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Tag: Riva

L’italiano che provò a uccidere Mao: la storia dimenticata

Negli anni ’60 in Cina si poteva trovare appeso sui muri delle strade un manifesto nel quale si vede la fotografia di un mortaio, di uno schizzo di piazza Tian’an men e della perquisizione di una casa. La scritta racconta che “nel 1950, l’italiano Antonio Riva, il giapponese Yamaguchi Takaichi e altri, cospirarono per bombardare piazza Tiananmen e uccidere il presidente Mao, il grande leader del nostro popolo”. Antonio Riva, l’italiano accusato di aver tentato di uccidere Mao Zedong a colpi di mortaio, è stato giustiziato a Pechino nel 1951, e sulla sua vicenda è immediatamente calato un velo di oblio… ne parliamo in questo video!

ARIDATECE L’ACCIAIO DI STATO – perchè lo scandalo Ex Ilva dimostra che i privati non servono

Carissimi ottoliner, anche oggi abbiamo un altro scoop incredibile: l’ex ILVA è nella merda. E’ veramente una notizia incredibile: cioè, per rimediare ai terribili sprechi dei carrozzoni pubblici, negli ultimi 30 anni abbiamo dato le chiavi di casa della siderurgia italiana al meglio del meglio della grande imprenditoria privata, sempre così smart e meritocratica, e non è servito a una seganiente. Il modo in cui, negli anni, c’è stata raccontata la vicenda dell’ILVA sarebbe una vera barzelletta se non fosse una gigantesca tragedia, doppia, anzi tripla: una tragedia per i 20 mila lavoratori coinvolti direttamente, tra Acciaierie d’Italia e indotto, un’altra per tutta la popolazione che vive nei paraggi, decimata da tumori e leucemie che non sono il frutto del destino cinico e baro ma di un vero e proprio furto ad opera di una manciata di oligarchi, e un’altra ancora per l’intera economia italiana che si condanna ancora una volta al declino, all’irrilevanza e alla sudditanza.

L’ILVA e le sue emissioni

La storia di odio e amore tra Taranto e l’acciaio ha inizio ormai oltre 60 anni fa e – al netto di tutte le contraddizioni – vista con gli occhi di oggi sembra una storia di fantascienza e odora di socialismo da mille miglia di distanza: il più grande e moderno impianto siderurgico dell’intero vecchio continente nel cuore di una delle aree più arretrate in assoluto di tutto il vecchio continente; una vittoria storica della sinistra democristiana di Fanfani, delle sinistre e del sindacato contro il grande capitale privato – da FIAT a Falck – che quel polo l’avrebbero voluto privato e a Vado Ligure perché, nella logica capitalistica di allora, i soldi dovevano essere investiti solo laddove c’erano già abbastanza soldi e gli altri dovevano accompagnare solo.
l’ILVA di Taranto è una vera e propria eresia, una delle massime espressioni dello stato sviluppista che la controrivoluzione neoliberista ha smantellato, lasciandoci tutti con le pezze al culo; i primi anni dell’allora Italsider sono una specie di piccolo sogno idilliaco del migliore socialismo reale: l’acciaieria, tra lavoro diretto e indotto, garantisce un lavoro sicuro e un tenore di vita dignitoso a oltre 40 mila famiglie, più di quante ve ne siano complessivamente in città e, soprattutto, garantisce all’Italia tutto l’acciaio che serve per sostenere quell’incredibile miracolo economico che ha trasformato l’intero paese nell’arco di meno di trent’anni. Ma le belle storie, purtroppo, durano sempre troppo poco.
Quindi, riassumendo, lo Stato ha fatto un gigantesco investimento per portare sviluppo economico in un’area del paese che il capitale privato schifava completamente; ha permesso a tutto il paese di crescere a ritmi cinesi anche alle aziende private che avevano l’opportunità di comprare tutto l’acciaio di qualità che gli serviva a prezzi d’occasione. Poi il ciclo dell’acciaio è entrato in crisi per fattori che non c’entravano niente con la gestione pubblica, e la gestione pubblica non solo ha tenuto botta, ma ha pure continuato a investire; poi il ciclo dell’acciaio ha cambiato corso, ma purtroppo ha cambiato ciclo pure la politica: alla democrazia moderna fondata su sviluppo e redistribuzione è subentrata la dittatura neoliberale fondata sul furto di ricchezza da parte di un manipolo di oligarchi. E così dopo aver assorbito perdite per anni, quando c’era da passare all’incasso quell’incasso si decide di regalarlo tutto a una famiglia di prenditori, e a rimetterci non è solo il sistema paese in generale ma, molto in concreto, le persone che l’acciaieria ce l’hanno come vicina di casa perché, nonostante l’azienda macinasse fatturati, gli investimenti per adeguarsi alle leggi ambientali che mano a mano venivano fuori non ci sono mai stati. Chiara la differenza? Anche l’Italsider – come si chiamava quando era ancora pubblica – inquinava, non emetteva fiorellini, ma all’epoca le leggi non c’erano e non gliene fregava un cazzo a nessuno. E quando le leggi sono continuate a non esserci ma a qualcuno un po’ più sveglio è cominciato a fregargliene qualcosa, non c’erano i quattrini perché il mercato mondiale dell’acciaio era in crisi nera. Quando da pubblica è diventata privata, invece, c’erano sia le leggi che i quattrini ma, appunto, era privata e i privati i quattrini se li intascano e le leggi le aggirano, soprattutto se lo Stato è connivente.

