Skip to main content

Tag: scholz

Scholz il cinese: perché Scholz è andato a “ballare in Cina”?

Cina e Germania, due potenze della manifattura mondiale, si sono incontrate questa settimana, con la visita del cancelliere tedesco in Cina. Da questa visita dipende la relazione Cina ed Europa, evidentemente, e Scholz si è portato dietro la carovana di diplomatici e, soprattutto, di imprenditori, che sono l’interfaccia dei rapporti tra i due paesi. Cosa è accaduto?

Bimbe di Bandera e coloni suprematisti impediscono a Rimbambiden di preparare la guerra alla Cina

Prima di passare alle cose serie che, purtroppo, anche oggi non mancano, un po’ di cabaret mattutino. Mirko Campochiari, l’analista fai da te più amato dalle bimbe di Bandera, alla fine ha deciso di farlo davvero; fino ad ora, infatti, l’aveva detto solo alla mamma (e, cioè, a Youtube) due volte: prima attaccandosi al copyright e facendo cancellare il video e poi, una volta che ho ripubblicato il video levando i 10 secondi ai quali il difensore del mondo libero s’era attaccato per incentivare il dibattito pubblico e la libera circolazione delle idee attraverso la censura, segnalandoci una seconda volta per violazione della privacy. Ora Mirko, però, ha deciso che lo dirà anche all’avvocato: “Quando ho smontato le bufale di Lilin” chiede il bomber delle mappe alla sua fanbase di bimbiminkia brufolosi su X, “lo ho fatto mettendo la sua faccia photoshoppata in copertina per dileggiarlo, o stavo sul merito? Si attacca la tesi, non il relatore. Il diritto di critica (cioè quello che lui ha cercato di annullare chiamando due volte la mamma) non consente di ledere la dignità altrui”; quella, diciamo, è una prerogativa che Parabellum vuole tenersi in esclusiva tutta per se. “Ottolina” conclude “ne risponderà in altre sedi”; gli avrà fatto un corso di formazione David Puente? In soldoni, nel mondo libero che Parabellum vuole difendere fino all’ultimo ucraino, i meme sono fuorilegge: caro Mirko, non vorrei scoraggiarti e tarparti troppo le ali, ma mentre giocavi ai soldatini, nel mio piccolissimo – in 25 anni da giornalista – ho affrontato una quantità spropositata di cause contro multinazionali gigantesche che mi chiedevano decine di milioni di risarcimento. Mai dire mai, ma non ne ho persa nemmeno mezza; forse faresti meglio a impiegare il tuo tempo, invece che a fare segnalazioni e a chiamare l’avvocato, a studiare per colmare qualche piccolissima incongruenza che, qua e là, sembra emergere dalla tua narrazione. Volendo ti possiamo anche girare qualche fonte autorevole in amicizia. E, con questo, terminiamo l’angolo del dissing e torniamo (purtroppo) a occuparci di cose serie.
E’ bello essere re diceva Mel Brooks ne La pazza storia del mondo; essere presidente di un impero in inesorabile declino, invece, un po’ meno: lo chiameranno pure Sleepy Joe, ma il povero Rimbambiden, in realtà, tempo per dormire mi sa che ultimamente ce n’ha pochino. Dopo oltre due anni di guerra per procura in Ucraina, non solo ha reso il suo nemico più forte e determinato che mai, ma ancora deve stare dietro a quei parolai degli europei che, a chiacchiere, si riarmano fino ai denti e rovesciano Putin, ma – nei fatti – per recuperare qualche munizione sono costretti a fare la colletta e fare il tour dei più malfamati bazaar di Istanbul e di Pretoria; risultato: come titolava ancora ieri BloombergGli attacchi russi all’Ucraina alimentano la paura che l’esercito sia vicino al punto di rottura”. Il fronte del Pacifico, poi, è un vero e proprio rompicapo; dopo 40 anni di finanziarizzazione, gli USA si sono accorti che, per contenere l’inarrestabile ascesa cinese, gli manca una deterrenza credibile: come fai a minacciare una potenza che ha una base industriale che è tre volte più grande ed efficiente della tua? L’unica possibilità è trasformare definitivamente gli alleati di tutta l’area – che, tra base industriale e posizione geografica, hanno tutto quello di cui hai disperatamente bisogno – nemmeno semplicemente in vassalli, ma proprio direttamente in una sorta di tua emanazione diretta; ed ecco, così, che parte il tour de force: martedì, infatti, è sbarcato a Washington il premier giapponese Fumio Kishida e, per quanto si tratti di un fedele servitore di Washington privo di qualsiasi personalità, è comunque stato un gran bell’impegno.

Fumio Kishida

Il Giappone è, in assoluto, il più importante degli alleati per la guerra contro la Cina visto che, al contrario degli USA, ha ancora un’imponente base manifatturiera indispensabile anche solo per pensare di poter contrastare la strapotenza cinese, soprattutto in termini di produzione navale; il Giappone, però, da decenni è anche probabilmente in assoluto l’alleato che gli USA hanno bistrattato di più, radendolo al suolo con l’atomica prima (giusto per capire chi comandava) e imponendogli, poi, oramai quasi 40 anni di suicidio economico che, in confronto, Gentiloni e la Von Der Leyen sono dei difensori degli interessi dei loro cittadini. E ultimamente, dopo aver ridotto lo yen a carta straccia, per fare un favore alle oligarchie statunitensi hanno anche impedito senza motivo alla Nippon Steel di concludere l’acquisizione di US Steel, senza manco chiedere scusa.
Ora, per i leader del partito liberale poco male, che tanto sono vassalli devoti che mai si azzarderebbero a chiedere qualcosa in cambio; per i giapponesi comuni, però, un po’ meno, che – in fondo in fondo – un po’ nazionalisti, comunque, rimangono. Per fare finta di avere una qualche forma di rispetto per l’interlocutore zerbino, allora gli USA si son dovuti sforzare di apparecchiare un ricevimento in grandissimo stile con tutti gli onori di casa: hanno pure chiamato a suonare Paul Simon e prima gli hanno anche imposto di fare un corso di giapponese.
Ma il bilaterale Giappone – USA era solo l’antipasto: giovedì, infatti, li ha raggiunti pure Marcos junior,erede del sanguinario dittatore e attuale presidente delle Filippine, impegnato a mettere fine alla piccola parentesi sovranista e popolare dell’ex presidente Duterte per riportare lo strategico paese insulare al ruolo di portaerei del Pacifico dell’imperialismo USA; un summit storico, come è stato definito nel comunicato congiunto finale – il primo di sempre tra le tre potenze – e che rappresenta una tappa fondamentale per la costruzione di quell’accerchiamento totale della repubblica popolare cinese volto a danneggiarne l’economia abbastanza da permettere agli USA di recuperare il terreno perduto succhiando risorse a tutti i vari vassalli e, se non basta, a provocare la Cina fino a scatenare una nuova guerra per procura come quella ucraina, ma di magnitudo di ordini di grandezza superiore.
Nel frattempo, Rimbambiden è dovuto pure tornare a occuparsi di America Latina: a giugno, infatti, si vota in Messico e mettere fine all’esperienza sovranista di Lopez Obrador sarebbe fondamentale per assicurarsi di poter riportare vicino a casa un pezzo della base industriale – indispensabile anche solo a pensare di poter fare la guerra contro la Cina – senza che diventi un’arma a doppio taglio; peccato, però, che nonostante tutti i tentativi di destabilizzazione, la candidata di AMLO ancora oggi, nei sondaggi, sostanzialmente doppi gli avversari sostenuti da Washington. Gestire contemporaneamente questi tre fronti metterebbe ko chiunque e, invece, per Sleepy Joe è solo l’antipasto; nelle ultime due settimane aveva provato a scordarselo per un attimo: per evitare l’escalation nel Mar Rosso aveva addirittura mandato (anche in ginocchio) i suoi uomini da Ansar Allah per cercare una soluzione diplomatica dopo che 3 mesi di attacchi diretti in territorio yemenita non sembravano aver dato grossi risultati, quando, sabato scorso, a turbargli i sonni sono arrivati circa 300 tra droni e missili balistici che dall’Iran si sono riversati sul sempre più scomodo – ma ciononostante sempre indispensabile – alleato sionista. Nonostante le divergenze con regime fascista e razzista di Tel Aviv, Biden s’è ritrovato così a dover richiamare all’ordine tutte le sue casematte nella regione per minimizzare i danni e impedire a Tel Aviv di subire un’umiliazione troppo grande, perché lo svantaggio strutturale dell’impero è proprio questo: i suoi millemila nemici possono subire anche sconfitte importanti, eppure la necessità storica delle masse popolari di dotarsi di uno Stato sovrano capace di emanciparsi dal dominio dell’impero, rimane intatta; per il castello di carte che tiene in piedi il dominio globale dell’impero, invece, anche solo essere costretto a rinunciare al dominio in un’area del pianeta può essere esistenziale.
Ma prima di addentrarci nei dettagli di questo arzigogolato racconto sugli sforzi inenarrabili che il povero, anziano leader del mondo libero è costretto a sobbarcarsi per non passare alla storia come il presidente sotto il quale si mise fine a 5 secoli di feroce dominio coloniale dell’uomo bianco, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro gli algoritmi e, se non l’avete ancora fatto, di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare pure le notifiche, perché se c’è una cosa che abbiamo imparato lavorando a questo video è che l’impero non è mai stato così fragile e un’informazione corretta che non ricalchi a pappagallo la propaganda, oggi come non mai potrebbe davvero fare la differenza.
“Stati Uniti e Giappone annunciano l’aggiornamento più significativo di sempre della loro alleanza militare”: così, giovedì, il Financial Times riassumeva la conferenza stampa che, il giorno prima, Rimambiden e Fumio Kishida avevano tenuto a conclusione dello storico bilaterale di questi giorni: “Nel corso degli ultimi 3 anni” recita il comunicato congiunto, rilasciato poche ore prima “l’Alleanza USA – Giappone ha raggiunto livelli senza precedenti”; gli USA rinnovano, senza se e senza ma, l’”impegno degli Stati Uniti nella difesa del Giappone… utilizzando l’intera gamma delle sue capacità, comprese quelle nucleari” in cambio di un rafforzamento di quello che chiamano “coordinamento con gli USA” e che, come noi membri della NATO sappiamo bene, in soldoni significa totale subordinazione, a partire dalla messa a disposizione delle “isole sudoccidentali” delle forze armate USA “per rafforzare la deterrenza e la capacità di risposta”, nonostante l’opposizione decennale delle popolazioni locali e dei loro rappresentanti politici.

