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Tag: pakistan

L’incredibile regola segreta che impone agli editorialisti del Corriere di NON CAPIRE NIENTE

Carissimi ottoliner, ben ritrovati. Siccome la scorsa settimana sono stato assalito da un forte calo di autostima, per risollevarmi il morale nel weekend ho deciso di immergermi nel variegato club del disagio e oggi sono qui a presentarvi la mia nuova crush: si chiama Danilo Taino ed è l’anonimo editorialista del Corriere a cui viene sbolognata la patata bollente ogni volta che c’è da fare un po’ di propaganda sconclusionata e di mettere il nome su qualche figuretta barbina (tanto lui, sostanzialmente, manco se n’accorge); e venerdì scorso ha dato veramente il meglio di sé. Il nostro pigro fatalismo si intitola l’editoriale (pure un po’ poeta il Taino, con quel ciuffetto sbarazzino); il pigro fatalismo che Taino vuole combattere è quello che spinge “la conversazione in corso nelle democrazie” a vedere un “futuro solo oscuro” e a pensare che tutto andrà per il peggio: “l’Ucraina perderà la guerra di resistenza alla Russia, in Medio Oriente ci sarà un’escalation dei conflitti, Taiwan finirà in mani cinesi, la Jihad tornerà a colpire l’Europa, l’America vacillerà, il 2024 sarà un disastro per le libertà e i commerci e le economie crolleranno”. Insomma: secondo Taino Ottolina Tv, in sostanza, avrebbe stravinto la battaglia per l’egemonia, ma a Danilo Taino non la si fa; tra un video con altri fini pensatori come Scacciavillani e Forchielli e un retweet di Marco Taradash o di Marco Capezzone e l’altro, Taino – infatti – ha sviluppato un’idea tutta sua di come il giardino ordinato possa uscire vincitore dal conflitto con quello che ha definito “l’asse dei despoti contro l’egemonia degli USA”, e la soluzione si chiama una botta di ottimismo. Basterà?

Danilo Taino

Nell’editoriale del Corriere di venerdì scorso, Danilo Taino ci ricorda che il 2024 sarà l’anno della democrazia: mai nella storia umana, infatti, così tante persone in tutto il mondo sono state chiamate alle urne nell’arco di 12 mesi e, sottolinea Taino, è iniziato alla grande, “con uno stop alle pretese della più potente autocrazia”: “Lo scorso 13 gennaio” infatti, ricorda Taino, “Taiwan ha votato a nuovo presidente il candidato inviso a Pechino, nonostante le minacce del partito comunista cinese”; “La situazione nell’isola resta tesa”, concede, “ma il dato di fatto è che le prime elezioni importanti dell’anno non sono andate come il gigante illiberale asiatico voleva”. Quello che Taino, però, dimentica di sottolineare è che il partito democratico progressista – che è, appunto, quello più smaccatamente filo occidentale – rispetto alle scorse elezioni ha perso 3 milioni di voti e pure la maggioranza in parlamento, e la questione indipendenza sembra essere stata totalmente derubricata; non era per niente scontato: nell’agosto del 2022 i democratici statunitensi avevano cercato disperatamente l’escalation con la missione a sorpresa di Nancy Pelosi, la senatrice USA famosa per aver utilizzato il suo ruolo politico per favorire il conto in banca del marito. Un flop totale. Ma a parte la questione taiwanese, nel disperato tentativo di cercare uno sprazzo di ottimismo, le cose che Taino si dimentica di dire di queste prime tornate elettorali sono anche molte altre: Taino si dimentica di dire, ad esempio, che in Senegal il cocco dell’Occidente Macky Sall per non venire completamente asfaltato alle elezioni previste per questo febbraio dal giovane militante anticolonialista Sonko – che si apprestava a trionfare per interposta persona, nonostante sia già stato da tempo rinchiuso in carcere con accuse palesemente infondate – il voto l’ha dovuto proprio rimandare e non di qualche settimana, ma di un anno, e chi ha protestato è stato preso a mazzate e gettato in carcere senza che sui mezzi di produzione del consenso del nostro giardino ordinato se ne facesse menzione. Anzi, tra i millemila leader che hanno tirato il pacco alla Meloni per la sua pantomima del vertice Italia – Africa che doveva inaugurare in pompa magna il piano immaginario Mattei, uno dei pochi ad essersi presentato è stato proprio Macky Sall, che è stato accolto come il sol dell’avvenire mentre, a casa sua, se arriva al 20% dei consensi è oro colato.
Taino sembra aver rimosso anche un altro appuntamento elettorale, ancora più paradigmatico: parliamo, ovviamente, delle elezioni in Pakistan, un vero e proprio spettacolo; anche qui, come in Senegal, il candidato di gran lunga più popolare – il leader populista, sovranista e anti – establishment Imran Khan – dopo essere stato detronizzato con il solito caro vecchio golpe bianco, è stato incarcerato per impedirgli di partecipare alle elezioni. Ma non solo: al suo partito è stato addirittura impedito di presentarsi utilizzando il suo simbolo che, in un paese dove il tasso di analfabetismo supera abbondantemente il 40%, è una mazzata al cubo; ciononostante, oltre ogni più rosea previsione Khan ha fatto il pieno e per impedirgli di ottenere la maggioranza assoluta sono dovuti ricorrere alle peggio schifezze. Dal Senegal al Pakistan, passando per il Sahel, l’ondata populista e sovranista sembra inarrestabile e il bello è che, comunque, all’Occidente collettivo, nonostante le nuove strategie della tensione, non va bene comunque: lo scontro in Pakistan, infatti, non era tra soldatini dell’impero e multipolaristi; anche i golpisti che ora, in qualche modo, accrocchieranno il tutto per tenere Imran Khan fuori dai giochi, infatti, guardano più alla Cina che non al giardino ordinato. Sono loro, infatti, ad aver dato il via al China Pakistan Economic Corridor che, tra tutti i singoli tassellini che compongono la belt and road initiative, è probabilmente il più grande in assoluto.

Joko Widodo (Jokowi)

