniture; ma la diversificazione è un servizio di lusso, e a pagare questo servizio di lusso sono tutti gli europei. E questo ancora non ha niente a che vedere con la competizione sul mercato del gas, anzi! La competizione è il meccanismo che permette di ridurre i costi che i consumatori sono tenuti a sostenere, mentre la diversificazione, al contrario, comporta che questi costi aumentino perché sei costretto a finanziare approvvigionamenti alternativi che non sono competitivi. Ad esempio, sei costretto a ricorrere – appunto – al gas naturale liquefatto, che è strutturalmente molto più costoso e così via. E, da questo punto di vista, è importante sottolineare come la Russia non sia mai stata contraria alla competizione con altre modalità alternative di approvvigionamento: ad esempio, quando è stato deciso di investire nel gasdotto Nabucco ci siamo limitati a sottolineare come non sarebbe mai stato profittevole e come mancassero le risorse sulle quali fondarlo, ma non abbiamo mai intimato o supplicato Bruxelles di fermarsi. Non abbiamo detto che se non avessero fermato il Nabucco noi avremmo interrotto le nostre forniture; è stata Bruxelles a capire che non era fattibile. Quindi noi abbiamo sempre desiderato semplicemente una competizione onesta, ma quello a cui abbiamo assistito ultimamente da parte dei paesi dell’unione è una continua violazione degli accordi. E lo vediamo un po’ ovunque: non è soltanto il caso eclatante della Polonia, ma anche la Germania – dove le autorità sono intervenute a gamba tesa in alcune raffinerie – e adesso lo stesso sta avvenendo in Bulgaria. La domanda quindi è: è così che sarà l’Europa nel futuro? Sarà un territorio dove vige un ordine medievale privo di regole e di leggi o torneremo, prima o poi, a una situazione più trasparente dove esistono dei contratti e degli accordi, e questi contratti vengono rispettati? Se l’Europa dovesse tornare a questo tipo di comportamento, allora certo sarebbe possibile per noi tornare ad avere un rapporto proficuo a partire proprio dal Nord Stream, perché il Nord Stream – ricordiamo – è ancora vivo perché, per entrambi i Nord Stream, parliamo di due condotte e una delle quattro condotte è rimasta integra, quindi tecnicamente sarebbe piuttosto semplice tornare a fornire gas attraverso la condotta del Nord Stream 2 rimasta intatta. Purtroppo, però, quello che tecnicamente è ancora possibile non lo è politicamente, e questo non solo per i rapporti con la Russia ma proprio perché prima l’Europa dovrebbe tornare ad essere la patria della legge e delle regole. La distruzione di questa credibilità, purtroppo, oggi è più devastante anche della situazione energetica in se perché rischia di compromettere la situazione per un periodo di tempo enormemente più lungo”.

La politica energetica suicida dell’Unione Europea parte da un assunto: il gas che, fino a ieri, ricevevamo via gasdotto dalla Russia può essere sostituito dal gas naturale liquefatto. Ovviamente, economicamente è un mezzo disastro non solo perché, strutturalmente, i costi sono molto maggiori, ma anche perché quei costi sono in balia totale delle ondate speculative. Non solo: con il passaggio dai gasdotti alle navi gasiere, facciamo anche ciao ciao con la manina a ogni retorica sulla transizione ecologica che, sulla carta, significherebbe decarbonizzazione totale entro il 2050, ma i nuovi contratti in essere e i tempi di ammortamento dei nuovi investimenti – necessari per cambiare font di approvvigionamento – ci costringono a prevedere di continuare a consumare gas ben oltre. In questo giochino, ovviamente, a guadagnarci sono gli USA, che il gas ce l’hanno e che stanno investendo una montagna di quattrini per vendercene sempre di più mentre la competitività del nostro sistema produttivo va a farsi benedire. Gli effetti sono già visibili, soprattutto in Germania che, sul gas a basso costo, aveva fondato l’intera sua politica industriale e che oggi, guarda caso, torna ad essere il grande malato d’Europa.
-1,4%”, titolava ancora mercoledì scorso Il Sole 24 Ore: è “il calo mensile della produzione industriale in Germania” sottolineava l’articolo, “il quarto consecutivo e molto peggiore delle attese, che avevano previsto un calo contenuto in una forbice tra il -0,1 e il -0,4%”. E il tracollo della produzione tedesca, ovviamente, equivale a un tracollo generale di una fetta consistente di tutto il continente che, in buona parte, alla Germania gli fa da terzista e da sub-fornitore: a partire dall’Italia dove, infatti, l’indice pmi manifatturiero a ottobre è ripiombato sotto quota 45 punti che – in soldoni – significa una bella nuova dose di deindustrializzazione. E il bello è che, tutto sommato, c’è andata anche parecchio di culo perché l’anno scorso, per lo meno, a farci concorrenza sui mercati internazionali per acquistare gas naturale liquefatto è mancata la Cina, alle prese con le politiche zero covid. La ripresa della produzione cinese – finito lo zero covid – è stata inferiore alle attese, ma questo inverno – comunque – si farà sentire eccome: quanto a lungo riusciremo a resistere?

Konstantin Simonov: Ora, l’Agenzia Internazionale dell’Energia ha da poco pubblicato questo report dove si prevede che, già a partire dal 2026, nel mondo ci sarà addirittura un eccesso di offerta di gas naturale liquefatto, e va bene. Ma io vorrei sottolineare un paio di cose: prima di tutto devo sottolineare che, da 25 anni, leggo ogni rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia e devo segnalare che, molto spesso, si tratta di previsioni completamente sballate; quindi valutate voi se è davvero il caso di continuare ad affidarsi a queste previsioni. Ma, soprattutto, c’è un secondo punto che forse è ancora più importante perché, effettivamente, noi abbiamo assistito a questa nuova grande ondata di investimenti negli Stati Uniti, poi abbiamo visto i paesi europei firmare contratti a lungo termine con la Scozia e quindi magari – non dico certo nel 2025 ma, diciamo, a partire dal 2026 – 2027 – vedremo davvero questa nuova grande ondata di gas naturale liquefatto in arrivo, in particolare dagli USA e dal Qatar. Ma rimane un dubbio, perché qui parliamo, appunto, del 2026 e noi adesso siamo nel 2023: quindi – come minimo – ci saranno altri 3 inverni da affrontare prima che questo scenario, nella migliore delle ipotesi, si concretizzi davvero. E allora mi chiedo: “quali saranno gli effetti di altri due o tre inverni senza una fornitura sufficiente di gas naturale liquefatto?”, perché lo scorso inverno, ad esempio, la Cina ha aiutato parecchio l’Europa. Il consumo di gas in Cina l’anno scorso è stato estremamente ridotto a causa delle politiche zero covid e, quindi, il grosso del gas liquefatto è stato venduto ai paesi europei, ma già quest’anno il popolo cinese non ci farà più questo enorme regalo; ciò nonostante, certamente alla fine l’Europa troverà il gas da fornire a tutte le abitazioni e per garantire i servizi delle municipalità ma, come ho già detto, un calo dei consumi del 20% è qualcosa di enorme, una cifra molto pericolosa per le economie europee, e altri due o tre anni così potrebbero significare la totale distruzione delle economie europee. Per carità, se volete continuare con la distruzione sistematica della vostra economia, ovviamente potete continuare con questo esperimento. Magari ci ritroviamo tra tre anni e commentiamo com’è diventata l’Europa.”

Sempre che, fra tre anni, l’Europa ci sia ancora: oltre a tutto quello che abbiamo elencato, infatti, oggi a rompere i coglioni ci si è messa pure l’ennesima crisi in Medio Oriente, che dal genocidio di Gaza rischia di allargarsi a tutta la regione, e se si allargherà a tutta la regione anche a questo giro potremo ringraziare sempre Washington che, da caro vecchio arsenale della democrazia qual è, ha deciso di coprire la guerra di Israele contro i bambini arabi con le sue portaerei.

La Giorgiona nazionale

Un altro attentato bello e buono alla sicurezza e alla sostenibilità economica del vecchio continente, tant’è che qualcuno in Europa s’è pure incazzato; i belgi, ad esempio, dove la vice premier ha dichiarato ufficialmente l’intenzione di chiedere sanzioni economiche contro Israele, ma non l’Italia. Non sia mai, nonostante sia quella che, probabilmente, ha di più da rimetterci e che qualcosina c’ha rimesso già: sostenendo acriticamente la carneficina dei clerico-fascisti di Tel Aviv, infatti, è naufragata definitivamente ogni minima possibilità di trasformare quella gran vaccata del nuovo piano Mattei – escogitato dalla Giorgiona nazionale – in qualcosa di diverso da una favoletta buona per la propaganda dei media.

Konstantin Simonov: Ovviamente se questo conflitto dovesse allargarsi fino a coinvolgere una fetta consistente del Medio Oriente, diventerebbe molto difficile anche solo prevedere il livello reale dei prezzi. In questo scenario credo che anche 150 dollari al barile sarebbe da considerare un buon prezzo, ma io spero che non si arrivi a tanto e, al momento, anche i mercati sembrano non credere in uno scenario del genere e questo è il motivo per il quale i prezzi, al momento, tutto sommato non sono ancora così alti rispetto al gigantesco rischio che stiamo correndo. Vedete: pensare che la Russia sia in attesa di una gigantesca crisi in grado di spingere verso l’alto i prezzi di gas e petrolio è una gigantesca mistificazione, e questo perché siamo convinti che una grossa crisi porrebbe dei problemi enormi al consumo di gas su scala globale. Il nostro obiettivo è vendere petrolio e gas come commodities sul lungo termine; non è nel nostro interesse distruggere interi mercati con prezzi insostenibili; questo è il motivo per cui ci stiamo adoperando per evitare l’allargamento del conflitto in Medio Oriente, perché – vedi – prezzi che oscillano tra gli 80 e i 90 dollari al barile per noi sono più che sufficienti. Abbiamo venduto gas per anni all’Europa a 250/300 dollari per 1000 metri cubi: per noi era sufficiente. Non siamo così ingordi come ci dipingete.”