Denny Tamaki

A partire dal governatore di Okinawa, Denny Tamaki che, nel 2018, stravinse le elezioni locali proprio sulla base della sua contrarietà alla presenza dei 30 mila militari USA, odiatissimi da sempre dalla popolazione locale e, ancora di più, da quando nel 1995 rapirono una ragazzina di 12 anni, la violentarono e la massacrarono di botte (ovviamente sempre, come cita il documento, “per realizzare un mondo indo – pacifico libero e aperto”). “A sostegno di questa visione” – continua il comunicato – “riaffermiamo il nostro obiettivo di approfondire la cooperazione in materia di intelligence, sorveglianza e ricognizione e le capacità di condivisione delle informazioni dell’Alleanza”, che è un modo gentile per dire che il Giappone rinuncia alla sua sovranità e indipendenza militare per mettere le sue forze armate e il suo apparato di intelligence a disposizione del comando USA. L’impero e il suo vassallo confermano, come ampiamente atteso, i lavori di modifica alle navi giapponesi (che, fino ad oggi, avevano funzioni meramente difensive) affinché “acquisiscano la capacità operativa del sistema Tomahawk Land Attack Missile (TLAM)” che, come dice il nome stesso, con la difesa non c’entra una seganiente e serve ad attaccare; “oggi” inoltre, continua il comunicato, “annunciamo la nostra intenzione di cooperare per un’architettura di difesa aerea in rete tra Stati Uniti, Giappone e Australia”, ai quali poi ci va aggiunta anche la Gran Bretagna nell’ambito dell’AUKUS, al quale poi si affianca anche la Corea del Sud, rispetto alla quale “accogliamo con favore i progressi nella creazione di un esercitazione annuale multidominio”. Insomma: Corea, Giappone e Australia saranno sostanzialmente dependence delle forze armate USA nell’area che potrà, così, eventualmente ingaggiare una guerra frontale contro la Cina – ma sempre per procura – evitando così lo scontro diretto tra potenze nucleari (che, diciamo, che è una cosa che ultimamente ho già rivisto). Queste forze, per essere veramente efficaci nell’opera di contenimento e provocazione nei confronti della Cina, hanno bisogno però di aumentare anche la loro area di pertinenza: ed ecco che entrano in gioco le Filippine, la portaerei nel Pacifico dell’impero che è sbarcata a Washington il giorno dopo per il primo trilaterale di sempre insieme a Usa e Giappone, un trilaterale per cementare i “valori fondamentali condivisi di libertà, democrazie, rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto” che, però, non sono proprio sicurissimo siano i valori fondamentali dell’attuale presidente filippino.
Baby Marcos, infatti – noto anche come Bongbong – non solo è il figlio di uno dei più feroci e cleptomani dittatori dell’Asia contemporanea, ma ha anche avuto direttamente ruoli di primissimo piano all’interno del suo regime diventando uno dei massimi dirigenti del partito del padre che ha imposto la legge marziale nel paese per ben 14 anni; a partire dal 1980, infatti, Bongbong è stato prima vice e poi governatore del distretto di Llocos Norte e, ancora oggi, deve la sua vita agiata a un pezzo della sconfinata ricchezza che suo padre e la leggendaria Imelda Marcos hanno sottratto al loro paese per decenni. Durante il suo governatorato, secondo l’associazione delle vittime della legge marziale, nel suo distretto si sono registrati come minimo due casi di omicidio extragiudiziale; nel 1985 era stato nominato dal padre anche presidente della Philcomsat, il monopolista delle comunicazioni satellitari delle Filippine che Marcos presidente si era auto-venduto al Marcos imprenditore per una manciata di spiccioli (in pieno stile Russia ai tempi di Yeltsin e del crollo dell’Unione Sovietica, un modello che gli Stati Uniti hanno replicato un po’ ovunque) e quando, nel 1986, finalmente scoppiarono le gigantesche proteste di piazza della People Power Revolution, fu proprio Bongbong a convincere il padre ad assaltare e dare fuoco al quartier generale delle forze di polizia che, nel frattempo, era stato circondato da centinaia di migliaia di manifestanti. Dopo che l’amministrazione Reagan aiutò gli amici dittatori e il loro entourage a scappare dalle Filippine per riparare alle Hawaii, Bongbong cercò di ritirare da un conto segreto della famiglia 200 milioni di dollari, ma fu bloccato (ovviamente dalla Svizzera, non dagli USA, e da allora non ha ancora smesso di provare a rimpossessarsi del bottino); insomma: l’interlocutore perfetto per i piani criminali dell’impero contro il nemico cinese che oggi si trova ad essere accolto con tutti gli onori per un vertice che “rappresenta il culmine di decenni di partenariato”. Non poteva andare altrimenti: Bongbong, infatti, aveva iniziato il suo mandato sulla scia dell’ultrapopolare Duterte, candidandone addirittura la figlia alla vicepresidenza; l’idea era quella di continuare a intensificare le relazioni economiche con la Cina, dando seguito agli accordi firmati dal predecessore nell’ambito della Belt and Road Initiative. Credergli, però, è stato un atto di ingenuità piuttosto eclatante: dotati della più grande rete di spionaggio e di intelligence della storia dell’umanità, che gli USA tenessero in pungo l’erede di uno dei più grandi imperi criminali del pianeta, infatti, era piuttosto prevedibile; e ora la potente mano della mafia di Washington si palesa in tutta la sua capacità persuasiva. Per le Filippine vuol dire rinunciare agli investimenti cinesi, proprio ora che, dopo due anni abbondanti di stallo dovuto alla crisi pandemica, la Cina torna ad aprire i borsoni lungo tutta la Belt and Road.
Per placare l’opinione pubblica affamata di introiti e di crescita economica, ecco allora che tutta la prima parte del trilaterale USA – Giappone – Filippine è stata dedicata proprio all’assistenza allo sviluppo, ma è tutta fuffa allo stato puro: al posto delle infrastrutture della nuova via della seta, promettono il fantomatico corridoio economico di Luzon, che cerca di scimmiottare i piani cinesi a suon di “ferrovie, modernizzazione dei porti, energia pulita” e, addirittura, un pezzo della supply chain dell’industria dei semiconduttori. Gli investimenti rientrerebbero nell’ambito della fantomatica Partnership for Global Infrastructure and Investment, la risposta imperialista alla Belt and Road che l’amministrazione Biden continua ad annunciare a ogni summit multilaterale – da ormai 2 anni a questa parte – senza aver, ad oggi, mai sganciato sostanzialmente manco un dollaro. L’elenco degli impegni concreti, invece, è da morire da ridere: 8 milioni per un ponte radio e altri 9 milioni per un altro progetto di telecomunicazioni; probabilmente meno di quanto abbiano pagato Paul Simon per cantare e imparare a dire buonasera in giapponese. Ma la chicca principale è che gli USA promettono anche 4 miliardi di investimenti diretti esteri privati, però coi soldi giapponesi. Geniali! D’altronde, il Giappone sono 40 anni che è abituato a pagare i conti dell’impero USA: il 75% delle spese militari USA in Giappone, infatti, li paga direttamente Tokyo che, ogni anno, sborsa poco meno di 5 miliardi; quando il cervello vi corre a quanti soldi le élite politiche europee ci rubano di tasca per fare contenta Washington, pensate a quanto sono geishe i giapponesi e vi tornerà il sorriso. Vi basti ricordare come, per sostenere lo yen sotto attacco del dollaro, la banca centrale giapponese sia stata costretta a rialzare, per la prima volta dopo 30 anni, i tassi di interesse mentre è nel bel mezzo di una recessione: fino a che punto i giapponesi saranno ancora disposti a tollerare di essere svenduti senza niente in cambio?