Nei giorni scorsi, poi, si è votato anche in Indonesia e qui il famoso asse delle autocrazie – con il quale Taino indica tutti i paesi che si sono definitivamente rotti i coglioni del colonialismo occidentale – ha vinto ancora prima che si cominciassero a contare i voti: nel 2019, infatti, la carta anticinese aveva giocato un ruolo di primissimo piano nella contesa elettorale, diventando l’arma retorica per eccellenza dell’opposizione reazionaria e filo – occidentale che si batteva per negare a Joko Widodo un secondo mandato. Fortunatamente allora quell’opzione venne battuta alle urne; questa volta, invece, non ci s’è nemmeno presentata: durante il suo secondo mandato, infatti, Jokowi non solo ha cominciato a raccogliere tutti i frutti della sua azione riformatrice fatta di welfare state, sviluppo economico e rafforzamento della sovranità nazionale – grazie a un forte processo di sempre maggiore integrazione economica con la superpotenza manifatturiera cinese – ma è addirittura riuscito a includere in questa nuova prospettiva di liberazione e sviluppo nazionale anche l’opposizione. Il candidato che risulterebbe di gran lunga vincente alle elezioni, infatti, è proprio il leader della vecchia opposizione, Prabowo Subianto, che Jokowi decise di assoldare nel suo governo come ministro della difesa per tentare una sorta di percorso di unità nazionale. Un’operazione riuscita: a questo giro, infatti, l’ex oppositore Prabowo è stato direttamente da Jokowi; della fantomatica minaccia cinese in campagna elettorale non ha parlato nessuno, e l’opzione dell’indipendenza nazionale e la volontà di tenersi al di fuori dalla contrapposizione per blocchi è diventata sostanzialmente unanime. E non è certo solo questione di ideologie: nel sottofondo, infatti, c’è la solita vecchia guerra tra borghesie nazionali e borghesie compradore; le seconde, ovviamente, guardano con maggior simpatia alle oligarchie occidentali e vorrebbero continuare a imprigionare l’Indonesia nel vecchio sistema neocoloniale, limitando l’economia indonesiana alla sola esportazione di materie prime non lavorate che non necessitano investimenti. Vuol dire che i latifondisti e i grandi proprietari si limitano a incassare rendite senza avviare nessun percorso di sviluppo, che è la precondizione per la nascita e la crescita di un vero movimento dei lavoratori e, quindi, di una vera democrazia; la borghesia nazionale, invece, si vuole arricchire come gli altri, ma non è pregiudizialmente contraria all’idea che per farlo si debba investire e permettere all’economia nel suo insieme di crescere, anche se comporta ritrovarsi di fronte lavoratori più attrezzati per far valere i loro diritti. Prabowo, originariamente, apparterrebbe più alla borghesia compradora che a quella nazionale, ma l’ottimo lavoro portato avanti da Jokowi in 10 anni di presidenza sembrerebbe aver spostato definitivamente i rapporti di forza a favore delle borghesie nazionali, con il sostegno della stragrande maggioranza della popolazione: Jokowi, infatti, gode di una popolarità senza precedenti, e invertire il processo che ha avviato – e che ha avuto il suo culmine assoluto nella messa al bando totale dell’esportazione di nickel come materia prima, imponendo che almeno una parte della lavorazione avvenga in Indonesia – potrebbe non essere alla portata delle forze della reazione; Prabowo – che è un opportunista, ma non è scemo – lo sa benissimo e ha deciso di porsi in piena continuità con l’amministrazione Jokowi, che l’ha sostenuto – come l’hanno sostenuto anche i cinesi. Per la borghesia compradora potrebbe essere la sconfitta definitiva.
Insomma: nel Sud globale, ormai, lo scozzo è tra due sfumature diverse di multipolarismo; quella più soft e paracula dei vecchi establishment che cercano di adeguarsi al mondo che cambia senza perdere i loro privilegi e quella più strong delle forze politiche emergenti che cercano di approfittare del mondo che cambia per cambiare tutto anche in casa. E al giardino ordinato, intanto – tutto in subbuglio per il grande anno delle elezioni globali – non rimane che interpretare le poche elezioni che si svolgono davvero regolarmente capovolgendo la realtà e stendere un velo pietoso su tutte le altre. E anche fare un po’ di sano vittimismo, come quando a Davos, il mese scorso, la crème de la crème delle oligarchie parassitarie del pianeta si è riunita per lanciare all’unisono un allarme accorato sul rischio fake news e disinformazione; cioè, gli azionisti di maggioranza di tutti i mezzi di produzione del consenso dell’Occidente collettivo ci volevano convincere che il problema non sono gli eserciti di Danili Taino sul loro libro paga e il monopolio delle piattaforme social in mano loro, ma Ottolina Tv e il fantasma di Giulietto Chiesa.
D’altronde l’odio di Taino per la democrazia ha radici antiche: era il luglio del 2015 e con la scusa del feticcio dell’austerity la Germania si apprestava a ridurre in cenere la povera Grecia; dieci anni dopo, tutti i principali protagonisti di quella stagione hanno fatto il mea culpa e hanno ammesso pubblicamente che la stagione dell’austerity a tutti i costi è stata un gigantesco errore, da Mario Draghi a Mario Monti, passando per Angelona Merkel. All’epoca, però, chi s’azzardava a dubitare finiva immediatamente nelle liste di proscrizione, esattamente come i fantomatici propagandisti putianiani negli ultimi due anni – almeno fino a quando anche Limes non ha cominciato a dire quello che tutti noi, a libro paga di Putin, sommessamente sostenevamo sin dall’inizio; allora come ora, a guidare la campagna per l’adeguamento forzato al pensiero unico confuso, era il Corriere della Sera e tra i cani da guardia più feroci dell’ortodossia analfoliberista non poteva che esserci il suo corrispondente dalla Germania e, cioè, proprio Danilo Taino, una vera e propria bimba di Wolfgang Schauble e dell’ordofascismo allora tanto in voga e che, in suo nome, si scagliava come un mastino inferocito contro la deriva scandalosa intrapresa dal governo Tsipras: chiedere il parere del popolo. Contro il pacchetto lacrime e sangue imposto dalla troika, infatti, Tsipras aveva avuto la terrificante idea di indire un referendum; apriti cielo! “A meno di un colpo a sorpresa ad Atene, ad esempio la caduta del governo di sinistra” scriveva Taino “domenica prossima i greci voteranno”: “Nominalmente” continua Taino, si tratta di un voto “sul programma di aiuti proposto dai creditori del Paese” e cioè, appunto, la ricetta lacrime e sangue della troika per punire l’indisciplinata Grecia e far arricchire le oligarchie; “in pratica” però, continua scandalizzato Taino, si voterà “sulla permanenza o meno della Repubblica ellenica nell’Unione monetaria”. Con il ricorso al voto popolare, rincara Taino, “il governo di sinistra” sta cercando di usare “il popolo greco come un’arma” cercando di “schierarlo contro gli avversari, che sarebbero rappresentanti del capitalismo europeo che ricatta i greci, come ama dire Tsipras”: “Convocando il referendum” continua Taino “più che dare la parola al popolo lo hanno chiamato a dare l’assalto al Palazzo d’Inverno dell’eurozona”. Come poi si scoprirà, purtroppo, avevano anche dei difetti.
Danilo Taino, comunque, non si limita a denunciare la pigrizia dell’Occidente collettivo solo nei tentativi di ribaltare i risultati delle urne: anche in Ucraina, con un po’ di fatalismo in meno, “le prospettive di una vittoria ucraina nel fermare l’aggressione russa sarebbero migliori”. Per rinfocolare un po’ del pensiero magico che ha occupato i media mainstream per due anni e che ora sembra aver perso un po’ di slancio, Taino si appiglia all’ultima trovata dell’internazionale Iacobona e Molinara: abbandonate con 6 mesi di ritardo le speranze totalmente infondate sulle magnifiche sorti e progressive della controffensiva immaginaria, il nuovo tormentone della propaganda suprematista infatti è che “si dimentica, però, che la Russia sta perdendo la battaglia del Mar Nero”; una vera e propria ossessione. E Taino ha recepito il messaggio: La Russia sta perdendo la battaglia per il Mar Nero titolava il 28 gennaio entusiasta l’Economist; La vittoria dell’Ucraina in mare rilanciava con un lunghissimo articolo Foreign Affairs la settimana dopo; “L’Ucraina afferma di aver affondato un’altra nave da guerra” replicava gasatissima la CNN giusto un paio di giorni fa. Come ha commentato laconicamente il nostro Francesco dall’Aglio: “Poverini, fagli festeggiare qualcosa…”. Nel frattempo, infatti, nel mondo reale il nuovo capo dell’esercito ucraino Oleksander Syrski annunciava il ritiro definitivo delle truppe ucraine da Adveevka: probabilmente è il vero motivo dell’avvicendamento alla testa delle forza armate ucraine e anche la ragione per la quale, alla fine, Zaluzhny ha incassato il defenestramento senza montare chissà quale cagnara; il nuovo capo si dovrà fare carico della debacle definitiva e Zaluzhny ha colto al volo la possibilità di abbandonare la nave, prima che affondasse definitivamente, per poi imporsi come il più autorevole dei leader possibili per la mini Ucraina che rimarrà dopo il conflitto. Festeggiare per qualche successo in mare durante una guerra di terra dove vieni preso a schiaffi un giorno sì e l’altro pure è un po’ come se mentre dalla lotta per lo scudetto ti ritrovi a lottare contro la retrocessione, ti metti a festeggiare perché hai vinto i Goal Awards che premiano la divisa più bella.

Babbo Natale

Come per le elezioni a Taiwan, però – diciamo – Taino è di bocca buona e si accontenta di poco; dall’Ucraina, al Medio Oriente: “L’uscita dalla guerra nel Medio Oriente” ammette “è molto complicata, ma la possibilità che dalla tragedia nasca un equilibrio più stabile non è irrealistica”. Per Taino, infatti, “se le democrazie ci credono”, congelando il conflitto e l’estensione degli insediamenti in Cisgiordania, tornando a discutere dei due Stati in cambio del riconoscimento diplomatico da parte dell’Arabia Saudita e, magari, anche invocando l’intervento di Babbo Natale per far dimenticare a suon di regali ai bambini di Gaza i loro amichetti sterminati sotto le bombe, si infliggerebbe una sconfitta epocale all’Iran che in Medio Oriente diventerebbe “isolato”: Ansar Allah riconsegnerebbe Sana’a ai proxy sauditi, l’Iraq si consegnerebbe alle cellule del Mossad attive nel Kurdistan e invece di cacciare gli ultimi americani rimasti ne chiederebbe i rinforzi, Nasrallah si convertirebbe al protestantesimo, Bashar Assad trasformerebbe la Siria in una gigantesca Rojava e le masse arabe, da idolatrare Abu Obeida, Abdel Malek Al Houthi e l’ayatollah Kamenei, si convertirebbero al culto di Ernesto Galli della Loggia. D’altronde, sottolinea Taino, “siamo in un’era in cui l’impensabile può materializzarsi” e, quindi, perché non sognare? E il sogno di Taino, infatti, procede inesorabile ignorando ogni contatto con la realtà: il raggiungimento di questo nuovo ordine pacifico, continua infatti Taino, “sarebbe la testimonianza che gli Stati Uniti sono ancora l’unica potenza in grado di non far esplodere un conflitto”; nel mondo incantato di Taino sostanzialmente la carneficina di Gaza non solo non è un genocidio, ma proprio non esiste, come non esistono tutte le guerre scatenate dagli USA nella regione negli ultimi 30 anni. E, quindi, che ci vorrà mai a rilanciare l’immagine degli USA portatori di pace? Basta, appunto – come dice Taino – farla finita col nostro pigro fatalismo e, a quel punto, si “darebbe modo ai paesi del Sud globale di considerare quali sono le forze che favoriscono la stabilità che aiuta lo sviluppo”: quindi, nella realtà parallela di Taino, il superimperialismo statunitense ha garantito la pace e lo sviluppo del Medio Oriente e dell’Africa, che poi sono state messe a ferro e fuoco dalla Russia e dalla Cina.
Il problema, sostiene Taino in soldoni, è solo che non facciamo abbastanza propaganda per affermare questa incontrovertibile verità: “La pigrizia dei chierici occidentali e dei loro governi” afferma polemicamente “rischia di essere la quinta colonna” non solo – si badi bene – “degli autocrati”, ma addirittura anche “dei terroristi”; “I migliori” scrive ancora, citando il poeta inglese William Butler Yeats, “mancano di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di fervente energia”. “Quei peggiori” sottolinea Taino per chi, a fine articolo, non l’avesse ancora capito “sono oggi i Putin, gli Xi Jinping, gli ayatollah e i loro sodali” e cioè, appunto, Ottolina Tv e tutti quelli che, come noi, sono a libro paga delle DITTATUREEHH!!, rigorosamente scritto in caps lock con 2 H finali e 6 punti esclamativi, mentre i Danilo Taino sacrificano la loro vita per gli ideali della democrazia e della libertà. Ma la pacchia è finita, avverte Taino, perché chi come noi fa propaganda ruzzah si sente forte perché “convinto della mancanza di volontà e di convinzione delle democrazia” e invece, minaccia Taino, “possiamo ancora deluderli”.
Tranquillo Danilo: per ora, diciamo, te e i pennivendoli analfoliberali amici tuoi non ci avete mai deluso; ogni volta che abbiamo un calo di autostima o siamo assaliti da un qualche dubbio, basta riguardare le puttanate che scrivete e il morale torna alle stelle. E quindi, buona settimana antimperialista a tutti, ma ricordatevi, però, che per quanto la propaganda sia strampalata e venga smentita continuamente dai fatti, i mezzi di produzione del consenso sempre in mano loro rimangono e ,quindi, bullizzarli è giusto e sacrosanto, ma non basta: per dargli il benservito definitivo, abbiamo bisogno di contrapporre ai loro mezzi di produzione del consenso un mezzo di produzione del senso critico; ci serve subito un vero e proprio media che, invece che dalla parte delle oligarchie suprematiste, stia dalla parte del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Danilo Taino