Emilio Riva

E qui lo Stato ai Riva gli ha sempre steso tappeti rossi, a partire dal nostro Silvione nazionale, che il patron dell’ILVA – noto falco liberista – premiava lautamente con donazioni al partito: 245 mila euro solo nel 2007, anche se va detto che 100 mila euro, giusto per cadere sempre in piedi, li aveva dati anche al PD di Bersani, e la cosa più brutta è che so pure pochi; la sudditanza agli interessi privati questi te la garantiscono pure gratis, tutto sommato, e non è che dovessero chiedere l’impossibile, eh? Bastava copiare: 10 anni prima infatti, per fare un esempio, a Duisburg la ThyssenKrupp era stata costretta a trasferire tutti i forni a coke, che trasformano il carbon fossile nel combustibile per gli altiforni, lontano dalla città; costo dell’operazione 800 milioni, tutti a carico dell’azienda. Ma non solo: il governo regionale, infatti, impone all’azienda anche di fare tutti gli interventi necessari per risolvere il problema del benzopirene, che è il principale responsabile dei tumori; tutti problemi che a Taranto oltre 20 anni dopo sono ancora lì, dopo anni e anni di cassa integrazione a spese dello Stato e una quantità di vittime da crimine di guerra.
Ciononostante, quando alla fine i Riva se ne sono dovuti andare per l’intervento della magistratura, al governo mica hanno detto “rega’, amo fatto ‘na cazzata” e sono tornati sui loro passi: macché. Hanno rilanciato, e l’ILVA l’hanno data a un’azienda che ha interessi di ogni genere tranne che rilanciare la siderurgia italiana; un’azienda che ha il cuore in India e la sede centrale in Lussemburgo: il suo capo si chiama Lakshmi Mittal, famoso per il braccino corto negli investimenti e per la manica larga nei matrimoni dei figli; sommando, tutti e tre gli sarebbero costati circa 150 milioni di dollari, più di quanto abbia mai investito a Taranto per risolvere la questione ambientale e quindi, a cascata, anche quella produttiva. Doveva riportare Taranto a 8 milioni di tonnellate di acciaio l’anno: nel 2023 si è fermato abbondantemente a meno di 4. Forse una soluzione potrebbe essere mandare quelli che si sono succeduti al governo in questi 12 anni a lavorare un po’ agli altiforni e gli operai dell’ex ILVA mandarli a Palazzo Chigi; sembra abbiano le idee più chiare: quando circa un anno fa sono stati chiamati a esprimersi sull’ipotesi nazionalizzazione non hanno avuto molti dubbi: hanno votato a favore 98 su 100.
Adolfo Urso, che ieri si è presentato al Senato cercando di passare come uno che era stato nominato poche ore prima, aveva qualche dubbio in più. Durante tutto questo anno il governo è rimasto a guardare impassibile mentre Arcelor Mittal accumulava bollette energetiche non pagate per 300 milioni, e non si capisce bene quanti debiti con i fornitori dell’indotto che, fino a ieri, sono rimasti in piedi solo grazie ai soldi anticipati dalle banche a fronte delle fatture da riscuotere da Acciaierie d’Italia (che però ora sono considerate carta straccia) e gli anticipi non arrivano più, e a rischiare lo stipendio sono circa in 3000. Nonostante l’attività ridotta, i livelli di benzene rilevati dall’ARPA sono fuori controllo e la sicurezza sul lavoro è al limite per la mancata manutenzione; e ora che solo per tirare avanti la carretta ci vogliono subito 320 milioni e, fra poco, un altro miliardo, ecco che – finalmente – fuori tempo massimo il governo si sveglia. La proposta di Arcelor Mittal è esilarante: sostanzialmente chiede al governo di metterci tutti i soldi lui, di tornare ad essere azionista di maggioranza, ma di lasciare a Arcelor Mittal il 50% del diritto di voto; un affarone!

