Skip to main content

Tag: taiwan

Gli USA spaccati: Kamala vuole la guerra – ft. Giacomo Gabellini

Oggi i nostri Giuliano e Gabriele hanno intervistato il sempre preparato Giacomo Gabellini attorno alle strategie messe in campo dai due diversi candidati alle presidenziali USA di novembre. Mentre sembra ormai solo questione di formalità la conferma della candidatura di Kamala Harris, Trump solleva problemi di legittimità attorno la sua figura. Mentre i Democratici puntano allo scontro attorno al mondo, i Repubblicani sembrano prediligere una strategia pragmatica che, nell’immediato, scaricherebbe i costi della difesa sui singoli scenari ai partner europei e asiatici. Buona visione.

#USA #impero #imperialismo #Biden #Trump #Kamala #Harris #Donald #Taiwan #finanza #USA24

Tensione nel Pacifico: uno tsunami atomico investirà l’ Estremo Oriente? – ft. Giacomo Gabellini

Oggi pomeriggio presentiamo un panel che si è tenuto il 5 luglio presso il Circolo Arci di Putignano a Fest8lina, con relatori Giacomo Gabellini e Francesco Maringiò e moderatori Clara Statello e Giuliano Marrucci. Nel panel si è parlato dell’Oceano Pacifico, nuova linea di faglia del conflitto che il super-imperialismo USA ha aperto nei confronti della Cina e dello schieramento dei paesi emergenti. Proprio in queste settimane si stanno tenendo nell’area fatti importantissimi: la visita di Putin in Corea del Nord e in Vietnam, la discussione di un accordo tra Giappone e Filippine e il rinvio di armi dagli USA a Taiwan. Così, mentre il mondo si concentra su quanto accade in Ucraina e a Gaza, esplodono nuove contraddizioni e conflittualità in Estremo Oriente. Buona visione!

#Pacifico #guerra #imperialismo #Cina #USA #Vietnam #Taiwan #Filippine #Corea #Giappone #Russia #ASEAN

Perché non diamo a Taiwan la bomba atomica?

Perché non diamo la bomba atomica a Taiwan? Che cosa implicherebbe questa idea? Ne parliamo in questo video, rispondendo a un commento di @TommasoCavaletto

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Global Southurday – Tangentopoli a stelle e strisce – ft. Alberto Fazolo

Cosa succede nel mondo? Per dircelo torna il consueto appuntamento dei nostri Gabriele e Alberto per il sabato di Ottolina Tv in giro per il mondo. Sul fronte ucraino si segnala tanto l’invio di armi con autorizzazione di uso su suolo russo da parte USA, sia lo stallo dell’invio di fondi da parte dell’UE, fino ai tentativi di dialogo portati avanti da Cina e Brasile. Dalla Palestina, assistiamo alla rottura di qualsiasi dialogo sulla vicenda ostaggi, fino alle dichiarazioni del Likud di non permettere nessun accordo che preveda la fine dei combattimenti. In Estremo Oriente intanto, tra Taiwan e il confine delle due Coree, si scaldano i punti di attrito tra Occidente e paesi emergenti. Chiudiamo infine con la condanna di Donald Trump, vicenda quanto mai losca e dalle tinte politiche, in una distopica campagna presidenziale USA. Buona visione!

#Trump #USA #Ucraina #Russia #Palestina #Israele #Taiwan #Corea

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Parlamentari USA a Taiwan: la Cina fa vedere i muscoli – ft. Alberto Bradanini

La Repubblica Popolare di Cina proclama un’esercitazione militare attorno l’isola ribelle dopo l’insediamento a Taiwan di Lai Ching-te, il leader indipendentista. Nei giorni successivi, alcuni parlamentari USA si sono recati sull’isola per esprimere solidarietà al governo separatista di Taipei e per riaffermare l’impegno USA ad inviare molto presto nuove armi in funzione anti-Pechino. Nonostante questa escalation, nessuno degli attori regionali, in primis Taipei e Pechino sembrano realmente interessati a procedere verso lo scontro militare. Il nostro Gabriele ha intervistato al riguardo Alberto Bradanini, ex ambasciatore italiano a Pechino. Buona visione!

#Cina #Taiwan #USA

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Global Southurday – Iran, Russia, Cina e le masse dei paesi emergenti: protagonisti del presente – ft. Alberto Fazolo

Torna il consueto appuntamento del sabato con i nostri Alberto, Clara e Gabriele per parlare di mondo e paesi emergenti. La puntata spazia dalle vicende iraniane legate alla morte di Raisi alla Palestina, fino alle ultime novità in area russa (Ucraina, Baltico e Georgia) per concludersi con il conflittuale rapporto tra Cina e Taiwan. Mentre l’Occidente collettivo sembra sempre più ripiegato su se stesso e sulle proprie paure e posizioni, il resto del mondo ascende sul palcoscenico globale e rivendica maggiore giustizia ed equilibrio. I veri protagonisti non sono i governi o le classi dirigenti di questo o quel paese, ma le masse di paesi emergenti, più giovani e predisposte al nuovo rispetto alla popolazione europea e nordamericana. Lo scenario israeliano-palestinese diventa in qualche modo uno spaccato del cambiamento globale che terrorizza le élite occidentali e che viene rafforzato dalla montante protesta proPal in tutte le università occidentali. Buona visione!

#ProPal #NoGenocidio #Gaza #Russia #Ucraina #Cina #Taiwan #Georgia

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

la Cina circonda Taiwan e distrugge il secessionismo sostenuto da Washington 

Procedono a passo spedito i tentativi dell’imperialismo di accelerare l’apertura del terzo fronte nel Pacifico. Il discorso inaugurale del neoeletto presidente taiwanese William Lai getta benzina sul fuoco dell’indipendentismo e della violazione sistematica del diritto internazionale. La Cina risponde dimostrando di essere in grado di strangolare l’isola e di essere pronta a farlo se non arrivano chiari segnali di nuova distensione. Ne abbiamo parlato con Davide Martinotti di Dazibao.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Il discorso indipendentista di William Lai e la dura reazione di Pechino

Il presidente di Taiwan William Lai Ching-te ha prestato giuramento lunedì. Nel suo discorso di insediamento riferimenti all’indipendenza, all’esistenza di due Stati e aperture verso il nome Taiwan per indicare la Repubblica di Cina. Oltre a questo, la totale assenza di riferimenti al consenso del 1992, il tacito accordo tra Pechino e Taipei secondo cui esiste una sola Cina, ma ogni lato dello Stretto di Taiwan può avere la propria interpretazione di ciò che costituisce la Cina. Dichiarazioni che hanno fatto infuriare Pechino. Ne parliamo in questo video!

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

La fabbrica di chip di TSMC negli USA: “un esercizio inutile e costoso”?

Phoenix, Arizona: l’azienda taiwanese TSMC sta costruendo la nuova fabbrica per produrre quella tecnologia fondamentale sia per gli iPhone che per gli aerei da combattimento: i chip. Miliardi di dollari di prestiti e sovvenzioni hanno ingigantito un progetto che in origine prevedeva una sola struttura, ma che ad oggi è stato triplicato. Ma nonostante i forti fondi e il forte sostegno da parte del governo degli Stati Uniti, questa fabbrica, annunciata ormai 4 anni fa, non è ancora entrata in produzione, con un ritardo di almeno un anno per la prima struttura e di due anni per la seconda. “Un esercizio molto costoso e inutile”: così Morris Chang, il fondatore e volto pubblico di TSMC, ha definito l’impianto in Arizona, un impianto che però è un tassello fondamentale dello scontro internazionale. Ma oltre a questo, la fab della TSMC in Arizona è anche un laboratorio di integrazione tra statunitensi e taiwanesi e dei circa 2.200 dipendenti che lavorano ad oggi nello stabilimento, circa la metà proviene da Taiwan, e il coltello dalla parte del manico sembrano avercelo i taiwanesi, con gli ingeneri americani che denunciano insulti e maltrattamenti. Insomma, una integrazione non facile che potrebbe pregiudicare lo stabilimento; ne parliamo in questo video!

