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Tag: reazione

“PATRIA O MUERTE” – L’amore per la patria come antidoto alla dittatura globale delle oligarchie

Si avvicinano le elezioni europee e, come ormai accade inevitabilmente da anni, uno spettro si aggira per il vecchio continente: lo spettro dell’affermazione elettorale dell’estrema destra nazionalista. Che strano… I cantori delle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione neoliberista, infatti, avevano dato il tema dell’identità nazionale per morto già diversi lustri fa: sostenevano, in soldoni, che sarebbe stato – inevitabilmente e definitivamente – relegato in un angoletto buio della soffitta dei ricordi un po’ scomodi dall’ascesa incontrastata di un’economia sempre più mondializzata e interconnessa, dal superamento delle frontiere della governance globale e da identità sempre più fluide; gli stati nazionali, secondo questa ottica un po’ messianica, non erano altro che un rimasuglio arcaico che si ostinava a tentare di ostacolare con scarsissimo successo il pieno dispiegamento di una società sempre più aperta e il definitivo trionfo a livello globale dell’unico modello possibile immaginabile: la democrazia liberale. Come mai anche a questo giro non c’avevano capito assolutamente una cippa?
“Da quassù la terra è bellissima, senza frontiere, né confini”: così si esprimeva il 12 aprile del 1961 il primo essere umano ad avere la possibilità di guardare il nostro pianeta dallo spazio; non a caso, era un cosmonauta sovietico. L’aspirazione alla costruzione di un mondo senza frontiere e alla costruzione di un essere umano nuovo cittadino del mondo è da sempre parte integrante del movimento operaio e dell’identità politica di ogni sincero progressista; oggettivamente, però, con scarsissimi risultati fino a quando qualcuno non ebbe una incredibile intuizione: quello che non erano riusciti a ottenere i subalterni di tutti i paesi attraverso la lotta politica, lo si poteva raggiungere attraverso il mercato. Altro che internazionale dei lavoratori! A garantire un futuro di pace e di progresso c’avrebbe pensato direttamente la globalizzazione. Purtroppo si è rivelata essere un’intuizione non particolarmente brillante, diciamo: a fregare i nostri amici idealisti, l’assenza dell’aggettivo che deve sempre accompagnare il termine globalizzazione – e senza il quale si rischia sempre di prendere cazzi per mazzi – e cioè neoliberista. Quella che stavano sostenendo i nostri amici alla disperata ricerca di una nuova forma di internazionalismo non era genericamente la globalizzazione, ma specificatamente la globalizzazione neoliberista; e la differenza non potrebbe essere maggiore: lungi dall’essere un progetto post – nazionale, la globalizzazione neoliberista, infatti, mirava a consolidare un ordine economico internazionale fondato su una gerarchia precisa, con alcuni stati nazionali e i loro imperi al centro e gli altri alla periferia, che potevano accompagnare solo. In particolare, accompagnare la logica feroce dell’accumulazione capitalistica che, con il sostegno dell’impero, ha operato per mettere gli stati della periferia gli uni contro gli altri in una competizione senza fine a chi si accaparra più capitali dalle oligarchie finanziarie a suon di privatizzazioni, incentivi e guerra senza frontiere ai diritti di chi lavora. E così alla fine, paradossalmente, l’identità nazionale più che cedere il passo si è potenziata: la crescita di una governance internazionale sempre più oligarchica e meno democratica ha rafforzato vecchi e nuovi nazionalismi, e la comunità nazionale si è confermata la comunità di riferimento principale per miliardi di cittadini e cittadine in tutto il mondo.
Nel suo L’insicurezza sociale, cosa significa essere protetti? Robert Castel ci ricorda come gli individui, per sentirsi sicuri, sentano la necessità di sentirsi parte di una comunità; nel novecento, però, esistevano due tipi di comunità non necessariamente antitetiche, e cioè quelle nazionali e quella, senza confini fisici, del lavoro: la sconfitta del movimento operaio, dei suoi attori e delle sue istituzioni, quindi, non poteva che lasciare il posto al primato incontrastato della comunità nazionale. Davanti all’insicurezza della globalizzazione, la nazione non poteva che venire sempre più percepita come l’unico rifugio sicuro rimasto; di fronte a questo fenomeno, una fetta maggioritaria della sinistra ha reagito con uno schematismo un po’ superficiale e non particolarmente lungimirante: nel tentativo di tenere fede in modo completamente astratto al dogma internazionalista, non solo si è allineata totalmente all’ostilità del grande capitale nei confronti del concetto di nazione, ma ha rilanciato scagliandosi come un solo uomo contro l’idea stessa di stato. “Nel mondo globalizzato” sintetizzava il maître à penser per eccellenza di questa deriva, Toni Negri, “ogni reminiscenza statalista è destinata a piegarsi al sovranismo e all’identitarismo, e rinnova derive fasciste”.