Ora il prezzo del gas è stabilmente 2 – 3 volte superiore – quando va bene – e la nostra bolletta energetica complessiva, rispetto al 2019, è più che raddoppiata portandoci via qualcosa come 4 punti di PIL: un’enormità. Ma c’è anche una buona notizia perché, nonostante tutte le scelte folli fatte dalla politica europea per compiacere il padrone di Washington, potrebbe non essere ancora troppo tardi per invertire la rotta perché il matrimonio di convenienza tra paesi dell’Unione Europea e Russia – fondato sul commercio del gas – non conveniva, appunto, solo a noi, ma pure a loro che, come sottolinea Simonov, “puntano a vendere gas come commodity sul lungo termine” e che erano felicissimi di vendercela in gran quantità a noi a 250/300 euro per mille metri cubi e che una vera alternativa, tranquilla, liscia e serena al ricco mercato europeo, tutto sommato non l’hanno ancora trovata:

Konstantin Simonov: E’ inutile negare che trovare un sostituto immediato al mercato europeo non è possibile. Nel 2021, la Russia ha fornito all’Europa la bellezza di 146 miliardi di metri cubi di gas; quest’anno la quantità totale sarà inferiore a 30 miliardi di metri cubi. Quindi parliamo di un crollo di poco meno di 120 miliardi di metri cubi, che è una cifra gigantesca; trovare rapidamente un mercato sostitutivo per una quantità del genere è letteralmente impossibile. Ovviamente, per quanto riguarda il petrolio, trovare un sostituto per noi non è stato particolarmente difficile, e quando parliamo di petrolio – come d’altronde anche dei vari prodotti di raffinazione – siamo sugli stessi livelli di esportazione che registravamo all’inizio del 2022 perché ovviamente, grazie al trasporto via mare, abbiamo avuto la possibilità di espanderci in altri mercati a partire dall’India, la Cina e altri paesi asiatici. Ma per il gas, ovviamente, la questione è enormemente più complicata. Qualcosa è stato fatto: ad esempio, oggi esportiamo in Uzebkistan 3 miliardi di metri cubi, ma crediamo che potremo raggiungere i 10 miliardi molto presto; abbiamo firmato un nuovo contratto con l’Azerbaijan e dovremmo firmarne di nuovi a breve anche con Kazakhstan e Kyrghizistan, ma non saranno mai sufficienti a rimpiazzare una tale quantità di domanda. È per questo che, ovviamente, la nostra principale speranza rimane la Cina e il Siberia 2 che, da solo, garantirebbe forniture per 50 miliardi di metri cubi. Ovviamente anche i cinesi sono tentati di approfittare della situazione per strappare condizioni di favore: sono convinti che questo contratto sia più importante per Gazprom che non per i consumatori cinesi. Ma io credo che, in realtà, la Cina abbia bisogno di gas a buon mercato, e la Russia è in grado di fornirglielo. Anche qua è questione di competizione, e il nostro gas sarà sicuramente più conveniente del gas naturale liquefatto ma anche del gas che arriva dall’Asia centrale; per questo sono fiducioso che il prossimo anno riusciremo a firmare finalmente il contratto. Ma ciò nonostante, non è un segreto per nessuno che, anche siglato questo accordo, per la Russia trovare in Asia una domanda tale da sostituire il mercato europeo rimarrà comunque molto complicato. Da questo punto di vista, un altro fattore su cui stiamo puntando è il consumo interno: prevediamo di aumentare il consumo interno di gas di circa 30 miliardi di metri cubi l’anno entro la fine del 2030, e questo è dovuto al fatto che in buona parte della regioni orientali ancora oggi manca un sistema unificato di distribuzione del gas. Prendi ad esempio una città come Krasnoyarsk: è un grande città con oltre 1 milione di abitanti e, al momento, la principale fonte di energia è ancora il carbone. Ovviamente, anche dal punto di vista ambientale è una situazione molto complicata, ma anche con questa aggiunta non riusciremo ancora a sostituire pienamente la domanda europea. È impossibile. Ma, d’altronde, se per l’Europa questa situazione è ok, se siete contenti di veder diminuire il consumo di gas – non dico di gas russo ma di gas in generale – di oltre il 20%, noi cosa possiamo farci? Se siete convinti di proseguire verso la deindustrializzazione allora sì, bisogna ammettere che la Russia avrà perso per sempre una fetta di mercato. Va bene, ma dal mio punto di vista questo è un problema reciproco. Fino a poco tempo fa, noi avevamo il gas e vendevamo il gas all’Europa, eravamo una fonte affidabile di gas a buon prezzo per l’Europa. Ora avete deciso di distruggere questo business e ora vi ritrovate in grosse difficoltà economiche. Se questo vi fa piacere, cosa vi posiamo dire? E io sottolineerei anche un’altra cosa: la Russia ha cominciato a fornire gas all’Europa occidentale a partire dal 1968. Sono oltre 50 anni ininterrotti di forniture. Ora vi invito a trovare un singolo caso di interruzione di fornitura del gas da parte della Russia, e per favore non mi citate la storia dell’Ucraina nel 2009 perché, come sapete tutti, in quel caso fu l’Ucraina a stoppare il trasporto. Ecco perché è importante sottolineare che la leggenda secondo la quale la Russia avrebbe usato politicamente il gas come strumento di pressione è una gigantesca mistificazione: non abbiamo mai fatto pressioni politiche sull’Europa utilizzando la leva del gas. Come sapete, da decenni ormai abbiamo relazioni molto complicate con gli stati del Baltico e ciò nonostante non abbiamo mai interrotto la fornitura di gas, mai. Quindi gli europei hanno distrutto un ottimo affare e l’unica cosa che avranno in cambio è che anche la Russia avrà qualche conseguenza negativa. Non credo sia un approccio molto lungimirante.”

Contro ogni forma di disfattismo, sarebbe il caso di ripartire da qui. La prova di forza della guerra per procura in Ucraina è stata, e purtroppo ancora è, una vera e propria catastrofe che non è servita ad altro che sottomettere ancora di più l’Europa al dominio di Washington e che, ormai, sembra procedere a passo spedito verso una debacle totale. Di fronte alla totale irrazionalità suprematista delle élite europee che ci hanno infilato in questo tunnel non ci sarebbe nessun motivo, per qualsiasi interlocutore sano di mente, di voler avere di nuovo a che fare col vecchio continente guidato da questo manipolo di inaffidabili cialtroni svendi-patria. Fortunatamente, però, al di là della antipatie gli interessi economici rimangono e l’integrazione di due economie complementari – come quella russa e quelle europee – non è la velleità di qualche sognatore pacifista, ma una necessità storica che non può essere cancellata con un tratto di penna dalla nostra classe dirigente, per quanto ci si applichi. Ed è proprio per questo che iniziative come quelle del Forum Economico Eurasiatico, per quanto osteggiato, non sono passerelle velleitarie, ma hanno un’importanza strategica.

Gli agit-prop a Samarcanda

Chi ha gambe e testa, mai come oggi le dovrebbe utilizzare per continuare, in mezzo a mille ostacoli, a tenere aperti i pochi ponti che ancora non abbiamo fatto saltare in aria: certo, abbiamo contro quello che, ancora oggi, è il centro dell’impero e la sua gigantesca macchina propagandistica, ma proprio oggi – di fronte alla loro evidente crisi egemonica – pensare che abbiano partita facile nell’invertire il corso naturale della storia sarebbe un errore imperdonabile. A quasi due anni dall’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, l’esigenza storica dell’integrazione del super -continente eurasiatico non solo non è stata derubricata ma, a ben vedere, appare più chiara ed evidente che mai. Altro che disfattismo! Altro che partita chiusa! Qui la partita non è mai stata così aperta e ora tocca a noi riprenderci il nostro malandato continente, estirpare il tumore del partito unico degli affari e della guerra al servizio di Washington e restituire a tutti la possibilità di un futuro di lavoro e di pace. Per farlo, abbiamo prima di tutto bisogno di un media capace di rovesciare come un calzino sia il trionfalismo dei suprematisti che il piagnisteo dei disfattisti.
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E chi non aderisce è Ursula von der Leyen

Trappola o opportunità? Perché Hamas ha deciso di agire proprio adesso

Quando entrò per la prima volta a Gaza con l’esercito inviato da Netanyahu per smantellare la fitta rete di tunnel che Hamas aveva scavato per nascondere i suoi combattenti e intrufolarsi nel territorio israelino”, racconta il Financial Times, “Eyal aveva 26 anni. Nove anni dopo, sta aspettando che Netanyahu ce lo rimandi di nuovo, sempre a combattere contro lo stesso nemico. Ma questa volta Eyal sa esattamente cosa sta aspettando lui e i suoi compagni”.

in foto: Ehud Olmert | Government Press Office (Israel)

Un incubo, tranne che è reale”, avrebbe affermato il soldato israeliano: “tutto ciò che tocchi potrebbe essere una bomba, chiunque vedi potrebbe essere un terrorista. Ogni passo potrebbe essere l’ultimo”.
Non prova a indorare la pillola neanche l’ex primo ministro Ehud Olmert che a suo tempo, nel 2008, fu il primo a inviare l’esercito via terra dentro Gaza, e secondo il quale oggi ad attendere i soldati israeliani ci sarebbe “tutto quello che si può immaginare, e anche peggio”. Visto il flop colossale della tanto decantata intelligence israeliana infatti, è difficile escludere che gli israeliani possano imbattersi in “nuovi razzi ben più grandi e potenti, e nuove armi anticarro con cui non abbiamo familiarità”. Il problema poi, sottolinea il Financial Times, è che a differenza che nell’operazione Piombo Fuso – che aveva come unico obiettivo la distruzione dei tunnel scavati dai miliziani in alcuni punti strategici – ora l’obiettivo sarebbe nientepopodimeno che estirpare Hamas in toto, “una missione così complessa e impegnativa che non è chiaro quanto tempo impiegherà e quante vite, sia israeliane che palestinesi, potrebbe costare”.
Da quando i soldati israeliani sono entrati a Gaza via terra l’ultima volta nel 2014, continua il Times, “Hamas ha accumulato un formidabile arsenale di razzi e ha costruito quella che ha ribattezzato la “metropolitana di Gaza”, un reticolo inestricabile di tunnel e depositi sotterranei che si estende per centinaia di chilometri e che permette a miliziani che, nel frattempo, si sono addestrati al meglio per i combattimenti urbani, di spostare armi e uomini senza essere scoperti”.
Secondo quanto riportato dal Washington Post, l’operazione di sabato è stata preparata nell’arco di poco meno di due anni, e così anche le trappole che attendono gli israeliani qualora si avventurassero in un’invasione via terra.
Prima che le forze israeliane possano raggiungere le roccaforti urbane di Hamas”, specifica il Times, “dovranno violare una serie di linee difensive che includeranno mine, luoghi di imboscate e bersagli di mortaio; mortai pesanti, mitragliatrici, armi anticarro, cecchini e attentatori suicidi sono pronti ad accoglierli alla periferia delle città di Gaza”.
La questione si riduce a una cosa” avrebbe dichiarato Olmert. Siamo pronti a intraprendere un’azione che comporterà un grande rischio per i soldati israeliani? O sceglieremo una strategia che causerà la tragica morte di un numero maggiore di persone non coinvolte? Da quello che so dell’opinione pubblica israeliana in questo momento, la spinta sarà quella di correre meno rischi”. Il riferimento ovviamente è ai bombardamenti aerei, che difficilmente però possono cogliere l’obiettivo dichiarato di decapitare una volta per tutte Hamas; per farlo, dovrebbero radere al suolo letteralmente tutto. Gli altri paesi arabi permetteranno che avvenga senza muovere foglia?
La pianificazione dell’operazione ha richiesto fino a due anni, secondo diversi resoconti dei leader di Hamas”, scrive Al Jazeera, “e la profondità e la portata dell’attacco non hanno precedenti e hanno colto Israele di sorpresa. La domanda è “perché proprio adesso”?”.
Ovviamente ce lo siamo chiesti un po’ tutti; secondo Al Jazeera, “la mossa di Hamas è stata innescata da tre fattori”.
Il primo, sarebbero le politiche del governo israeliano nei confronti dei coloni in Cisgiordania. Il governo Netanyahu ha optato in modo esplicito e plateale per la copertura totale di qualsiasi genere di crimine commesso dai suoi coloni, scatenando l’ira della popolazione palestinese che è alla disperata ricerca di una rappresentanza politica che – al contrario dell’Autorità Nazionale Palestinese, considerata, e non certo a torto, totalmente connivente – trovi la forza di reagire.
Inoltre, come abbiamo già anticipato in alcuni video precedenti, l’ondata di rabbia scatenata da questa escalation di prepotenza suprematista e coloniale, “ha reso necessario lo spostamento delle forze israeliane dal sud al nord per proteggere gli insediamenti”, offrendo ad Hamas un’opportunità enorme.
In secondo luogo”, continua Al Jazeera, “la leadership di Hamas si è sentita obbligata ad agire a causa dell’accelerazione della normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi e israeliani. Negli ultimi anni, questo processo”, infatti, avrebbe “ulteriormente diminuito l’importanza della questione palestinese per i leader arabi, che sono diventati meno propensi a fare pressioni su Israele su questo piano”.