TSMC’s debacle in the American desert: https://restofworld.org/2024/tsmc-ari….
TSMC Reviews in Arizona: https://www.glassdoor.com/Reviews/TSM…

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Bimbe di Bandera e coloni suprematisti impediscono a Rimbambiden di preparare la guerra alla Cina

Prima di passare alle cose serie che, purtroppo, anche oggi non mancano, un po’ di cabaret mattutino. Mirko Campochiari, l’analista fai da te più amato dalle bimbe di Bandera, alla fine ha deciso di farlo davvero; fino ad ora, infatti, l’aveva detto solo alla mamma (e, cioè, a Youtube) due volte: prima attaccandosi al copyright e facendo cancellare il video e poi, una volta che ho ripubblicato il video levando i 10 secondi ai quali il difensore del mondo libero s’era attaccato per incentivare il dibattito pubblico e la libera circolazione delle idee attraverso la censura, segnalandoci una seconda volta per violazione della privacy. Ora Mirko, però, ha deciso che lo dirà anche all’avvocato: “Quando ho smontato le bufale di Lilin” chiede il bomber delle mappe alla sua fanbase di bimbiminkia brufolosi su X, “lo ho fatto mettendo la sua faccia photoshoppata in copertina per dileggiarlo, o stavo sul merito? Si attacca la tesi, non il relatore. Il diritto di critica (cioè quello che lui ha cercato di annullare chiamando due volte la mamma) non consente di ledere la dignità altrui”; quella, diciamo, è una prerogativa che Parabellum vuole tenersi in esclusiva tutta per se. “Ottolina” conclude “ne risponderà in altre sedi”; gli avrà fatto un corso di formazione David Puente? In soldoni, nel mondo libero che Parabellum vuole difendere fino all’ultimo ucraino, i meme sono fuorilegge: caro Mirko, non vorrei scoraggiarti e tarparti troppo le ali, ma mentre giocavi ai soldatini, nel mio piccolissimo – in 25 anni da giornalista – ho affrontato una quantità spropositata di cause contro multinazionali gigantesche che mi chiedevano decine di milioni di risarcimento. Mai dire mai, ma non ne ho persa nemmeno mezza; forse faresti meglio a impiegare il tuo tempo, invece che a fare segnalazioni e a chiamare l’avvocato, a studiare per colmare qualche piccolissima incongruenza che, qua e là, sembra emergere dalla tua narrazione. Volendo ti possiamo anche girare qualche fonte autorevole in amicizia. E, con questo, terminiamo l’angolo del dissing e torniamo (purtroppo) a occuparci di cose serie.
E’ bello essere re diceva Mel Brooks ne La pazza storia del mondo; essere presidente di un impero in inesorabile declino, invece, un po’ meno: lo chiameranno pure Sleepy Joe, ma il povero Rimbambiden, in realtà, tempo per dormire mi sa che ultimamente ce n’ha pochino. Dopo oltre due anni di guerra per procura in Ucraina, non solo ha reso il suo nemico più forte e determinato che mai, ma ancora deve stare dietro a quei parolai degli europei che, a chiacchiere, si riarmano fino ai denti e rovesciano Putin, ma – nei fatti – per recuperare qualche munizione sono costretti a fare la colletta e fare il tour dei più malfamati bazaar di Istanbul e di Pretoria; risultato: come titolava ancora ieri BloombergGli attacchi russi all’Ucraina alimentano la paura che l’esercito sia vicino al punto di rottura”. Il fronte del Pacifico, poi, è un vero e proprio rompicapo; dopo 40 anni di finanziarizzazione, gli USA si sono accorti che, per contenere l’inarrestabile ascesa cinese, gli manca una deterrenza credibile: come fai a minacciare una potenza che ha una base industriale che è tre volte più grande ed efficiente della tua? L’unica possibilità è trasformare definitivamente gli alleati di tutta l’area – che, tra base industriale e posizione geografica, hanno tutto quello di cui hai disperatamente bisogno – nemmeno semplicemente in vassalli, ma proprio direttamente in una sorta di tua emanazione diretta; ed ecco, così, che parte il tour de force: martedì, infatti, è sbarcato a Washington il premier giapponese Fumio Kishida e, per quanto si tratti di un fedele servitore di Washington privo di qualsiasi personalità, è comunque stato un gran bell’impegno.

Fumio Kishida

Il Giappone è, in assoluto, il più importante degli alleati per la guerra contro la Cina visto che, al contrario degli USA, ha ancora un’imponente base manifatturiera indispensabile anche solo per pensare di poter contrastare la strapotenza cinese, soprattutto in termini di produzione navale; il Giappone, però, da decenni è anche probabilmente in assoluto l’alleato che gli USA hanno bistrattato di più, radendolo al suolo con l’atomica prima (giusto per capire chi comandava) e imponendogli, poi, oramai quasi 40 anni di suicidio economico che, in confronto, Gentiloni e la Von Der Leyen sono dei difensori degli interessi dei loro cittadini. E ultimamente, dopo aver ridotto lo yen a carta straccia, per fare un favore alle oligarchie statunitensi hanno anche impedito senza motivo alla Nippon Steel di concludere l’acquisizione di US Steel, senza manco chiedere scusa.
Ora, per i leader del partito liberale poco male, che tanto sono vassalli devoti che mai si azzarderebbero a chiedere qualcosa in cambio; per i giapponesi comuni, però, un po’ meno, che – in fondo in fondo – un po’ nazionalisti, comunque, rimangono. Per fare finta di avere una qualche forma di rispetto per l’interlocutore zerbino, allora gli USA si son dovuti sforzare di apparecchiare un ricevimento in grandissimo stile con tutti gli onori di casa: hanno pure chiamato a suonare Paul Simon e prima gli hanno anche imposto di fare un corso di giapponese.
Ma il bilaterale Giappone – USA era solo l’antipasto: giovedì, infatti, li ha raggiunti pure Marcos junior,erede del sanguinario dittatore e attuale presidente delle Filippine, impegnato a mettere fine alla piccola parentesi sovranista e popolare dell’ex presidente Duterte per riportare lo strategico paese insulare al ruolo di portaerei del Pacifico dell’imperialismo USA; un summit storico, come è stato definito nel comunicato congiunto finale – il primo di sempre tra le tre potenze – e che rappresenta una tappa fondamentale per la costruzione di quell’accerchiamento totale della repubblica popolare cinese volto a danneggiarne l’economia abbastanza da permettere agli USA di recuperare il terreno perduto succhiando risorse a tutti i vari vassalli e, se non basta, a provocare la Cina fino a scatenare una nuova guerra per procura come quella ucraina, ma di magnitudo di ordini di grandezza superiore.
Nel frattempo, Rimbambiden è dovuto pure tornare a occuparsi di America Latina: a giugno, infatti, si vota in Messico e mettere fine all’esperienza sovranista di Lopez Obrador sarebbe fondamentale per assicurarsi di poter riportare vicino a casa un pezzo della base industriale – indispensabile anche solo a pensare di poter fare la guerra contro la Cina – senza che diventi un’arma a doppio taglio; peccato, però, che nonostante tutti i tentativi di destabilizzazione, la candidata di AMLO ancora oggi, nei sondaggi, sostanzialmente doppi gli avversari sostenuti da Washington. Gestire contemporaneamente questi tre fronti metterebbe ko chiunque e, invece, per Sleepy Joe è solo l’antipasto; nelle ultime due settimane aveva provato a scordarselo per un attimo: per evitare l’escalation nel Mar Rosso aveva addirittura mandato (anche in ginocchio) i suoi uomini da Ansar Allah per cercare una soluzione diplomatica dopo che 3 mesi di attacchi diretti in territorio yemenita non sembravano aver dato grossi risultati, quando, sabato scorso, a turbargli i sonni sono arrivati circa 300 tra droni e missili balistici che dall’Iran si sono riversati sul sempre più scomodo – ma ciononostante sempre indispensabile – alleato sionista. Nonostante le divergenze con regime fascista e razzista di Tel Aviv, Biden s’è ritrovato così a dover richiamare all’ordine tutte le sue casematte nella regione per minimizzare i danni e impedire a Tel Aviv di subire un’umiliazione troppo grande, perché lo svantaggio strutturale dell’impero è proprio questo: i suoi millemila nemici possono subire anche sconfitte importanti, eppure la necessità storica delle masse popolari di dotarsi di uno Stato sovrano capace di emanciparsi dal dominio dell’impero, rimane intatta; per il castello di carte che tiene in piedi il dominio globale dell’impero, invece, anche solo essere costretto a rinunciare al dominio in un’area del pianeta può essere esistenziale.
Ma prima di addentrarci nei dettagli di questo arzigogolato racconto sugli sforzi inenarrabili che il povero, anziano leader del mondo libero è costretto a sobbarcarsi per non passare alla storia come il presidente sotto il quale si mise fine a 5 secoli di feroce dominio coloniale dell’uomo bianco, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro gli algoritmi e, se non l’avete ancora fatto, di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare pure le notifiche, perché se c’è una cosa che abbiamo imparato lavorando a questo video è che l’impero non è mai stato così fragile e un’informazione corretta che non ricalchi a pappagallo la propaganda, oggi come non mai potrebbe davvero fare la differenza.
“Stati Uniti e Giappone annunciano l’aggiornamento più significativo di sempre della loro alleanza militare”: così, giovedì, il Financial Times riassumeva la conferenza stampa che, il giorno prima, Rimambiden e Fumio Kishida avevano tenuto a conclusione dello storico bilaterale di questi giorni: “Nel corso degli ultimi 3 anni” recita il comunicato congiunto, rilasciato poche ore prima “l’Alleanza USA – Giappone ha raggiunto livelli senza precedenti”; gli USA rinnovano, senza se e senza ma, l’”impegno degli Stati Uniti nella difesa del Giappone… utilizzando l’intera gamma delle sue capacità, comprese quelle nucleari” in cambio di un rafforzamento di quello che chiamano “coordinamento con gli USA” e che, come noi membri della NATO sappiamo bene, in soldoni significa totale subordinazione, a partire dalla messa a disposizione delle “isole sudoccidentali” delle forze armate USA “per rafforzare la deterrenza e la capacità di risposta”, nonostante l’opposizione decennale delle popolazioni locali e dei loro rappresentanti politici.