Wolfgang Streeck

A tentare di riportare il dibattito sul piano del materialismo dialettico, sottraendolo a queste derive semplicistiche, c’ha pensato fortunatamente Wolfgang Streeck , direttore emerito dell’Istituto Max Planck per lo studio delle Società di Colonia: Streeck, infatti, sottolinea proprio come quel Leviatano repressivo che è lo stato – e, in particolare, proprio nella sua forma nazionale – sia stato storicamente la forma più efficace a disposizione delle classi popolari per controllare e socializzare l’economia e come, ancora oggi, rappresenti l’ultimo argine al dominio incontrastato delle forze del capitale. Anche per questo – anche se in modo spesso confuso o ambiguo – in assenza della comunità del lavoro organizzata, oggi le forme di opposizione prevalente al regime neoliberista globalizzato si presentano come rivendicazioni di sovranità nazionale o substatale, siano esse di sinistra o di destra, escludenti o inclusive.
Ma cos’è la nazione? Davvero questo concetto è necessariamente strumento della reazione? Oppure, al contrario, può essere anche uno strumento di emancipazione egualitaria e popolare? Un quesito fondamentale che, finalmente, oggi possiamo affrontare con due strumenti in più: il primo si chiama Un’idea di paese. La nazione nel pensiero della sinistra ed è l’ultima fatica del giovane Jacopo Custodi, ricercatore in comunicazione politica alla Scuola Normale; l’altro invece si chiama Nazioni in cerca di stato ed è opera di un altro giovane ricercatore, lo storico Paolo Perri. Due libri che da prospettive diverse e complementari ci parlano, appunto della nazione, di come questo concetto non vada necessariamente declinato su base etnicocentrica ed escludente e di come un approccio diverso a questa questione possa rappresentare finalmente una base per una sinistra egemonica, nazionalpopolare e in grado di sfidare sia l’egemonia della globalizzazione neoliberista sia il suo alter ego complementare, rappresentato dal nazionalismo xenofobo e finto sovranista. I due autori condividono la definizione di Benedict Anderson di nazione come comunità immaginata: le ideologie, sostengono, non sono mistificazioni fuorvianti da sfatare rivelando una presunta verità, ma sono invenzioni concettuali che creano un ordine ideale che produce effetti materiali concreti: identità, affetti, passioni. Il fatto che, per secoli, lo sviluppo dello stato si sia accompagnato a quello della nazione e che miliardi di uomini e donne in tutto il pianeta crescano e vivano in un contesto culturale, istituzionale e comunitario in cui la nazione è la principale comunità d’appartenenza, rende la nazione un concetto materialmente vivo ed estremamente potente, che ci piaccia o no; il problema, allora, più che disquisire su quanto ci piace o meno un dato di realtà incontrovertibile, consiste più prosaicamente nel comprendere concretamente il tipo di nazione evocato: escludente e rivolto al passato, o includente e rivolto al futuro? A incidere, continuano i nostri due autori, sarebbero in particolare due variabili: da un lato la storia e, dall’altro, il progetto politico inteso come l’insieme di interessi e di gruppi sociali che ci si propone di rappresentare; un concetto escludente di nazione è, ad esempio, per eccellenza, quello che si fonda sull’appartenenza etnica che, contro ogni minima parvenza di rigore storico, viene spacciata come chiusa, statica e naturale. La nazione fondata su una purezza etnica necessariamente posticcia non può che essere funzionale esclusivamente a vedersi eternamente come un fortino minacciato da tutti gli altri popoli – culturalmente ancora più che politicamente; è una nazione che teme ogni mutamento sociale, sogna il ritorno a un eden passato totalmente artefatto e, nel farlo proprio mentre magari legittimamente contesta le oligarchie transnazionali, punta al rafforzamento di gerarchie sociali che vedono le oligarchie locali al centro e tutti gli altri intorno, che possono accompagnare solo: insomma, l’esatto opposto di una nazione che si fonda sulla condivisione di principi e orizzonti democratici, aperta a chiunque voglia condividere un progetto sociale fondato sull’uguaglianza e necessariamente in eterno divenire. Questa idea includente di nazione rifiuta l’artificio dell’omogeneità etnica e culturale, e più che essere interessata al pedigree e da dove vieni, è interessata a dove vorresti andare e al contributo che sei disposto a dare per arrivarci, insieme; in quanto fondata su un progetto politico condiviso e democratico, la nazione includente è un’arma straordinaria di contrasto allo strapotere delle oligarchie e, paradossalmente, è per sua natura intrinseca molto più concretamente internazionalista di quanto non lo siano le utopie astratte, perché già solo per il fatto di esistere – e di resistere – contribuisce concretamente alla costruzione di un sistema di relazioni internazionali più equo e democratico.