Ferdinand Bongbong Marcos jr

Ai cugini coreani, ad esempio, qualcuno ha già presentato il conto; la Corea del Sud è l’altro tassello fondamentale dell’imperialismo USA nel Pacifico: è il terzo produttore navale al mondo e solo mettendo assieme lei e Giappone la rete dei vassalli USA ha qualche chance di potersi confrontare ad armi pari coi cinesi sul mare. Sostanzialmente priva di sovranità quanto – se non di più – di Europa e Giappone, alla Corea quindi è stata imposta l’adesione a una struttura trilaterale con USA e Giappone; ma se finché si tratta di continuare a fare semplicemente da zerbino agli USA la Corea, ad oggi, ancora non ha niente da obiettare, questo matrimonio forzato col Giappone i coreani proprio non riescono a buttarlo giù: in Corea, infatti, il Giappone coloniale fino alla fine della seconda guerra mondiale s’è reso protagonista di una serie di crimini di una ferocia e di una portata inauditi e per i quali non ha mai chiesto scusa. Anzi, la destra fascionazionalista giapponese, che è una componente essenziale del blocco sociale che ha permesso al partito liberale di guidare il governo sostanzialmente sempre, da quando è stato fondato nel 1955, fonda tutta la sua popolarità proprio sull’egemonia nel web giapponese delle sue campagne razziste nei confronti degli eredi dei coreani deportati nel Giappone dell’impero fascista durante la seconda guerra mondiale. Il padrone di Washington, inoltre, ha imposto a Seul di svuotare mezzi arsenali per inviare armi nel tritacarne ucraino e, ovviamente, anche di alzare i toni contro la Cina fino a darsi la zappa sui piedi partecipando al boicottaggio tecnologico della Cina e perdendo, così, una bella fetta del principale mercato di sbocco della sua industria elettronica, con conseguenze devastanti per la tenuta economica. Risultato: mercoledì in Corea del Sud s’è votato per l’elezione del parlamento e il partito del presidente ha raccattato una figura di merda epica. Negli ultimi 2 anni, infatti, il presidente ha dato la colpa di tutto al fatto che il suo partito non aveva la maggioranza in parlamento e la campagna elettorale è stata tutta all’insegna della richiesta di un mandato pieno per completare il lavoro iniziato; non ha funzionato proprio benissimo, diciamo: il suo partito ha perso un’altra decina di seggi, l’opposizione ne ha guadagnati quasi 30 e “ciò significa” sottolinea Responsible Statecraft “che il partito al governo potrebbe abbandonare il Presidente su alcune delle sue iniziative di politica estera più controverse”.
E la propaganda suprematista è in allarme anche sul fronte tedesco “perché Scholz si inchina al dragone cinese” titola Politico, la testata del gruppo editoriale tedesco Springer di proprietà del fondo speculativo USA KKR, quello che si è comprato la rete di TIM e che ha tra i suoi principali dirigenti l’ex capo della CIA David Petraeus. L’edizione europea di Politico è stata inventata ad hoc per minacciare qualsiasi politico europeo si azzardi anche solo minimamente a discostarsi dai dictat del deep state neocon americano e venerdì scorso denunciava scandalizzata come “ignorando le pressioni di Washington, il cancelliere cerca l’appoggio di Pechino”: “Il cancelliere 65enne, considerato privo di senso dell’umorismo anche per gli standard tedeschi” scrive la testata “ha festeggiato il suo debutto suTikTok promettendo di non ballare”; “Arrivato giusto pochi giorni prima della sua visita in Cina, la patria del controverso social newtork” continua quello che appare, ogni riga di più, come un attacco mediatico in pieno stile coloniale “Scholz sembra alla disperata ricerca di convincere Pechino che può ancora essere considerato un buon amico”. Il motivo è semplice, denuncia Politico: “Scholz ha bisogno della Cina”; “Con le elezioni a poco più di un anno di distanza” continua l’articolo “il leader del motore economico europeo sta esaurendo il tempo per evocare un miracolo e invertire la disastrosa posizione del suo governo nei confronti della popolazione tedesca”. I passaggi successivi dell’articolo li ho dovuti rileggere attentamente svariate volte perché non riuscivo a capire se erano seri: sarà il mio inglese da medie inferiori ho pensato, ma temo di no; ma giudicate voi. “Ci si potrebbe aspettare che la Germania, tra tutti i paesi” scrivono “sia sensibile alla difficile situazione di una minoranza etnica costretta a vivere dietro il filo spinato sotto lo sguardo minaccioso delle guardie armate nelle torri di guardia. Beh, ripensateci”, che uno dice ma perché parlano delle vergognose posizioni tedesche su Gaza in un articolo sulla Cina? La Germania, infatti, ha così platealmente sostenuto sin dall’inizio il genocidio del regime sionista e lo sterminio dei bambini palestinesi da vietare ogni forma di solidarietà con Gaza a suon di randellate e arresti e trovarsi, alla fine, sul banco degli imputati alla Corte internazionale di giustizia e, negli ultimi giorni, ha platealmente superato ogni limite: prima ha impedito l’ingresso nel paese a Ghassan Abu Sittah, chirurgo palestinese naturalizzato britannico che avrebbe dovuto partecipare a una conferenza sulla Palestina a Berlino che, dopo il suo respingimento, è stata fatta chiudere con la forza dall’intervento di decine di membri delle forze dell’ordine in tenuta antisommossa che hanno malamente evacuato le oltre 250 persone accorse fino a quel momento. E poi ha addirittura vietato il visto all’economista ed ex ministro greco Yannis Varoufakis proprio perché non ha sostenuto con sufficiente entusiasmo lo sterminio dei bambini palestinesi ed ha addirittura – pensate un po’- sollevato delle critiche.
Effettivamente, per accusare la Germania di essere complice entusiasta di un genocidio di spunti ce ne sono abbastanza, peccato però che la nostra cara testata di riferimento delle nuove SS, gli specializzati in stronzate, invece che del sostegno concreto dei genocidi reali che avvengono sotto gli occhi di tutti, preferisce concentrarsi nella denuncia del sostegno immaginario a un genocidio altrettanto immaginario, inventato tra un’invasione aliena e l’altra dai seguaci complottisti del Falun gong: “Sotto la presidenza Xi Jinping” specifica infatti l’articolo “la Cina ha preso una svolta autoritaria, reprimendo il movimento democratico di Hong Kong e costringendo la minoranza uigura in campi di concentramento” e Scholz c’ha pure il coraggio di andarci a parlare…
Io, sinceramente, pensavo che questi livelli fossero prerogativa de il Foglio, di Giulia Pompili e Radio genocidio Radicale; qui mancano solo giusto gli organi espiantati dai pazienti vivi a mani nude da Xi ed è solo l’inizio perché la Cina, oltre a espiantare gli organi dai prigionieri vivi, è ovviamente anche la patria di tutte le truffe e le pratiche commerciali più scorrette: prima ha attirato gli onesti imprenditori tedeschi promettendo sogni di gloria e poi li ha fottuti con politiche protezionistiche mettendoli fuori mercato con generosi sussidi, che oggi le permettono di esportare “veicoli elettrici cinesi a basso costo in Europa” che mettono in ginocchio gli onesti produttori europei (che è un po’ una sorta di record mondiale di fake news e di ribaltamenti della realtà mai visti in un singolo periodo di un giornale). L’economia tedesca, infatti, è sì vittima di una nuova spirale protezionistica e di una nuova guerra commerciale, solo che a dichiarargliela – com’è arcinoto – sono stati i padroni di Washington che, in quanto a politiche protezionistiche e generosi sussidi, hanno non solo doppiato, ma letteralmente triplato la repubblica popolare, ma pretendere che a ricordarcelo sia un pennivendolo a libro paga dell’ex direttore della CIA effettivamente sarebbe un po’ troppo. Il problema, semmai, è che – fino ad oggi – questo plateale ribaltamento della realtà è stato anche la linea politica delle élite tedesche: come fosse possibile, ce lo siamo chiesti per mesi, senza trovare una risposta chiara; sicuramente, però, un aspetto che ha pesato sempre parecchio è che la Germania, dal punto di vista della difesa e dell’intelligence, non può in nessun modo essere considerata un paese sovrano, ma (nella migliore delle ipotesi) un protettorato. Ma come tutti i servi che si rispettino, l’obbedienza totale e incondizionata al padrone è davvero garantita solo fino a quando a prevalere è la paura, una paura che, fino ad oggi, si fondava sul mito della supremazia militare totale degli USA (che, in parte, è anche un mito non privo di fondamento): grazie alla dittatura del dollaro, infatti, gli USA si sono fatti finanziare dai vassalli quello che è in assoluto il più grande apparato militare della storia dell’umanità che però – comincia a sospettare qualcuno – forse non basta più.
E per stamattina ci fermiamo qua; per la seconda, succulenta parte di questo video vi do appuntamento a fra poche ore e se, nel frattempo, vi piace il lavoro che facciamo e – come noi – siete convinti che in questo mondo nuovo che avanza serva come il pane una voce alternativa alla propaganda dei vecchi media, aiutateci a crescere e a rimanere indipendenti: aderite alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Bongbong Marcos

Soldati tedeschi contro Russia e Germania: il contenuto delirante dell’intercettazione dell’anno

Frohstedte:… sono arrivato alla conclusione che ci sono due obiettivi interessanti: il ponte a est e i depositi di munizioni, che sono più in alto. Se consideriamo il ponte, quello che vorrei far capire è che il C10 del Taurus non è sufficiente e dovremmo capire meglio come funzionerebbe il tutto, e per farlo abbiamo bisogno di dati satellitari. Non so se riusciremo ad addestrare gli ucraini per una missione del genere in poco tempo, un mese, ad esempio.
Grefe: Va detto chiaramente: più tempo si aspetta per prendere una decisione, più tempo ci vorrà per attuarla. Dovremmo andare per gradi: prima qualcosa di semplice, poi qualcosa di più complesso.