Denny Tamaki

A partire dal governatore di Okinawa, Denny Tamaki che, nel 2018, stravinse le elezioni locali proprio sulla base della sua contrarietà alla presenza dei 30 mila militari USA, odiatissimi da sempre dalla popolazione locale e, ancora di più, da quando nel 1995 rapirono una ragazzina di 12 anni, la violentarono e la massacrarono di botte (ovviamente sempre, come cita il documento, “per realizzare un mondo indo – pacifico libero e aperto”). “A sostegno di questa visione” – continua il comunicato – “riaffermiamo il nostro obiettivo di approfondire la cooperazione in materia di intelligence, sorveglianza e ricognizione e le capacità di condivisione delle informazioni dell’Alleanza”, che è un modo gentile per dire che il Giappone rinuncia alla sua sovranità e indipendenza militare per mettere le sue forze armate e il suo apparato di intelligence a disposizione del comando USA. L’impero e il suo vassallo confermano, come ampiamente atteso, i lavori di modifica alle navi giapponesi (che, fino ad oggi, avevano funzioni meramente difensive) affinché “acquisiscano la capacità operativa del sistema Tomahawk Land Attack Missile (TLAM)” che, come dice il nome stesso, con la difesa non c’entra una seganiente e serve ad attaccare; “oggi” inoltre, continua il comunicato, “annunciamo la nostra intenzione di cooperare per un’architettura di difesa aerea in rete tra Stati Uniti, Giappone e Australia”, ai quali poi ci va aggiunta anche la Gran Bretagna nell’ambito dell’AUKUS, al quale poi si affianca anche la Corea del Sud, rispetto alla quale “accogliamo con favore i progressi nella creazione di un esercitazione annuale multidominio”. Insomma: Corea, Giappone e Australia saranno sostanzialmente dependence delle forze armate USA nell’area che potrà, così, eventualmente ingaggiare una guerra frontale contro la Cina – ma sempre per procura – evitando così lo scontro diretto tra potenze nucleari (che, diciamo, che è una cosa che ultimamente ho già rivisto). Queste forze, per essere veramente efficaci nell’opera di contenimento e provocazione nei confronti della Cina, hanno bisogno però di aumentare anche la loro area di pertinenza: ed ecco che entrano in gioco le Filippine, la portaerei nel Pacifico dell’impero che è sbarcata a Washington il giorno dopo per il primo trilaterale di sempre insieme a Usa e Giappone, un trilaterale per cementare i “valori fondamentali condivisi di libertà, democrazie, rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto” che, però, non sono proprio sicurissimo siano i valori fondamentali dell’attuale presidente filippino.
Baby Marcos, infatti – noto anche come Bongbong – non solo è il figlio di uno dei più feroci e cleptomani dittatori dell’Asia contemporanea, ma ha anche avuto direttamente ruoli di primissimo piano all’interno del suo regime diventando uno dei massimi dirigenti del partito del padre che ha imposto la legge marziale nel paese per ben 14 anni; a partire dal 1980, infatti, Bongbong è stato prima vice e poi governatore del distretto di Llocos Norte e, ancora oggi, deve la sua vita agiata a un pezzo della sconfinata ricchezza che suo padre e la leggendaria Imelda Marcos hanno sottratto al loro paese per decenni. Durante il suo governatorato, secondo l’associazione delle vittime della legge marziale, nel suo distretto si sono registrati come minimo due casi di omicidio extragiudiziale; nel 1985 era stato nominato dal padre anche presidente della Philcomsat, il monopolista delle comunicazioni satellitari delle Filippine che Marcos presidente si era auto-venduto al Marcos imprenditore per una manciata di spiccioli (in pieno stile Russia ai tempi di Yeltsin e del crollo dell’Unione Sovietica, un modello che gli Stati Uniti hanno replicato un po’ ovunque) e quando, nel 1986, finalmente scoppiarono le gigantesche proteste di piazza della People Power Revolution, fu proprio Bongbong a convincere il padre ad assaltare e dare fuoco al quartier generale delle forze di polizia che, nel frattempo, era stato circondato da centinaia di migliaia di manifestanti. Dopo che l’amministrazione Reagan aiutò gli amici dittatori e il loro entourage a scappare dalle Filippine per riparare alle Hawaii, Bongbong cercò di ritirare da un conto segreto della famiglia 200 milioni di dollari, ma fu bloccato (ovviamente dalla Svizzera, non dagli USA, e da allora non ha ancora smesso di provare a rimpossessarsi del bottino); insomma: l’interlocutore perfetto per i piani criminali dell’impero contro il nemico cinese che oggi si trova ad essere accolto con tutti gli onori per un vertice che “rappresenta il culmine di decenni di partenariato”. Non poteva andare altrimenti: Bongbong, infatti, aveva iniziato il suo mandato sulla scia dell’ultrapopolare Duterte, candidandone addirittura la figlia alla vicepresidenza; l’idea era quella di continuare a intensificare le relazioni economiche con la Cina, dando seguito agli accordi firmati dal predecessore nell’ambito della Belt and Road Initiative. Credergli, però, è stato un atto di ingenuità piuttosto eclatante: dotati della più grande rete di spionaggio e di intelligence della storia dell’umanità, che gli USA tenessero in pungo l’erede di uno dei più grandi imperi criminali del pianeta, infatti, era piuttosto prevedibile; e ora la potente mano della mafia di Washington si palesa in tutta la sua capacità persuasiva. Per le Filippine vuol dire rinunciare agli investimenti cinesi, proprio ora che, dopo due anni abbondanti di stallo dovuto alla crisi pandemica, la Cina torna ad aprire i borsoni lungo tutta la Belt and Road.
Per placare l’opinione pubblica affamata di introiti e di crescita economica, ecco allora che tutta la prima parte del trilaterale USA – Giappone – Filippine è stata dedicata proprio all’assistenza allo sviluppo, ma è tutta fuffa allo stato puro: al posto delle infrastrutture della nuova via della seta, promettono il fantomatico corridoio economico di Luzon, che cerca di scimmiottare i piani cinesi a suon di “ferrovie, modernizzazione dei porti, energia pulita” e, addirittura, un pezzo della supply chain dell’industria dei semiconduttori. Gli investimenti rientrerebbero nell’ambito della fantomatica Partnership for Global Infrastructure and Investment, la risposta imperialista alla Belt and Road che l’amministrazione Biden continua ad annunciare a ogni summit multilaterale – da ormai 2 anni a questa parte – senza aver, ad oggi, mai sganciato sostanzialmente manco un dollaro. L’elenco degli impegni concreti, invece, è da morire da ridere: 8 milioni per un ponte radio e altri 9 milioni per un altro progetto di telecomunicazioni; probabilmente meno di quanto abbiano pagato Paul Simon per cantare e imparare a dire buonasera in giapponese. Ma la chicca principale è che gli USA promettono anche 4 miliardi di investimenti diretti esteri privati, però coi soldi giapponesi. Geniali! D’altronde, il Giappone sono 40 anni che è abituato a pagare i conti dell’impero USA: il 75% delle spese militari USA in Giappone, infatti, li paga direttamente Tokyo che, ogni anno, sborsa poco meno di 5 miliardi; quando il cervello vi corre a quanti soldi le élite politiche europee ci rubano di tasca per fare contenta Washington, pensate a quanto sono geishe i giapponesi e vi tornerà il sorriso. Vi basti ricordare come, per sostenere lo yen sotto attacco del dollaro, la banca centrale giapponese sia stata costretta a rialzare, per la prima volta dopo 30 anni, i tassi di interesse mentre è nel bel mezzo di una recessione: fino a che punto i giapponesi saranno ancora disposti a tollerare di essere svenduti senza niente in cambio?