Caos elettorale e terrorismo: cosa succede in Pakistan – ft Daniele Perra

A distanza di giorni, prosegue il caos del dopo voto. Trionfa la lista degli indipendenti, candidati da Imran Khan e gli altri partiti pensano ad una coalizione per formare il nuovo governo. Aleggia sul processo democratico, il ruolo dei militari e dei servizi segreti stranieri, in particolare la CIA. Non secondario Il ruolo degli investimenti cinesi e i rapporti con gli altri paesi emergenti e dei BRICS.

CONTRO LE ELEZIONI – Come il sorteggio salverà la democrazia

Il 2024 sarà un anno esplosivo e a dirlo non sono gli astri o le bombe sganciate da Biden e vassalli un giorno sì e l’altro pure, ma i dati elettorali: più di cinquanta paesi, con oltre quattro miliardi di cittadini alle urne, segnano l’anno con maggiore partecipazione democratica di sempre. E se noi di Ottosofia rimaniamo sempre scettici sull’equazione elezioni = democrazia, non siamo tanto gonzi da sminuire la portata di questa gigantesca tornata elettorale: oltre agli USA e all’Unione Europea, infatti, saranno coinvolti diversi soggetti del Sud globale, inclusi ad esempio India, Pakistan, Sud Africa, Messico. Tutto l’entusiasmo per la partecipazione democratica nasconde, però, un paradosso: in Europa, che nella vulgata mainstream è da sempre decantata come la culla della Democrazia, l’affluenza al voto nazionale ed europeo è in calo, e da diverso tempo: l’Italia, per dire, alle elezioni politiche del 2022 ha toccato il record negativo di votanti – un italiano su tre non pervenuto; se poi guardiamo alle recenti elezioni europee, sfondare il tetto del 50% è già grasso che cola. Ecco quindi il paradosso: un sistema elettorale sempre più diffuso su scala mondiale cui corrisponde una crisi di partecipazione democratica; da questo nodo, apparentemente inspiegabile, parte la riflessione di David van Reybrouck, filosofo e drammaturgo olandese, nel suo eloquente saggio Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico.

David van Reybrouck

Come ricorda l’autore dati alla mano, infatti “La percentuale della popolazione mondiale favorevole al concetto di democrazia non è mai stata così elevata come ai giorni nostri.” (p. 7); nonostante questo, “nel mondo intero, il bisogno affermato di leader forti, che non necessitino di tenere conto di elezioni o di un Parlamento, è considerevolmente aumentato negli ultimi dieci anni e (…) la fiducia nei parlamenti, nei governi e nei partiti politici ha raggiunto un livello storicamente basso. È come se avessimo aderito all’idea della democrazia, ma non alla sua pratica, per lo meno non alla sua pratica attuale.” (p. 8). Abbiamo tutti sottomano una risposta semplice e facilona a questo fenomeno: è tutta colpa delle nuove generazioni e dei cittadini apatici che non si interessano di politica!. Peccato, ricorda Reybrouck, che le cose non stiano così: tutti i dati statistici, infatti, registrano un aumento di interesse per le tematiche politiche trasversale alle età e alle classi sociali; il problema, quindi, sta da un’altra parte e in particolare nella sfiducia dei cittadini verso i loro rappresentanti politici e nella frustrazione derivata dall’incapacità di incidere nelle politiche economiche e sociali; molti cittadini percepiscono la loro istanza come un flatus vocis destinato a perdersi nell’infinità di paletti, mediazioni e magnamagna che investono la politica su più livelli. “La politica è sempre stata l’arte del possibile, ma oggi è diventata l’arte del microscopico. Perché l’incapacità di affrontare i problemi strutturali s’accompagna a una sovraesposizione del triviale, incoraggiata da un sistema mediatico che, fedele alle logiche di mercato, preferisce ingigantire conflitti futili piuttosto che analizzare problemi reali, soprattutto in un periodo di calo delle quote di mercato dell’audiovisivo.” (p. 17); non è quindi il sistema democratico a essere un problema in sé, quanto l’idea che si realizzi esclusivamente tramite l’elezione di rappresentanti. La democrazia, potremmo dire, è bella ma non balla: è intelligente, ma non si applica; il populismo, la tecnocrazia e l’antiparlamentarismo non sono altro che tentativi politici di fornire risposta a questo enorme problema, tutti con l’obiettivo dichiarato di salvare la democrazia. Il populismo, ad esempio, punta a ridurre la distanza tra eletti ed elettori cercando di imporre comportamenti virtuosi ai politici vincolandoli alla volontà elettorale; la tecnocrazia, al contrario, sacrifica la volontà dell’elettorato puntando tutto sulla presunta efficienza di governi tecnici, di coalizione, multicolor: in entrambe queste risposte alla crisi democratica – nota Van Reybrouck – il problema non è mai la pratica elettorale, quanto i suoi risultati, siano essi politici corrotti o tecnocrati spietati. 
E se, invece, per gestire il problema della democrazia bella che non balla la soluzione fosse cambiare musica? Il nuovo spartito proposto da Van Reybrouck consiste nel dare ossigeno alla partecipazione democratica affiancando le istituzioni parlamentari presenti con una forma alternativa di decisione collettiva: la democrazia partecipativa aleatoria, un sistema decisionale composto da assemblee di cittadini estratti a sorte in grado di proporre leggi e soluzioni politiche ai problemi più attuali. A prima vista, rimaniamo perplessi: il sistema del sorteggio sembra quanto di più alieno alle democrazie parlamentari; come la mettiamo con la rappresentatività della maggioranza, Il controllo degli elettori sugli eletti, la competenza dei sorteggiati? Sembra assurdo pensare che una comunità politica possa mai accettare di farsi governare da qualcosa di imprevedibile come la pura sorte, eppure, allargando lo sguardo oltre i nostri confini geografici e temporali, scopriamo che in Occidente per diversi secoli il sorteggio non solo è stato utilizzato, ma ha pure rivestito un ruolo cruciale nelle decisioni politiche collettive. Nella culla della democrazia occidentale, l’Atene del quinto secolo a.C., la maggior parte dei membri delle istituzioni di governo erano scelti tramite sorteggio, col risultato che “dal 50 al 70 per cento dei cittadini di età superiore ai trent’anni” avevano ricoperto il ruolo di legislatori nel Consiglio dei Cinquecento: fu questa situazione di complesso equilibrio a stimolare la famosa riflessione di Aristotele, quando nella Politica afferma che “uno dei tratti distintivi della libertà è l’essere a turno governati e governanti”.

La Rivoluzione Francese

Tutto qui? Manco per scherzo, visto che sistemi di sorteggio spuntano come funghi per tutta l’Europa medievale e rinascimentale: nei comuni e in alcune repubbliche come Venezia, ad esempio, il sistema del sorteggio era ampiamente utilizzato per la nomina di cariche di altissimo livello; certo, il procedimento non era dei più semplici, ma garantiva notevole stabilità e, soprattutto, compensazione delle posizioni più o meno privilegiate dei candidati, tanto da essere oggetto ancora oggi di studi di ricerca informatica. Fino agli albori della Rivoluzione Francese, sorteggio è sinonimo di democrazia, laddove elezione lo è di aristocrazia; ciò che ribadisce, nel 1748, Montesquieu ne Lo Spirito delle Leggi era allora qualcosa di scontato: “La sorte è un modo di eleggere che non affligge nessuno [e] lascia a ciascun cittadino una ragionevole speranza di servire la patria” (Lo Spirito delle Leggi). . Poi, qualcosa nelle esperienze politiche impone una brusca sterzata alle procedure democratiche; con la Rivoluzione Francese e l’Indipendenza americana le élites politiche impongono sempre più la necessità di garantire un unico sistema: l’elezione dei rappresentanti e la netta separazione di questi ultimi dai rappresentati, cioè dal popolo.
A un paradosso, ne segue un altro: tendiamo a pensare che le rivoluzioni francese e americana siano state una svolta democratica fondamentale per l’Occidente; eppure, leggendo le dichiarazioni e gli scritti dei rivoluzionari, scopriamo uno scenario del tutto diverso. James Madison, John Adams e Thomas Jefferson, oltre allo status di padri della rivoluzione americana, condividono il disprezzo per la democrazia come sistema di governo: se Adams e Jefferson ripongono la propria fiducia in una sorta di aristocrazia naturale che guidi la maggioranza dei cittadini americani verso il bene comune, Madison specifica – con vagonate di ottimismo – che i rappresentanti politici eletti saranno per forza i migliori, poiché saranno “tutti i cittadini il cui merito gli avrà valso il rispetto e la fiducia del loro paese. […] Poiché emergeranno grazie alla preferenza dei loro concittadini, siamo in diritto di supporre che si distingueranno anche in genere per le loro qualità.” (James Madison, Federalist papers).