Il riferimento ovviamente, in particolare, è agli accordi di Abramo e all’avvicinamento tra israeliani e sauditi, che – sottolinea Al Jazeera, avrebbe rappresentato “un punto di svolta nel conflitto arabo-israeliano, che avrebbe allontanato ancora di più le già flebili possibilità di approdare un giorno sul serio alla soluzione dei due Stati”.
Il terzo e ultimo punto del mini-catalogo di Al Jazeera infine, avrebbe a che fare con i rapporti con l’Iran che sono meno lineari di quanto spesso si supponga. Intanto – come saprete – Hamas è un’organizzazione sunnita; ciò nonostante a partire dal 2006, quando Hamas vince regolarmente le elezioni prima e comincia ad amministrare la striscia di Gaza poi, il sostegno del regime di Teheran diventa essenziale. Gli aiuti internazionali, infatti, nel frattempo svaniscono come neve al sole: non sia mai che a Gaza si abituino troppo bene e diventino dei fannulloni come tutti i percettori del reddito di cittadinanza.
L’autorità nazionale palestinese a Gaza si ritrova così sull’orlo della bancarotta, e a metterci una pezza sono gli iraniani che però non sempre vengono ricambiati; ad esempio quando, 5 anni dopo, scoppia la guerra mondiale per procura in Siria e Hamas e Iran si piazzano sui lati opposti della barricata: dalla parte di Assad gli iraniani, da quella delle organizzazioni jihadiste sunnite che puntano al cambio di regime Hamas, nonostante Assad stesso li ospitasse da anni a Damasco.

Forse speravano di venire anche loro candidati al nobel per la pace come gli amici di Al Nusra e invece, macché: rimangono fregati.
Agli occhi degli occidentali, inspiegabilmente, continuano comunque ad essere sempre e solo un’organizzazione terroristica, e anche a quelli iraniani – da lì in avanti – proprio proprio simpaticissimi non devono essere sembrati. Ed ecco così che gli aiuti vengono sospesi. Hamas allora trova un altro sponsor ufficiale nel Qatar, dove trasferisce il suo quartier generale; poco dopo però perde un altro dei suoi alleati fondamentali, l’Egitto dei Fratelli Musulmani. Grazie ai rapporti con Mubarak prima e Morsi dopo, infatti, Hamas gestiva un traffico fiorente con l’Egitto attraverso il valico di Rafah. Una valvola di sfogo fondamentale che però viene a mancare quando, nel luglio del 2013, Morsi viene deposto attraverso il colpo di stato perpetrato dal suo stesso ministro della difesa, il generale Al Sisi. Gli uomini di Hamas allora tornano col cappello in mano a Tehran – che prima fanno un po’ i preziosi, ma alla fine cedono: da allora l’Iran è tornato ad essere lo sponsor principale del movimento palestinese e, dopo l’Iran, Hamas ha ricucito i rapporti anche con la seconda milizia di Gaza, la Jihad Islamica palestinese legata a doppio filo appunto a Teheran, poi con Hezbollah e infine addirittura con Damasco, dove nell’ottobre del 2022 si è recata in pompa magna con una nutrita delegazione.
Sono i movimenti tellurici che da un po’ di tempo a questa parte stanno attraversando tutti i paesi musulmani dell’area e a tratti sembrano far intravedere la possibilità di un lento e faticoso percorso di riconciliazione, movimenti tellurici che, sostiene Al Jazeera, avrebbero rafforzato Hamas più di quanto previsto, permettendole di arrivare attrezzata a questo ultimo appuntamento.

A nostro avviso però al tricalogo di Al Jazeera manca un punto essenziale: il contesto generale, proprio generale generale, intendo, quello che vi raccontiamo un giorno si e l’altro pure; il declino del nord globale e lo spostamento graduale, e a volte manco più di tanto, dei rapporti di forza verso un nuovo ordine, dove quella delle potenze ex o ancora attualmente coloniali non sia più l’unica a contare davvero.
Il punto è che Hamas sapeva, ovviamente, benissimo che Israele non avrebbe potuto che reagire con fermezza all’operazione scattata sabato scorso, e però sapeva benissimo anche che Israele a quel punto si sarebbe trovata di fronte al grande dilemma: incursione via terra da un lato – che è paradossalmente relativamente meno devastante in termini di perdite civili ma sottopone le forze armate israeliane a enormi rischi – o una bella campagna aerea di bombe democratiche per salvare i valori occidentali dall’altro, che è a rischio quasi zero ma implica un massacro di dimensioni inaudite. Come ha detto Olmert, ovviamente la seconda opzione sarebbe quella più naturale e quella che trasformerebbe una vittoria della resistenza in una sorta di carneficina autoindotta. Un’opzione che però un costo politico per Israele ce l’ha comunque, perché imporrebbe ai vicini arabi (dove, ricordiamo, l’opinione pubblica è per la stragrande maggioranza ultra – solidale con la causa palestinese) di condannare il regime sionista, e molto probabilmente pure di non limitarsi a farlo soltanto a chiacchiere.
E’ proprio in chiave di deterrenza contro questa reazione che gli USA si sono affrettati a mostrare i muscoli nel sostegno incondizionato all’alleato, in particolare grazie all’invio di due gruppi di portaerei nel Mediterraneo orientale “come parte di uno sforzo”, sottolinea il Wall Street Journal, “per dissuadere l’Iran e il suo protetto libanese, Hezbollah, dall’unirsi al conflitto e dallo scatenare potenzialmente una guerra regionale che potrebbe coinvolgere oltre all’Iran anche le altre nazioni del Golfo Persico”. E qui però arriviamo finalmente al punto: perché siamo proprio sicuri che gli USA, anche col sostegno dei suoi alleati, volendo, sia ancora oggi in grado di esercitarla fino in fondo tutta questa deterrenza? Insomma, come si chiede William Van Wagenen su The Cradle: “Ucraina vs Israele: può l’Occidente armare entrambi? Israele avrà bisogno del sostegno degli Stati Uniti per sopravvivere allo scontro con la resistenza palestinese e i suoi alleati regionali, già collaudati in battaglia. Ma competerà direttamente con l’Ucraina, alleata degli Stati Uniti, per le armi e i fondi occidentali in continua diminuzione”. Van Wagenen ricorda come, già nel 2006, fronteggiarsi con la sola Hezbollah per Israele non fu esattamente una passeggiata di piacere: “Secondo Matt Matthews del Combat Studies Institute dell’esercito americano”, riporta Van Wagenen, “Israele si rivelò in realtà tristemente impreparato a combattere una “vera guerra” di quel tipo”. E “il capo del Mossad Meir Degan e il capo dello Shin Bet, Yuval Diskin, dissero apertamente all’allora primo ministro Ehud Olmert che “la guerra è stata una catastrofe nazionale e Israele ha subito un duro colpo””. Per combattere quella guerra, Israele fu costretto a chiedere di poter accedere alle scorte del War Reserves Stock Allies, le scorte che gli USA immagazzinano in Israele just in case, ma “nel giro di soli 10 giorni di combattimenti”, ricorda Van Wagenen, “Israele arrivò ad utilizzarne la gran parte”. Otto anni dopo, Israele si ritrova muso a muso con Hamas e di nuovo, nonostante la sproporzione in ballo, per portare a casa la pagnotta eccola costretta a ridare fondo sempre a quelle scorte. E oggi, sostiene Van Wagenen, se l’Asse della Resisitenza deciderà e riuscirà davvero a compiere un’”unificazione dei fronti”, le guerre del 2006 e del 2014 appariranno passeggiate di piacere.
Come ha dichiarato un paio di giorni fa al Wall Street Journal David Wurmer, consigliere per il Medio Oriente dell’ex vicepresidente Dick Cheney, “Lo scenario da incubo per gli israeliani è che per una settimana o due abbattano dai 6.000 ai 10.000 missili di Hamas, e poi non gli rimanga più nulla per fermare i missili Hezbollah”. Ma non solo, perché se anche l’Iran – a un certo punto – dovesse decidere di unirsi al conflitto, allora si che sarebbero dolori: come ricorda sempre Van Wagenen infatti, Stati Uniti e Israele parlano continuamente della minaccia rappresentata dal programma nucleare iraniano “ma raramente menzionano la minaccia ben più immediata e concreta rappresentata dal suo fiorente programma missilistico convenzionale”.
Insomma, nonostante le portaerei giganti e i fantomatici imbattibili caccia americani, in realtà ce n’è a sufficienza per impegnare gli USA in una potenziale guerra lunga e costosissima prima ancora di essersi ripresi dalle scoppole che, ormai da un po’, non fanno che raccogliere sul fronte della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina. Come scrive sempre Van Wagenen, mentre “la pila dei recenti fallimenti da parte degli stati uniti continua a crescere”, la sua capacità deterrente potrebbe non essere esattamente in grado di mantenere un po’ di ordine con un po’ di paura. La morale, conclude Van Wagenen, è che “dichiarando guerra totale alla popolazione civile di Gaza,  Israele ha già iniziato una lotta che potrebbe non essere in grado di terminare. Per Tel Aviv, Gaza è sempre stata un frutto a portata di mano: il sacco da boxe che cerca quando ha bisogno di sembrare dura. Ma oggi, un passo falso, un missile mal puntato, o un passo troppo lontano, e Israele si potrebbe trovare ad affrontare una guerra regionale alla quale potrebbe non essere in grado di resistere per un periodo di tempo significativo”.
Qualche settimana fa, con un pronostico degno del migliore Piero Fassino, avevamo espresso la speranza che di fronte ai nuovi equilibri che si stanno consolidando in Medio Oriente dopo la storica riapertura del dialogo tra Iran e Arabia Saudita mediata dalla Cina, e di fronte all’impossibilità per gli USA di garantire a chicchessia la sicurezza nell’area, anche Israele – magari grazie alla mediazione proprio della Russia che considera a ragione un interlocutore affidabile – sarebbe potuto un giorno scendere a più miti consigli e si sarebbe potuto lasciar tentare dal cominciare a trovare una soluzione ai suoi problemi di sicurezza attraverso il dialogo con gli ex nemici regionali, da ribrandizzare come partner. Da quell’equazione, come dei Jake Sullivan qualsiasi, avevamo tenuto fuori colpevolmente la questione palestinese; l’azione di Hamas e del resto della resistenza palestinese ci ha ricordato drammaticamente che a farsi cancellare definitivamente dalla storia per ora non si sono ancora rassegnati.
L’unica via realistica per uscire da tutta questa faccenda senza imbarcarsi in altri 20 anni di destabilizzazione totale dell’area potrebbe essere proprio ripartire da quel ragionamento, ma con in più una soluzione finalmente ragionevole e dignitosa per la questione palestinese, come d’altronde – molto più saggiamente di noi – non si sono mai stancati di dire i cinesi:ogni crisi è anche un’opportunità. Non rinunciamo a coglierla, e restiamo umani.