Ferdinand Bongbong Marcos jr

Ai cugini coreani, ad esempio, qualcuno ha già presentato il conto; la Corea del Sud è l’altro tassello fondamentale dell’imperialismo USA nel Pacifico: è il terzo produttore navale al mondo e solo mettendo assieme lei e Giappone la rete dei vassalli USA ha qualche chance di potersi confrontare ad armi pari coi cinesi sul mare. Sostanzialmente priva di sovranità quanto – se non di più – di Europa e Giappone, alla Corea quindi è stata imposta l’adesione a una struttura trilaterale con USA e Giappone; ma se finché si tratta di continuare a fare semplicemente da zerbino agli USA la Corea, ad oggi, ancora non ha niente da obiettare, questo matrimonio forzato col Giappone i coreani proprio non riescono a buttarlo giù: in Corea, infatti, il Giappone coloniale fino alla fine della seconda guerra mondiale s’è reso protagonista di una serie di crimini di una ferocia e di una portata inauditi e per i quali non ha mai chiesto scusa. Anzi, la destra fascionazionalista giapponese, che è una componente essenziale del blocco sociale che ha permesso al partito liberale di guidare il governo sostanzialmente sempre, da quando è stato fondato nel 1955, fonda tutta la sua popolarità proprio sull’egemonia nel web giapponese delle sue campagne razziste nei confronti degli eredi dei coreani deportati nel Giappone dell’impero fascista durante la seconda guerra mondiale. Il padrone di Washington, inoltre, ha imposto a Seul di svuotare mezzi arsenali per inviare armi nel tritacarne ucraino e, ovviamente, anche di alzare i toni contro la Cina fino a darsi la zappa sui piedi partecipando al boicottaggio tecnologico della Cina e perdendo, così, una bella fetta del principale mercato di sbocco della sua industria elettronica, con conseguenze devastanti per la tenuta economica. Risultato: mercoledì in Corea del Sud s’è votato per l’elezione del parlamento e il partito del presidente ha raccattato una figura di merda epica. Negli ultimi 2 anni, infatti, il presidente ha dato la colpa di tutto al fatto che il suo partito non aveva la maggioranza in parlamento e la campagna elettorale è stata tutta all’insegna della richiesta di un mandato pieno per completare il lavoro iniziato; non ha funzionato proprio benissimo, diciamo: il suo partito ha perso un’altra decina di seggi, l’opposizione ne ha guadagnati quasi 30 e “ciò significa” sottolinea Responsible Statecraft “che il partito al governo potrebbe abbandonare il Presidente su alcune delle sue iniziative di politica estera più controverse”.
E la propaganda suprematista è in allarme anche sul fronte tedesco “perché Scholz si inchina al dragone cinese” titola Politico, la testata del gruppo editoriale tedesco Springer di proprietà del fondo speculativo USA KKR, quello che si è comprato la rete di TIM e che ha tra i suoi principali dirigenti l’ex capo della CIA David Petraeus. L’edizione europea di Politico è stata inventata ad hoc per minacciare qualsiasi politico europeo si azzardi anche solo minimamente a discostarsi dai dictat del deep state neocon americano e venerdì scorso denunciava scandalizzata come “ignorando le pressioni di Washington, il cancelliere cerca l’appoggio di Pechino”: “Il cancelliere 65enne, considerato privo di senso dell’umorismo anche per gli standard tedeschi” scrive la testata “ha festeggiato il suo debutto suTikTok promettendo di non ballare”; “Arrivato giusto pochi giorni prima della sua visita in Cina, la patria del controverso social newtork” continua quello che appare, ogni riga di più, come un attacco mediatico in pieno stile coloniale “Scholz sembra alla disperata ricerca di convincere Pechino che può ancora essere considerato un buon amico”. Il motivo è semplice, denuncia Politico: “Scholz ha bisogno della Cina”; “Con le elezioni a poco più di un anno di distanza” continua l’articolo “il leader del motore economico europeo sta esaurendo il tempo per evocare un miracolo e invertire la disastrosa posizione del suo governo nei confronti della popolazione tedesca”. I passaggi successivi dell’articolo li ho dovuti rileggere attentamente svariate volte perché non riuscivo a capire se erano seri: sarà il mio inglese da medie inferiori ho pensato, ma temo di no; ma giudicate voi. “Ci si potrebbe aspettare che la Germania, tra tutti i paesi” scrivono “sia sensibile alla difficile situazione di una minoranza etnica costretta a vivere dietro il filo spinato sotto lo sguardo minaccioso delle guardie armate nelle torri di guardia. Beh, ripensateci”, che uno dice ma perché parlano delle vergognose posizioni tedesche su Gaza in un articolo sulla Cina? La Germania, infatti, ha così platealmente sostenuto sin dall’inizio il genocidio del regime sionista e lo sterminio dei bambini palestinesi da vietare ogni forma di solidarietà con Gaza a suon di randellate e arresti e trovarsi, alla fine, sul banco degli imputati alla Corte internazionale di giustizia e, negli ultimi giorni, ha platealmente superato ogni limite: prima ha impedito l’ingresso nel paese a Ghassan Abu Sittah, chirurgo palestinese naturalizzato britannico che avrebbe dovuto partecipare a una conferenza sulla Palestina a Berlino che, dopo il suo respingimento, è stata fatta chiudere con la forza dall’intervento di decine di membri delle forze dell’ordine in tenuta antisommossa che hanno malamente evacuato le oltre 250 persone accorse fino a quel momento. E poi ha addirittura vietato il visto all’economista ed ex ministro greco Yannis Varoufakis proprio perché non ha sostenuto con sufficiente entusiasmo lo sterminio dei bambini palestinesi ed ha addirittura – pensate un po’- sollevato delle critiche.
Effettivamente, per accusare la Germania di essere complice entusiasta di un genocidio di spunti ce ne sono abbastanza, peccato però che la nostra cara testata di riferimento delle nuove SS, gli specializzati in stronzate, invece che del sostegno concreto dei genocidi reali che avvengono sotto gli occhi di tutti, preferisce concentrarsi nella denuncia del sostegno immaginario a un genocidio altrettanto immaginario, inventato tra un’invasione aliena e l’altra dai seguaci complottisti del Falun gong: “Sotto la presidenza Xi Jinping” specifica infatti l’articolo “la Cina ha preso una svolta autoritaria, reprimendo il movimento democratico di Hong Kong e costringendo la minoranza uigura in campi di concentramento” e Scholz c’ha pure il coraggio di andarci a parlare…
Io, sinceramente, pensavo che questi livelli fossero prerogativa de il Foglio, di Giulia Pompili e Radio genocidio Radicale; qui mancano solo giusto gli organi espiantati dai pazienti vivi a mani nude da Xi ed è solo l’inizio perché la Cina, oltre a espiantare gli organi dai prigionieri vivi, è ovviamente anche la patria di tutte le truffe e le pratiche commerciali più scorrette: prima ha attirato gli onesti imprenditori tedeschi promettendo sogni di gloria e poi li ha fottuti con politiche protezionistiche mettendoli fuori mercato con generosi sussidi, che oggi le permettono di esportare “veicoli elettrici cinesi a basso costo in Europa” che mettono in ginocchio gli onesti produttori europei (che è un po’ una sorta di record mondiale di fake news e di ribaltamenti della realtà mai visti in un singolo periodo di un giornale). L’economia tedesca, infatti, è sì vittima di una nuova spirale protezionistica e di una nuova guerra commerciale, solo che a dichiarargliela – com’è arcinoto – sono stati i padroni di Washington che, in quanto a politiche protezionistiche e generosi sussidi, hanno non solo doppiato, ma letteralmente triplato la repubblica popolare, ma pretendere che a ricordarcelo sia un pennivendolo a libro paga dell’ex direttore della CIA effettivamente sarebbe un po’ troppo. Il problema, semmai, è che – fino ad oggi – questo plateale ribaltamento della realtà è stato anche la linea politica delle élite tedesche: come fosse possibile, ce lo siamo chiesti per mesi, senza trovare una risposta chiara; sicuramente, però, un aspetto che ha pesato sempre parecchio è che la Germania, dal punto di vista della difesa e dell’intelligence, non può in nessun modo essere considerata un paese sovrano, ma (nella migliore delle ipotesi) un protettorato. Ma come tutti i servi che si rispettino, l’obbedienza totale e incondizionata al padrone è davvero garantita solo fino a quando a prevalere è la paura, una paura che, fino ad oggi, si fondava sul mito della supremazia militare totale degli USA (che, in parte, è anche un mito non privo di fondamento): grazie alla dittatura del dollaro, infatti, gli USA si sono fatti finanziare dai vassalli quello che è in assoluto il più grande apparato militare della storia dell’umanità che però – comincia a sospettare qualcuno – forse non basta più.
E per stamattina ci fermiamo qua; per la seconda, succulenta parte di questo video vi do appuntamento a fra poche ore e se, nel frattempo, vi piace il lavoro che facciamo e – come noi – siete convinti che in questo mondo nuovo che avanza serva come il pane una voce alternativa alla propaganda dei vecchi media, aiutateci a crescere e a rimanere indipendenti: aderite alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Bongbong Marcos

Gli USA convincono Giappone e Filippine a immolarsi per la sua Grande Guerra contro la Cina

“Stati Uniti e Giappone pianificano il più grande aggiornamento del patto di sicurezza da oltre 60 anni”; manco il tempo di fare un minibrindisino per la risoluzione che Cina e Russia, finalmente, sono riusciti a imporre agli amici del genocidio della Casa Bianca al Consiglio di sicurezza dell’ONU che ecco un altro fronte che si avvia inesorabilmente verso l’escalation, il fronte per eccellenza: “Biden e Kishida” annuncia il Financial Times “annunceranno una mossa per contrastare la Cina alla riunione della Casa Bianca del mese prossimo”. Quello che è in ballo è, appunto, il più importante aggiornamento del patto di sicurezza tra i padroni di Washington e il loro principale vassallo del Pacifico da quando, nel 1960, USA e Giappone firmarono il trattato di mutua difesa: un trattato edulcorato, almeno rispetto alle ambizioni dell’allora premier Nobusuke Kishi, il sanguinario amministratore della colonia della Manciuria ai tempi dell’impero, che venne salvato dagli USA in cambio della garanzia di trasformare il Giappone in un protettorato a stelle e strisce. La mobilitazione popolare lo costrinse alle dimissioni e il trattato venne rivisto al ribasso; e, così, il Giappone si rassegnò ad avere forze armate dedicate esclusivamente alla difesa e gli USA rinunciarono all’idea di avere il pieno controllo della catena di comando dell’alleato del Pacifico. Dopo 60 anni abbondanti di lavoro certosino, nel dicembre del 2022, intanto, è saltato in buona parte il primo tabù e il Giappone ha approvato una riforma radicale delle sue forze armate in chiave offensiva, che le dota – finalmente – di armi di attacco all’altezza della sfida cinese e che prevede di portare la spesa militare dall’1 al 2% di PIL.