Nell’Occidente collettivo, in preda al panico per gli schiaffi a due a due finché non diventano dispari raccattati sul fronte ucraino, siamo ormai al tutti contro tutti; la pubblicazione della lunga chiacchierata tra 4 uomini delle forze armate tedesche – compreso un generale di brigata e un tenente generale che è anche ispettore dell’aeronautica militare – mentre discutono serenamente sulla strategia migliore per permettere agli ucraini di utilizzare i missili tedeschi Taurus per distruggere il ponte di Kerch senza che i russi li ritengano direttamente responsabili, non è solo un raro squarcio nel delirio quotidiano di chi ci sta inesorabilmente trascinando verso la terza guerra mondiale, ma è anche un segnale del caos e della guerra intestina che sta frantumando il giardino ordinato ad ogni livello, e arriva dopo una lunga sequenza di colpi di scena: a inaugurare le danze ci s’era messo, la scorsa settimana, il neo premier slovacco Robert Fico quando aveva dichiarato alla stampa la sua preoccupazione per l’aria di escalation che si respirava tra le élite euroatlantiche che, denunciava, stanno discutendo apertamente se mandare direttamente uomini NATO al fronte. Nel frattempo usciva il lungo articolo del New York Times che, finalmente, svelava apertamente il segreto di pulcinella: la CIA la guerra contro la Russia dal territorio ucraino la sta conducendo come minimo dal 2014, addestrando e assistendo personale ucraino, ma anche gestendo direttamente come minimo una dozzina di basi al confine tra Ucraina e Russia; nel frattempo, in questa corsa a chi c’ha lo scoop più grosso entrava a gamba tesa anche il Financial Times che annunciava al mondo di essere entrato in possesso di documenti ultramegariservati su un war game made in Mosca che svelava la facilità con la quale i russi avevano intenzione di ricorrere all’arma atomica in caso di difficoltà. Poi arrivava il turno del pimpantissimo Manuelino Macaron che cercava di riguadagnare il centro della scena come un Matteo Mr Bean Renzi qualsiasi ritirando fuori il carico da 11 dell’eventuale intervento diretto di truppe NATO sul fronte; subito dopo, ecco il turno di Scholz che il carico – invece – lo tirava da 12, ma con meno spavalderia: inutile che ora fate gli spavaldi con ‘sta storia di mandare gli uomini nato al fronte. I francesi e gli inglesi ci sono già.
Apriti cielo! Gli inglesi accusano Scholz di tradimento: con questa boutade avrebbe svelato informazioni ultra riservate; ed ecco così che, per magia, spuntano le intercettazioni della riunione dei militari tedeschi che vogliono tirar giù il ponte di Kerch e che, sempre del tutto casualmente, viene sostanzialmente ignorata dalla propaganda ultra atlantista nei suoi contenuti piuttosto rilevanti, per usare un eufemismo, e viene invece usata per denunciare l’inadeguatezza di Scholz stesso e del suo apparato di sicurezza. Ora, siccome in passato abbiamo sperato molto nelle divisioni interne al giardino ordinato e, invece, siamo stati smentiti da una classe dirigente che ha completamente perso ogni senso del pudore, a questo giro ci andiamo cauti, anche perché per ogni cuore che si spezza ci sono nuovi amori che non possono più essere contenuti ed escono alla luce del sole.

Il bacino sulla testa di Biden a Giorgiona è una delle pagine più imbarazzanti della politica estera zerbina di tutta la seconda repubblica sulla quale, però, il partito unico degli affari e della guerra ha scelto di stendere un velo pietoso: i filogovernativi perché, fino a ieri, dicevano che Biden prima ingroppava i neonati e poi li mangiava, che Beppe Stalin scansate proprio; l’opposizione delle ZTL perché non vuole ammettere a se stessa di essere stata rimpiazzata nel cuore di un campione della democrazia e del mondo libero come rimbambiden da una volgave buvina veazionavia daa’ garbatella. Insomma: moriremo tutti, ma non di noia. Ma ci sarà una qualche logica dietro a questa cacofonia di figure di merda?
19 febbraio, Singapore. In un’anonima stanza di hotel, un pezzo grosso della Bundeswehr si appresta a fare la videochiamata che, probabilmente, gli cambierà la vita: si chiama Frank Graefe e, dal 2019, è l’addetto militare della Germania presso l’ambasciata tedesca di Washington; collegati con lui, due tenenti colonnelli dell’aeronautica militare e il grande capo. Si chiama Ingo Gerhartz ed è nientepopodimeno che un tenente generale dell’aeronautica tedesca con il cuore a Tel Aviv: sotto il suo comando, infatti, aerei tedeschi e israeliani nel 2020 per la prima volta hanno volato in formazione congiunta sopra il luogo commemorativo del campo di Dachau e sopra il luogo dell’attacco delle olimpiadi di Monaco del 1972; l’anno dopo guidava il primo aereo tedesco a sorvolare sopra il cielo di Gerusalemme dalla prima guerra mondiale, subito prima di ricevere una medaglia direttamente dal capo di stato maggiore dell’IDF per il suo contributo alla sicurezza di Israele, e quando Israele ha dato il via alla fase finale del suo genocidio contro il popolo palestinese, il compagno Gerhartz ci ha tenuto a dimostrare il suo sostegno alla pulizia etnica recandosi a Tel Aviv di persona per rendere i suoi omaggi al commander in chief del più grande massacro di civili del XXI secolo, il ministro della difesa Yoav Gallant. Insomma: due ferventi patrioti – di altri Stati, però.
L’argomento della conversazione è della massima urgenza e riservatezza; a breve, uno di loro dovrà incontrarsi direttamente col ministro federale della difesa Boris Pistorius e avrà un compito fondamentale: convincerlo a inviare i missili da crociera a lungo raggio Taurus in Ucraina per tentare di rimandare la resa dei conti finale della guerra per procura della NATO contro la Russia e, come appare sempre più evidente, pure contro l’Europa – e, in particolare, proprio contro la Germania che, dal dopoguerra, non si era mai ritrovata con le pezze al culo come oggi. E i nostri protagonisti sono parte del problema non solo perché, appunto, cercano di capire come proseguire e allargare una guerra palesemente suicida, ma anche perché nel farlo si comportano con un livello di cialtronaggine che non ti aspetteresti dai diligenti crucchi, sopratutto non da personale così alto in grado: la comunicazione, infatti, avviene tramite un banale software per videoconferenze privo di ogni forma di protezione. Come sottolineiamo sempre, il problema non è solo che questi vogliono a tutti i costi fare la guerra; è anche che non sono minimamente in grado di farla. Ed ecco così che la registrazione della videoconferenza, pochi giorni dopo, come per magia arriva nella mani di una giornalista russa, un altro pezzo grosso: si chiama Margherita Simonyan, è la capo redattrice dell’emittente russa RT e, dal febbario 2022, è in cima alla blacklist ufficiale dell’Unione Europea – anche se devo dire che, quando nel 2017 l’ho incontrata negli uffici di RT a Mosca, non è che mi abbia fatto un’impressione poi tanto peggiore della stragrande maggioranza dei giornalisti RAI che ho conosciuto in vita mia. Comunque, il 1 marzo scorso la Simonyan pubblica l’audio integrale della videochiamata sul suo profilo Telegram che abbiamo tradotto e doppiato per voi.

Gerhartz: dobbiamo mostrare cosa possono fare i Taurus e come possono essere utilizzati. Dobbiamo considerare le conseguenze se prendiamo la decisione politica di mandarli come aiuti in ucraina. Apprezzerei se riusciste a informarmi non solo sui potenziali problemi, ma anche su come potremmo risolverli. Ad esempio, quando si tratta di pianificare la missione… so come fanno gli inglesi. Li trasportano sempre con i veicoli armati Ridgeback. Hanno alcune persone sul posto. I francesi no. Quindi controllano gli ucraini durante il carico dei missili SCALP perché Storm Shadow e SCALP hanno specifiche tecniche simili per l’installazione. Noi come risolveremmo questi problemi? Trasferiremo i missili dell’MBDA anche noi usando dei Ridgeback? Assegnamo uno dei nostri uomini direttamente all’MBDA?