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La controffensiva palestinese: come Hamas ha asfaltato il mito dell’invincibilità di Israele

Contessa sapesse, gli schiavi hanno osato addivittuva vibellavsi
Questa, in estrema sintesi, la reazione dei media occidentali ai fatti di Gaza di sabato scorso; di tutti, all’unisono, a partire da quelli che negli ultimi due anni hanno provato a infinocchiare la maggioranza silenziosa pacifista e democratica sollevando qua e là qualche critica alla guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina.

Gli amici della sinistra distruggono Israele”, titolava ieri ad esempio la Verità; “ci siamo svenati per Kiev, ora che faremo con l’unica democrazia dell’area?”

La realtà ovviamente è che destra e sinistra, che ormai sono solo etichette che svolgono una funzione di puro marketing per spartirsi il mercato elettorale, fanno finta di dividersi sulle cazzate, ma tutte insieme appassionatamente sostengono senza se e senza ma un regime di apartheid fondato sull’occupazione militare e la discriminazione su base etnica, e lo fanno a partire dall’assunto condiviso che la comunità umana è divisa in due categorie: gli uomini liberi, e i sub-umani, gli unter-mensch, come li definivano i nazisti. La differenza, rispetto ad allora, consiste nella definizione di chi appartiene all’una o all’altra categoria e nella retorica ideologica con la quale si cerca di legittimare ogni forma di violenza e sopruso: dalla pagliacciata antiscientifica della teoria della razza, alla pagliacciata della retorica democratica.

Da questo punto di vista il suprematismo bipartisan contemporaneo altro non è che una nuova declinazione del nazifascismo che, nel frattempo, ha preso qualche lezione di galateo e che ha incluso tra le sue fila una nuova piccola minoranza che prima era stata esclusa.

Son progressi.

Anche nelle modalità attraverso le quali si esercita questo dominio violento degli umani sui subumani non si possono non registrare alcuni importanti progressi: ai vecchi campi di concentramento, organizzati scientificamente per lo sterminio senza se e senza ma, si è sostituita una forma moderna di campi di concentramento democratici e progressisti, dove i reclusi sono lasciati liberi anche di sopravvivere. Se ci riescono: in un’area che è circa un quarto di quella del solo comune di Roma, nella striscia di Gaza oltre 3 milioni di persone vivono recluse per la stragrande maggioranza con meno di due dollari al giorno di reddito. La mistificazione della realtà però in queste ore ha raggiunto un nuovo livello: “Ai residenti di Gaza dico”, ha scritto Netanyahu su twitter, “andatevene adesso, perché opereremo con la forza ovunque”.

Eh, è ‘na parola; come in ogni buon campo di concentramento che si rispetti, infatti, i residenti di Gaza sono a tutti gli effetti prigionieri, e “andarsene”, molto banalmente, non gli è concesso.

Come denuncia da mesi Save the children, manco per andarsi a curare.

E non dico in Israele: manco negli altri territori palestinesi, manco se sono bambini, manco se rischiano la vita. “Nel solo mese di maggio”, si legge in un comunicato della pericolosa organizzazione bolscevica Save the children pubblicato lo scorso settembre, “quasi 100 richieste per bambini ammalati presentate alle autorità israeliane sono state respinte o lasciate senza risposta”. Tre sono morti solo quel mese. “Tra questi, un bambino di 19 mesi con un difetto cardiaco congenito e un ragazzo di 16 anni affetto da leucemia”.

La Verità, Repubblica e Pina Picierno del PD però c’avevano judo e si sono dimenticati di denunciarlo

Adesso, si rifanno con gli interessi: “L’Europa è con Israele e il suo popolo”, ha affermato la vicepresidente piddina del parlamento europeo. “La sua lezione di libertà e progresso”, ha sottolineato con enfasi, “non sarà spenta dalla violenza e dalla barbarie”.

L’apartheid come lezione di libertà e progresso: dopo i neonazisti russi spacciati come partigiani, i nazisti vecchio stile ucraini acclamati come eroi nei parlamenti democratici e l’idea che non bisognava per forza essere nazisti per combattere contro l’Armata rossa durante la seconda guerra mondiale, il capovolgimento totale della realtà ad opera dei sacerdoti di quest’era di post verità può dirsi completamente compiuto. Li lasceremo fare senza battere ciglio?

Lo stato di Israele è fondato su un regime di apartheid. Lo è sempre stato, ma prima lo sostenevamo in pochi, i pochi militanti antimperialisti nell’occidente del pensiero unico suprematista e ovviamente tutti i leader che l’apartheid l’avevano combattuto davvero a casa loro: da Nelson Mandela a Desmond Tutu. Per tutti gli altri, era un tabù.

Oggi, però, non più; dopo decenni di tentennamenti, a chiamare le cose con il loro nome da un paio di anni ci s’è messa pure un’organizzazione umanitaria mainstream come Amnesty International. “L’apartheid israeliano contro i palestinesi”, si intitola un famoso report del febbraio del 2022, “un sistema crudele di dominio, e un crimine contro l’umanità”.

Sempre in prima linea a fare da megafono alle denunce di abusi contro i diritti umani in giro per il mondo per giustificare tentativi di cambi di regimi a suon di bombe umanitarie e svolte reazionarie in ogni paese non perfettamente allineato all’agenda dell’impero USA, pidioti e criptofascisti di ogni genere, quando è uscito questo rapporto, erano curiosamente tutti assenti.

Poco male: anche fossero stati seduti buoni ai primi banchi, non lo avrebbero capito.

Quella che definiscono ossessivamente come “l’unica democrazia del Medio Oriente” infatti, in realtà, è sin dalle sue origini nient’altro che un progetto coloniale, come lo definiva esplicitamente Theodore Herzl stesso, il padre nobile del sionismo, e affonda le sue radici nella pulizia etnica di massa della Nakba nel 1948, che ancora oggi costringe circa 6 milioni di palestinesi a vivere in una miriade di miserabili campi profughi sparsi in tutta la regione.

Nella striscia di Gaza è un apartheid al cubo: più propriamente, infatti, si tratta del più grande carcere a cielo aperto del pianeta, come lo ha definito ormai quasi 15 anni fa lo stesso premier britannico David Cameron.

D’altronde, è una cosa abbastanza visibile: i confini terrestri di Gaza infatti sono interamente ricoperti da una doppia recinzione in filo spinato, con un’area cuscinetto nel mezzo totalmente presidiata da forze armate israeliane che, di tanto in tanto giusto per ammazzare un po’ il tempo, si dilettano nel tiro al bersaglio direttamente oltre il confine. Come quando – come dimostrato da un’indagine condotta da una commissione internazionale indipendente nominata dalle Nazioni Unite – nell’arco di tutto il 2018 presero di mira le proteste note col nome di grande marcia che si svolgevano settimanalmente proprio per chiedere la fine dell’assedio di Gaza: in tutto, ferirono oltre 6000 persone e ne uccisero 183, compresi 35 bambini.

E come sottolinea il sempre ottimo Ben Norton, essendo Gaza a tutti gli effetti una prigione a cielo aperto, “in base al diritto internazionale, hanno il diritto riconosciuto dalla legge alla resistenza armata”: il riferimento in particolare è una risoluzione dell’ONU del 1977 approvata da una schiacciante maggioranza dei paesi presenti che, proprio relativamente alla causa palestinese, riconosce esplicitamente “la legittimità della lotta popolare per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e dalla sottomissione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”.

La retorica suprematista dei sacerdoti del dominio dell’uomo libero sui subumani oggi non potrebbe apparire più ridicola e infondata. Come per l’Ucraina, pidioti e criptofascisti si accorgono di una guerra sempre e solo quando arriva. Sono gli uomini liberi a subire una sconfitta da parte dei subumani e, a questo giro, la sconfitta è stata eclatante, clamorosa.

Dotato dei servizi segreti più efficienti e spregiudicati del pianeta e di un apparato militare ultramoderno e ipersofisticato, adeguatamente addestrato in oltre settant’anni di feroce occupazione militare e di militarizzazione totale del territorio, l’invincibile gigante israeliano ha subìto una ferita difficilmente rimarginabile da parte degli ultimi tra gli ultimi. Se in Ucraina il suprematismo del nord globale è stato messo davanti alla sua impotenza di fronte alla determinazione di uno stato sovrano, considerato fino ad allora nient’altro che un pigmeo economico pronto a crollare su se stesso da un momento all’altro, in Israele ieri lo choc è stato di un ordine di grandezza superiore, tanto superiore quanto superiore era la sproporzione tra le forze in campo.