Jacopo Custodi

Jacopo Custodi si sofferma principalmente sull’idea di nazione nella sinistra radicale e nella sua tradizione teorica, in particolare nel contesto italiano, e lo fa a partire da una semplice ma fondamentale riflessione: pensate se io oggi mi svegliassi e su un qualsiasi social mi azzardassi ad affermare una cosa tipo “O la patria, o la morte”. Immaginate? Razzista! Rossobruna!
Ebbene sì: sono razzista e rossobruna, come Che Guevara: Patria o muerte infatti, com’è ben noto, è stato a lungo il più celebre dei suoi slogan. A lungo, appunto, ma da una trentina di anni, un po’ meno, diciamo. Il Che, ovviamente, si riferiva in particolare alla funzione fondamentale che l’idea di comunità nazionale rivestiva nelle lotte di decolonizzazione, ma la centralità della questione nazionale nelle riflessioni di un militante rivoluzionario non era certo una sua invenzione: da Lenin a Rosa Luxembourg, in tutta la storia del movimento operaio la questione nazionale è sempre stata centrale; durante la rivoluzione d’Ottobre, la lotta per l’autodeterminazione nazionale di quelle che diventeranno poi le repubbliche sovietiche è stato uno degli assi fondamentali, e per Antonio Gramsci la partita principale consisteva nella definizione di un un progetto nazionalpopolare di unità del proletariato del Nord con i contadini del Sud per un blocco storico nazionale capace di costruire un’Italia socialista. Amare il proprio paese, scrive Jacopo Custodi, “vuol dire attivarsi per cambiarlo, e allo stesso tempo identificarsi con esso e rappresentarlo”, ed “è questo” continua l’autore “il senso profondo di quell’espressione, costituirsi in nazione, che compare nel Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels e che porta con sé l’eco della Rivoluzione Francese”; “Ciò che è nell’interesse della nazione” continua Custodi “dipende da cos’è la nazione, e da dove viene messa la sua frontiera immaginata”. Il punto, insiste, è la lotta per l’egemonia e la rivendicazione del fatto che le battaglie per l’uguaglianza e l’emancipazione dei subalterni non solo coincidono con l’interesse nazionale, ma SONO l’interesse nazionale; lasciare alle forze della reazione la costruzione dell’idea di nazione significa, molto semplicemente, rinunciare a lottare per l’egemonia e nascondersi mentalmente in qualche paradiso perduto, tra qualche battuta snob sulla necessità di abolire il suffragio universale e qualche piagnisteo vittimista su quanto il volgo non sia in grado di comprenderci.