Allora: i Ridgeback, oltre a essere una razza di cani, sono anche questi veicoli blindati qua. L’MBDA, invece, è un consorzio formato da BAE System, Airbus e Leonardo e, con il 43% del mercato, è il leader europeo indiscusso nella costruzione di missili ed è anche la casa madre della controllata TSG – che sta per Taurus System – ed è, appunto, la produttrice dei missili Taurus. E qui i nostri simpatici commilitoni si limitano a ribadire quello che aveva già detto Scholz pochi giorni fa: uomini di potenze NATO in Ucraina ce ne sono già; in particolare, appunto, gli inglesi, che aiutano gli ucraini a montare i loro Storm Shadow trasportati con queste simpatiche camionette: che famo Franchino, chiede il tenente generale Gerhartz al fidato Graefe, imboschiamo qualcuno dei nostri direttamente tra le fila della ditta e i missilozzi li portiamo come fanno gli inglesi?


Grafe: se il Cancelliere decide che dobbiamo consegnare i missili, saranno trasferiti direttamente dalla Bundeswehr. Ok, ma non saranno pronti prima di 8 mesi. Non possiamo accorciare i tempi: se lo facessimo, ci potrebbero essere errori durante l’utilizzo. Un missile potrebbe colpire un asilo, e ci sarebbero altre vittime civili. Questi aspetti vanno tenuti in considerazione: durante i negoziati dobbiamo sottolineare che senza il produttore non possiamo fare niente. Sarebbe come con i razzi IRIS-T, che i primi missili vengono equipaggiati, convertiti e consegnati in tempi brevi, ma poi bisogna fare altre cosette, come una piccola revisione, togliere il distintivo tedesco, e così via. Ma per questo non devi aspettare di averne venti. Teoricamente potresti consegnare i primi cinque. Quindi quello sarebbe il primo treno: in quanto tempo potrebbero essere consegnati? Beh, in realtà questo dipende tutto dal produttore. E la domanda resta “chi paga?” perché comporta dei costi. La seconda domanda riguarda l’interfaccia: come si collega e a quale sistema d’arma? E come faremmo a tenere in piedi l’interazione tra l’azienda e gli ucraini? È già stata stabilita qualche forma di integrazione?
Gerhartz: io non credo.

E qui c’è la prima cosa da tenere a mente e che, sostanzialmente, nessun organo della propaganda suprematista ha sottolineato: il generale di brigata Graefe, infatti, sottolinea come per fare tutte le cose per bene servono 8 mesi e, se accorciamo i tempi, se e quando un missilozzo centrerà un asilo e farà una carneficina non ci dovremmo stupire – anche se i nostri media le chiameranno vittime collaterali e martiri del mondo libero.

Grafe: se il Cancelliere decide di procedere, si deve comprendere che ci vorranno 6 mesi soltanto per risolvere la questione del montaggio e poi che, teoricamente, la questione dell’addestramento potrebbe preoccuparci. Lavoriamo in collaborazione con l’industria come per gli IRIS-T: loro gestiscono la formazione per quel che riguarda la manutenzione e noi ci occupiamo delle applicazioni tattiche. Questo impiega circa 3 – 4 mesi e questa parte si potrebbe svolgere in Germania. Quando consegneremo i primi missili dovremo fare decisioni rapide su montaggio e addestramento. Potremmo aver bisogno di rivolgerci ai britannici per questi aspetti e sfruttare il loro know how: gli possiamo fornire i nostri database, le immagini satellitari e le stazioni di comando. Oltre ai missili di cui disponiamo, tutto il resto dovrebbe essere fornito dal produttore o all’IABG.
Gerhartz: dobbiamo sempre ricordare che loro possono utilizzare gli aerei con sistemi di montaggio sia per i missili Taurus che per gli Storm Shadow. Gli inglesi hanno già equipaggiato i velivoli. Non c’è poi tutta questa differenza tra i due sistemi, possono essere utilizzati tranquillamente anche per i Taurus. Degli F16 non ne parliamo adesso, ma ce li hanno già sui MIG23 e questo è quello che conta. Posso riferire l’esperienza dei Patriot: i nostri esperti inizialmente avevano previsto tempi lunghissimi, ma sono riusciti a gestirla in poche settimane; si sono attrezzati per avere tutto funzionante così rapidamente e in quantità tale che il nostro staff diceva “Oh wow, Non ce lo aspettavamo affatto!”

E qui si comincia già a limare: ma quali 8 mesi, compagno Graefe! E quanto la fa lunga lei! Ci stanno gli inglesi lì che montano più razzi che marmitte al motorino ammiocuggino nel suo garage/scannatoio – anche se è sempre bene ricordare che ammiocuggino una volta da bambino è morto – e anche per l’addestramento, compagno Graefe, lei va troppo per il sottile e così mi fa piangere l’America.

Fenske: se abbiamo a che fare con personale sufficientemente qualificato, basteranno circa 3 settimane affinché familiarizzino con l’attrezzatura, e poi potrebbero iniziare subito l’addestramento dell’Air Force, che dura circa 4 settimane: quindi, si parla di molto meno di 12 settimane.

Da 10 mesi a 10 settimane è un attimo. Se fossi negli asili nei paraggi, qualche preoccupazioncina ce l’avrei, diciamo, tant’è che anche il tenente colonnello Fenske, dopo la sparata, ritratta un po’.

Fenske: se parliamo di schieramento in combattimento, in tal caso, di fatto ci verrà consigliato di supportare almeno il gruppo iniziale perché la pianificazione è molto complessa. Per formare il nostro personale abbiamo impiegato circa un anno e ora vogliamo ridurre il tempo ad appena 10 settimane. Inoltre, c’è l’ulteriore preoccupazione di garantire che siano in grado di gestire la guida fuoristrada in un’auto di F1.

Insomma: una cosa è insegnargli due fondamentali in croce al calduccio di una sonnolenta base della Renania come quella di Buechel dove ci stanno, ovviamente, pure gli americani e che tanto piace ai nostri 4 simpatici programmatori di escalation militari; un’altra lanciare missili veri su obiettivi veri dal fronte. Se vogliamo fare le cose in fretta, non c’è verso: tocca mandare uomini nostri sul campo fino a che questi non hanno imparato tutto come si deve. Oppure c’è anche una via di mezzo: una via di mezzo tra i 10 mesi e le 10 settimane e anche una via di mezzo tra prendere di sicuro qualche asilo ed essere sicuri di non prenderne; diciamo metà tempo standard e metà standard di sicurezza, pari e patta. Per farlo, però, possiamo evitare di mandare gli uomini direttamente sul campo, ma almeno da remoto vanno guidati da noi, sennò addio. Ma guidarli da remoto significa entrare in guerra contro la Russia o no? E se sì, come si fa ad aggirare il problema?

Fenske: una possibilità sarebbe fornire supporto tecnico programmato. Teoricamente, questo possiamo farlo da Büchel, se abbiamo una linea di comunicazione sicura con l’Ucraina. Quindi lo scenario sarebbe questo: fornire il supporto completo del produttore tramite il servizio di supporto utente, che risolverà i problemi del software.
Gerhartz: fermo un attimo. Capisco cosa stai dicendo. I politici potrebbero essere preoccupati per una linea di comunicazione diretta tra Büchel e l’Ucraina, che implicherebbe un coinvolgimento diretto nel conflitto ucraino, ma in quel caso possiamo dire che lo scambio di informazioni avviene attraverso l’MBDA e noi ci limiteremo a inviare un paio di nostri esperti a Schroebenhausen. Ovviamente è un’assurdità, ma da un punto di vista politico, probabilmente è diverso se lo scambio di informazioni avviene attraverso il produttore, e quindi non ha niente a che fare con noi.

Birbantelli crucchi che non siete altro! Capito il giochino? Si chiama Plausible Deniability, negazione plausibile, ed è quando mischi le carte in modo che tutti sanno che è responsabilità tua, però la pistola fumante manca: è la tecnica che adottano sempre i miei figli quando trovo il cesso sporco. Ecco: i massimi gradi delle forze armate tedesche sono dei bambini che lasciano le sgommate e il capro espiatorio è un’azienda privata – che mica gli puoi fare la guerra a un’azienda privata (e poi dicono che le privatizzazioni non servono…). Purtroppo, però, anche questo semplice escamotage non risolve tutti i problemi.