Samuele Nannoni

Dall’altra parte dell’Atlantico, nella Francia giacobina, la svolta politica per una partecipazione popolare senza precedenti andava a infilarsi sullo stesso binario morto; non è un caso, ricorda Van Reybrouck, che nei tre anni di dibattiti sull’estensione del diritto di voto dalla presa della Bastiglia, il termine democrazia sia del tutto assente e non è solo questione di terminologia, visto che da questi lavori parlamentari uscirà la Costituzione del 1791 che blinderà definitivamente l’elezione come unico sistema democratico possibile. L’esperienza plurisecolare della democrazia aleatoria interrotta bruscamente con la Rivoluzione Francese e americana, quindi, non può che condurci a un totale ribaltamento di prospettiva: “è da ormai quasi tremila anni che sperimentiamo la democrazia, e solo da duecento che lo facciamo esclusivamente per mezzo delle elezioni.” (Van Reibrouck, p. 44); certo, potremmo sempre obiettare che la situazione politica odierna non è la stessa del medioevo o dell’età antica e, quindi, che forse il sistema del sorteggio risulta antiquato rispetto alle libere elezioni. Ancora una volta, la risposta è negativa; a smontare definitivamente questo preconcetto è Samuele Nannoni, esperto di democrazia aleatoria, ricordando che a partire dagli anni Duemila la realtà deliberativa delle assemblee estratte a sorte è sempre più diffusa: dalla Francia all’Irlanda, dal Belgio alla Polonia fino al Regno Unito, spuntano iniziative politiche per dare voce ai cittadini sulla legiferazione nei temi più disparati, dalla bioetica alle politiche ambientali. Persino in Italia, dopo due secoli di letargo, si sta risvegliando l’interesse concreto per questa pratica, promossa tra gli altri da realtà associative come Prossima Democrazia allo scopo di cogliere quel rinnovamento necessario prospettato da David Van Reybrouck: “Bisognerà pure trarre una conclusione, anche se non fa piacere ammetterlo: oggigiorno le elezioni sono un meccanismo primitivo. Una democrazia che si limita a questo è condannata a morte. È come se riservassimo lo spazio aereo alle mongolfiere, senza tener conto della comparsa dei cavi ad alta tensione, degli aerei da turismo, delle nuove evoluzioni climatiche, delle trombe d’aria e delle stazioni spaziali.” (p. 64).
Ma come possiamo, concretamente, integrare la democrazia rappresentativa con quella aleatoria? Basterà il sorteggio per ripristinare un’autentica partecipazione democratica? E soprattutto, siamo davvero pronti a superare il meccanismo primitivo delle elezioni? Di questo e molto altro parleremo mercoledì 7 febbraio con la live di Ottosofia. Ospite d’onore Samuele Nannoni, vicepresidente di Prossima Democrazia.

IRAN VS PAKISTAN: la guerra si allarga all’Asia e diventa ATOMICA?

Avevate paura che il conflitto si allargasse a tutto il Medio Oriente? Che inguaribili e pucciosissimi ottimisti! In Medio Oriente, in realtà, il conflitto era regionale da ben prima del genocidio di Gaza; ora, semmai, quello che c’è da temere è che vada ben oltre.
La prima drammatica avvisaglia c’era stata il 3 gennaio scorso, quando nella città Iraniana di Kerman il più grande attentato terroristico della storia della repubblica islamica aveva causato oltre 80 vittime e poco meno di 200 feriti, un attacco che veniva da est e che allargava l’area del conflitto dal solo Medio Oriente anche al resto dell’Asia – perché in questa fase nun ce volemo fa’ manca’ proprio niente – e che, a quanto pare, era solo l’antipasto. Martedì scorso, infatti, l’Iran ha annunciato di aver portato a termine un attacco in territorio pakistano contro una roccaforte del gruppo salafita di Jaish ul-Adl – l’Esercito della Giustizia: il Pakistan ha reagito richiamando il suo ambasciatore a Teheran e invitando quello Iraniano di istanza a Islamabad, che si trovava temporaneamente anche lui a Teheran per lavoro, a restarsene a casina sua; e ha annunciato ritorsioni che, puntualmente, sono arrivate all’alba di ieri: “Il Pakistan ha attaccato un villaggio di frontiera Iraniano con dei missili” ha annunciato la tv di stato di Teheran, aggiungendo che “3 donne e 4 bambini sono stati uccisi, tutti di nazionalità non Iraniana”. Ora, il Pakistan non è un paese qualsiasi: è una potenza nucleare che due anni fa è stata travolta da un golpe parlamentare per cacciare il politico più popolare della sua storia – accusato di essere troppo vicino a Cina e Russia – e che ora è nel bel mezzo di una vera e propria catastrofe economica. Cosa mai potrebbe andare storto?