Paolo Perri

Paolo Perri inquadra invece la questione nazionale da un altro punto di vista, ripercorrendo la storia dei movimenti e partiti politici che rappresentano quelle nazioni senza stato in cerca di maggiore autonomia o indipendenza; l’autore ripercorre la storia dei principali indipendentistmi, dalla Spagna all’Irlanda passando per Scozia, Galles, Fiandre e chi più ne ha più ne metta, e in questo modo ci permette di toccare con mano, in qualche modo, quello che Custodi ha provato a descrivere teoricamente. Come Custodi, Perri condivide l’idea della nazione come un prodotto dell’immaginazione politica che mette insieme elementi sociali, religiosi, economici e storici per un concetto di nazione sempre mutevole; questi nazionalismi diventano spesso il catalizzatore politico di una domanda di trasformazione più ampia il cui maggiore o minore successo è determinato da un lato dal grado di repressione dello stato nazionale in cui si sviluppano e, dall’altro, dalla loro capacità di rappresentare un progetto sociale ed economico alternativo : “Le mobilitazioni autonomiste e indipendentiste nell’Europa di questi ultimi anni” scrive Perri “si possono e si devono ricondurre a una molteplicità di fenomeni, quasi sempre espressione della crisi della democrazia rappresentativa. I movimenti nazionalisti, allora, possono proporsi da un lato come canali di radicalizzazione democratica, avanzando soluzioni antiliberiste e redistribuzioniste, come nei casi irlandese, basco, catalano e scozzese; oppure possono agire come forze autoritarie e conservatrici, che declinano il nazionalismo in forme di chiusura neo – comunitarista e xenofoba, come nel caso fiammingo.” L’idea nazionale, in questo caso, diviene il perno centrale di un immaginario antisistemico che catalizza il dissenso sociale: durante le crisi, sottolinea Perri, “Partiti spesso marginali, o addirittura organizzazioni clandestine e/o paramilitari, si sono trasformati in veri protagonisti della scena politica, sostituendosi in molti casi ai partiti tradizionali di destra, di centro e di sinistra. In tutti i casi qui presi in considerazione, il nazionalismo, da semplice espressione della frattura centro – periferia, ha finito quindi per interagire con diverse ideologie politiche, sposandone sempre più convintamente alcuni aspetti e producendo una sintesi liquida, che gli ha permesso di rispondere a un numero molto più ampio di istanze e richieste provenienti dalla società”; non è un caso che molti di questi movimenti abbiano rappresentato una delle risposte politiche alla globalizzazione neoliberista e che il loro sostegno elettorale sia cresciuto nelle fasi successive alla crisi del 2008. Paolo Perri ci costringe a prendere atto dell’ineludibile centralità del concetto di nazione nei momenti di crisi mostrandoci, ancora una volta, come la lotta per una declinazione diversa di nazione sia non solo possibile ma, probabilmente, l’unica possibilità che ci rimane per provare davvero a tornare a combattere per l’egemonia e non rassegnarci in eterno a rimanere ad abbaiare alla luna da un angolino.
Per riflettere insieme su come uscire concretamente dall’angolino l’appuntamento è per mercoledì 31 gennaio a partire dalle ore 21 in diretta su Ottolina Tv insieme a Paolo Perri e a Jacopo Custodi per una nuova puntata di Ottosofia .Noi comunque, nel frattempo, un’ideina ce la siamo fatta: servirebbe un vero e proprio media che faccia i conti con la realtà – a partire dall’esistenza di stati e nazioni – e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Tony Blair

I’m just a lonely boy: come il sostegno al genocidio di Gaza sta isolando Biden e gli USA.

A gestire le decine e decine di miliardi di aiuti militari che gli USA hanno inviato all’Ucraina negli ultimi ormai poco meno di due anni, c’è un piccolissimo ufficio con appena una decina di dipendenti che negli ambienti militari statunitensi ormai sono diventati leggendari; dal giorno alla notte hanno gestito, senza battere ciglio, un aumento del carico di lavoro del 15 mila % imparando a “svolgere in poche ore quello che prima richiedeva mesi”, come riportava enfaticamente Defenseone. Tra quei 10 eroi della patria, con ruolo apicale, c’è anche lui: Josh Paul.