L’ex sede di Arcelor Mittal in Lussemburgo

Ora, io voglio essere ottimista e voglio pensare che non si arriverà a questo eccesso; quello che invece mi sento abbastanza sicuro di anticipare è che, anche a questo giro, il governo interverrà con i soldi dei cittadini, ma invece che usarli per ridare finalmente all’economia italiana acciaio di qualità e a prezzi ragionevoli per rilanciare l’industria, si limiterà ancora una volta a ripianare i buchi lasciati dai privati e, quando l’azienda tornerà ad essere remunerativa, a ridarla a qualche privato che la spolperà di nuovo nell’arco di qualche anno. E questa, tutto sommato, non è nemmeno l’ipotesi peggiore perché l’ipotesi peggiore è che proprio si rinunci all’acciaio di Taranto; d’altronde che te ne fai dell’acciaio quando puoi affittare il garage su airbnb e aprire la dodicesima gelateria artigianale della tua strada? Inoltre il problema della sicurezza della fornitura d’acciaio per l’industria nazionale potrebbe essere serenamente superato dagli eventi: come riportava Il Fatto Quotidiano ieri, i dati consolidati di novembre confermano un calo della produzione industriale per il decimo mese di fila e a prendere le mazzate più grosse è proprio il mezzogiorno che, a questo punto, dovrebbe davvero separarsi dal resto dell’Italia e fondare la prima repubblica autonoma fondata sui camerieri stagionali al nero.
D’altronde, la guerra di questo governo contro il Sud è ormai a tutto campo; dopo aver consegnato ai padroncini alla continua ricerca di gente disperata pronta ad accettare 5 euro all’ora al nero il trofeo dell’eliminazione del reddito di cittadinanza, finalmente hanno deciso di alzare ulteriormente l’asticella: “Tagliati 3,7 miliardi di euro destinati al Sud” titolava ieri Il Domani. “Salvini sceglie il ponte e abbandona le scuole”; il riferimento è al famoso fondo perequativo infrastrutturale: aveva in dotazione 4,6 miliardi per cosucce da niente come strade, rete idrica e trasporti. Era stato varato nel 2009 nientepopodimeno che da Roberto Calderoli: una mancetta per convincere gli alleati meridionali a ingoiare la pillola del federalismo fiscale. Peccato che, per oltre 10 anni, non sia mai arrivato il decreto attuativo; per vederlo ritirare fuori si è dovuto aspettare Giuseppe Conte, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo e il: i fondi sono comunque rimasti lì bloccati altri 3 anni e, visto che erano bloccati, ora il governo ha deciso di ridurli ad appena 900 milioni.
Comunque non vorrei sembrarvi troppo pessimista: ieri non ci sono state solo brutte notizie; ce ne sono state anche di pessime come quella che è arrivata da Trieste, dove è definitivamente saltato il tavolo delle trattative per la crisi della Wartsila, nel silenzio generale. Se n’è accorto solo Il Manifesto: “Wartsila se ne va: 300 a casa. Buio assoluto per l’indotto”; la produzione di motori marittimi verrà delocalizzata e non in Vietnam, ma in Finlandia. Che poi è strano: “Occupazione record, l’Italia cresce” titolava infatti entusiasta Il Giornanale mercoledì scorso; com’è possibile che qui chiude tutto e l’occupazione vola? Beh, come riporta – sempre con altrettanto entusiasmo – l’organo ufficiale dei trumpiani italiani La Verità “senza il reddito dei 5 stelle è caccia al lavoro, occupati cresciuti di mezzo milione”. Peccato però che occupati non significa anche pagati; ora voi pretendete troppo: come ricordava proprio mercoledì ancora l’ISTAT, infatti, 1,3 milioni di lavoratori italiani guadagnano meno di 7,8 euro lordi e, addirittura, il 30% di chi ha un lavoro part time o a tempo determinato meno di 9,4 euro lordi. Per questi effettivamente l’acciaio non serve.
Ora, chi ci segue sa benissimo che siamo ossessionati dal realismo politico fino alla democristianaggite acuta; le paraculate dei neneisti non ci sono mai piaciute e nemmeno di chi la spara altissima sulla moglie ubriaca e la botte piena e poi, regolarmente, si ritrova cornuto e assetato, ma qui c’è poco da scegliere il male minore. Non ce n’è di male minore: vogliamo l’acciaio e lo vogliamo pulito: già i 20 mila posti di lavoro tra diretti e indotto in una realtà come quella di Taranto, ovviamente, dovrebbero valere più di qualsiasi restrizione di bilancio o fede ideologica, ma qui siamo ben oltre. I 20 mila posti di lavoro non sono manco l’aspetto più importante: l’aspetto più importante è che non esiste potenza industriale senza acciaio e non esiste democrazia moderna senza potenza industriale.
Contro la deriva di un paese fondato sulla pizza al taglio, le concessioni balneari in deroga e gli scantinati affittati su aribnb ci vuole una vera rivolta popolare e un vero e proprio media che sia in grado di darle voce. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Adolfo zerbino Urso