Imran Khan

Ogni luogo è noto per una specialità: a Tropea ci sono le cipolle, nelle valli del Chianti il vino, in Trentino le mele; ecco, nella regione del Belucistan ci sono le organizzazioni terroristiche; non che sia un attitudine innata, eh? Infatti non è solo la parte più povera del Pakistan, ma sconfina anche nelle parti più povere rispettivamente di Afghanistan e Iran: una combo di tutto rispetto che, da sempre, attira le intelligence dell’impero più del miele; terra di un grande movimento di massa di matrice etnonazionalista che, in linea di principio, ha più di qualche ragione, il Belucistan negli anni è diventato un vero parco giochi per CIA, Mossad e il britannico MI5. Iran, Pakistan e pure Afghanistan, sulla carta dichiarano di collaborare per tenere a bada la miriade di gruppuscoli presenti nell’area, ma la carta spesso è buona solo per pulircisi il culo: se in Iran e nel nuovo Afghanistan a guida talebana lo Stato in questa battaglia risulta piuttosto compatto, in Pakistan infatti la situazione è leggermente più complicata. Dire che la classe dirigente pakistana – infatti – è divisa è un eufemismo: 2 anni fa c’è stato il colpo di stato parlamentare contro Imran Khan e, da allora, è in corso una specie di piccola guerra civile a bassa intensità strisciante; una “guerra civile di altro tipo” la definisce Sushant Sareen, senior fellow della Indiana Observer Research Foundation. “La crisi politica in corso in Pakistan” scrive “è, senza dubbio, la sfida più seria allo Stato dalla sua nascita, anche più di quella che portò alla nascita del Bangladesh nel 1971. Allora, infatti, c’era l’establishment pakistano da un lato e una provincia e un gruppo etnico sfruttato perseguitato e discriminato dall’altro, ma l’establishment era compatto. Oggi l’establishment è in guerra con se stesso”: in particolare, sostiene Sareen, la vicenda di Imran Khan avrebbe diviso il paese, con l’uomo della strada sostenuto dalla magistratura e, in particolare, dalla corte suprema da un lato e l’esercito dall’altro; “I pilastri dello Stato” scrive Sareen “sono schierati uno contro l’altro”. Ma anche all’interno dell’esercito stesso le divisioni, ormai, sono al massimo storico: “Tradizionalmente” scrive Sareen “l’élite punjabi ha sempre sostenuto incondizionatamente i vertici dell’esercito, ma adesso una parte consistente è schierata saldamente dalla parte di Imran Khan. Tra loro, militari, ex militari e le loro famiglie, oltre ad avvocati, giornalisti, cantanti, sportivi, attori e influencer di ogni genere”; “L’intero esercito di troll che l’esercito pakistano aveva formato per condurre la sua guerra d’informazione contro l’India” continua Sareen “ora ha puntato tutte le sue armi contro l’attuale leadership militare”, che uno a questo punto si chiede: embe’? Che ce frega a noi della guerra civile in Pakistan? E che c’azzecca con l’Iran?
In realtà c’azzecca eccome perché il rischio è che nessuno, in realtà, abbia la situazione sotto controllo, e non avere la situazione sotto controllo in un paese pieno zeppo di sigle terroristiche di ogni natura – e con la bomba nucleare – non è esattamente il top; diciamo che è un po’ come sperava di ridurre la Russia il mondo libero e democratico: “Oltre alla popolazione irrequieta” spiega infatti ancora Sareen, “c’è da aspettarsi anche una nuova ondata di terrore che l’esercito non avrà gli strumenti per tenere sotto controllo”. Sareen fa l’esempio di Therik-e-Taliban Pakistan, noti anche semplicemente come i talebani pakistani ma che, al contrario dei talebani doc, avrebbero più di un debole per gli islamonazisti di Daesh: “La maggior parte di questi jihadisti” spiega Sareen “un tempo erano fanti dell’establishment pakistano. Ma come i troll punjabi, anche questi santi guerrieri ora hanno deciso di puntare le armi contro l’establishment”; difficile pensare che, in decenni di collaborazione, questi gruppi terroristici, anche nel caso siano davvero entrati in collisione con il grosso dei vertici militari, non abbiano le loro quinte colonne e i loro fiancheggiatori nel palazzo. A partire dall’ISI, i famigerati servizi di intelligence pakistani, “un’agenzia di spionaggio ben nota, ma molto poco conosciuta” come l’ha definita l’ex alto ufficiale di polizia pakistano e ora docente ad Harvard Hassan Abbas nel suo “La deriva del Pakistan verso l’estremismo”: “In Pakistan” ricorda Abbas “l’ISI non si limita a occuparsi di controspionaggio e di protezione degli interessi strategici del paese, ma svolge un ruolo di primo piano anche a livello interno: crea instabilità, sfida i partiti politici, si infiltra ovunque, crea partiti politici per sostenere il regime militare e per manipolare le elezioni”. E l’ascesa dell’ISI è tutta opera degli USA: erano gli anni ‘80, il Pakistan era al posto giusto nel momento giusto per aiutare gli USA a sostenere i mujahiddin afghani contro l’Unione Sovietica e l’ISI era lo strumento più adatto; da allora l’ISI è sempre stata combattuta tra due tendenze: la vicinanza all’Islam più radicale e quella ai suoi sponsor occidentali (che non sempre sono due cose così poi diverse).
E così torniamo agli ultimi fatti di cronaca: al centro della vicenda, appunto, ci sarebbe il gruppo terroristico di Jaish ul-Adl, l’esercito della giustizia – ovviamente divina; è un gruppo salafita che si sostiene sia nato all’inizio dello scorso decennio e che fa parte della vasta galassia di organizzazioni terroristiche che rivendicano la nascita di un etnostato del Belucistan. Sulla carta, quindi, non dovrebbero essere visti di buon occhio da Islamabad, eppure… Secondo The Indian Express, ad esempio, il Pakistan “avrebbe consentito a questi gruppi terroristici separatisti di operare per volere dell’ex rivale dell’Iran, l’Arabia Saudita”: ora, ovviamente anche qui a parlare sono gli indiani che, per ovvie ragioni, sul Pakistan non sono esattamente sempre la fonte più affidabile e imparziale, ma il sospetto, diciamo – per usare un eufemismo – è piuttosto diffuso. Di nuovo, per essere chiari: nessuno qui sostiene che i vertici militari e dell’intelligence pakistana addestrino, fomentino e offrano protezione incondizionata a questi gruppi per fare contenti i sauditi e l’Occidente collettivo; il punto, ribadiamo, è che quei vertici ormai sono sempre più deboli e infiltrati, e che tra le varie quinte colonne ci sia anche chi spinge per chiudere un occhio è qualcosa di più che una semplice possibilità, e non solo in chiave anti – iraniana. I gruppi terroristici del Belucistan, infatti, sono da sempre l’ostacolo più grande alla realizzazione e messa in funzione delle varie infrastrutture finanziate dai cinesi nell’ambito del China Pakistan Economic Corridor, il singolo pacchetto in assoluto più imponente di tutta la Belt and road initiative, e che attraversa proprio tutto il Belucistan per sfociare al porto di Gwadar: un investimento gigantesco anche perché, oltre alle infrastrutture, prevede la costruzione di una gigantesca zona economica speciale a ridosso del porto destinata a diventare un hub industriale e logistico di portata globale; per la regione più povera del già poverissimo Pakistan un’opportunità incredibile che, però, i sedicenti etnonazionalisti boicottano da anni a suon di attentati. Lo so bene perché, per 4 anni, ho provato ad andarci di persona e non sono mai riuscito: l’ambasciata pakistana non mi ha mai rilasciato le autorizzazioni. Troppo pericoloso. Ovviamente, per chi vuole ostacolare l’integrazione del supercontinente eurasiatico questi gruppi sono un alleato naturale strepitoso: se non ci fossero, andrebbero inventati.

Pakistan

L’attacco iraniano e la risposta pakistana – quindi – sono un altro tassello della famosa guerra mondiale a pezzi che vede contrapposti Nord e Sud Globale? In un certo senso sicuramente sì, ma c’è anche il rischio di correre con le sovrainterpretazioni: lo scorso dicembre Jaish ul-Adl ha attaccato un posto di polizia nella piccola città Iraniana di Rusk; lo scontro a fuoco con gli agenti di polizia iraniani è durato ore e, alla fine, ne sono morti 12. Non è un caso isolato: nel 2019, infatti, avevano rivendicato un attentato suicida durante il quale erano stati uccisi 27 membri dei Pasdaran, e in molti sospettano abbiano giocato un ruolo nell’attentato di Kerman del 3 gennaio; come sottolinea un altro ricercatore sempre dell’Observer Research Foundation, leggere l’attacco iraniano alle loro postazioni come un altro tassello del “gioco strategico in corso in Medio Oriente, potrebbe essere un po’ forzato”. “La questione di gruppi come Jaish e le tensioni tra Iran e Pakistan sulla militanza dei baluchi” continua l’articolo “sono anteriori alla guerra in corso a Gaza o al deterioramento della situazione della sicurezza nel Mar Rosso. Nel corso degli anni l’Iran ha spesso ribadito che avrebbe preso di mira i nascondigli di Jaish all’interno del Pakistan, e lo scontro a fuoco tra le truppe al confine tra i due paesi è stato un evento regolare. Questo incidente” conclude l’articolo “è da considerarsi una questione unicamente bilaterale e di gestione delle frontiere tra i due paesi”.
Idem con patate la reazione pakistana: quasi “un atto dovuto” sottolinea la testata Pakistana Dawn; a essere presi di mira, infatti, anche in Iran sarebbero stati altri nascondigli di altri gruppi terroristi del Balucistan e il comunicato ufficiale del governo sottolinea che “Il Pakistan rispetta pienamente la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica islamica dell’Iran” e aggiunge che “l’unico obiettivo dell’atto di oggi era il perseguimento della sicurezza e dell’interesse nazionale del Pakistan, che è fondamentale e non può essere compromesso”. “L’Iran è un paese fraterno” continua il comunicato “e il popolo pakistano nutre grande rispetto e affetto per il popolo iraniano. Abbiamo sempre enfatizzato il dialogo e la cooperazione nell’affrontare le sfide comuni, inclusa la minaccia del terrorismo, e continueremo a sforzarci di trovare soluzioni comuni”. Insomma: ci avete fatto fare una figura di merda e soprattutto – in questa fase dove già c’abbiamo mezzo paese contro – non potevamo sconigliare, e in qualche modo dovevamo reagire. Ora però diamoci tutta una bella calmata.
Tutto tranquillo quindi? Non esattamente: ammesso e non concesso che la scaramuccia abbia esclusivamente a che fare con i rapporti bilaterali, la frontiera e la lotta al terrorismo, il problema comunque rimane; come in Medio Oriente, anche ad est dell’Iran 50 anni di destabilizzazione sistematica hanno creato mostri. Per sconfiggerli, come minimo, ci vorrebbero stati nazionali solidi e in salute capaci di garantire il pieno controllo del territorio e di difendersi dalle infiltrazioni, soprattutto se – e sottolineo se – c’è qualcuno che quei mostri continua a coccolarli e nutrirli come fossero animali da compagnia. Purtroppo il Pakistan, come molti stati nazionali del Medio Oriente, non è mai stato meno solido e in salute di adesso e qualcuno da fuori, in questo senso, ha dato il suo contributo (e non sono certo i cinesi, che vogliono costruire ponti, strade, centrali elettriche, porti e insediamenti industriali), con la piccola aggravante qui che appunto il Pakistan, per quanto messo male, l’atomica continua ad avercela – e all’Iran, pare, mancherebbe pochino.
Insomma, tutto tranquillo un par di palle: non mi pare tanto il caso di assistere impassibili. Come minimo ci serve un media che ci faccia incazzare tutti. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Massimo Gramellini

La Reazione di Iran e Yemen l’Asse della Resistenza scopre il bluff di USA e Israele

“Quando il tuo nemico ti induce ad aggravare i tuoi errori, senza raggiungere i tuoi obiettivi militari” scrive John Helmer sul suo sempre utilissimo blog “ti sta conducendo a un’escalation di forza che, prima o poi, ti sconfiggerà” e, continua, “più a lungo si protrae la faccenda, più costosa e rovinosa sarà la sconfitta”. Ed è con questa massima in testa che dobbiamo cercare di interpretare “la lunga guerra Arabo – Iraniana contro Israele e gli Stati Uniti che fino ad oggi non erano mai stati ritenuti capaci di combattere”. Helmer ricorda come tutti i manuali dell’esercito americano quando si parla di vincere una battaglia concordano su una cosa e cioè, come scriveva il celebre capitano britannico Liddell Hart, che “Per avere successo è necessario risolvere due problemi principali: dislocazione e sfruttamento. Uno precede e l’altro segue il colpo vero e proprio, che in confronto è un atto semplice”. Ma dopo gli attacchi aerei USA e UK dei giorni scorsi e continuati ancora martedì, sottolinea Helmer, a sfruttarli sembra siano sempre gli yemeniti, che avrebbero mantenuto l’iniziativa: lo ribadisce in una bella intervista di Andrea Nicastro sul Corriere della Serva di ieri Nasr al-Din Amer, presidente dell’agenzia di stampa yemenita Saba e anche vice capo della comunicazione di Ansar Allah. “Gli Usa dicono di aver già distrutto il 30% delle vostre capacità militari” commenta Nicastro; “Fesserie” sentenzia Amer: “Hanno colpito vecchie basi già bombardate durante la guerra con la coalizione internazionale che ci ha combattuto per 9 anni”.
Allora, ricorda Amer, “a metterci la faccia erano i sauditi”, ma a sostenerli erano sempre gli americani, che “spesso partecipavano direttamente anche con i loro aerei”. “Quindi”, continua, “niente di nuovo, avevano quelle geolocalizzazioni e le hanno usate. Uno show! Non ci hanno fatto nulla”.