Shinzo Abe

E’ l’eredita lasciata – prima di venire barbaramente assassinato – dalla buonanima di Shinzo Abe, nipote del gerarca Nobusuke Kishi e leader del Nippon Kaigi, la potente organizzazione clericofascista fondata dal nonno e che da decenni influenza profondamente la politica giapponese. Nonostante il riarmo, però – come sottolineava a suo tempo l’ex direttore per l’Asia orientale nel Consiglio per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden su Foreign Affair – il problema della catena di comando rimaneva: “Il Giappone” sottolineava, “per massimizzare l’efficacia di questa sua nuova postura, deve rafforzare la sua alleanza con gli USA”; ci è voluto un anno, ma ora, finalmente, ci siamo arrivati. E non è tutto, perché il Giappone sarà, a breve, più potente e aggressivo che mai e totalmente sotto controllo USA, ma è lontano.
Ed ecco allora la soluzione: facciamoci prestare le Filippine; dopo la parentesi multipolare e sovranista dell’amministrazione Duterte, con la presidenza Marcos le Filippine sono tornate alla loro vecchia condizione di portaerei dell’imperialismo USA nel cuore del Pacifico e hanno rimesso in moto l’EDCA, l’Enhanced Defense Cooperation Agreement – l’accordo di cooperazione rafforzata in materia di difesa che, sostanzialmente, permette alla marina militare a stelle e strisce di fare un po’ cosa cazzo gli pare. Siglato nel 2014 durante la presidenza filocolonialista di Aquino, prevedeva inizialmente 5 location dove far scorrazzare armi, navi e uomini USA a volontà e nessuna nella parte settentrionale dell’arcipelago, quella più utile per un’eventuale guerra con epicentro Taiwan; ora, fatto fuori Duterte, il piano torna in grande stile con 4 nuove location, tutte a un tiro di schioppo da Taipei e con anche un extra bonus: un nuovo porto nelle minuscole isole Batanes, a meno di 200 chilometri dalle coste di Taiwan. E visto che la flotta giapponese sarà, a breve, sostanzialmente eterodiretta da Washington, ecco che la relazione si allarga e diventa una bella threesome: a partire da novembre, infatti, Filippine e Giappone hanno avviato i negoziati per un accordo di accesso reciproco per le rispettive truppe: l’11 aprile prossimo i rispettivi leader sono entrambi attesi alla Casa Bianca per il primo trilaterale USA – Giappone – Filippine.
Nel frattempo, le provocazioni USA su Taiwan – con la vendita del sistema di telecomunicazioni militari Link 16 e la fuga di notizie sugli addestratori americani nell’isola di Kinmen, a 10 chilometri dalla repubblica popolare di Cina – continuano ad aumentare; ora rimane solo da convincere definitivamente i vassalli europei ad accollarsi la guerra di logoramento contro la Russia in Ucraina e dintorni e assicurarsi che il massacro dei bambini a Gaza non si trasformi in una dispendiosa guerra regionale, obiettivo talmente importante da obbligare gli USA, per la prima volta, addirittura a non mettere il veto in Consiglio di sicurezza, dopodiché, finalmente, gli USA si potranno concentrare a tempo pieno nella vera partita del secolo: la grande guerra del Pacifico contro il primo paese che ha osato superare la potenza economica del padrone del mondo. Prima di procedere con i dettagli di questo racconto inquietante, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola, ma vitale, battaglia contro gli algoritmi e anche di aiutarci a crescere iscrivendovi a tutti i nostri canali, compreso quello Youtube in inglese, e attivare le notifiche: non riusciremo a bloccare l’armageddon, ma almeno proveremo a dare un contributo affinché, mentre ci preparano la tomba, non ci prendano anche impunemente per il culo.
“La Cina ha continuato e intensificato i suoi tentativi di modificare unilateralmente lo status quo con la Forza” e nel contesto “più grave e complesso” scaturito da questa aggressività “dobbiamo rafforzare la collaborazione con le nazioni che la pensano allo stesso modo”: la bozza del Diplomatic Bluebook 2024, il documento che descrive le linee guida della politica internazionale del Giappone per l’anno venturo e che è stata anticipata alla stampa nei giorni scorsi, è una vera e propria bomba incendiaria, soprattutto perché anticipa lo spirito col quale il premier Kishida ha deciso di affrontare lo storico trilaterale dell’11 aprile organizzato da Rimbambiden e che, oltre a USA e Giappone, vedrà la presenza delle Filippine. Ma perché un’alleanza solida tra Filippine e Giappone è così fondamentale per la strategia USA? Ma come perché! Sembrano nate l’una per l’altra!
Per affrontare la Grande Guerra del Pacifico contro il Nemico Esistenziale del loro modello imperiale unipolare, gli USA – infatti – prima di tutto devono risolvere un problemino piuttosto impattante: in una lunga guerra convenzionale contro una potenza industriale delle dimensioni della Cina, alla lunga – dopo 40 anni di finanziarizzazione e di deindustrializzazione, infatti – sono inevitabilmente destinati a soccombere; gli USA, infatti, hanno smesso di produrre tante cose, ma – in particolare – hanno smesso di produrre navi. Cioè, continuano – ovviamente – a produrre navi da guerra, ma a un ritmo e a costi che vanno bene solo per tempi di pace; in caso di guerra, per affrontare le quantità richieste c’è solo un modo: convertire la produzione civile a militare. Cioè, non è che ti puoi inventare i porti, le banchine, la manovalanza, le linee produttive e tutta la filiera da zero; ci devi avere la produzione civile già sviluppata e convertirla alla produzione militare e, molto banalmente, quella produzione gli USA non ce l’hanno – non nel senso che non ne hanno abbastanza: proprio che non ce l’hanno del tutto. In tutto, in un anno, producono imbarcazioni per 73 mila tonnellate; la Cina per 26 milioni e, come abbiamo ricordato diverse volte, alla fine quello è l’unico parametro che conta davvero. Hai voglia te di convincerti delle vaccate dei suprematisti sui primati tecnologici e segate varie: una grande guerra del mare la vince chi produce più navi. Punto. Il resto e fuffa. E la Cina, da sola, produce metà delle navi prodotte nel mondo.
Fortunatamente per gli USA, però, l’altra metà è concentrata in due paesi amici: Giappone e Corea del sud, insieme, coprono sostanzialmente l’altra metà della produzione mondiale; al resto rimangono gli spiccioli. Quindi, il primo scoglio da superare è fare in modo che Corea del sud e Giappone siano senza se e senza ma nella partita. Facile, direte. Fino a un certo punto, perché una cosa è essere amici e volesse bene, un’altra è essere così amici che – non dico per vincere, ma anche solo per poterci sperare – dipendo interamente da te: siccome in ballo non c’è la coppa del dopolavoro ferroviario per un torneo di calcetto babbi contro figli, se io dipendo da te per vincere devo essere sicuro al 100% che fai tutto quello che dico io quando lo dico io e, tradotto in termini militari, significa che la catena di comando, alla fine, fa riferimento a me e soltanto a me – che, per la Corea del sud, in buona misura è già così.
Per il Giappone, paradossalmente, un po’ meno: nonostante il trattato tra i due paesi preveda il mutuo soccorso, le forze armate giapponesi, tutto sommato, sono sempre rimaste nella loro bolla, con una catena di comando a se; il primo punto, quindi, è superare questo ostacolo e rivedere il patto in modo che le forze armate giapponesi diventino, a tutti gli effetti, un braccio interamente gestito dalla testa a stelle e strisce e questo è quello che, appunto, si vuole ottenere con il più grande aggiornamento del patto di sicurezza da oltre 60 anni a cui accennavamo all’inizio. Per il Giappone si tratta di una scelta epocale, che lo destina a un futuro e di incertezze; e il bello è che a prendere questa scelta sarà un primo ministro che ha una percentuale di consensi di poco superiore al 20% (le grandi magie del mondo libero e democratico…). Comunque, dal momento che l’altro 80% non s’è saputo organizzare adeguatamente, per quanto schifato anche dai parenti, Kishida sembra poter portare a casa questo risultato senza troppi problemi.