Mentre scriviamo questo pippone, il bilancio delle vittime israeliane supererebbe le 650 unità: non ci è possibile verificare le informazioni, ma secondo Ramallah News, mentre gli israeliani parlano di liberazione degli insediamenti conquistati da Hamas, in realtà le forze palestinesi continuerebbero ad avanzare e i territori ad est di Gaza sarebbero soltanto una delle linee del fronte.
Secondo quanto riportato da Colonelcassad, i palestinesi avrebbero bruciato un posto di blocco all’ingresso di Jenin, e in Cisgiordania molti temono possa esplodere finalmente la tanto paventata terza intifada di cui si parla ormai da tempo.
Secondo poi quanto riportato da Middle East Eye, i palestinesi con cittadinanza israeliana si starebbero preparando per respingere gli attacchi annunciati dai gruppi dell’estrema destra sionista.
A nord, al confine col Libano, si intensificano gli scontri con Hezbollah che, secondo quanto riportato da Al Jazeera, rivolgendosi ai ribelli palestinesi avrebbe dichiarato che “la nostra storia, le nostre armi e i nostri missili sono con voi”.
E le ripercussioni del conflitto sarebbero arrivate addirittura fino ad Alessandria di Egitto, dove un agente di polizia avrebbe aperto il fuoco contro due turisti israeliani, uccidendoli.

Il gabinetto politico-militare israeliano ha ufficialmente decretato lo stato di guerra per la prima volta dalla guerra dello Yom Kippur, della quale si celebra proprio in queste ore il cinquantesimo anniversario, e sono in corso evacuazioni sia nell’area che circonda Gaza che a nord, al confine con il Libano.

A confermare che, a questo giro, per il gigante israeliano potrebbe non trattarsi esattamente di una gita di piacere, ci sarebbero poi le dichiarazioni di Blinken, secondo il quale Israele avrebbe richiesto nuovi aiuti militari. Probabilmente quando leggerete questo articolo, sapremo già qualcosa di più su questo aspetto. Qualsiasi siano i dettagli però, un punto è chiaro: la resistenza di un gruppo di militanti che vivono in carcere da 15 anni ha costretto una delle principali potenze militari del pianeta a chiedere aiuto. Non so se è chiaro il concetto.

A complicare ulteriormente la faccenda, la questione degli ostaggi: il Guardian parla di oltre 100
e di qualche nome eccellente
. Un altro elemento inedito e un deterrente importante; abituati a combattere una guerra totalmente asimmetrica, gli israeliani non digeriscono molto facilmente qualche perdita tra le loro fila. L’esempio che salta subito alla mente è quello di Gilad Shalit: carrista israelo-francese, venne rapito da Hamas nel 2006 e 5 anni dopo, pur di ottenere il suo rilascio, il governo israeliano fu costretto a concedere la liberazione di addirittura 1000 prigionieri politici.

Insomma, a questo giro potrebbe non trattarsi semplicemente di un gesto disperato dall’esito scontato compiuto da avventurieri che non hanno niente da perdere, anche perché si inserisce in un contesto globale piuttosto incandescente, diciamo così, dove molto di quello che piace alla propaganda suprematista e che fino a ieri davamo per scontato, scontato comincia a non esserlo poi più di tanto.
Inquadrare dal punto di vista geopolitico quanto successo in questi due giorni al momento potrebbe rivelarsi un po’ ozioso e infondato; limitiamoci per ora quindi a sottolineare alcuni aspetti e a porci qualche domanda.

Il mio primo pensiero, ovviamente, è andato ai sauditi. A nostro modesto avviso, infatti, la riapertura dei canali diplomatici con l’Iran avvenuta sotto la sapiente mediazione cinese, e addirittura l’adesione a un organo multilaterale come i BRICS+, proprio fianco a fianco con l’Iran, è probabilmente il singolo evento geopolitico in assoluto più importante di questo intero anno, la cui portata, però, continua ad essere messa a dura prova dall’apertura che i sauditi sembrano aver fatto ad USA e Israele in direzione della loro adesione al famigerato accordo di Abramo. Che però appunto continua a faticare a concretizzarsi proprio a causa del nodo della questione palestinese.

Tweet del ministero esteri Saudita

Il mio primo pensiero è stato: e se l’obiettivo di Hamas fosse proprio impedire il concretizzarsi di questa fantomatica nuova distensione? Ovviamente la risposta non la sappiamo; questo però è il comunicato ufficiale del ministero degli esteri saudita a poche ore dall’inizio dell’operazione Diluvio di Al-Aqsa.
I sauditi parlano di “situazione inedita tra numerose fazioni palestinesi e le forze di occupazione israeliane”, quindi, da una parte numerose fazioni e dall’altra forze di occupazione.
Sempre i sauditi ricordano “i numerosi avvertimenti di pericolo di esplosione della situazione come risultato dell’occupazione, la negazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese e le sistematiche provocazioni contro i loro luoghi di culto”.
“Il reame”, conclude il comunicato, “rinnova l’appello alla Comunità Internazionale ad assumersi le sue responsabilità e ad attivare un processo di pace credibile che conduca alla soluzione dei due stati per raggiungere pace e sicurezza per tutta l’area e proteggere i civili”.
Nessuna condanna dell’azione di Hamas. Manco l’ombra. Non so se alla Casa Bianca l’abbiano presa proprio benissimo, diciamo.

L’altro aspetto è appunto la posizione degli USA e di questo strano annuncio sull’estensione degli aiuti militari perché che Israele ne abbia bisogno per combattere la guerriglia di Hamas, o anche di Hezbollah, sembra comunque piuttosto strano. E sopratutto: da dove se li tirerà fuori Biden i quattrini per finanziare un altro pacchetto di aiuti, quando giusto la settimana scorsa ha dovuto rinunciare a 6 miliardi di nuovi aiuti da inviare all’Ucraina?
Qualquadra non cosa, ma è decisamente troppo presto anche solo per speculare su cosa sia esattamente.
Proveremo a farlo in modo più fondato nei prossimi giorni perché è quello che un media indipendente può fare liberamente: osservare, riflettere, riportare.
A quelli a libro paga dell’imperialismo e delle oligarchie finanziarie, diciamo che gli risulta un po’ più complicato e saltano di puttanata suprematista in puttanata suprematista, senza soluzione di continuità, e senza temere contraddizioni e ribaltamenti della realtà.

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La Solitudine di Zelensky: perché l’occidente globale sta voltando le spalle al suo ultimo crociato

Magari mi sono distratto io, ma ultimamente mi sembra che i titoli “copia incolla” sull’occidente unito come un sol uomo che si appresta a concludere trionfante la sua crociata contro la giungla selvaggia che ci assedia vadano un po’ meno di moda; eppure, per mesi e mesi sulle prime pagine di tutti i principali giornali italiani non c’è stato letteralmente altro.

Viene quasi il sospetto che qualcosa sia andato storto e che ora non sia esattamente chiarissimo come salvare la faccia se non, appunto, attraverso l’oblio.

La controffensiva ormai è relegata alle pagine di cultura e società: invece che militare, sembra la controffensiva dei selfie, o dei killfie, come si dice in gergo. Il termine indica il fenomeno delle persone disposte a tutto pur di catturare lo scatto perfetto e che alla fine ci lasciano le penne, e nella guerra ucraina ha raggiunto una dimensione tutta nuova: 13 morti, in una botta sola.

Tanti sarebbero gli uomini dei servizi segreti militari di Kyev, caduti mercoledì scorso nel tentativo di sbarcare in Crimea per realizzare un video che ritrae incursori che sventolano la bandiera ucraina e dicono felici che “la Crimea sarà ucraina o disabitata”, scrive il Messaggero.

In tutto, ricostruisce il Messaggero, “una trentina di marinai ucraini che alle 2 di notte hanno puntato verso la Crimea su un’imbarcazione veloce e 3 moto d’acqua”, che sono state “prima intercettate da un pattugliatore della marina russa, poi attaccate dagli aerei e costrette al ritiro. Il video però”, sottolinea non ho capito quanto sarcasticamente il Messaggero, “è stato girato e postato”.

E io che mi lamento che per fare un video mi devo leggere qualche articolo di giornale. Che ingrato.

D’altronde, a breve, gli smartphone con le camere di ultima generazione potrebbero essere l’unica arma che l’occidente è ancora disposto a fornire per questa guerra per procura, che rischia di rimanere senza procuratori; nonostante le tonnellate di inchiostro sprecato per tentare di convincerci che l’iperinflazione, i tassi di interesse alle stelle e la recessione incombente non fossero altro che leggende metropolitane spacciate dai gufi e dagli utili idioti della propaganda putiniana, sembra quasi che per la realtà sia arrivato il momento di presentare il conto. Non poteva andare altrimenti.

Nonostante negli ultimi 50 anni le élite politiche del nord globale non abbiano fatto altro che restringere ogni spazio di democrazia, fortunatamente qualcosina in eredità ci è rimasto

e, mano a mano che per le élite che negli ultimi 18 mesi hanno sacrificato gli interessi della stragrande maggioranza dei loro cittadini si avvicina lo spettro delle urne, il mondo fatato immaginario dipinto dalla propaganda del partito unico della guerra e degli affari comincia a scricchiolare.

Il primo clamoroso esempio è stata la Polonia, che sul sostegno all’Ucraina senza se e senza ma ha tentato, con il supporto incondizionato di Washington, di riconfigurare completamente il suo status all’interno dell’Unione Europea; sotto stretta osservazione per le sue palesi violazioni dei requisiti minimi di uno stato di diritto, nell’arco di poche ore si era magicamente trasformata nella paladina più intransigente del mondo democratico contro i totalitarismi.

Evidentemente, però, l’operazione di maquillage ideologico ha convinto più i rubastipendi che stanno in villeggiatura a Bruxelles che non i contadini polacchi, che inspiegabilmente sono così maleducati da preoccuparsi più di non finire in miseria che non di immolarsi in nome della retorica democratica.

La storia la conoscete: da quando è naufragato l’accordo sul grano tra Russia e Ucraina mediato dalla Turchia, l’Ucraina ha cominciato a esportare il suo grano via terra, approfittando della sospensione di quote e tariffe da parte della UE nei confronti dei prodotti alimentari ucraini a partire dal febbraio del 2022. Da allora il grano ucraino ha letteralmente invaso paesi come la Bulgaria, la Romania e appunto la Polonia, rischiando di gettare sul lastrico gli agricoltori locali: ammassato a milioni di tonnellate nei silos, pur di sbarazzarsene il grano ucraino aveva raggiunto prezzi troppo bassi per permettere a qualunque produttore di reggere la concorrenza. Di fronte alle proteste delle popolazioni locali, nel maggio scorso, l’Unione Europea aveva introdotto un divieto temporaneo alla vendita del grano ucraino in questi stessi paesi, divieto che però a settembre è scaduto.