Francesco dall’Aglio

Ovviamente, anche la sua è propaganda: i nuovi attacchi missilistici degli yemeniti di martedì pomeriggio contro una nave mercantile di proprietà greco – americana nel golfo di Aden però sono reali, come anche quelli della notte contro un’altra imbarcazione USA; come è reale anche il fatto – riportato dal nostro Francesco Dall’Aglio sulla sua pagina Facebook – che, sempre marted,ì “Omar al-Ameri, maggiore dell’esercito regolare yemenita” e protagonista di primissimo piano per 15 anni della guerra civile sostenuta da sauditi e occidentali contro gli Houthi, abbia cambiato casacca e sia “passato dalla loro parte con le sue truppe, accolto con entusiasmo e perdono generale per le passate colpe”. “Dal 2011 noi yemeniti ci siamo divisi su tutto” afferma sempre Amer nell’intervista sul Corriere “ma ora siamo uniti contro Israele per difendere Gaza. Ci sostiene persino chi ci ha ucciso nella guerra civile, e anche l’opposizione espatriata ci ha teso la mano”. Anche i missili che l’Iran ha lanciato martedì non sono solo propaganda: come ricorda il blog Moon of Alabama, avrebbero distrutto il quartier generale dell’ISIS a Idlib, in Siria, e anche quello delle milizie affiliate all’Al Qaida siriana di Hayat Tahrir al-Sham; come sottolinea sempre Moon of Alabama “La traiettoria più breve dall’Iran a Idlib in Siria è di almeno 1.200 chilometri. L’Iran ha così dimostrato di poter colpire in modo affidabile obiettivi a quella distanza. I missili utilizzati, denominati Kheibar Shekan hanno una portata massima di 1.450 chilometri”; come ha sottolineato con grande enfasi la stampa israeliana, era la prima volta che un missile iraniano copriva una distanza del genere.
Ma l’attacco che necessariamente avrà più conseguenze è quello che dall’Iran ha puntato dritto su Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno; il corpo delle guardie della rivoluzione islamica, come riportato dal canale Telegram Colonnel Cassad, avrebbe annunciato di aver colpito ben 4 obiettivi sensibili: la base americana presso l’aeroporto, il consolato americano, la sede locale del servizio di sicurezza curdo e soprattutto l’abitazione di quello che il New York Times definisce semplicemente “un uomo d’affari qualsiasi”, uccidendo lui e sua figlia. Peccato che l’uomo d’affari in questione sia nientepopodimeno che Peshraw Dizayee, il fondatore della Falcon Security Services, che dal 2003 – dopo l’invasione USA dell’Iraq – si occupa di commerciare petrolio iracheno in Israele; secondo Al Mayadeen, nella sua abitazione si stava svolgendo un incontro tra agenti del Mossad e alcuni leader di alcune fazioni separatiste iraniane presenti in Iraq, un incontro che sarebbe servito “a pianificare le modalità per minare la sicurezza iraniana, sia a livello interno, sia in senso più ampio, il ruolo regionale dell’Iran” riporta sempre Al Mayadeen. Prima di commentare l’attacco, riporta John Helmer, i media statunitensi hanno temporeggiato per qualche ora per poi affermare che “ci sono state esplosioni vicino al consolato americano a Erbil, ma nessuna struttura statunitense è stata colpita”. Boris Rozhin, caporedattore di Colonnel Cassad, non è proprio convintissimo: “Secondo un amico che vive nel centro di Erbil” scrive “il colpo non è caduto sull’attuale consolato, ma su quello nuovo, che è in costruzione”. Il New York Times ci tiene a sottolineare che, in questo modo, gli iraniani si sono dati la zappa sui piedi; se negli ultimi giorni, finalmente, era arrivata la richiesta ufficiale da parte irachena che, dopo 20 anni abbondanti di occupazione, per gli americani forse era finalmente arrivata l’ora di levarsi di torno, ora l’attenzione si sarebbe spostata su Teheran, con Baghdad che ha addirittura presentato una protesta formale all’ONU contro “l’aggressione”.
“Come finirà la cosa ?” chiede un utente sulla pagina di Dall’Aglio; “Ascolteranno pensosamente” risponde il Bulgaro, “poi la Russia metterà il veto a qualsiasi decisione, Cina astenuta. USA, UK, Francia condannano, arrivederci e grazie”. Il punto vero, piuttosto, è che l’equilibrio in Iraq è parecchio instabile e anche i curdi – che sono alleati fedeli di USA e Occidente collettivo – giocano un ruolo importante: con il recente voto del parlamento che aveva chiesto ufficialmente alle truppe USA di sloggiare, erano stati messi in minoranza; ora, ovviamente, sono ben contenti di poter sfruttare questo attacco per sottolineare che l’Iraq non è ancora al sicuro e ha bisogno dell’aiuto delle forze di occupazione. Vedremo nelle prossime settimane se tutto questo li ha effettivamente rafforzati.

Qasem Soleimani

In realtà – ma magari è solo una deformazione mia – più che l’Iraq, a me quello che mi preoccupa, come sempre, è il Pakistan: anche qui, infatti, sono arrivati razzi iraniani; l’obiettivo, ovviamente, sono sempre le roccaforti dei gruppi affiliati all’ISIS Khorasan, che ha rivendicato il sanguinoso attacco terroristico di un paio di settimane fa a Kerman durante l’anniversario della morte di Qasem Soleimani, e i pakistani non l’hanno presa proprio benissimo, diciamo. “Questa violazione della sovranità pakistana” hanno tuonato in un comunicato ufficiale del governo “è del tutto inaccettabile e potrebbe avere serie conseguenze”: la prima è stata che hanno detto all’ambasciatore iraniano in Pakistan, che si trovava in quel momento casualmente a Teheran, di rimanersene dov’era e di non azzardarsi a tornare a Islamabad. Magari è proprio questo attrito ad essere piaciuto agli indiani; sempre martedì, infatti, il ministro degli esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar si è incontrato a Teheran con il presidente iraniano Ebrahim Raisi per poi intrattenersi a lungo anche con il ministro degli esteri Hossein Amir-Abdollahian: “La nostra discussione bilaterale” ha twittato poi Jaishankar “si è concentrata sul quadro a lungo termine per il coinvolgimento dell’India con il porto di Chabahar e il progetto di connettività dell’International North – South Transport Corridor”, il corridoio infrastrutturale che dovrebbe collegare Bombay a Mosca passando proprio attraverso l’Iran.
Anche quelli che consideriamo nostri alleati ormai hanno troppi interessi in comune con i nostri nemici; figuriamoci quelli che alleati non lo sono per niente: poche ore prima, infatti, a scambiare una lunga chiacchierata telefonica con Abdollahian era stato Lavrov. Secondo John Helmer, avrebbero confermato l’intenzione di procedere a “un coordinamento a tutti i livelli” tra i due paesi, “sottolineando il costante impegno reciproco nei confronti dei principi fondamentali delle relazioni russo – iraniane, compreso il rispetto incondizionato della sovranità e dell’integrità territoriale”. Insomma: l’Iran si è finalmente sbilanciato a favore dell’asse della resistenza e non sembra pagare chissà quale dazio; certo, “un blocco navale” ricorda Nicastro ad Amer nella solita intervista sul Corriere “potrebbe impedirvi di ricevere armi”, ma secondo Amer, tutto sommato, “non sarebbe un problema, perché sappiamo fabbricarle completamente in Yemen”. “La tesi che riceviamo aiuti dall’Iran è falsa” sostiene Amer, che argomenta “Durante i 9 anni di guerra, il mare era chiuso, il confine con l’Arabia Saudita anche, ma i nostri depositi si sono riempiti con armi sempre più efficienti”. Ora, magari detta così è un po’ esagerata, ma un fondo di verità c’è, eccome! Come ricorda Moon of Alabama, infatti, “L’asse della resistenza è un insieme di gruppi vagamente collegati all’Iran. Il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane ha contribuito al loro addestramento, ma ha fatto molto di più di quanto avrebbe fatto il normale addestramento militare statunitense. Ha incoraggiato questi gruppi a mettersi in contatto tra loro e a scambiare conoscenze e ora collaborano a tutti i livelli. L’Iran ha introdotto nuove tecnologie e armi, ha insegnato a ciascun gruppo come crearne delle copie. E Oggi Houthi e iracheni si scambiano piani per la costruzione di missili e droni”. “L’asse della resistenza” continua Moon of Alabama “è diventato così un insieme di entità del tutto autonome che non dipendono più dalle consegne o dagli ordini provenienti dall’Iran, che però seguono tutte la stessa ideologia anticoloniale”. “Tutti i gruppi dell’asse della resistenza sono sciiti e vicini all’Iran” afferma Nicastro sempre nella solita intervista: “è una guerra religiosa?” “Hamas è sunnita” risponde Amer; “La jihad islamica è sunnita. I palestinesi sono sunniti. Non è una questione di sette, ma di essere schiavi degli americani oppure no”.
Il conflitto regionale in Medio Oriente dura da 50 anni, una serie infinita di divisioni di ogni genere fomentate ad hoc dall’impero nella più classica delle applicazioni del caro vecchio principio del divide et impera; tutte queste divisioni continuano a pesare, ma forse finalmente – per la prima volta da decenni – l’obiettivo comune di liberarsi dall’insostenibile pesantezza del dominio coloniale e postcoloniale ha costretto qualcuno ad andare oltre le divisioni settarie e a condurre una battaglia unitaria, ricorrendo alla religione come collante ideologico. In molti in Occidente storcono la bocca e più si definiscono progressisti, e più la storcono; preferiscono parlare di democrazia e di socialismo in astratto e vedere i popoli scannarsi tra loro in concreto. Forse è arrivata l’ora di mettere da parte un po’ di hubris eurocentrica e riconoscere umilmente che dei giudizi e dei consigli di chi vive nella colonia europea ed è stato letteralmente spazzato via dalla battaglia politica, i popoli in cerca di autodeterminazione probabilmente se ne fanno pochino.
Forse è arrivata l’ora di avere un vero e proprio media che sta dalla parte dell’anti – imperialismo. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.