Fumio Kishida

Facciamo quindi conto che il problema della produzione delle navi e della catena di comando sia risolto; rimane, però, il problema della geografia perché con gli arcipelaghi meridionali – fino ad arrivare a Taiwan inclusa – un pezzo di accerchiamento alla Cina è fatto, ma rimane tutta la parte più a sud: ed ecco qua che entrano in ballo le Filippine. Che le Filippine rappresentino una pedina fondamentale per il dominio del Pacifico occidentale, gli USA lo sanno da sempre e, infatti, da sempre hanno fatto in modo di tenerle sotto controllo e nel 2014, durante la presidenza Aquino, l’avevano scritto nero su bianco: in 5 località sparse per le Filippine gli USA possono manovrare di tutto e di più, a loro piacimento. Poi però, appunto, era arrivato Duterte, che questa storia di essere una colonia USA non è che l’apprezzasse tanto, ma quell’epoca sembra tristemente tramontata; il nuovo presidente, all’inizio, aveva promesso di continuare sulla linea di avvicinamento a Cina, Russia e Sud Globale del predecessore – anche perché, altrimenti, non avrebbe mai vinto – ma dal giorno dopo il suo insediamento ha cambiato linea. Le malelingue dicono sia ricattabile: durante il regime del padre, infatti, si mormora che la sua famiglia abbia imboscato, col sostegno USA, in vari paradisi fiscali sparsi per il mondo una decina di miliardi; “Alcuni osservatori” riporta Asia Times “sospettano che Washington possa aver allentato il controllo sull’enorme ricchezza illecita dei Marcos, in cambio di un maggiore accesso alle basi militari e una più profonda cooperazione in materia di sicurezza”. Ed ecco così che, come per magia, dalle promesse elettorali si passa alla consegna chiavi in mano del paese agli americani per trasformarlo nella testa di ponte per la grande guerra contro la Cina, cosa che sembra Duterte non abbia gradito particolarmente: “Abbiamo un presidente tossicodipendente e figlio di puttana” avrebbe dichiarato col suo solito rispetto del politically correct al limite della pedanteria.
In sostanza, le Filippine con Marcos hanno concesso agli USA 4 nuove basi; siccome la costituzione, sostengono molti, in realtà lo vieterebbe, hanno trovato questo escamotage: uomini e attrezzature non potranno essere stabili, ma dovranno ruotare (come se, di solito, non ruotassero e come se ci fosse qualcuno a controllare): una controllatina l’hanno data gli analisti dell’ATMI, l’Asia Maritime Transparency Initiative, e hanno trovato un sacco di sorpresine. Tutte le basi presenterebbero un’attività frenetica per lo sviluppo delle infrastrutture: “A quanto pare” scrive Asia Times “le Filippine stanno rafforzando in modo proattivo la loro deterrenza contro l’espansione della Cina nel Mar Cinese Meridionale a ovest, mentre si preparano anche a potenziali imprevisti nella vicina Taiwan a nord” e dall’11 aprile, appunto, tutto questo potrebbe diventare pienamente accessibile anche agli amici giapponesi; “La cooperazione trilaterale” scrive diplomaticamente il Global Times “potrebbe diventare una routine fissa e normalizzata in futuro, prevedendo esercitazioni militari, esercitazioni di sbarco sulle isole, pattugliamenti marittimi congiunti con altri paesi, e sfruttando la posizione delle Filippine nell’ASEAN per cercare di influenzare gli altri paesi dell’organizzazione multilaterale regionale”.
Al grande appuntamento per la threesome dell’anno, comunque, le Filippine hanno tutta la volontà di presentarsi il più agghindate possibile: “Oltre a fare affidamento sugli aiuti militari statunitensi” ricorda infatti Asia Times “le Filippine mirano a procurarsi moderni aerei da combattimento, sottomarini e sistemi missilistici strategici nell’ambito di un programma di modernizzazione militare da” – udite udite – “36 miliardi di dollari”; 36 miliardi di dollari per un paese che ha un PIL che non arriva a 450. Per capire l’entità: negli ultimi 2 anni abbiamo spalancato gli occhi di fronte al programma tedesco di riarmo da 100 miliardi di euro; ecco, in proporzione, le Filippine è come se ne avessero annunciato uno da poco meno di 400 miliardi. Oltre ai caccia F16 dagli USA e Saab Gripen dalla Svezia, Manila sta trattando per comprarsi pure i sottomarini; e non uno, ma tre, perché “Tre” hanno affermato pubblicamente “è un numero magico: uno in funzione, uno in addestramento e uno in riparazione/manutenzione” e, il tutto, rivolto minacciosamente contro la Cina. Le Filippine, infatti, hanno da pochissimo approvato una nuova strategia di difesa nazionale denominata CADCComprehensive Archipelagic Defense Concept – che sta per concetto globale di difesa arcipelagica e che, in soldoni appunto, vuol dire concentrare il grosso delle risorse verso la Cina e verso Taiwan; pronti per raggiungere le isole più settentrionali ci dovrebbero essere anche i nuovi missili da crociera supersonici BrahMos acquistati dall’India e che hanno una gittata di circa 900 chilometri e, sempre a partire dalle isole settentrionali, il prossimo mese USA e Filippine dovrebbero dare il via a un’esercitazione denominata Balikatan che dovrebbe coinvolgere circa 12 mila soldati americani e vedere in veste di osservatori la presenza, appunto, del Giappone e anche dell’Australia.
Insomma: si stanno scaldando i motori in attesa di essere un po’ meno affaccendati in altre faccende; intendiamoci, non che manchino gli ostacoli: prima che l’Europa – ammesso e non concesso riesca mai a farcela – possa, in qualche modo, essere autosufficiente nell’assistere l’Ucraina oggi e, magari, gli altri paesi dell’est europeo domani nella lunga guerra di logoramento della Russia, ancora ce ne manca e svincolarsi, per gli USA – se mai sarà possibile – sicuramente non sarà immediato. Basti considerare che mentre si cercavano di risolvere tutti i colli di bottiglia del Pacifico, a un certo punto gli USA si son accorti di essere messi così male da chiedere nuove armi per rimpinzare gli arsenali allo stesso Giappone, in particolare le batterie di Patriot; il Giappone ha obbedito immediatamente e siccome, in realtà, non poteva inviare i suoi missili Patriot negli USA, ha addirittura cambiato la legge in fretta e furia per far contento il padrone di Washington – che quindi, da un lato, significa che sulla fedeltà ci possono essere pochi dubbi, dall’altro però, appunto, significa che fino a che a provvedere ad armare l’Ucraina non ci penserà qualcun altro, anche col supporto di Tokyo la grande alleanza del mondo libero di tenere testa, sul piano industriale, al colosso produttivo cinese nel Pacifico potrebbe non essere in grado.
Qualche altro problemino potrebbe arrivare dai fronti interni in Giappone e anche in Corea del sud, due paesi che, ovviamente, hanno nella Cina – di gran lunga – il primo partner commerciale (la Corea del sud addirittura, caso più unico che raro, vantando addirittura un piccolo surplus commerciale): un giro di affari enorme messo fortemente a rischio dalla guerra commerciale scatenata dalla Casa Bianca e sul quale la Cina tenta di fare leva. A partire già dal lontano 1999, i 3 paesi tengono regolarmente degli incontri trilaterali – o meglio, tenevano: nel 2019, infatti, questa abitudine è stata interrotta; ma il bello è che è stata interrotta non a causa della Cina, ma per tensioni tra Giappone e Corea del sud. Inutile, comunque, farsi troppe illusioni: i rapporti tra i due paesi sono spesso tesi e i due popoli non è che si stiano proprio simpaticissimi, diciamo; ciononostante, gli USA hanno ancora una leva sufficiente a superare le divisioni e quando, nell’agosto scorso, li ha richiamati entrambi all’ordine con un incontro trilaterale sempre alla Casa Bianca, con la coda tra le gambe i due hanno fatto buon viso a cattivo gioco e hanno obbedito senza troppi distinguo. Più che ai mal di pancia di paesi che, comunque, si riconoscono pienamente nel capitalismo globalizzato e finanziarizzato garantito da Washington, conviene allora forse guardare altrove per trovare le vere debolezze di questo piano USA, a partire da Ansar Allah, che continua a tenere alta la preoccupazione per un’estensione del conflitto in Medio Oriente che rovinerebbe alla base tutti i piani di Washington – che è uno dei motivi che, appunto, lunedì ha portato gli USA a compiere probabilmente la più grande rottura nei confronti del fedele alleato sionista di sempre: per la prima volta dall’inizio della fase terminale del piano di pulizia etnica di Israele nei confronti dei gazawi, gli USA non hanno posto il veto al Consiglio di sicurezza a una risoluzione presentata dall’Algeria e sostenuta da tutti gli altri 13 membri (Regno Unito incluso) che impone un cessate il fuoco immediato e che gli USA si sono limitati a non votare astenendosi; ne è seguito il più importante scontro tra leadership USA e israeliana di cui ho memoria, con Israele che ha cancellato la visita programmata a Washington e Kirby che si è dichiarato molto deluso.
Gli USA, da dettare la linea senza troppi intoppi all’intera comunità internazionale, sono ormai sempre di più costretti a scegliere quale guerra ritengono essenziale per i loro interessi; e non è detto che gli basti: è il vero, grande, epocale segnale non solo che il Mondo Nuovo avanza, ma che, al netto di tutto, è già avanzato e che non saranno i vecchi media a darci gli strumenti per capirci qualcosa e attrezzarci per prendere le contromisure. Per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media tutto nuovo e che sia indipendente, ma di parte: quella del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