“Sono entrato a far parte dell’Ufficio per gli affari politico-militari (PM) più di 11 anni fa” ha scritto Josh “e l’ho trovato immediatamente un lavoro affascinante e coinvolgente, fatto di compiti e obiettivi estremamente impegnativi sia intellettualmente che moralmente. Sono molto orgoglioso” continua Josh “di aver fatto molte volte la differenza, sia visibilmente che dietro le quinte, dalla difesa dei rifugiati afghani, all’aver influenzato le decisioni dell’amministrazione sul trasferimento di armi letali in paesi accusati di mancato rispetto dei diritti umani. Quando sono arrivato in questo ufficio, che è l’ente governativo degli Stati Uniti maggiormente responsabile del trasferimento e della fornitura di armi a partner e alleati, sapevo benissimo che il mio compito era tutt’altro che privo di complessità morale e di compromessi delicati, e mi sono ripromesso che sarei rimasto finché i danni che ero costretto a fare fossero stati controbilanciati da sufficienti contributi positivi. E in questi 11 anni ho fatto più compromessi morali di quanti riesco a ricordare, ma senza mai venir meno a quel patto con me stesso”. Ma dopo 11 anni, conclude Josh, “oggi finalmente sento il dovere di andarmene”. E questa è la sua lettera di dimissioni.
A convincere Josh che ormai quel patto si era rotto, infatti, sarebbe “la fornitura continuata, anzi, ampliata, e accelerata, di armi letali a Israele” che lo ha posto di fronte a una contraddizione insanabile: “non possiamo essere una volta contrari alle occupazioni, e un’altra volta a favore. Non possiamo essere una volta a favore della libertà, e un’altra contro. E non possiamo dirci a favore di un mondo migliore, mentre contribuiamo concretamente a crearne uno peggiore”. Josh condanna senza appello l’azione di Hamas “ma sono profondamente convinto” sottolinea “che la risposta che Israele sta dando, e il sostegno americano a quella risposta, non possa che portare inevitabilmente a sempre maggiore sofferenza sia per il popolo israeliano che per quello palestinese. E alla lunga, danneggiare anche gli interessi del nostro paese”. Secondo Josh, infatti, “la risposta di questa Amministrazione – e anche di gran parte del Congresso – non è altro che una reazione impulsiva basata solo su bias cognitivi, mera convenienza politica, e una tragica bancarotta intellettuale”. Josh si dichiara enormemente deluso, ma non sorpreso: “Il fatto” sottolinea Josh “è che il sostegno cieco a una parte a lungo termine è distruttivo per gli interessi dei cittadini di entrambe”. Il timore di Josh, insomma, è che “si stiano ripetendo gli stessi errori commessi negli ultimi decenni. E io mi rifiuto di farne ancora parte”. Secondo Josh, infatti, in questo genere di conflitti “non dovremmo schierarci con uno dei combattenti, ma con le persone prese in mezzo, e quelle delle generazioni future. La nostra responsabilità” continua “dovrebbe essere aiutare le parti in conflitto a trovare una soluzione, mettendo sempre al centro i diritti umani, invece di cercare di eluderli. E, quando accadono, denunciarne le violazioni, indipendentemente da chi le commette, sia quando sono avversari, il che è facile, ma ancora di più quando sono nostri partner”. Ed è proprio per questi motivi, conclude Josh, “che mi sono dimesso dal governo degli Stati Uniti: perché se posso lavorare, e ho lavorato duramente per migliorare le politiche in materia di sicurezza, non posso lavorare a sostegno di una serie di decisioni politiche che ritengo miopi, distruttive, ingiuste e in palese contraddizione con i valori che sosteniamo pubblicamente e che sostengo con tutto il cuore: un ordine internazionale fondato sulle regole, e che promuova l’uguaglianza e l’equità”.
Abituati a esercitare un’egemonia totale in campo militare grazie all’esercito più grande e dispendioso della storia umana, in campo economico grazie allo strapotere del dollaro, e in campo ideologico grazie alla proprietà di tutti i mezzi di produzione del consenso, gli USA si sono illusi di poter applicare spudoratamente doppi standard a tutto quello che li riguarda senza mai dover pagare pegno, ma da Josh Paul ai vecchi alleati in Medio Oriente che a Biden, ormai, manco gli rispondono più al telefono perché hanno paura di essere linciati dalle loro opinioni pubbliche, il fascino indiscreto e totalizzante dell’impero sembra perdere continuamente smalto. E se a far crollare definitivamente l’impero non fosse qualche nemico esterno, ma semplicemente la sua ormai insostenibile tracotanza?