E chi non aderisce è Elly Schlein 

Come ti destabilizzo una potenza nucleare: lo scandalo del golpe filo USA in Pakistan

Il sud globale avanza compatto giorno dopo giorno e minaccia il vecchio ordine globale, ma le defezioni non mancano e tra queste ce n’è una in particolare che preoccupa Mosca e Pechino: il Pakistan, una defezione eccellente, quinta potenza demografica mondiale e uno dei 9 stati al mondo a possedere l’atomica.

La variabile pakistana è una gigantesca spina nel fianco al processo di integrazione del super-continente eurasiatico e a Pechino lo sanno bene, e non a caso è il singolo paese ad aver ricevuto in assoluto più quattrini per investimenti di ogni genere nell’ambito della nuova via della seta; un’influenza crescente, che sembrava aver aperto al Pakistan una gigantesca finestra di opportunità in direzione finalmente di uno sviluppo economico impetuoso e sostenibile, e dell’emancipazione dal giogo statunitense; un processo di portata storica, che si è tradotto nell’ascesa inarrestabile dell’ex campione di cricket Imran Khan e del suo Movimento per la Giustizia del Pakistan, sfociata nel dicembre del 2018 nella sua nomina a primo ministro.

Unico vero oppositore alla partecipazione del suo paese nella disastrosa guerra in Afghanistan, e leader incontrastato del movimento che si opponeva agli attacchi criminali dei droni USA in territorio pakistano, Imran Khan è probabilmente il primo leader nazionale da qualche decennio a questa parte a non essere emanazione più o meno diretta delle gerarchie militari legate a doppio filo a Washington; una vera luce di speranza per l’affermazione dell’indipendenza e della sovranità del Pakistan che infatti è stata colta con incredibile entusiasmo, sopratutto dalle fasce più giovani della popolazione.

Già nel 2014 un sondaggio di YouGov incoronava Imran Khan “persona più ammirata in assoluto del Pakistan”, e addirittura dodicesimo a livello globale; poi è arrivata la guerra in Ucraina, e contro l’idea eretica di Khan di mantenere il Pakistan in una posizione di netta neutralità, tutta la popolarità possibile immaginabile non bastava più.

Nell’aprile del 2022 Imran Khan viene repentinamente spodestato attraverso un voto di sfiducia del parlamento; da allora lui, il suo movimento, e chiunque abbia manifestato disappunto nei confronti dell’ennesimo golpe bianco condotto contro gli interessi e i sentimenti popolari, sono stati ferocemente repressi tra pestaggi, esecuzioni, processi farsa e arresti sommari.

Ed è così che oggi il Pakistan si trova travolto da una crisi economica, politica e istituzionale senza precedenti, e indovinate un po’ per merito di chi?

E’ il 7 marzo 2022. L’allora ambasciatore pakistano negli USA, Asad Majeed Khan, incontra alcuni alti funzionari del dipartimento di stato USA: tra loro, Donald Lu, responsabile dell’ufficio per gli affari del centro e del sud asiatico. Questo fa infuriare gli USA che, abituati a “dare il Pakistan per scontato”, si sentono beffati.

Sotto la guida autorevole di Imran Khan, infatti, il Pakistan, come d’altronde la quasi totalità dei paesi del sud globale, ha deciso di non volersi schierare nella guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina

Su cosa si siano detti esattamente durante quell’incontro, è stata fatta a lungo ogni sorta di speculazione; quello che sappiamo con certezza invece è che un mese dopo il parlamento sfiducerà Khan, rimuovendolo dal potere.

Sappiamo anche che pochi giorni prima di quell’incontro, il 2 marzo, Donald Lu aveva tenuto un’audizione presso il comitato per le relazioni estere del senato USA, che voleva

avere notizie più dettagliate sulla neutralità che India, Pakistan e Sri Lanka avevano deciso di mantenere nel contesto del conflitto ucraino. In particolare, erano imbufaliti dal fatto che il Pakistan, in occasione del voto presso l’ONU della risoluzione di condanna nei confronti della Russia, avesse optato per l’astensione, e sappiamo anche che il giorno prima del fatidico incontro, Imran Khan era intervenuto durante una manifestazione.

Alcuni ambasciatori occidentali in Pakistan avevano provato a fare esplicitamente pressione su Khan affinché rimettesse in discussione la sua neutralità dopo l’astensione all’ONU: gli scrissero proprio una letterina, come quella della trojkaa Berlusconi: “gentile alunno, abbiamo notato che all’ONU non hai votato come ti avevamo chiesto. Eh eh eh, non si fa, birichino.”

Non andò proprio benissimo: “che cosa pensate di noi?”, tuonò Khan di fronte a una folla oceanica, “che siamo i vostri schiavi e che faremo tutto quello che ci chiedete?”

Ovviamente, chiunque abbia anche solo sommessamente insinuato il dubbio che dietro la defenestrazione del primo presidente pakistano a non essere emanazione diretta di servizi ed esercito filooccidentali, è stato prontamente accusato di essere un utile idiota della pervasiva propaganda putiniana

Forse, però, si è trattato di un giudizio un po’ affrettato. Questa estate infatti, The Intercept – la testata USA fondata da Glenn Greenwald e diventata famosa per i leak del caso Snowden – è entrata in possesso del cablo che riassume il contenuto di quel fatidico incontro; l’esistenza di un documento che provava oltre ogni ragionevole dubbio l’ingerenza USA negli affari interni del Pakistan era stata annunciata subito dopo il colpo di stato da Imran Khan stesso.

Gli USA però hanno sempre negato pubblicamente e sfacciatamente in almeno 4 occasioni diverse: “non è altro che propaganda, e disinformazione”, dicevano, un po’ come quando David Puente fa i suoi ridicoli fact checking con il contesto mancante.

Ecco, ora il contesto c’è: secondo il documento del quale The Intercept è entrato in possesso grazie a una fonte anonima interna alle forze armate pakistane, durante il fatidico incontro Donald Lu avrebbe sottolineato come “qui negli USA, come in Europa, siamo molto preoccupati dalle motivazioni che hanno spinto il Pakistan ad assumere una tale posizione aggressivamente neutrale”. Fate attenzione alle parole, che a volte svelano mondi inesplorati: “aggressivamente neutrale” è illuminante perché svela l’essenza del suprematismo delle potenze imperialiste: “come osate voi selvaggi avere posizioni diverse da quelle indicate dalla superiore civiltà dell’uomo bianco?”

Quando Imarn Khan chiede “pensate che siamo schiavi?”, la risposta è molto semplice: come diceva Salvini, “ah no? non posso?”

Ma la ramanzina suprematista è solo l’antipasto: “penso che se riuscirete a sfiduciare il Primo Ministro”, avrebbe affermato Lu, “a Washington vi perdoneranno”.

Anche qua si vede Washington che, dall’alto della sua benevolenza, è pronta a perdonare lo schiavo ribelle. “Altrimenti”, avrebbe sottolineato Lu, “Penso che sarà dura andare avanti”.

Lu avrebbe poi continuato a sottolineare che, nel caso Imran Khan fosse rimasto al suo posto, il Pakistan inevitabilmente sarebbe stato isolato non solo dagli USA, ma anche da tutti i vassalli europei ed asiatici.

Come riporta lucidamente il sempre ottimo Andrew Korybko, “anche se non lo ha detto direttamente”, Lu “ha lasciato intendere molto chiaramente che i benefici che le élite militari e politiche ricevono dall’Occidente sarebbero stati tagliati, per non parlare dei disordini socio-politici che sarebbero necessariamente seguiti al possibile collasso dell’economia. Ciò è stato sufficiente per convincere i vertici militari e l’opposizione a unirsi per rimuovere Imran Khan”.