Tre prove che gli USA stanno preparando la guerra più devastante di tutti i tempi nel Pacifico

Dopo la settimana di fuoco dell’Europa, che si prepara alla grande guerra, e delle più clamorose stragi israeliane, state accusando un repentino calo di adrenalina per l’apparente stasi sul fronte ucraino e l’allungarsi dei tempi della pulizia etnica a Gaza? Tranquilli: Sleepy Joe ha in serbo per voi una bellissima sorpresa che vi darà la giusta carica per non essere sleepy per niente, un uno/due e pure tre che vi restituirà quell’irresistibile brividino che si prova quando si ha la netta sensazione che, nel giro di qualche mese, il mondo come lo avete conosciuto fino ad oggi potrebbe tramontare per sempre; vi siete mai chiesti, infatti, perché – di punto in bianco – Rimbambiden ha deciso di giocare al poliziotto buono di fronte al più grande massacro di civili del XXI secolo e ha trasformato il fraterno amico Bibi lo sterminatore in una specie di supervillain della Marvel intento a distruggere il pianeta nel disappunto generale? E del perché, ultimamente, stia facendo le capriole per convincere l’Europa a riarmarsi come si deve e occuparsi da sola del plurimorto dittatore del Cremlino? Beh, la risposta, tutto sommato, è piuttosto semplice; Rimambiden, ormai, c’ha una certa e di queste scaramucce di quartiere si sarebbe anche abbondantemente rotto i coglioni e, prima di passare a peggior vita, ha deciso di dedicare gli ultimi anni anni a disposizione alla principale delle sue passioni: la più grande e devastante guerra della storia dell’umanità contro l’unico paese che si è permesso di mettere fine al primato economico mondiale USA dopo oltre un secolo di dominio incontrastato e che c’ha pure la faccia tosta di definirsi socialista.

Kurt Campbell

Nell’arco di poco più di un mese, 4 notizie che sono passate completamente inosservate ai media mainstream del mondo libero hanno certificato platealmente la sete di sangue che aleggia nello studio ovale: la prima risale al 6 febbraio scorso quando, con 92 voti contro 5, il Senato ha dato il via libera alla nomina a vicesegretario di stato di Kurt Campbell, aka lo Zar dell’Asia, una svolta significativa; Campbell, infatti, fu l’architetto del famoso Pivot to Asia di obamiana memoria, quando si cominciarono a porre le basi nella regione per una futura guerra a tutto campo contro la Cina, un filo che lo Zar dell’Asia ha ricominciato a tessere con solerzia con la nomina di Rimbambiden, che lo ha voluto sin da subito nel suo team come Coordinatore del Consiglio di Sicurezza nazionale per l’Indo – Pacifico. “Il periodo che definivamo dell’impegno strategico” e che prevedeva la cooperazione economica e la cooperazione diplomatica “è definitivamente giunto al termine” aveva affermato al momento del suo insediamento; “Ora il paradigma dominante nella relazioni USA – Cina sarà la competizione”. Durante i primi 3 anni del suo mandato, il rapporto tra le due potenze – tra sanzioni, ambiguità sulla politica di Una Sola Cina e rafforzamento della presenza militare USA nel Pacifico – si è deteriorato fino a raggiungere il più basso livello dal viaggio di Nixon del ‘72, ma poteva anche andare peggio: Campbell, infatti, fino ad oggi si era visto – almeno parzialmente – ostacolare nella sua foga guerrafondaia dal suo predecessore, Wendy Sherman; non che fosse Rosa Luxembourg, ma la Sherman, che veniva dall’attivismo e dai servizi sociali invece che dai think tank del partito unico della guerra e degli affari, nell’arco della sua carriera si è più volte distinta per la moderazione e la volontà di perseguire il dialogo. Negli anni ‘90 aveva guidato le trattative segrete con Kim Jong Il per evitare la proliferazione nucleare, attirandosi critiche feroci da invasati del calibro di James Baker e John baffetto Bolton; tra il 2013 e il 2015 aveva poi condotto i negoziati che avevano portato alla firme del patto sul nucleare iraniano dal quale, poi, il compagno pacifista Trump si era ritirato unilateralmente: nel 2021 era di nuovo diventata bersaglio delle ire dei bombaroli umanitari per aver cercato di indebolire la ridicola legge USA sul trattamento della minoranza uigura in Cina e, nel maggio del 2023, si era prima opposta all’inasprimento delle misure anticoncorrenziali contro Huawei e poi aveva cercato di convincere Blinken a non cancellare la sua visita in Cina in seguito alla buffonata dei palloni spia cinesi. Insomma: quando negli ultimi anni si è parlato di un pezzo di amministrazione Biden più incline al dialogo con la Cina, in buona misura si faceva proprio riferimento a lei e che, da quando Campbell l’ha sostituita, l’aria sia cambiata è ogni giorno più evidente.
Dopo appena 10 giorni di incarico, il governo USA ha annunciato l’autorizzazione definitiva alla vendita a Taiwan del sistema Link-16, la rete sicura per lo scambio di dati tattici militari utilizzata dalla NATO, che permette a Taiwan di essere integrata nel sistema unificato di distribuzione dell’informazione che fa capo agli USA. In soldoni, tagliandola con l’accetta, le forze armate di Taiwan diventano sostanzialmente un braccio armato al servizio del comando USA e, dopo un altro paio di settimane, ecco la bomba definitiva: il ministro della difesa di Taipei, Chiu Kuo-Cheng, conferma ufficialmente le voci sulla presenza di uomini delle forze speciali USA a Taiwan incaricate di addestrare le truppe dell’Isola; e non in un posto a caso, ma sull’Isola di Kinmen, che si trova qui, a meno di 10 chilometri dalla Repubblica Popolare. Una provocazione talmente scomposta e plateale che, per non far esplodere il bordello in casa, i cinesi hanno cercato in ogni modo di non far circolare la notizia anche perché, nel frattempo, i cinesi, sull’anomalia di questa isoletta avamposto dell’imperialismo occidentale a meno di un tiro di schioppo, erano già stati abbondantemente triggerati poche settimane prima, quando la guardia costiera taiwanese aveva disarcionato un’imbarcazione di pescatori cinesi accusati di aver sconfinato in acque territoriali uccidendone un paio, e senza manco chiedere scusa. Insomma: come scrive Andrew Korybko sul suo blog, USA e Taiwan stanno “testando la pazienza”; quanto mai a lungo potrà durare?
Prima di addentrarci nei particolari di queste evoluzioni inquietanti, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra guerra quotidiana contro gli algoritmi e, già che ci siete, se non lo avete ancora fatto ricordatevi di attivare le notifiche e di iscrivervi a tutti i nostri canali, compreso quello Youtube in lingua inglese, per permette anche a chi non vive esattamente dentro alla nostra bolla di conoscere la sorpresina che Sleepy Joe ci sta preparando e che i mezzi di stordimento di massa si guardano bene da raccontarvi.