“L’America è la causa principale dell’ultima guerra tra Israele e Palestina”; nell’ultimo lungo articolo per Foreign Policy, il buon vecchio Stephen Walt, come gli capita spesso, ha deciso di toccarla pianissimo. Blasonato professorone di politica internazionale all’Università di Harvard, 15 anni fa divenne il bersaglio preferito della potente lobby israeliana dopo averne descritto, senza tanti fronzoli, la gigantesca influenza in un celebre libro scritto a 4 mani insieme al leggendario John Mearsheimer e pubblicato in Italia con il titolo “La Israel lobby e la politica estera americana”. Walt non può fare a meno di notare come “mentre israeliani e palestinesi piangono ognuno i loro morti, sembra impossibile riuscire a resistere alla tentazione di cercare qualcuno in particolare da incolpare. Gli israeliani e i loro sostenitori” continua Walt “vogliono attribuire tutta la colpa ad Hamas. Mentre coloro che sono solidali con la causa palestinese, vedono la tragedia come il risultato inevitabile di decenni di occupazione”. Walt, invece, propone un filone un po’ diverso e si propone di ricostruire a grandi linee “come 30 anni di politica estera americana si sono conclusi con un disastro”. La ricostruzione di Walt, infatti, parte dal 1991, l’anno della prima guerra del Golfo: “una straordinaria dimostrazione della potenza militare e dell’abilità diplomatica degli USA” sottolinea Walt “che sono stati in grado di eliminare la minaccia posta da Saddam Hussein agli equilibri regionali”. Walt ricorda come, all’epoca, l’Unione Sovietica fosse ormai sull’orlo del collasso, come gli USA utilizzarono questa schiacciante vittoria per consolidare la loro posizione di unica potenza globale “saldamente al posto di guida”, e anche come decisero di sfruttare questa posizione di dominio incontrastato per imporre,nell’ottobre del 1991, una conferenza di pace in grado di mettere attorno a un tavolo Israele, Siria, Libano, Egitto, Comunità Economica Europea, Unione Sovietica e una delegazione giordano-palestinese: è la famosa Conferenza di pace di Madrid che, secondo Walt, “sebbene non abbia prodotto risultati tangibili, aveva gettato le basi per un serio sforzo per costruire un ordine regionale pacifico”. Eppure, riconosce Walt, “Madrid conteneva anche un fatidico difetto, che avrebbe generato innumerevoli problemi nei decenni successivi”: a Madrid, infatti, mancava l’Iran. Non la presero proprio benissimo, diciamo; come osservava Trita Parsi nel suo Treacherous Alliance, infatti, “l’Iran vedeva in Madrid non solo una conferenza sul conflitto israelo-palestinese, ma come il momento decisivo nella formazione del nuovo ordine in Medio Oriente” e ovviamente, da grande potenza regionale quale indubbiamente era e continua ad essere, “si aspettava un posto a tavola”. E visto che quel posto a tavola non c’era, decise di prenotare un tavolo tutto suo in un ristorante diverso. Ospiti d’onore: Hamas e la Jihad islamica, due gruppi della resistenza palestinese in odor di fondamentalismo,che fino ad allora non s’era cacata di pezza. “Una risposta principalmente strategica, piuttosto che ideologica”, sottolinea Walt, per “dimostrare agli Stati Uniti e agli altri che se i suoi interessi non fossero stati presi in considerazione, era in grado di far fallire i loro piani”. Che, fa notare Walt, è esattamente quello che è successo poco dopo, “quando gli attentati suicidi e altri atti di violenza estremista hanno interrotto il processo di negoziazione degli accordi di Oslo e minato il sostegno israeliano a una soluzione negoziata”.
Per arrivare al secondo capitolo della ricostruzione di Walt, invece, bisognerà aspettare un’altra decina di anni; il riferimento, ovviamente, è all’11 settembre prima e all’invasione dell’Iraq del 2003 poi, che oltre ad essere stata una carneficina di dimensioni inaudite, in grado di trasformare in sanguinarie terroriste anche le suore Orsoline, alla fine è stata pure un altro regalo all’Iran. Come ricordava ieri il Financial Times, infatti, con quella specie di piccolo genocidio democratico “Washington non aveva fatto altro che rimuovere la minaccia più imminente ed esistenziale per la teocrazia, per poi lasciarle in eredità uno stato iracheno de debole infestato di quinte colonne iraniane”; un’evoluzione, sottolinea Walt, che “ha allarmato l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo”. Da lì in poi, prosegue Walt, “la percezione di una minaccia condivisa da parte dell’Iran ha cominciato a rimodellare le relazioni regionali in modo significativo, alterando anche le relazioni di alcuni stati arabi con Israele”.
Il terzo atto di questa lenta e inesorabile tragedia, poi, arriverà nel 2015, quando l’amministrazione Trump deciderà di abbandonare unilateralmente il patto per il nucleare iraniano. Una decisione scellerata che ha indotto l’Iran a “riavviare il suo programma nucleare e avvicinarsi molto a possedere finalmente la bomba” e, di conseguenza, ha indotto anche l’Arabia a ritenere indispensabile lo sviluppo di un nucleare suo, magari con l’aiutino di Tel Aviv.
Il quarto atto, infine, sarebbero gli Accordi di Abramo che, secondo Walt, sono un’estensione logica del ritiro unilaterale dal patto sul nucleare: “Nati da un’idea dello stratega dilettante, nonché genero di Trump, Jared Kishner” sottolinea Walt “hanno fatto relativamente poco per promuovere la causa della pace perché nessuno dei governi arabi partecipanti era attivamente ostile a Israele o capace di danneggiarlo”.