Fenske: qui dipende anche da che tipo di informazioni stiamo parlando. Se parliamo di informazioni sull’ingaggio del bersaglio, che quindi idealmente includono immagini satellitari con una precisione fino a 3 metri, allora debbono essere prima processate a Buechel. Indipendentemente da ciò, possiamo senz’altro organizzare in qualche modo uno scambio di informazioni tra Büchel e Schroebenhausen. Oppure, possiamo sondare la possibilità di inviare le informazioni in Polonia, in qualche luogo accessibile con l’auto. Se siamo sostenuti, nel caso peggiore, possiamo spostarci con un auto, che ridurrebbe i tempi di reazione: di sicuro, non saremo in grado di reagire in un’ora perché servirebbe il nostro consenso. Nel caso migliore, circa sei ore dopo aver ricevuto le informazioni gli aerei sarebbero in caso di eseguire l’ordine; se è necessario perfezionare il target, dovremo lavorare con immagini satellitari che consentano la modellazione e, allora, i tempi si allungano fino a circa dodici ore. Dipende tutto dall’obiettivo, ma credo sarà possibile. Dobbiamo solo capire come organizzare la trasmissione di dati.

Qui c’è anche del romanticismo, eh? C’è già la scena pronta per Hollywood: i poveri tecnici di Buechel che, dopo aver elaborato le immagini satellitari con una vecchia auto scassata – perché, a suon di austerity, la Germania ha tagliato tutto – si precipitano in Polonia e al fotofinish riescono a trasferire le informazioni in Ucraina in tempo per cogliere l’obiettivo giusto; Spielberg è già lì che si sfrega le mani. Ma quale obiettivo? E qui arriva il bello.

Frohstedte: per quanto riguarda le difese aeree, il tempo e la quota di volo, etc… sono arrivato alla conclusione che ci sono due obiettivi interessanti: il ponte a est e i depositi di munizioni, che sono più in alto. Se consideriamo il ponte, quello che vorrei far capire è che il C10 del Taurus non è sufficiente e dovremmo capire meglio come funzionerebbe il tutto, e per farlo abbiamo bisogno di dati satellitari. Non so se riusciremo ad addestrare gli ucraini per una missione del genere in poco tempo; un mese, ad esempio.
Fenske: noi lo abbiamo osservato bene. Il ponte purtroppo, date le sue dimensioni, è come una pista di atterraggio. Ciò significa che potrebbero servire 10 o addirittura 20 missili.
Gerhartz: alcuni sostengono che il Taurus potrebbe riuscire se venissero utilizzati i caccia Dassault Rafale francesi.
Fenske: riuscirebbero solo a fare qualche buco e a danneggiare il ponte. Prima di fare certe affermazioni, noi per primi dovremmo…
Frohstedte: non sto sostenendo l’idea di prendere di mira il ponte; pragmaticamente voglio capire cosa vogliono.
Gerhartz: sappiamo tutti che vogliono abbattere il ponte, non solo per la sua importanza strategico – militare, ma anche per il suo significato politico, anche se adesso hanno un corridoio terrestre.

Geniale! Il ponte non è più vitale perché in Crimea si arriva ormai tranquillamente anche via terra; tirarlo giù con i Taurus è praticamente impossibile, però vale la pena comunque rischiare l’escalation perché agli ucraini farebbe tanto piacere lanciare un messaggio politico. Non fa una piega: io mi lamento dei figli miei, ma questi mi sa che non lasciano le sgommate; lasciano la zotta intera, anche un po’ spalmata ai bordi.
“La conclusione di questo scandalo” commenta Andrew Korybko dal suo sempre preziosissimo profilo Substack “è che alcuni pezzi dell’élite della Bundeswehr sono seriamente intenzionati a coinvolgere ulteriormente il loro paese nel conflitto ucraino, nonostante il rischio crescente che la guerra calda non dichiarata ma limitata dell’Occidente con la Russia si trasformi in una terza guerra mondiale a causa di errori di calcolo”; “Questa”, rilancia John Helmer, “è la prova che quando ufficiali dell’esercito tedesco e ufficiali della marina tedesca discutono delle operazioni a livello di stato maggiore prima di informare il ministro della difesa Pistorius, sono semplicemente impegnati ad attaccare la Russia quanto Gerhartz e i suoi aviatori” e questo è pacifico. Ma ci sono anche altri insegnamenti preziosi: come sottolinea Simplicius, infatti, “Molti attribuiscono comprensibilmente la fuga di notizie all’intelligence russa, ma a me sembra altrettanto, se non di più, plausibile che sia stata fatta trapelare dagli stessi addetti ai lavori tedeschi al fine di contrastare i piani del loro stesso Stato profondo, chiaramente intenzionato a iniziare la Terza Guerra Mondiale”. Quindi, in soldoni, non ci sono solo tutti i paesi del giardino ordinato ai ferri corti l’uno contro l’altro: anche all’interno di ogni singolo Paese tutta questa unità del mondo libero – dopo essersi narcotizzata sotto la cappa di Washington mano a mano che la debacle al fronte diventa più evidente – torna a mostrare cedimenti piuttosto evidenti. Ma l’insegnamento più palese di tutti – come l’altra settimana con il discorso di Putin – è quanto la nostra informazione ormai non sia più solo fuorviante e propagandistica, ma anche del tutto inutile, come nel caso del lungo e articolato discorso di Putin di fronte all’assemblea federale che si è concentrato per l’80% su questioni di economia interna e da noi è stato riassunto in Putin minaccia l’Europa col nucleare: anche qui, del contenuto concreto di queste importantissime intercettazioni non è stato fatto sostanzialmente cenno e si è completamente rovesciata la frittata, titolando a 6 colonne sulla minaccia della disinformazione russa.
Riportare le notizie ormai è disinformazione e informazione, invece, significa nasconderle: al di là di ogni considerazione, noi ci saremmo abbondantemente rotti i coglioni e la creazione di un vero e proprio media che non funzioni da ufficio stampa di una delle tante fazioni del partito unico della guerra e degli affari non può più essere rinviata. Per provare a farlo davvero abbiamo bisogno del tuo contributo; ci sono mille modi per sostenere il nostro progetto: iscriviti e fai iscrivere ai nostri canali, condividi i nostri contenuti (visto che le piattaforme dell’impero li segano sistematicamente), visita il nostro sito, iscriviti alla nostra newsletter, compra i libri dalla nostra bibli8teca, il merchandising dal nostro negozio online, ma soprattutto aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il pimpante Manuelino Macaron (per la terza volta, ndr)

I paesi della NATO si stanno preparando a dichiarare guerra alla Russia?

