Come ti destabilizzo una potenza nucleare: lo scandalo del golpe filo USA in Pakistan
Il sud globale avanza compatto giorno dopo giorno e minaccia il vecchio ordine globale, ma le defezioni non mancano e tra queste ce n’è una in particolare che preoccupa Mosca e Pechino: il Pakistan, una defezione eccellente, quinta potenza demografica mondiale e uno dei 9 stati al mondo a possedere l’atomica.
La variabile pakistana è una gigantesca spina nel fianco al processo di integrazione del super-continente eurasiatico e a Pechino lo sanno bene, e non a caso è il singolo paese ad aver ricevuto in assoluto più quattrini per investimenti di ogni genere nell’ambito della nuova via della seta; un’influenza crescente, che sembrava aver aperto al Pakistan una gigantesca finestra di opportunità in direzione finalmente di uno sviluppo economico impetuoso e sostenibile, e dell’emancipazione dal giogo statunitense; un processo di portata storica, che si è tradotto nell’ascesa inarrestabile dell’ex campione di cricket Imran Khan e del suo Movimento per la Giustizia del Pakistan, sfociata nel dicembre del 2018 nella sua nomina a primo ministro.
Unico vero oppositore alla partecipazione del suo paese nella disastrosa guerra in Afghanistan, e leader incontrastato del movimento che si opponeva agli attacchi criminali dei droni USA in territorio pakistano, Imran Khan è probabilmente il primo leader nazionale da qualche decennio a questa parte a non essere emanazione più o meno diretta delle gerarchie militari legate a doppio filo a Washington; una vera luce di speranza per l’affermazione dell’indipendenza e della sovranità del Pakistan che infatti è stata colta con incredibile entusiasmo, sopratutto dalle fasce più giovani della popolazione.
Già nel 2014 un sondaggio di YouGov incoronava Imran Khan “persona più ammirata in assoluto del Pakistan”, e addirittura dodicesimo a livello globale; poi è arrivata la guerra in Ucraina, e contro l’idea eretica di Khan di mantenere il Pakistan in una posizione di netta neutralità, tutta la popolarità possibile immaginabile non bastava più.
Nell’aprile del 2022 Imran Khan viene repentinamente spodestato attraverso un voto di sfiducia del parlamento; da allora lui, il suo movimento, e chiunque abbia manifestato disappunto nei confronti dell’ennesimo golpe bianco condotto contro gli interessi e i sentimenti popolari, sono stati ferocemente repressi tra pestaggi, esecuzioni, processi farsa e arresti sommari.
Ed è così che oggi il Pakistan si trova travolto da una crisi economica, politica e istituzionale senza precedenti, e indovinate un po’ per merito di chi?
E’ il 7 marzo 2022. L’allora ambasciatore pakistano negli USA, Asad Majeed Khan, incontra alcuni alti funzionari del dipartimento di stato USA: tra loro, Donald Lu, responsabile dell’ufficio per gli affari del centro e del sud asiatico. Questo fa infuriare gli USA che, abituati a “dare il Pakistan per scontato”, si sentono beffati.
Sotto la guida autorevole di Imran Khan, infatti, il Pakistan, come d’altronde la quasi totalità dei paesi del sud globale, ha deciso di non volersi schierare nella guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina
Su cosa si siano detti esattamente durante quell’incontro, è stata fatta a lungo ogni sorta di speculazione; quello che sappiamo con certezza invece è che un mese dopo il parlamento sfiducerà Khan, rimuovendolo dal potere.
Sappiamo anche che pochi giorni prima di quell’incontro, il 2 marzo, Donald Lu aveva tenuto un’audizione presso il comitato per le relazioni estere del senato USA, che voleva
avere notizie più dettagliate sulla neutralità che India, Pakistan e Sri Lanka avevano deciso di mantenere nel contesto del conflitto ucraino. In particolare, erano imbufaliti dal fatto che il Pakistan, in occasione del voto presso l’ONU della risoluzione di condanna nei confronti della Russia, avesse optato per l’astensione, e sappiamo anche che il giorno prima del fatidico incontro, Imran Khan era intervenuto durante una manifestazione.
Alcuni ambasciatori occidentali in Pakistan avevano provato a fare esplicitamente pressione su Khan affinché rimettesse in discussione la sua neutralità dopo l’astensione all’ONU: gli scrissero proprio una letterina, come quella della trojkaa Berlusconi: “gentile alunno, abbiamo notato che all’ONU non hai votato come ti avevamo chiesto. Eh eh eh, non si fa, birichino.”
Non andò proprio benissimo: “che cosa pensate di noi?”, tuonò Khan di fronte a una folla oceanica, “che siamo i vostri schiavi e che faremo tutto quello che ci chiedete?”