Una tempistica perfetta: il 15 ottobre infatti la Polonia torna al voto, e il voto degli agricoltori è determinante, in particolare per il partito di governo di estrema destra Diritto e Giustizia, che ha proprio tra la popolazione rurale il suo bacino di voti principale e che, come 18 mesi prima, da essere considerato la peggio feccia reazionaria era diventato, nell’arco di mezza giornata, il punto di riferimento dei sinceri democratici, ora si apprestava altrettanto rapidamente a fare il percorso inverso.

Il compagno Morawieczki infatti ha si è rifiutato di ritirare il divieto e Zelensky ha reagito presentando un ricorso ufficiale presso il WTO e accusando la Polonia di essere solidale solo a parole.

E Morawieczki non l’ha presa proprio benissimo, diciamo. “Non trasferiremo più armi all’Ucraina”, ha annunciato laconico a fine settembre in diretta televisiva. Ma non solo: “Se vogliamo che il conflitto si intensifichi in questo modo, aggiungeremo altri prodotti al divieto di importazione in Polonia. Le autorità ucraine non capiscono fino a che punto l’industria agricola polacca sia stata destabilizzata“.

Maledetti populisti! La stragrande maggioranza dei loro elettori avanza una rivendicazione, e per paura di perdere le elezioni questi gliela concedono pure, magari addirittura senza aver prima ottenuto il via libera da Washington o da Bruxelles.

Se ce lo dicevano prima che funzionava così la democrazia, ci inventavamo un altro sistema.

E la Polonia non è certo un caso isolato. Tra gli stati canaglia dell’internazionale nera di Visegrad che più hanno cercato di sfruttare la guerra per procura in Ucraina per tornare a piacere alla gente che piace, senza manco bisogno di rinunciare a un briciolo della loro vocazione clericofascista, spicca infatti anche la piccola ma agguerritissima Slovacchia, che salta anche più agli occhi; fino al 2018 infatti al governo c’era stato un tale Robert Fico, che invece il muro contro muro con la Russia e il suicidio delle sanzioni economiche li vedeva di pessimo occhio già da tempi non sospetti.

Cresciuto tra le fila del Partito Comunista subito prima dello smembramento della Repubblica Ceca, Fico aveva fondato una formazione politica tutta sua, che si chiama SMER, ed è un esempio piuttosto eclettico di partito socialdemocratico che ha incredibilmente sempre nutrito più di qualche perplessità per quel che riguarda le controriforme di carattere neoliberista e l’adesione religiosa ai vincoli esterni.

Nel 2018 però al governo guidato da Fico ne subentra un altro, altrettanto populista, ma a questo giro in senso prettamente reazionario, che fa sue battaglie di civiltà come ad esempio trasformare l’aborto in un reato penale, e come tutti i veri fintosovranisti ma veri reazionari, quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO in Ucraina ecco che la Slovacchia si trova a gareggiare per il primo gradino del podio dei governi più svendipatria del continente.

Come ricorda People Dispatch, “in termini di percentuale del suo prodotto interno lordo, la Slovacchia è attualmente uno dei maggiori donatori europei all’Ucraina. Ha fornito all’Ucraina obici, veicoli corazzati e la sua intera flotta di aerei da combattimento MiG-29 dell’era sovietica”.

Purtroppo però, continua l’articolo, la Slovacchia “è anche uno dei paesi più poveri d’Europa, e il grosso dell’elettorato è convinto che il denaro dovrebbe servire per migliorare i servizi interni, non per la guerra”.

Totalmente dipendente dal gas russo a prezzi di sconto, la Slovacchia negli ultimi 18 mesi ha registrato uno dei tassi d’inflazione più alti dell’intero continente, superando durante la scorsa primavera addirittura quota 15%; la crisi economica ha scatenato una crisi politica e la maggioranza filo NATO si è sfaldata, ma invece di sciogliere il parlamento e tornare alle urne la presidenta fintoprogressista Zuzana Caputova ha deciso di consegnare il paese nelle mani dell’ennesimo caso di governo tecnico farsa guidato dal vice governatore della banca nazionale.

Come tutti i governi tecnici che si rispettano, i mesi successivi sono stati mesi di sospensione della democrazia e di politiche antipopolari in nome dei vincoli esterni nei confronti dell’Unione Europea e della NATO, fino a quando anche qui è arrivata la scadenza naturale della legislazione ed è tornata quella gran rottura di coglioni che sono le elezioni politiche che – ormai – ai paladini della democrazia piacciono sempre meno.

Ovviamente a quel punto, come sempre accade al termine di un governo tecnocratico antidemocratico, il grosso dell’elettorato non poteva che prediligere la forza politica che meno si era compromessa, ed ecco così che il nostro Robert Fico ha avuto gioco facile.

Durante la campagna elettorale gli è bastato ricordare che le conseguenze delle sanzioni alla Russia lui le denuncia da sempre e promettere espressamente che in caso di vittoria “non invieremo un solo colpo all’Ucraina”, ed ecco fatto: una cosa lineare, prevedibile, semplice.

Per tutti, tranne che per la sinistra suprematista imperiale delle ZTL e la sua bibbia, internazionale, che affida l’ennesima analisi psichedelica all’immancabile Pierre Haski.

Un vero punto di riferimento: quando avete un dubbio, andate a vedere cosa ne pensa Haski. e fate, o pensate, l’esatto opposto.

Secondo Haski in questo caso, la vittoria di Fico sarebbe attribuibile “al ruolo della disinformazione di massa, dalle fake news ai video truccati, che ha imperversato durante la campagna elettorale slovacca”.

Ma la potenza di fuoco dell’inarrestabile macchina propagandistica di Putin – il primo presidente nella storia a riuscire a pilotare l’opinione pubblica globale nonostante sia già morto da mesi per uno dei suoi 17 incurabili tumori e nonostante la bancarotta della Russia annunciata dalla Tocci da due anni ma tenuta ancora nascosta – va ben oltre la Slovacchia: anche il nostro paese, nonostante la RAI, Mediaset, La7, il gruppo GEDI, e gli analfoliberali sul web, è a rischio.

Facciamo un passetto indietro: lunedì scorso Tajani è andato a Kyev e durante la visita avrebbe ufficialmente annunciato nuovi invii di armi.“E’ soltanto una dichiarazione d’intenti” l’ha redarguito Crosetto.

Di questo fantomatico ottavo pacchetto di aiuti, sottolinea infatti Crosetto, “C’è tantissima gente che ne parla non avendone competenza”, anche perché, ricorda sommessamente, “è secretato. C’è una continua richiesta da parte ucraina di aiuti, però bisogna verificare ciò che noi siamo in grado di dare rispetto a ciò che a loro servirebbe”.

l’italia ha fatto molto”, ha continuato Crosetto, ma non abbiamo “risorse illimitate”, e abbiamo già fatto “quasi tutto ciò che potevamo fare; non esiste molto ulteriore spazio”.

Non è un cambio di linea eh, ci mancherebbe. “Continueremo a sostenere l’Ucraina”, ha infatti ribadito, “privilegiando la via del dialogo per riaffermare il diritto a raggiungere una pace giusta”, ma solo come se fosse antani, tarapiotapioca con scappellamento a destra.

O a centrodestra, se siete più moderati.

Ma gli arsenali vuoti non sono l’unica cosa a spingere l’Italia verso una parziale marcia indietro: come ha sottolineato Giorgiona stessa, a preoccupare comincia anche ad essere, anche qui, l’opinione pubblica. Un sostegno incondizionato, avrebbe dichiarato Giorgiona “genera una resistenza e rischia di generare stanchezza nell’opinione pubblica”, ma a colpire ancora di più è la reazione dello stesso Zelensky, che fino a qualche mese fa si incazzava decisamente per molto meno, e oggi invece si riscopre comprensivo.

So che l’Italia ha le proprie sfide”, avrebbe affermato, “e so anche che l’Italia subisce una forte campagna di disinformazione della federazione russa, che spende milioni per distruggere le relazioni tra le nazioni dell’Europa e del mondo”.

E a noi, manco un centesimo, popo’ di ingrati.

Di fronte a questa inarrestabile campagna propagandistica russa che, senza che ve ne accorgeste, si è impossessata di tutti i media e tutti i mezzi di produzione del consenso italiani, Zelensky non può che apprezzare comunque lo sforzo: “Vorrei ringraziarvi perché voi avete un primo ministro molto forte”, avrebbe affermato.

Ma com’è che tutti questi Paesi, che abbiamo sempre additato come umili servitori degli USA, anche contro i loro stessi interessi più immediati, ora cominciano di punto in bianco un po’ a scalpitare? Semplice: i primi a scalpitare ormai, infatti, sono proprio gli USA.
Come sapete, per rinviare per l’ennesima volta il rischio shutdown pochi giorni fa Biden e la maggioranza repubblicana alla camera, hanno siglato un patto che permette nei prossimi quarantacinque giorni di effettuare tutta una lunga serie di spese. Che è lunga si, ma non abbastanza da contenere ulteriori aiuti all’Ucraina. Biden voleva altri 6 miliardi. ne ha ottenuti zero.

Ed è solo l’inizio. Perchè comunque quell’intesa tra leader repubblicani alla camera e amministrazione democratica, a qualcuno proprio non è andata giù. Risultato: un piccolo gruppo di 8 repubblicani che secondo i media mainstream sarebbero l’estrema destra dell’estrema destra trumpiana, hanno chiesto il voto di sfiducia per lo spekaer della camera Kevin McCarthy, lo hanno ottenuto, e poi lo hanno pure vinto. È la prima volta che succede da quando esistono gli Stati Uniti d’America per come li conosciamo oggi. Senza lo speaker, l’attività legislativa della camera è bloccata e l’ucraina teme che per lei sarà bloccata anche quando di speaker ne eleggeranno uno nuovo. “Difficile eleggere uno speaker che sostenga gli aiuti all’ucraina”, così avrebbe dichiarato un parlamentare repubblicano interrogato da La Stampa. Non si tratta di uno dei parlamentari della fronda, ma di Pete Sessions, storico rappresentante neocon del texas, e filoucraino sfegatato. A spingere i repubblicani verso un deciso cambio di rotta, i sondaggi che continuano a dimostrare come la maggioranza assoluta dei cittadini USA non ne possa più. Come quello pubbicato l’altro giorno dalla cnn che affermava che il 55% degli americani ritiene che siano stati dati tutti gli aiuti necessari e che “è stato fatto abbastanza”. I soldi che ci sono, devono essere spesi in qualcosa che potrebbe permettere ai repubblicani di vincere le prossime elezioni: in particolare, rafforzare il controllo del confine con il Messico, e ridurre il debito.
“Prima bisogna garantire i finanziamenti per la sicurezza alle frontiere e poi occuparci di Ucraina”, avrebbe dichiarato Garrett Graves, della ristretta cerchia di McCarthy. Ed ecco così che spunta la candidatura di Jim Jordan, potentissimo capo della commissione giustizia, tra gli artefici della procedura di impeachment contro Biden e uno degli oppositori più vocali all’invio di aiuti a Kyev.