Lunedì 26 febbraio. Dopo l’ennesima disfatta ad Adviivka e la situazione drammatica su tutto il fronte ucraino, una ventina di leader europei in preda al panico si riuniscono a Parigi; ad aprire le danze è, ovviamente, il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron: gli ultimi avvenimenti, ricorda, sono “un campanello d’allarme” e richiedono “decisioni forti”. Dobbiamo discutere insieme “come possiamo fare di più, sia in termini di supporto finanziario, sia in termini di supporto militare”: da che pulpito, avranno pensato dal pubblico; “Nonostante i propositi, infatti” sottolinea con un velo di ironia Politico “la Francia è stata la prima a non aver fatto la sua parte in termini di armamento di Kiev. Mentre i dati del Kiel Institute mostrano che la Germania ha dato 17,7 miliardi di euro all’Ucraina, e la Gran Bretagna 9,1 miliardi di euro, la Francia infatti ha fornito solo 635 milioni di euro”. Ma il bello doveva ancora arrivare; come ormai saprete abbondantemente tutti, a fine conferenza – infatti – il pimpante Macaron ha optato per il colpo di scena e ha messo sul tavolo il suo carico da 11: l’invio di truppe occidentali in Ucraina, ha dichiarato alla stampa, “non può essere escluso”. Non c’è stato “nessun accordo questa sera per inviare ufficialmente nostre truppe sul campo, ma non possiamo escludere niente” perché “faremo tutto quello che possiamo per impedire alla Russia di vincere questa guerra”; s’è svegliato prestino, diciamo: “Le dichiarazioni di lunedì” ha sottolineato la stessa Agence France-Presse “sembrano rappresentare una svolta per Macron, che per molti anni ha cercato di posizionarsi come principale mediatore tra Russia e Ucraina”. Come si spiega? Il nostro Francesco Dall’Aglio un’ideina se l’è fatta: “Macron” sottolinea il Bulgaro “rappresenta solo sé stesso, i suoi amici e l’industria bellica francese, tutti abbastanza inviperiti con la Russia non perché ha invaso l’Ucraina, ma perché ha cacciato la Francia dall’Africa Centrale”.
La linea morbida adottata da Macron sin dall’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina nei confronti di Putin era infatti giustificata dal tentativo di contenere il ruolo della Wagner nel Sahel sconvolto dai colpi di stato patriottici in Mali, nel Burkina Faso e, più avanti, in particolare nel Niger, fondamentale fornitore di uranio a basso costo per l’industria nucleare francese, un errore di prospettiva direttamente riconducibile alla cultura profondamente suprematista e coloniale del pimpante Macaron e del suo entourage: i golpe patriottici, infatti, non sono farina del sacco di Putin o di Prigozhin, ma gli esiti inevitabili della potente ondata anticoloniale che sta attraversando tutta l’area, dal Congo al Senegal. Il ruolo della Russia e, in particolare, della Wagner prima e ora l’Africa Corps, è consistito e consiste fondamentalmente nel garantire ai paesi liberati una sponda affidabile nel caso di reazioni militari da parte dell’ex occupante coloniale che, nel frattempo, è stato costretto a desistere e ha registrato l’ennesima clamorosa sconfitta su tutta la linea: dopo aver minacciato un intervento militare vero e proprio per rovesciare gli esiti del golpe patriottico in Niger attraverso l’ECOWAS, a 7 mesi di distanza la Francia non solo ha dovuto rinunciare a ogni sogno di rivalsa con le armi, ma ha dovuto anche ingoiare la fine di ogni ostilità; sabato scorso, infatti, il presidente della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale ha annunciato la sospensione delle sanzioni economiche introdotte nei confronti del Niger subito dopo il rovesciamento popolare del governo del presidente filo occidentale Mohamed Bazoum. “Lo smantellamento di tutte le principali sanzioni” ricorda Deutsche Welle “comprende la riapertura delle frontiere terrestri e aeree tra il Niger e gli Stati membri dell’ECOWAS, nonché la revoca della no-fly zone per i voli commerciali da e per il Niger”; insomma: nuovo ordine multipolare 1, vecchio ordine neocoloniale 0, palla al centro e, per Parigi, l’espulsione totale e definitiva dal torneo. Non gli rimangono che i bluff: “In questo braccio di ferro con la Russia” avrebbe affermato lo storico militare francese Michel Goya ad Agence France-Presse “non puoi fermarti davanti a nulla, questa è una partita di poker”; peccato che le fiches di Macron siano i nostri quattrini, e anche la nostra sicurezza.
D’altronde, non è certo l’unico a puntare alla cazzo di cane col culo degli altri; è quanto aveva denunciato prima del summit di Parigi il neo presidente slovacco Robert Fico, che è salito al potere pochi mesi fa proprio grazie alla sua opposizione a qualsiasi forma di escalation del conflitto: “Diversi membri della NATO e dell’Unione Europea” ha dichiarato alla stampa “stanno valutando la possibilità di inviare soldati in Ucraina su base bilaterale”. Secondo quanto riportato da Reuters, Fico avrebbe anche affermato di intravedere il rischio di un’escalation, ma di non poter rivelare altre informazioni al pubblico: “L’annuncio di Macron” sottolinea Agence France-Presse, contribuirà “solo a rafforzare la narrativa del Cremlino secondo cui la Russia sta lottando per la sopravvivenza contro le truppe di Kiev appoggiate dalla NATO in Ucraina” “e” sottolinea Fyodor Lukyanov, capo di uno dei think tank più autorevoli di Mosca, “darà alla Russia lo slancio per inasprire ulteriormente la sua posizione, intensificare la sua retorica nucleare e aumentare la dipendenza dalla deterrenza nucleare come mezzo di risposta”. Insomma: anche a questo giro cosa mai potrebbe andare storto?

Il pimpante Macaron

Le parole del pimpante Macaron a fine summit non sono state accolte proprio calorosamente, diciamo: “Ciò che è stato concordato tra noi fin dall’inizio vale anche per il futuro” ha dichiarato alla stampa un Olaf Scholz visibilmente irritato; “vale a dire che non ci saranno truppe di terra, né soldati inviati sul territorio ucraino dai paesi europei o dai paesi della NATO, e che i soldati schierati dai nostri paesi non prendono parte attivamente alla guerra”. Gli fa eco da Praga il vecchio nuovo presidente polacco, Donald Tusk, che – in una evidente frecciatina alla postura tutta chiacchiere e distintivo dell’Eliseo – sottolinea come “Se tutti i paesi dell’UE fossero impegnati in Ucraina allo stesso livello della Polonia e della Repubblica Ceca, probabilmente non avremmo bisogno di parlare di altre forme di aiuto”. Macron resta solo titolava a 4 colonne La Stampa ieri; “Non vogliamo uno scontro con l’esercito russo” ha dichiarato Tajani: “l’Ucraina si difende con armi e aiuti”. Il punto però, ovviamente, è che questa strategia ad oggi non sta funzionando proprio benissimo: dopo la rovinosa debacle di Adviivka infatti, sottolinea ad esempio Simplicius sulla suo profilo Substack, “l’avanzata precipitosa delle forze russe continua, con la caduta di altri territori che funge potenzialmente da catalizzatore per alcune escalation da panico”. Le forze armate ucraine hanno confermato martedì la caduta prima del piccolo villaggio Lastochkino e, poi, l’avanzata verso Tonenke, ad ovest di Adviivka; Simplicius riporta poi l’avanzata anche verso un terzo villaggio, quello di Orlovka. L’ultrà NAFO Julian Roepcke, inviato di Bild, sottolinea come “L’esercito ucraino continua a non riuscire a stabilizzare il fronte ovest di Adviivka. Sieverne è il terzo villaggio strategico a cadere nell’arco di una settimana. E’ ancora ignoto dove (e se) l’Ucraina abbia stabilito una seconda linea difensiva a ovest di Adviivka”; “Non ci sono parole” ha rilanciato Yuri Butusov, noto falco russofobo: “qui a Kiev il comandante in capo supremo dice una cosa, ma al fronte sta accadendo qualcosa di completamente diverso. Oltre Avdiivka fino ad oggi non sono state costruite linee di fortificazioni. Ho visto i nostri soldati nelle buche in mezzo a un campo attaccati dai droni russi”.
Per fermare l’avanzata, sottolinea Simplicius, sono riapparsi anche gli Abrams, ma non è stato esattamente un successone: qui si vede l’Abrams muoversi e qui, invece, non si muove più , “La prima distruzione di un Abrams pienamente confermata nel conflitto”. Ed ecco, così, che ai microfoni di Deutsche Welle Oleksandra Rada, presidente della commissione speciale temporanea parlamentare sul monitoraggio delle forniture di armi all’Ucraina, ha dichiarato apertamente che “Adviivka è solo un anticipo di cosa diventerà l’Ucraina. Dopo Adviivka sarà il turno di Kupyansk, e sfortunatamente dopo arriverà quello di Kharkiv, che è la seconda città dell’Ucraina. E siamo perfettamente consapevoli che se perderemo Kupyansk, che è uno snodo ferroviario fondamentale, sfortunatamente ci sono molte probabilità di perdere anche Kharkiv”; ora, ovviamente, queste dichiarazioni sono tutt’altro che disinteressate: l’obiettivo, esplicitamente e legittimamente, è semplicemente quello di spingere per l’arrivo di nuovi aiuti per continuare a combattere ancora un po’ e, al limite, quando continuare a combattere diventerà palesemente inutile, continuare comunque a fregarsi un po’ di quattrini per consolarsi dopo la capitolazione. Il punto, comunque, rimane: la disfatta è più ampia e più rapida di ogni più pessimistica previsione e l’Occidente collettivo è in preda al panico; e quindi hai voglia te di fare il pompiere per screditare le affermazioni di Macron… D’altronde, screditare Macron, di per se, è sempre cosa giusta (e anche facile); ciononostante, rimane comunque il fatto che – come sottolinea giustamente Quirico – “Le parole del leader francese ci dicono che un coinvolgimento diretto non è più un tabù” o, perlomeno, non è più un tabù parlarne apertamente.
In realtà, ovviamente, uomini dei paesi NATO in Ucraina ci sono sin dall’inizio della guerra, che non risale a due anni fa – come affermano gli Iacoboni di tutto il mondo uniti nel disagio – ma a 10 e, con buona pace di tutti i propagandisti, ormai ad affermarlo chiaramente si sono arresi pure i media mainstream: “Per più di un decennio” scrive il New York Times in un lungo e importante articolo del 25 febbraio scorso, “gli Stati Uniti hanno coltivato una partnership segreta a livello di intelligence con l’Ucraina che ora è fondamentale per entrambi i paesi nel contrastare la Russia”. Il New York Times parla chiaramente di almeno 12 basi segrete dell’intelligence USA al confine con la Russia che hanno promosso una serie infinita di attività, come nel 2016, quando “La CIA ha addestrato un élite di uomini ucraini che avevano il compito di catturare droni russi per consegnarli a tecnici USA in modo da permettergli di decodificarli e violare i sistemi di crittografia di Mosca”; “una relazione così solida” continua il Times “che gli ufficiali della CIA sono rimasti in una località remota nell’Ucraina occidentale anche quando l’amministrazione Biden ha evacuato il personale statunitense nelle settimane precedenti l’invasione russa nel febbraio 2022”. “Durante l’invasione” continua ancora l’articolo “gli ufficiali hanno trasmesso informazioni critiche, incluso dove la Russia stava pianificando attacchi e quali sistemi d’arma avrebbero utilizzato”; “Senza di loro”, avrebbe dichiarato Ivan Bakanov, allora capo della SBU, “non avremmo avuto modo di resistere ai russi o di batterli” (torneremo su questo articolo in un altro video ad hoc a breve).
Intanto, invece, vi volevo sbloccare un altro ricordino: il 20 marzo scorso, infatti, in questo video vi avevamo parlato in un importante articolo pubblicato da Asia Times: l’articolo parlava di un importante incontro che aveva coinvolto decine di alti funzionari dell’amministrazione USA che, sotto la protezione delle regole della Chatham House – che permettono di riportare cosa è stato detto, ma non chi lo ha detto – parlavano già chiaramente del sicuro fallimento della controffensiva futura, di come “L’intero esercito che la NATO ha addestrato tra il 2014 e il 2022 è morto e le reclute vengono gettate nelle linee di battaglia dopo tre settimane di addestramento” e, quindi, di come fosse necessaria “la formazione di una legione straniera di combattenti provenienti da altri paesi per integrare la sempre più ridotta riserva di manodopera addestrata dell’Ucraina”. Nei mesi successivi qualcosa si è mosso e, come ricorda sempre Simplicius, “sappiamo tutti dalle fughe di notizie del Pentagono che il Regno Unito, gli Stati Uniti e altri hanno già forze speciali nel paese. E recentemente, il colonnello generale russo Rudskoy ha confermato nuovamente che le truppe della NATO sono già nel paese sotto le mentite spoglie di mercenari”; “Tutti sanno che ci sono forze speciali occidentali in Ucraina” avrebbe dichiarato un alto funzionario della difesa europeo; “semplicemente non sono riconosciute ufficialmente”: da questo punto di vista, le parole di Macron avrebbero avuto lo scopo di alimentare quella che viene definita l’ambiguità strategica e rivelerebbe, ancora una volta, il fatto che – commenta Simplicius – “C’è probabilmente una fazione all’interno dello Stato profondo globale che milita per un ingresso forzato della NATO nel conflitto, in un modo o nell’altro” e prima ancora di conoscere gli sviluppi di ieri, Simplicius anticipava “Il casus belli potrebbe arrivare proprio dalle tensione in Moldavia per la questione Transnistria”.