Ovviamente, chiunque abbia anche solo sommessamente insinuato il dubbio che dietro la defenestrazione del primo presidente pakistano a non essere emanazione diretta di servizi ed esercito filooccidentali, è stato prontamente accusato di essere un utile idiota della pervasiva propaganda putiniana
Forse, però, si è trattato di un giudizio un po’ affrettato. Questa estate infatti, The Intercept – la testata USA fondata da Glenn Greenwald e diventata famosa per i leak del caso Snowden – è entrata in possesso del cablo che riassume il contenuto di quel fatidico incontro; l’esistenza di un documento che provava oltre ogni ragionevole dubbio l’ingerenza USA negli affari interni del Pakistan era stata annunciata subito dopo il colpo di stato da Imran Khan stesso.
Gli USA però hanno sempre negato pubblicamente e sfacciatamente in almeno 4 occasioni diverse: “non è altro che propaganda, e disinformazione”, dicevano, un po’ come quando David Puente fa i suoi ridicoli fact checking con il contesto mancante.
Ecco, ora il contesto c’è: secondo il documento del quale The Intercept è entrato in possesso grazie a una fonte anonima interna alle forze armate pakistane, durante il fatidico incontro Donald Lu avrebbe sottolineato come “qui negli USA, come in Europa, siamo molto preoccupati dalle motivazioni che hanno spinto il Pakistan ad assumere una tale posizione aggressivamente neutrale”. Fate attenzione alle parole, che a volte svelano mondi inesplorati: “aggressivamente neutrale” è illuminante perché svela l’essenza del suprematismo delle potenze imperialiste: “come osate voi selvaggi avere posizioni diverse da quelle indicate dalla superiore civiltà dell’uomo bianco?”
Quando Imarn Khan chiede “pensate che siamo schiavi?”, la risposta è molto semplice: come diceva Salvini, “ah no? non posso?”
Ma la ramanzina suprematista è solo l’antipasto: “penso che se riuscirete a sfiduciare il Primo Ministro”, avrebbe affermato Lu, “a Washington vi perdoneranno”.
Anche qua si vede Washington che, dall’alto della sua benevolenza, è pronta a perdonare lo schiavo ribelle. “Altrimenti”, avrebbe sottolineato Lu, “Penso che sarà dura andare avanti”.
Lu avrebbe poi continuato a sottolineare che, nel caso Imran Khan fosse rimasto al suo posto, il Pakistan inevitabilmente sarebbe stato isolato non solo dagli USA, ma anche da tutti i vassalli europei ed asiatici.
Come riporta lucidamente il sempre ottimo Andrew Korybko, “anche se non lo ha detto direttamente”, Lu “ha lasciato intendere molto chiaramente che i benefici che le élite militari e politiche ricevono dall’Occidente sarebbero stati tagliati, per non parlare dei disordini socio-politici che sarebbero necessariamente seguiti al possibile collasso dell’economia. Ciò è stato sufficiente per convincere i vertici militari e l’opposizione a unirsi per rimuovere Imran Khan”.
Di fronte a questa prima pistola fumante, la replica del portavoce del dipartimento di stato USA Matthew Miller suona un po’ stonata: “Niente in questi presunti commenti”, ha dichiarato, “mostra che gli Stati Uniti abbiano preso posizione su chi dovrebbe essere il leader del Pakistan”.
Verissimo. Mostrano solo chi gli USA hanno imposto non lo fosse: nella scelta dello zerbino più adatto – va riconosciuto – lasciano piena libertà ai servizi e alle forze armate pakistane.
D’altronde sono schiavisti, ma pur sempre illuminati. Esattamente il giorno dopo il fatidico incontro, l’opposizione diligentemente fa la prima mossa per arrivare al voto di sfiducia.
Non c’hanno manco dormito sopra: gli USA ordinano e loro eseguono con zelo.
A partire dal 2020, Imran Khan aveva accampato ogni genere di scusa per rinviare il rinnovo dell’accordo di partnership militare con gli USA, avviato15 anni prima; pochi mesi dopo la sua defenestrazione, il parlamento ha approvato in fretta e furia un nuova partnership con Washington che prevede “esercitazioni congiunte, operazioni, addestramento, e scambio di armamenti”, ma il nodo principale era la posizione sull’Ucraina.
Il cambiamento d’aria si era cominciato a sentire già alcuni giorni prima del golpe bianco, quando l’allora capo delle forze armate Qamar Bajwa aveva deciso di rompere con la neutralità professata da Imran Khan e aveva rilasciato una dichiarazione pubblica dove definiva apertamente quella russa una vera e propria invasione, ma era solo l’antipasto.
A luglio il ministro degli esteri ucraino effettua un importante viaggio di stato a Islamabad che viene pubblicizzato come incentrato su temi quali il commercio, l’istruzione e le questioni ambientali ma poco dopo, in rete, cominciano a circolare immagini provenienti dal fronte di proiettili e munizioni prodotti in Pakistan, che – da questo punto di vista – ha un’industria bellica di tutto rispetto. All’inizio del 2023 GeoNews, un importante canale youtube pakistano, pubblica un’intervista a un funzionario dell’Unione Europea di istanza ad Islamabad, che ammette che il Pakistan sta fornendo assistenza militare all’Ucraina.