Una “SUPERPOTENZA DISFUNZIONALE”, come l’ha definita in un lungo articolo su “foreign affairs” Robert Gates, già direttore della CIA all’inizio degli anni ‘90, e poi caso più unico che raro di segretario della difesa bipartisan, prima con George W. Bush, e poi con Barack Obama. La domanda che si fa Robert Gates è più attuale che mai: Può un’America divisa scoraggiare Cina e Russia?

“Gli Stati Uniti”, sottolinea Gates, “si trovano ora ad affrontare minacce alla propria sicurezza più gravi di quanto non fossero mai state negli ultimi decenni, forse mai. Il problema, tuttavia è che nel momento stesso in cui gli eventi richiedono una risposta forte e coerente da parte degli Stati Uniti, il Paese non è in grado di fornirne una”. Secondo gates gli USA si trovano ancora oggi in una posizione di relativa forza rispetto a Cina e Russia. “Purtroppo, però”, riflette Gates, “le disfunzioni politiche e i fallimenti politici dell’America ne stanno minando il successo”. Per tornare ad avere il potere di dissuadere gli avversari da compiere ulteriori gesti inconsulti, suggerisce Gates, gli Stati Uniti devono assolutamente ritrovare quell’”accordo bipartisan decennale rispetto al ruolo degli Stati Uniti nel mondo”, ed essere in grado di spiegare insieme a tutti gli elettori che “la leadership globale degli USA, nonostante i suoi costi, è indispensabile per preservare la pace e la prosperità”. Per fare questo non bastano gli appelli alla nazione dallo studio ovale. “Piuttosto”, sottolinea Gates, “è necessario che tutti ripetano all’infinito questo messaggio affinché venga recepito”. Insomma, l’esercizio di quel poco di democrazia che è rimasto nel nord globale rischia di far sbandare dalla strada maestra, che non è quella che si scelgono i popoli in base ai loro interessi, ma quella che decidono a tavolino i Gates e gli oligarchi che lo sostengono. Per tornare sulla retta via, c’è bisogno di richiamare tutti all’ordine, e lanciare una campagna di lavaggio del cervello di massa che ci faccia riconoscere come nemici senza se e senza ma quelli che loro hanno individuato come nemici in base ai loro interessi. E siccome poi alla gente li puoi raccontare tutte le cazzate che vuoi, ma se gli levi il pane da sotto i denti, poi a un certo punto comunque si incazza, se non basterà il soft power della persuasione, vorrà dire che si passerà all’hard power delle mazzate. L’occidente globale è in via di disfacimento. prima che si rassegnino a mollare l’osso, ci sarà da vederne delle belle.

Contro il piano orwelliano dei gates, nel frattempo, quello che possiamo fare è continuare a insinuare i dubbi e a segnalare le contraddizioni. e per farlo, abbiamo bisogno di costruire il primo media che invece che dalla parte della loro propaganda, stia dalla parte degli interessi del 99%

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…e chi non aderisce è Robert Gates.

Canada vs India: le accuse all’india e il doppio standard dell’occidente

India accusata di omicidio di un cittadino canadese in Canada

Ci sono due motivi per cui il Canada è sotto i riflettori mondiali nell’ultima settimana, uno abbastanza imabarazzante e l’altro abbastanza interessante.

Il motivo imbarazzante è che, in occasione della visita di Zelensky, al Parlamento canadese è stato reso omaggio ad un ex SS ucraino, definendolo un eroe ucraino che ha combattuto contro i russi per l’indipendenza dell’Ucraina e che ancora oggi, ultranovantenne, si batte per la verità. Insomma, che Putin menta quando dice che in Ucraina c’è il nazismo, il Canada ha scelto di farcelo spiegare proprio da un eroico ex-SS ucraino applaudito in mondo visione da Zelensky, un’operazione davvero brillante, se lo scopo era quello di fare un favore a Putin. Tanto che dopo pochi giorni il Presidente dell’istituzione Canadese ha dovuto scusarsi con le varie comunità ebraiche che hanno protestato ricordando come la divisione delle SS in cui l’eroe ha prestato volontariamente servizio è stata una unità militare i cui crimini contro l’umanità sono ben documentati.

Ma c’è un secondo motivo per cui si parla di Canada, cioè il fatto che il Primo Ministro canadese Trudeau ha accusato l’India di essere dietro all’omicidio di un cittadino canadese. L’India ha respinto le accuse è tra i due paesi è in corso una tensione diplomatica, fatta di reciproche espulsioni di funzionari.

La vittima dell’omicidio è il leader separatista Sikh Nijjar, residente in Canada e con cittadinanza canadese. Un membro della folta diaspora Sikh sparpagliata in vari paesi del mondo, tra cui anche l’Italia, ma specialmente in Canada. Il movimento separatista Sikh chiede all’India la formazione di uno Stato autonomo almeno dal 1947, dai tempi della Partizione dell’India, decisa dall’Impero britannico, che divise la colonia dell’india britannica in due stati separati, India e Pakistan: una separazione che portò ad enormi tensioni, che si tradussero in oltre un milione di morti e la regione del Grande Panjaab, centro geografico della cultura Sikh, si trova proprio in mezzo a questa divisione.

Da allora le tensioni tra il governo indiano e il separatismo Sick non si sono mai placate, e l’ultimo episodio, secondo l’accusa canadese, appare particolarmente grave: il 18 giugno di quest’anno due uomini hanno sparato e colpito a morte Nijjar all’esterno di un centro religioso Sikh in un sobborgo di Vancouver e seconodo Trudeau dietro a questo omicidio ci sarebbe l’agenzia di intelligence indiana e il governo indiano.

Insomma, proprio mentre, sempre a Giugno, un confuso Biden con la mano sul cuore mentre suonavano l’inno indiano accoglieva Modi sottolineando l’alleanza basata sui valori tra India e Stati Uniti, contemporaneamente l’India, secondo il Canada, aveva appena ordinato l’esecuzione extraterritoriale di un cittadino canadese in territorio canadese. La notizia a prima vista è simile a tante altre: da Putin che avvelena le persone a Bin Salman che le squarta, ma a differenza delle altre volte, in questo caso, la condanna verso l’India è molto più cauta e per il momento non è ancora apparso nessun titolo di giornale con su scritto “Modi spara alle persone”; diciamo che della questione si è parlato molto poco, nella politica estera abbiamo sentito parlare molto di più di questioni che al confronto paiono minori. Pensiamo ad esempio all’allontanamento di Hu Jintao durante l’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese, interessante per carità, ma niente in confronto ad una accusa di omicidio extraterritoriale.

Su “il foglio” il leader separatista sick ucciso viene liquidato come “un killer prezzolato e trafficante di droga ricercato dall’Interpol”, e certo, questo è ciò che sostiene l’India che in questi termini ha fatto emettere l’avviso dall’interpol. Ma “il foglio” dimentica di dire che Nijjar ha risposto a queste accuse in una lettera al Primo Ministro canadese nel 2016, in cui ha affermato che le accuse del governo indiano erano “fabbricate, infondate, fittizie e politicamente motivate” e la polizia canadese aveva detenuto brevemente Nijjar per un interrogatorio nell’aprile 2018 per poi rilasciarlo dopo neanche ventiquattr’ore senza formulare alcuna accusa. Insomma, diciamo che Nijjar non è che vivesse in fuga e braccato dall’interpol, ma anzi, la sua vita in canda era pubblica e sotto i riflettori per varie attività legate all’indipendentismo Sick. Ma allo stesso modo non dimentichiamoci che il separatismo Sick non è certo estraneo ad episodi di violenza e anche molto gravi, ad esempio [IMG9] nel 1985 un gruppo di estremisti Sikh ha fatto esplodere con una bomba il Volo Air India 182, uccidendo 329 persone, in risposta all’operazione Blue Star, un’operazione militare lanciata da Indira Gandhi l’anno prima, nel 1984 e nella regione del Panjaab, dove si stima che tra i cinque e i dieci mila civili siano rimasti uccisi nel corso delle operazioni. Allo stesso modo la stessa Indira Gandhi sarà vittima della vendetta dei Sick, con un omicidio che provocò gravi disordini in tutto il Paese e particolarmente nella capitale, dove migliaia di cittadini sikh vennero uccisi per ritorsione, nella sostanziale indifferenza delle forze dell’ordine.

Insomma, vicende estremamente delicate in un Paese in cui religione e identità culturale si legano a fenomeni di scontri sociali particolarmente cruenti e dove l’eredità post coloniale ha contribuito ad esacerbare queste questioni. In un contesto intricato come questo è interessante vedere giornali come il foglio che diventano portavoce acritici della voce ufficiale di un paese del sud del mondo. Ma non illudiamoci, non è che son diventati multipolaristi e se invece che l’India ad essere accusata di omicidio extraterritoriae nel territorio di una democrazia occidentale fosse stata la Cina, beh non avremmo certo visto questa prona adesione de “il foglio” al punto di vista del Governo accusato.

Ma d’altra parte a preoccupare “il foglio”, come scrive, è “Il rischio che anche per America, Australia e Regno Unito, si apra una fase critica nei rapporti con Canada e India, in un’escalation diplomatica che potrebbe minare l’unità dell’occidente nell’Indo-Pacifico”, una unità che serve, per l’appunto, a contenere la Cina… cioè, non è che adesso vi mettete lì a litigare per gli omicidi extraterritoriali, il foglio invita alla calma.