Maia Sandu

Qualche giorno fa, infatti, l’analista politico Hans Hartmann aveva dichiarato pubblicamente che la premier moldava ultra – atlantista Maia Sandu “”avrebbe dato il via libera” per risolvere la questione della Transnistria con la forza “settimane fa”: la questione Transnistria è tornata a surriscaldarsi da quando, nel 2022, l’Ucraina ha deciso di chiudere il confine; da allora tutte le merci, per raggiungere la Transnistria, devono necessariamente passare dal territorio controllato da Chisinau e, come ricorda l’agenzia di stampa russa TASS, “Tiraspol ha accusato Chisinau di sfruttare la posizione vulnerabile della Transnistria per bloccare la fornitura di beni e per esercitare pressioni su di essa”. Per ieri, quindi, le autorità della Transnistria avevano convocato una specie di assemblea straordinaria plenaria per decidere il da farsi e, nel primo pomeriggio, è arrivata la risoluzione: “Facciamo appello al Consiglio della Federazione e alla Duma di Stato della Federazione Russa, chiedendo misure per proteggere la Transnistria di fronte alla crescente pressione della Moldavia”; “Queste denunce” scrive giustamente il New York Times, ricordano da vicino “quelle avanzate a suo tempo dalle regioni ucraine orientali di Donetsk e Luhansk”, ma il New York Times evita accuratamente di trarre qualche lezione dalla tragica vicenda del Donbass e incornicia il tutto in un modo che non fa prospettare niente di buono. Secondo il Times, infatti, le due repubbliche del Donbass “sostenute dalle truppe russe e da ufficiali dell’intelligence, si sono dichiarate Stati separati nel 2014 e hanno contribuito a fornire un pretesto per l’invasione russa del 2022”; nella ricostruzione del Times, quindi, 8 anni di guerra ucraina contro le province ribelli del Donbass, con le migliaia di morti e le sofferenze che hanno causato, devono essere liquidate con una battutina e l’importante, ora, è replicare esattamente lo stesso identico film nella speranza di poter allargare la guerra fino all’ultimo moldavo – dopo aver esaurito gli ucraini.
Oggi, comunque, sulla questione sono attese le dichiarazioni ufficiali di Putin alla Duma; nonostante le tensioni e la propaganda dei suprematisti, la situazione – al momento – comunque sembra ancora abbastanza sotto controllo: gli ultra – atlantisti più sfegatati nei giorni scorsi, infatti, avevano diffuso notizie infondate sulla volontà della Transnistria di richiedere direttamente una sorta di annessione a Mosca. La risoluzione dell’assemblea plenaria scongiura questa escalation diplomatica e getta acqua sul fuoco chiedendo l’intervento anche del parlamento europeo e dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa per prevenire ogni ulteriore escalation tra le due capitali “e contribuire a rilanciare un dialogo a pieno titolo tra le sponde del Dniester”, e cioè il fiume che – appunto – separa la Transnistria dalla Moldavia; una ricerca di dialogo che, come per il Donbass, la propaganda suprematista del Times cerca di screditare in ogni modo: “I notiziari russi” scrive infatti il sempre pessimo Andrew Higgins “hanno citato Vadim Krasnoselsky, il presidente dell’enclave, che avrebbe chiesto aiuto a Mosca perché contro la Transnistria viene applicata una politica di genocidio”. Simili affermazioni incendiarie e prive di prove continua Higgins, “sono state avanzate per anni da rappresentanti russi nell’Ucraina orientale e utilizzate da Mosca per giustificare la sua invasione del 2022”. Aridaglie, limortaccisua: evidentemente, nonostante le disastrose notizie dal fronte, i pennivendoli di regime non sono usciti rinsaviti nemmeno da due anni di bagno di realtà; la speranza è che almeno i vertici militari dell’Occidente collettivo vivano in un mondo un po’ meno incantato.
Il punto, infatti, alla fine molto banalmente è – come si chiede Kenton White su Asia Times – “La NATO sarebbe davvero pronta per la guerra?” Steadfast defender, l’imponente esercitazione che da gennaio coinvolge tutti i 31 stati dell’alleanza e che “mira a migliorare le capacità e la prontezza della difesa collettiva dell’alleanza, con la più grande esercitazione dai tempi di Reforger nel 1988” rappresenta senz’altro un’imponente prova di forza, ma il problema più significativo che la NATO si trova ad affrontare, sottolinea White, “non è lo schieramento delle truppe di cui dispone, ma il loro rifornimento”: come infatti “è stato dimostrato dagli sforzi volti a fornire attrezzature e munizioni all’Ucraina”, continua White, “la NATO non ha né le scorte né la capacità produttiva per alimentare una lunga guerra moderna”; in sostanza, sostiene White, la “NATO ha pianificato da tempo quella che è conosciuta come una guerra come as you are”, che si può tradurre un po’ con metti indosso quel che capita, “il che significa che ha la capacità di combattere solo fino a quando durano le attrezzature e le forniture. Per questo motivo la strategia della NATO è sempre stata, in caso di conflitto, quella di portarlo a conclusione il più rapidamente possibile”. Indossare quel che capita, però, quando l’appuntamento è con una superpotenza militare, potrebbe non essere esattamente la scelta vincente: come ha affermato al Forum sulla sicurezza di Varsavia dello scorso ottobre l’ammiraglio olandese Rob Bauer, “L’economia just-in-time e just-enough che abbiamo costruito diligentemente negli ultimi 30 anni nelle nostre economie liberali va bene per molte cose, ma non per le forze armate quando c’è una guerra in corso”; per la guerra servono i grandi volumi e la pianificazione: in una parola, serve il socialismo. Invece che i discorsi a vanvera e i tira e molla a favore di telecamere, i leader europei dovrebbero piuttosto interrogarsi su questo: quanto socialismo sono disposti a introdurre nell’economia per provare a non essere selvaggiamente umiliati sul campo di battaglia? Il resto sono chiacchiere e la risposta, per adesso, non è certo delle più incoraggianti: mentre in Borsa i titoli delle aziende belliche europee, infatti, prendevano il volo – con Rheinmetall, giusto per fare un esempio, che in 2 anni ha quadruplicato il valore delle sue azioni – la capacità produttiva reale dell’Europa non si muoveva di un millimetro. Risultato? Vorrebbero discutere del coinvolgimento diretto della NATO, ma per raggiungere il misero obiettivo del milione di munizioni da fornire all’Ucraina, dopo un anno sono costretti a fare una cordata per provare ad andarsele a comprare in giro per il mondo, dall’India al Sudamerica, riempiendo così le tasche pure di potenziali avversari e pagandole una fortuna. Se se ne stessero a casina a compiacersi per le cazzate che scrive il New York Times sarebbero più felici e farebbero meno danni.
Contro la fuffa dei guerrafondai che poi la guerra manco sono capaci di farla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che stia dalla parte della pace e che ci aiuti davvero a capire come farla. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il pimpante Manuelino Macaron