Che il piano di Trump per il Medio Oriente fosse totalmente fallimentare l’aveva capito addirittura un pezzo di classe dirigente USA e così tra le promesse elettorali di Biden, ecco che fa capolino l’intenzione di tornare a sottoscrivere il patto sul nucleare che però, appunto, rimane solo un’intenzione, e forse manco quella. In compenso Biden si è astenuto scientificamente dal provare a ostacolare in qualche modo la deriva ultra-reazionaria del governo israeliano, ormai esplicitamente clerico-fascista e impegnato a sostenere la ferocia estremista di coloni criminali che hanno spinto a un ulteriore radicalizzazione la maggioranza della popolazione palestinese. Intanto l’amministrazione Biden, nonostante la riapertura dei rapporti diplomatici tra sauditi e iraniani raggiunta grazie alla mediazione cinese, puntava tutto sul geniale Patto di Abramo del geniale Jared Kushner ma questa opzione, sottolinea Walt, “aveva poco a che fare con la pace tra israeliani e palestinesi, ed era piuttosto finalizzata esclusivamente a impedire un ulteriore avvicinamento dei sauditi alla Cina”. Insomma, la questione palestinese è completamente uscita dai radar: “Come il primo ministro Netanyau e il suo gabinetto” sottolinea Walt “i massimi funzionari statunitensi sembrano aver dato per scontato che non ci fosse nulla che un gruppo palestinese potesse fare per far deragliare o rallentare questo processo o attirare nuovamente l’attenzione sulla loro difficile situazione. Sfortunatamente” continua Walt “questo presunto accordo, invece, ha rappresentato per Hamas un potente incentivo a dimostrare quanto fosse sbagliata questa ipotesi”. Secondo Walt, quindi, il tipo di azione e la sua tempistica non sono stati altro che una risposta di Hamas – da questo punto di vista perfettamente razionale – “a sviluppi regionali che sono stati guidati in misura considerevole da preoccupazioni di tutt’altro genere”. Insomma, sottolinea Walt, “dagli accordi di Oslo Washington ha monopolizzato la gestione del processo di pace, ma i suoi sforzi alla fine non hanno portato assolutamente a nulla, e nel corso degli anni la soluzione dei due stati non ha fatto che allontanarsi sempre di più fino a diventare oggi probabilmente impossibile”. Un fallimento totale che offre un assist preziosissimo alle potenze che più coerentemente si battono per l’emergere di un nuovo ordine multipolare che, da questo punto di vista, risulterebbe semplicemente necessario, di fronte all’unipolarismo USA che, molto banalmente, non riesce a garantire la sicurezza per nessuno: “Gli Stati Uniti gestiscono da soli la regione da più di 3 decenni, e con quali risultati?” si chiede Walt: “assistiamo a guerre devastanti in Iraq, Siria, Sudan e Yemen” elenca Walt. “Il Libano è in fin di vita, in Libia c’è l’anarchia, l’Egitto sta barcollando verso il collasso. I gruppi terroristici si sono trasformati, e continuano a seminare terrore in tutti gli angoli del pianeta, mentre l’Iran si avvicina sempre di più alla bomba. Non c’è né sicurezza per Israele, né giustizia per la Palestina. Ecco cosa ottieni quando lasci che a gestire tutto sia Washington. A prescindere dall’idea che ognuno di noi ha su quali siano le reali intenzioni di Washington, il dato è che i leader USA ci hanno ripetutamente dimostrato che non hanno la saggezza e l’obiettività necessarie per ottenere risultati positivi. Nemmeno per se stessi”.