Di fronte a questa prima pistola fumante, la replica del portavoce del dipartimento di stato USA Matthew Miller suona un po’ stonata: “Niente in questi presunti commenti”, ha dichiarato, “mostra che gli Stati Uniti abbiano preso posizione su chi dovrebbe essere il leader del Pakistan”.

Verissimo. Mostrano solo chi gli USA hanno imposto non lo fosse: nella scelta dello zerbino più adatto – va riconosciuto – lasciano piena libertà ai servizi e alle forze armate pakistane.

D’altronde sono schiavisti, ma pur sempre illuminati. Esattamente il giorno dopo il fatidico incontro, l’opposizione diligentemente fa la prima mossa per arrivare al voto di sfiducia.

Non c’hanno manco dormito sopra: gli USA ordinano e loro eseguono con zelo.

A partire dal 2020, Imran Khan aveva accampato ogni genere di scusa per rinviare il rinnovo dell’accordo di partnership militare con gli USA, avviato15 anni prima; pochi mesi dopo la sua defenestrazione, il parlamento ha approvato in fretta e furia un nuova partnership con Washington che prevede “esercitazioni congiunte, operazioni, addestramento, e scambio di armamenti”, ma il nodo principale era la posizione sull’Ucraina.

Il cambiamento d’aria si era cominciato a sentire già alcuni giorni prima del golpe bianco, quando l’allora capo delle forze armate Qamar Bajwa aveva deciso di rompere con la neutralità professata da Imran Khan e aveva rilasciato una dichiarazione pubblica dove definiva apertamente quella russa una vera e propria invasione, ma era solo l’antipasto.

A luglio il ministro degli esteri ucraino effettua un importante viaggio di stato a Islamabad che viene pubblicizzato come incentrato su temi quali il commercio, l’istruzione e le questioni ambientali ma poco dopo, in rete, cominciano a circolare immagini provenienti dal fronte di proiettili e munizioni prodotti in Pakistan, che – da questo punto di vista – ha un’industria bellica di tutto rispetto. All’inizio del 2023 GeoNews, un importante canale youtube pakistano, pubblica un’intervista a un funzionario dell’Unione Europea di istanza ad Islamabad, che ammette che il Pakistan sta fornendo assistenza militare all’Ucraina.

Ovviamente tutti smentiscono categoricamente, ma è il segreto di pulcinella che oggi possiamo svelare con sicurezza: a permettercelo è di nuovo un’altra importante inchiesta di The Intercept, che sempre grazie a fonti anonime interne alle forze armate pakistane, è entrata in possesso di una mole importante di documenti che dimostrerebbero come il Pakistan abbia venduto equipaggiamento militare, e in particolare munizioni, agli USA da destinare all’Ucraina, per un valore di poco meno di 1 miliardo di dollari.

Ma come hanno fatto gli USA a convincere i pakistani a fare questa svolta a 360 gradi? “Semplice”, sostiene The Intercept, “con i quattrini del fondo monetario internazionale”.

Però il Pakistan, ormai da qualche anno, è attraversato da una crisi economica devastante, con un debito estero fuori controllo che drena tutte le risorse del paese, mentre la crescita arranca.

Per mettere una toppa, a partire dal 2019, Imran Khan ha cercato di aprire una trattativa col fondo monetario internazionale per ristrutturare il debito: come sempre, il fondo ha chiesto una serie di riforme di carattere neoliberista, cioè le consuete vecchie condizioni che impongono da decenni a qualsiasi paese debitore. Con la retorica dell’apertura ai mercati, impongono la solita ricetta “lacrime e sangue”, utile solo a liberare nuovi spazi per l’abituale shopping a prezzi di saldo di interi pezzi dell’economia nazionale da parte delle oligarchie finanziarie.

Il risultato è immancabilmente lo stesso: l’economia, invece di ripartire, sprofonda in una crisi ancora più grave, che rende il ripagamento del debito sempre più inverosimile, e costringe i paesi più poveri a uno stato di perenne dipendenza dai loro creditori; è il meccanismo standard attraverso il quale il fondo monetario si è dimostrato essere il più efficace tra gli strumenti in mano a Washington per imporre la sua globalizzazione neoliberista in tutto il pianeta, e al quale anche i governi più titubanti sono spesso ancora costretti a ricorrere per tentare di rinviare almeno temporaneamente il deafult.

Un ricatto nel quale è caduto lo stesso Imran Khan, che a partire dal 2019 ha ceduto all’esigenza di introdurre alcune di queste fantomatiche riforme. Ovviamente, le conseguenze economiche sono state disastrose, ma – oltre al danno – anche a questo giro è arrivata pure la beffa, e alla fine il fondo monetario si è rifiutato di concedere il tanto atteso nuovo prestito. Indovinate un po’ invece quand’è che hanno deciso di concederlo?

Esatto. Poco dopo il golpe bianco dettato dagli USA e la decisione di rinnegare la neutralità, ecco che magicamente viene concesso il prestito.

Ovviamente, anche stavolta sono state introdotte misure draconiane di sudditanza ai dictat dell’agenda neoliberista, a partire da un repentino aumento del 50% al tetto imposto ai prezzi dei prodotti energetici; ma secondo The Intercept, a fare la differenza sarebbe stato proprio l’accordo per la fornitura di munizioni da spedire in Ucraina, siglato il quale gli USA si sarebbero mossi con tutti gli strumenti a loro disposizione per convincere il fondo monetario a rivedere la sua posizione. Un piano perfetto e una grande vittoria strategica per gli USA che così rimettono le mani dentro la marmellata del paese che forse più di ogni altro è essenziale per la realizzazione della nuova via della seta e per l’integrazione del super-continente eurasiatico.

Peccato che questa vittoria stia costando molto cara. Forse troppo: come ricorda giustamente The Intercept, “Mentre sui media andava in scena il dramma del cablo fantasma, per le strade l’esercito pakistano lanciava un attacco senza precedenti alla società civile pakistana per mettere a tacere qualunque dissenso e libertà di espressione esistessero in precedenza nel paese

Negli ultimi mesi”, continua l’articolo, “il governo guidato dai militari ha represso non solo i dissidenti ma anche i presunti responsabili della fuga di notizie all’interno delle sue stesse istituzioni, approvando una legge che autorizza perquisizioni senza mandato e lunghe pene detentive per tutti gli informatori

Tra i vari arresti sommari senza mandato, anche quello della nota avvocata per i diritti umani, nonché figlia dell’ex ministro per i diritti umani durante il governo Khan, Imaan Zainab Mazari: stava guidando una serie di proteste per chiedere un’azione immediata contro le esecuzioni extragiudiziali e la sparizione forzata di migliaia di persone innocenti nelle cosiddette “operazioni antiterrorismo” dell’esercito nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa (KP).

Peccato che, venendo arrestata illegalmente da un alleato dell’occidente e non da quei cattivoni degli iraniani, dalle nostre parti non abbia scatenato poi chissà che ondata di indignazione.

L’ondata repressiva poi ha riguardato in particolar modo la stampa indipendente: “La repressione della stampa pakistana, un tempo turbolenta, ha preso una piega particolarmente cupa”, scrive The Intercept. “Arshad Sharif, un importante giornalista pakistano fuggito dal paese, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco a Nairobi lo scorso ottobre in circostanze ancora controverse. Un altro noto giornalista, Imran Riaz Khan, è stato arrestato dalle forze di sicurezza in un aeroporto lo scorso maggio e da allora non è più stato visto” e i golpisti avrebbero addirittura intimato a tutti i media del paese di evitare anche solo di citare di sfuggita il nome stesso di Imran Khan.

Nel frattempo, migliaia di suoi sostenitori sono stati incarcerati e il suo processo si è trasformato in una vera e propria farsa, con l’obiettivo palese di impedirgli di partecipare alle prossime elezioni che – secondo tutti i sondaggi – lo vedrebbero di gran lunga favorito.

Questi attacchi radicali alla democrazia”, scrive ancora The Intercept, “sono passati in gran parte inosservati da parte dei funzionari statunitensi. Alla fine di luglio il capo del comando centrale degli Stati Uniti, generale Michael Kurilla, ha visitato il Pakistan, poi ha rilasciato una dichiarazione affermando che la sua visita era stata incentrata sul “rafforzamento delle relazioni tra militari”, senza fare menzione della situazione politica in Pakistan. E quando quest’estate il deputato USA Greg Casar ha tentato di aggiungere una misura al National Defense Authorization Act che ordinava al Dipartimento di Stato di esaminare il declino democratico in Pakistan, gli è stato addirittura negato il voto alla Camera”.

Chi l’avrebbe mai detto? Quando in ballo ci sono gli interessi strategici, la retorica sullo scontro di civiltà tra democrazie illuminate e regimi totalitari passa inspiegabilmente in secondo piano.

A noi non rimane che l’antidoto di raccontare le cose per come sono, e non per come le vedono sotto acido gli hooligan del liberalismo immaginario. Se anche tu credi sia importante continuare a farlo, sempre meglio e sempre di più, diccelo con qualche eurino: aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe ( https://gofund.me/c17aa5e6 ) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU )

E chi non aderisce è David Parenzo