Insomma della vicenda non se ne è parlato molto, una lodevole eccezione qui su youtube è rappresentata da Braking Italy, che certo ne ha parlato con quello che è il suo stile, e le sue riflessioni, che non condivido particolarmente, ma quantomeno ne ha parlato, soprattutto non condivido che nell’elenco dei Paesi che hanno compiuto omicidi extraterritoriali ha inserito la Russia e l’Arabia Saudita ma si è dimenticato di inserirne uno abbastanza grandicello nella questione, cioè gli Stati Uniti. Pensiamo ad esempio all’omicidio del generale iraniano Soleimani, ordinato da Donald Trump e definito illegale dalla relatrice speciale ONU sui diritti umani; o pensiamo a cosa è accaduto in Afghanistan il 29 agosto 2021, dopo l’annuncio del ritiro delle truppe statunitensi, quando un drone americano ha falcidiato una intera famiglia afghana, uccidendo dieci civili tra cui sette bambini. Secondo l’intelligence statunitense, che aveva seguito per ore una Toyota bianca prima di sparargli contro uno di quegli ordigni che perforano le lamiere e le persone, secondo loro in quella macchina vi erano terroristi che trasportavano bombe, un’operazione dell’ISIS-K, la stessa organizzazione coinvolta in un attacco di tre giorni prima all’aeroporto di Kabul, dove erano morti anche tredici soldati statunitensi. Biden aveva promesso una dura e pronta risposta, ma la risposta è stata quella di massacrare Ezmarai Ahmadi e la sua famiglia e lui per di più era un operatore umanitario e cooperante con la statunitense Nutrition and Education International, una organizzazione che si occupa di distribuire aiuti umanitari in Afghanistan. Lavorava per gli Stati Uniti insomma, e come successive indagini hanno rivelato, la macchina non trasportava bombe, ma taniche d’acqua, tanto che il Pentagono ha dovuto ammettere l’errore, definito “spiacevole ma onesto” dall’ispettore generale del Pentagono, che ha anche specificato che nessun militare statunitense sarebbe stato punito per quell’errore, perché era appunto un errore onesto. Come ha commentato il fondatore e Presidente di Nutrition & Education International “Questa decisione è scioccante. Come possono i nostri militari togliere ingiustamente la vita di 10 preziose persone e non ritenere nessuno responsabile in alcun modo?”. Risposta, perché è un errore onesto!

Secondo alcuni oltre che un essere onesto questo errore è anche una esecuzione extraterritoriale in un Stato dal quale avevano già annunciato il disimpegno e il ritiro delle truppe: a che titolo fai piovere la morte dal cielo in uno stato estero nel quale il Governo che sostenevi si era già dissolto come la neve da settimane? Come commenta il “New York Times”: in due decenni di guerra l’esercito americano ha ucciso in raid mirati migliaia di civili per sbaglio in Iraq, Afghanistan, Siria e Somalia, e “mentre l’esercito di tanto in tanto si assume la responsabilità di questi attacchi, raramente ritiene responsabili persone specifiche”. Braking italy nel suo video sottolinea come l’occidente non debba permettere all’India o ad altri Stati di intervenire extra territorialmente con esecuzioni, e sono perfettamente d’accordo, ma aggiungerei pure che tutto sommato l’occidente potrebbe provare anche ad impedire all’occidente stesso di intervenire extra territorialmente con esecuzioni, come dice Confucio dare il buon esempio è il primo passo per una leadership di successo. Ma non solo l’occidente non riesce ad impedire all’occidente di farle queste cose, ma al momento non è neppure in grado di formulare una condanna forte e compatta verso l’India. La reazione ufficiale degli Stati Uniti alle accuse canadesi contro Modi è stata abbastanza tiepida, limitandosi a dichiarare che si aspettano che il governo indiano collabori con il Canada per indagare sul possibile coinvolgimento di agenti di Nuova Delhi nell’omicidio.

Bin Salman per l’omicidio Khash oggi era stato definito da Biden un Paria internazionale, salvo poi più recentemente andare a stingergli la mano in varie occasioni: l’ultima al G20 di settembre che c’è stato proprio in India. Oppure pensiamo agli avvelenamenti di Putin, con Biden che nel 2021 aveva definito Putin un assassino ancor prima della guerra in Ucraina, mentre in questo caso ci si muove con molta più cautela, in quello che a prima vista sembra un perfetto esempio dei doppi standard, i due pesi e due misure dell’Occidente.

Ma in realtà qui la questione potrebbe essere molto più intricata, se non altro perché, come ha rivelato il New York Times: “le agenzie di spionaggio americane hanno fornito informazioni al Canada dopo l’uccisione del leader separatista sikh nell’area di Vancouver”. Come riporta il giornale, all’indomani dell’omicidio, le agenzie di intelligence statunitensi avrebbero offerto alle loro controparti canadesi informazioni chiave che hanno aiutato il Canada a concludere che il governo indiano era stato coinvolto. Mentre il Segretario di Stato Antony J. Blinken ha invitato l’India a collaborare con l’indagine canadese, i funzionari americani hanno ampiamente cercato di evitare di innescare qualsiasi reazione diplomatica da parte dell’India. Ma, commenta il New York Times: “la rivelazione del coinvolgimento dell’intelligence americana rischia di intrappolare Washington nella battaglia diplomatica tra Canada e India in un momento in cui è desiderosa di avvicinarsi a Nuova Delhi”.

Insomma, pubblicamente gli Stati Uniti fanno da pompiere, ma segretamente avrebbero fatto da incendiari, non solo fornendo al Canada informazioni che hanno aiutato a incastrare l’India ma oltre a questo funzionari di intelligence hanno spifferato di averlo fatto al New York Times.

Uno scontro tra apparati che non passa certo inosservato, con la presidenza che va in una direzione e i servizi che vanno nella direzione opposta.

Da questa vicenda si possono trarre almeno due conclusioni: primo, il mantra della “guerra tra democrazie e autocrazie” che sentiamo ripetere così spesso come chiave di lettura per qualsiasi cosa è quanto mai insufficiente per comprendere il mondo di oggi. Non solo la nostra definizione di democrazia sta molto stretta a uno stato come l’India, ma oltre a questo mi pare ormai chiaro che l’idea che esistano due blocchi contrapposti, le democrazie di stampo occidentale da una parte e le autocrazie dall’altra, è una idea insufficiente, e che cade continuamente in contraddizione con se stessa. Ad esempio: perché l’Italia deve uscire dalla Via della Seta? Perché la Cina è una autocrazia, scrive Mario Platero su Repubblica: “la Via della Seta è diventata insostenibile nel momento in cui l’autocrazia cinese ha deciso di schierarsi con la Russia e contro l’Ucraina e contro l’Europa”. A Mario Platero il fatto che nella Via della Seta cinese ci sia pure l’Ucraina, e che non ha nessuna intenzione di uscirne, è un dettaglio che a lui non lo sfiora nemmeno, ed è strano, perché se dobbiamo uscire dalla Via della Seta perché la Cina si è schierata contro l’Ucraina, non sarebbe forse normale che la prima a volerne uscire dovrebbe essere proprio l’Ucraina stessa?

E non lo sfiora neppure il fatto che, annunciando al G20 il ritiro dalla via della Seta, l’Italia abbia annunciato contemporaneamente il suo ingresso nel corridoio Medio Orientale che unsice India, Arabia Saudita ed Europa, e consideriamo che non solo l’Arabia Saudita non è una democrazia ma una monarchia ereditaria, ma oltre a questo Cina, India e Arabia Saudita condividono la stessa posizione nei confronti della guerra in Ucraina.

Perciò, se la tesi è che per solidarietà con l’Ucraina dobbiamo uscire da una iniziativa in cui c’è pure l’Ucraina, o che per contrastare le autocrazie dobbiamo stringere legami con la monarchia saudita e gli Emirati Arabi, chiamarla ipocrisia o doppio standard è pure un eufemismo.

La seconda considerazione è che, come dicono alcuni osservatori, la leadership statunitense è spaccata al suo interno. Secondo Andrew Korybko negli usa “oggigiorno ci sono due fazioni ferocemente concorrenti, i liberal-globalisti e i loro rivali relativamente più pragmatici. I primi sono ideologi ossessionati dall’imporre i loro valori a tutti gli altri, mentre i secondi vogliono che l’America si adatti al multipolarismo ponendo gli interessi nazionali al di sopra di tutto il resto”.

Nel contesto delle relazioni India-Stati Uniti, i liberal-globalisti vorrebbero continuare a fare pressione sull’India affinché si adatti alle richieste di condanna e sanzione contro la Russia, creando tensione nei legami indo-statunitensi anche a scapito dei loro comuni interessi nel contenere la Cina, mentre i pragmatici vorrebbero dare priorità all’obiettivo geopolitico del contenimento della Cina. “Il viaggio del primo ministro Narendra Modi negli Stati Uniti a giugno ha dimostrato che i pragmatici hanno vinto in questo dibattito, ma ora è noto, col senno di poi, che i liberal-globalisti si sanno muovendo per sabotare i loro legami”, conclude Korybko, riferendosi alla fuga di notizie da parte di fonti dell’inteligence sul coinvolgimento degli Stati Uniti delle indagini canadesi contro l’India.

E se gli Stati Uniti condannassero l’India come hanno condannato altri Paesi per azioni del tutto simili, sarebbe un grosso problema per gli Stati Uniti stessi, hanno un bisogno strategico dell’India. Ma se la leadership statunitense davvero pensa che ci sia una condivisione di valori tra India e Stati Uniti allora anche questo può diventare un problema: non solo in termini di valori, tradizioni e situazione politica sono Paesi con differenze abbastanza evidenti, ma anche in termini di posizione internazionale. Di relazione con la Russia, totalmente diversa la relazione che l’India ha con la Russia rispetto alla relazione tra Russia e occidente; ma anche nel rapporto con la Cina, per quanto l’India abbia un rapporto conflittuale con la Cina, per l’India la Cina rappresenta comunque il più grande attore economico a livello regionale, quindi un vettore di crescita dell’area asiatica, un’area nella quale l’India è inserita.

Insomma, per gli Stati Uniti l’india è un banco di prova relativamente nuovo, se non altro perché ha aspetti inediti l’importanza che l’India ha assunto negli ultimi anni, e sarà interessante vedere come gli USA si muoveranno, e non a caso Kissinger nell’intervista per i suoi 100 anni con il suo cinismo da uomo che nel mondo ha fatto di tutto, consigliava agli Stati Uniti di smetterla di fare gli idealisti nel loro rapporto proprio con l’India e di mantenere il pragmatismo.

Se volete approfondire la questione tra India e Canada, oltre che l’intensificarsi delle politiche anti corruzione in Cina,il cosiddetto cerchio di Xi come lo chiamano i media cinesi, una immagine che il presidente cinese aveva tratto dal viaggio in occidente, un romanzo della letteratura classica cinese, quello che ha scimmiotto come personaggio, il prototipo di Goku di Dragon Ball, insomma se volete approfondire queste questioni, ne ho parlato nella newsletter, un contenuto riservato a chi ci sostiene su tipeee, almeno un euro al mese per riceverla per email tre volte a settimana, almeno 5€ per poter accedere all’archivio delle vecchie newsletter, oppure potete sostenerci su gofoundme.

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