in foto: Joe Biden

Dall’altra parte c’è la Cina che può vantare il fatto di aver costruito relazioni costruttive con tutti gli attori regionali senza eccezione, al punto da riuscire a far tornare a dialogare anche due acerrimi nemici storici come Arabia Saudita e Iran: “non è ovvio che il mondo trarrebbe beneficio se il ruolo degli Stati Uniti diminuisse e quello dei cinesi aumentasse?”. Ovviamente quella di Walt, che come Mearsheimer è un conservatore e non ha nessuna simpatia per l’ascesa cinese e del sud globale in generale, è una provocazione e un campanello d’allarme: “se anche tu pensi che affrontare la sfida di una Cina in ascesa sia una priorità assoluta” scrive infatti “potresti voler riflettere su come le azioni passate degli USA hanno contribuito alla crisi attuale”. Walt infine, al contrario di quanto sosteniamo noi da giorni, riconosce all’amministrazione Biden lo sforzo in queste ore di provare a contenere l’escalation del conflitto, “ma” sottolinea “il team di politica estera dell’amministrazione assomiglia più a una squadra di meccanici che non di architetti” e potrebbe non essere minimamente attrezzato ad affrontare un’epoca in cui “l’architettura istituzionale della politica mondiale è sempre più un problema e sono necessari nuovi progetti. E’ ovvio” insiste Walt “che hanno interpretato male la direzione in cui era diretto il Medio Oriente, e l’applicazione dei cerotti oggi – anche se viene fatta con energia e abilità – lascerà comunque le ferite sottostanti non curate. Se il risultato finale delle attuali amministrazioni di Biden e del Segretario di Stato Antony Blinken fosse semplicemente un ritorno allo status quo pre 7 ottobre” conclude Walt “temo che il resto del mondo starà a guardare, scuoterà la testa con sgomento e disapprovazione, e concluderà che è arrivato il tempo per un approccio diverso”.
Se anche tu, quando vedi rimbambiden e i suoi vassalli in giro per il mondo, scuoti la testa e pensi che sarebbe arrivato il momento per un approccio leggermente diverso, aiutaci a costruire il primo media che guarda al mondo nuovo che avanza senza le lenti annebbiate dei vecchi babbioni suprematisti: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Chicco Mentana

Conflitto Israele Palestina: la reazione cinese

In questo video parliamo della reazione cinese agli scontri tra Israele e Palestina e di quali sono i rapporti tra Cina e Israele, Cina e Palestina e Cina e Hamas, per capire la posizione cinese sulla questione e le differenze tra la posizione della Cina e quella dei paesi occidentali. E la differenza principale è che la Cina non ha mai considerato la questione palestinese come una questione sopita o destinata ad estinguersi da sola, ma anche solo nel corso del 2023 in molte occasioni la Cina ha indicato la questione palestinese come una delle crisi più urgenti dello scenario internazionale.