KJ Noh

“In molte tradizioni” scrive lo storico giornalista e attivista coreano KJ Noh su Geopolitical Economy Report, “quando si scolpisce un Buddah, gli occhi sono sempre gli ultimi ad essere dipinti. Ed è solo dopo che gli occhi sono stati completati, che la scultura è davvero viva e nel pieno della sua potenza”: ora gli Stati Uniti hanno dato ufficialmente il via libera alla vendita alla provincia di Taiwan del sistema di comunicazione militare Link 16 e “L’acquisizione del Link 16” commenta KJ Noh “equivale a dipingere gli occhi del Buddah: un ultimo tocco che dà definitivamente vita ai sistemi militari e alle piattaforme d’arma di Taiwan”. Ma a cosa serve, esattamente, questo benedetto Link16? Lo spiega in modo chiarissimo questo breve servizio di Taiwan Plus News che ricorda come “Taiwan ha comprato circa 200 F16 dagli USA. Ma per usare questa flotta in modo efficiente, serve un sistema di telecomunicazioni integrato, in grado di collegarli ad altri sistemi d’arma e ai sistemi di comando e controllo. Ed è proprio a questo che serve Link 16”: in soldoni, è una sorta di “internet delle cose, o di cloud, per l’hardware militare: una rete di collegamento dati militare per le comunicazioni e l’interoperabilità delle armi” ed è un passo che “per scoraggiare un’invasione cinese, rende Taiwan sempre più dipendente da armi da assistenza militare americana”; “Più importante di qualsiasi singola piattaforma d’arma” sottolinea KJ Noh “questo sistema consente all’esercito di Taiwan di integrare e coordinare tutte le sue piattaforme di guerra con le forze armate statunitensi, NATO, giapponesi, coreane e australiane in una guerra armata combinata”. Ad esempio, continua Noh, “permette ai bombardieri strategici nucleari Stealth di coordinarsi con piattaforme di guerra elettronica e sorveglianza, nonché condurre una guerra armata congiunta con gruppi da battaglia di portaerei statunitensi, francesi o britannici, o con cacciatorpedinieri giapponesi o sudcoreani, nonché con sistemi antimissile come i Patriot”. Insomma: è una sorta di sistema nervoso in grado di comunicare a tutti gli arti mortali che gli USA, negli anni, hanno fornito a Taiwan, i comandi del cervello; e il cervello è rigorosamente USA che, oltre agli arti taiwanesi, controlla anche quelli dei vari alleati vecchi e nuovi della regione, dai partner dell’Aukus, al Giappone, alla Corea del Sud. “Punte di lancia pronte a funzionare come innesco di un’offensiva di guerra multinazionale contro la Cina” anche perché, ricorda Noh, “L’attuale dottrina statunitense si basa un’idea di guerra distribuita, dispersa, diffusa, da condurre lungo la miriade di isole che circondano la Cina nel Pacifico”: sono le famose prima e seconda catena di isole che gli USA hanno circondato con migliaia di truppe armate, piattaforme d’attacco e missili di ogni natura e gittata ai quali si stanno aggiungendo, giorno dopo giorno, strumenti di ogni genere per la guerra automatizzata; uno sciame che, per essere utilizzato in modo efficace, deve avere un sistema di comunicazione unico a prova di interferenze – che è proprio quello che fa Link 16 – che permette, così, di aggiungere l’ultimo tassello in quella che gli analisti dello US Naval Institute definiscono, in modo molto rassicurante, la catena di morte della coalizione transnazionale per il Pacifico. “Questa diffusione e dispersione delle piattaforme di attacco in tutto il Pacifico”, sostiene Noh, “smentisce l’affermazione secondo cui si tratterebbe di una forma di deterrenza per difendere l’isola di Taiwan”; secondo Noh, infatti, “Questa diffusione è chiaramente offensiva, pensata e progettata per sopraffare le difese altrui. Come nel caso dell’Ucraina, non si tratta di scoraggiare la guerra, ma di incoraggiarla e di consentirla”: a confermarlo ci sarebbe anche la proliferazione di report da parte di tutti i principali think tank USA dove il quesito non è tanto più se fare la guerra o meno, ma quando e come, e come prepararla adeguatamente. E la fretta aumenta: in un celebre rapporto del 2016, RAND Corporation affermava che la guerra andava preparata entro il 2025; davanti alla commissione difesa del Senato, l’ammiraglio Phil Davidson, 2 anni fa, aveva spostato la deadline avanti di un paio di anni. Nel frattempo è scoppiata la seconda fase della guerra per procura contro la Russia in Ucraina che gli USA premono per sbolognare interamente ai vassalli europei e, poi, il grande imprevisto: il clamoroso attacco della resistenza palestinese del 7 ottobre scorso e l’ancora più clamorosa prova di forza da parte dell’asse della resistenza – e, in particolare, di Ansar Allah – che ha fatto saltare per aria i piani USA per la regione, gli ha impedito di disimpegnarsi gradualmente e ora li minaccia con una potenziale escalation su scala regionale che impedirebbe definitivamente di concentrarsi sul Pacifico e sposterebbe la lancetta del tempo oltre i limiti segnalati da tutti gli analisti.
Ma, come sottolineava – tra gli altri – questo lungo rapporto del Council on foreign relation già lo scorso giugno, tirarsi indietro da Taiwan e dal Mare Cinese meridionale permettendo così, nel frattempo, alla Cina di rendere completamente irreversibile il rapporto di forze nell’area, molto semplicemente proprio non se po’ fa: “Taiwan”, sottolineano infatti, “ha un valore militare intrinseco, e quindi il suo destino determinerà in gran parte la capacità delle forze armate statunitensi di operare nella regione”; “Se la Cina dovesse annettere Taiwan e installare sull’isola risorse militari, come dispositivi di sorveglianza subacquea, sottomarini e unità di difesa aerea” continua il rapporto “sarebbe in grado di limitare le operazioni militari statunitensi nella regione e, di conseguenza, la sua capacità di difendere i suoi alleati asiatici. I politici statunitensi dovrebbero quindi capire che in gioco non è solo il futuro di Taiwan, ma anche il futuro della prima catena di isole e la capacità di preservare l’accesso e l’influenza degli Stati Uniti in tutto il Pacifico occidentale”. In soldoni, a quanto pare, dentro all’amministrazione USA continua a svolgersi un duro braccio di ferro tra chi spingerebbe per mollare la presa sul fronte ucraino e chi, invece, tenderebbe a rimandare l’appuntamento del Pacifico, entrambi uniti nella speranza di non veder definitivamente riesplodere tutto il Medio Oriente; la soluzione, secondo il Council on foreign relation, consiste nel trovare la giusta misura e la giusta modalità per aumentare la deterrenza senza scatenare un conflitto, ma – anche proprio per le caratteristiche intrinsecamente offensive della strategia della guerra diffusa che abbiamo visto più sopra – “rinforzare la deterrenza senza finire per provocare lo stesso conflitto che si vorrebbe evitare” ammette anche il Council on foreign relation “è un compito tutt’altro che banale. Per questo, argomentano alcuni, alla luce dei rischi, gli Stati Uniti dovrebbero ridurre il loro sostegno a Taiwan. Un simile percorso, tuttavia, non riesce a tenere adeguatamente conto di come sarebbe il mondo il giorno dopo un eventuale assalto cinese riuscito: meno sicuro, meno libero e meno prospero” che nel linguaggio suprematista USA significa, molto banalmente, meno a immagine e somiglianza degli interessi imperiali a stelle e strisce.
Anche chi punta a un disimpegno dall’Ucraina si trova, però, di fronte a numerosi ostacoli: come sottolinea KJ Noh, infatti, “Se gli Stati Uniti abbandonassero l’Ucraina, ciò potrebbe indebolire la determinazione e la volontà delle autorità di Taiwan di intraprendere una guerra per conto di Washington” perché sarebbe un chiaro messaggio che “i prossimi ad essere usati e abbandonati potrebbero essere proprio loro”; “Washington allora” suggerisce Noh “deve tenere in vita in qualche modo la finzione ed è alla ricerca di un pretesto plausibile per scappare”: quel pretesto plausibile è esattamente quello che cercano di offrirgli su un piatto d’argento le fazioni politiche europee più spudoratamente asservite a Washington, che non vedono l’ora di farsi riconoscere dal padre padrone come vassalli adulti, in grado di occuparsi da soli di quel pasticciaccio brutto dell’Ucraina. Il problema però è che, molto banalmente, adulti ancora non lo sono e di gestire la patata bollente, molto banalmente, non sono ancora in grado; “Inoltre” sottolinea ancora Noh “gli USA attualmente sono anche in guerra con se stessi, una frattura del corpo politico che può essere sanata solo con una guerra comune contro un nemico comune. Ma la Russia, come si è visto, non può rappresentare quel tipo di nemico. La Cina sì, ed è anche per questo che i repubblicani vogliono la guerra con la Cina adesso”. La nomina di Kurt Campbell, da questo punto di vista, potrebbe indicare la volontà della Casa Bianca di tagliare la testa al toro: per quanto Campbell, infatti, sia noto prevalentemente per aver dedicato alla preparazione della grande guerra contro la Cina il grosso della sua carriera, negli ultimi anni si è cercato di guadagnare anche una certa fama da falco anche sul fronte russo, e già dai primi giorni dello scoppio della seconda fase della guerra per procura in Ucraina ha sempre affermato candidamente che gli USA erano perfettamente in grado di sostenere un conflitto su grande scala su due fronti contemporaneamente, come d’altronde avrebbero già fatto durante la seconda guerra mondiale; certo “È difficile. Ed è costoso” avrebbe affermato durante un evento organizzato dal Fondo Marshall tedesco “Ma è anche essenziale, e credo che stiamo entrando in un periodo in cui questo è ciò che verrà richiesto agli Stati Uniti e a questa generazione di americani”.

Insomma: il dottor Stranamore è tornato al comando; cosa mai potrebbe andare storto? Contro la propaganda del partito unico della guerra e degli affari che, ormai, riesce solo a discutere di quando e come mettere fine al mondo per come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi, abbiamo urgentemente bisogno di un vero e proprio media che sia in grado di riportare al centro del dibattito pace, lavoro e gli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Victoria Nuland

  • 1
  • 2