Ovviamente tutti smentiscono categoricamente, ma è il segreto di pulcinella che oggi possiamo svelare con sicurezza: a permettercelo è di nuovo un’altra importante inchiesta di The Intercept, che sempre grazie a fonti anonime interne alle forze armate pakistane, è entrata in possesso di una mole importante di documenti che dimostrerebbero come il Pakistan abbia venduto equipaggiamento militare, e in particolare munizioni, agli USA da destinare all’Ucraina, per un valore di poco meno di 1 miliardo di dollari.
Ma come hanno fatto gli USA a convincere i pakistani a fare questa svolta a 360 gradi? “Semplice”, sostiene The Intercept, “con i quattrini del fondo monetario internazionale”.
Però il Pakistan, ormai da qualche anno, è attraversato da una crisi economica devastante, con un debito estero fuori controllo che drena tutte le risorse del paese, mentre la crescita arranca.
Per mettere una toppa, a partire dal 2019, Imran Khan ha cercato di aprire una trattativa col fondo monetario internazionale per ristrutturare il debito: come sempre, il fondo ha chiesto una serie di riforme di carattere neoliberista, cioè le consuete vecchie condizioni che impongono da decenni a qualsiasi paese debitore. Con la retorica dell’apertura ai mercati, impongono la solita ricetta “lacrime e sangue”, utile solo a liberare nuovi spazi per l’abituale shopping a prezzi di saldo di interi pezzi dell’economia nazionale da parte delle oligarchie finanziarie.
Il risultato è immancabilmente lo stesso: l’economia, invece di ripartire, sprofonda in una crisi ancora più grave, che rende il ripagamento del debito sempre più inverosimile, e costringe i paesi più poveri a uno stato di perenne dipendenza dai loro creditori; è il meccanismo standard attraverso il quale il fondo monetario si è dimostrato essere il più efficace tra gli strumenti in mano a Washington per imporre la sua globalizzazione neoliberista in tutto il pianeta, e al quale anche i governi più titubanti sono spesso ancora costretti a ricorrere per tentare di rinviare almeno temporaneamente il deafult.
Un ricatto nel quale è caduto lo stesso Imran Khan, che a partire dal 2019 ha ceduto all’esigenza di introdurre alcune di queste fantomatiche riforme. Ovviamente, le conseguenze economiche sono state disastrose, ma – oltre al danno – anche a questo giro è arrivata pure la beffa, e alla fine il fondo monetario si è rifiutato di concedere il tanto atteso nuovo prestito. Indovinate un po’ invece quand’è che hanno deciso di concederlo?
Esatto. Poco dopo il golpe bianco dettato dagli USA e la decisione di rinnegare la neutralità, ecco che magicamente viene concesso il prestito.
Ovviamente, anche stavolta sono state introdotte misure draconiane di sudditanza ai dictat dell’agenda neoliberista, a partire da un repentino aumento del 50% al tetto imposto ai prezzi dei prodotti energetici; ma secondo The Intercept, a fare la differenza sarebbe stato proprio l’accordo per la fornitura di munizioni da spedire in Ucraina, siglato il quale gli USA si sarebbero mossi con tutti gli strumenti a loro disposizione per convincere il fondo monetario a rivedere la sua posizione. Un piano perfetto e una grande vittoria strategica per gli USA che così rimettono le mani dentro la marmellata del paese che forse più di ogni altro è essenziale per la realizzazione della nuova via della seta e per l’integrazione del super-continente eurasiatico.
Peccato che questa vittoria stia costando molto cara. Forse troppo: come ricorda giustamente The Intercept, “Mentre sui media andava in scena il dramma del cablo fantasma, per le strade l’esercito pakistano lanciava un attacco senza precedenti alla società civile pakistana per mettere a tacere qualunque dissenso e libertà di espressione esistessero in precedenza nel paese”
“Negli ultimi mesi”, continua l’articolo, “il governo guidato dai militari ha represso non solo i dissidenti ma anche i presunti responsabili della fuga di notizie all’interno delle sue stesse istituzioni, approvando una legge che autorizza perquisizioni senza mandato e lunghe pene detentive per tutti gli informatori”
Tra i vari arresti sommari senza mandato, anche quello della nota avvocata per i diritti umani, nonché figlia dell’ex ministro per i diritti umani durante il governo Khan, Imaan Zainab Mazari: stava guidando una serie di proteste per chiedere un’azione immediata contro le esecuzioni extragiudiziali e la sparizione forzata di migliaia di persone innocenti nelle cosiddette “operazioni antiterrorismo” dell’esercito nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa (KP).
Peccato che, venendo arrestata illegalmente da un alleato dell’occidente e non da quei cattivoni degli iraniani, dalle nostre parti non abbia scatenato poi chissà che ondata di indignazione.
L’ondata repressiva poi ha riguardato in particolar modo la stampa indipendente: “La repressione della stampa pakistana, un tempo turbolenta, ha preso una piega particolarmente cupa”, scrive The Intercept. “Arshad Sharif, un importante giornalista pakistano fuggito dal paese, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco a Nairobi lo scorso ottobre in circostanze ancora controverse. Un altro noto giornalista, Imran Riaz Khan, è stato arrestato dalle forze di sicurezza in un aeroporto lo scorso maggio e da allora non è più stato visto” e i golpisti avrebbero addirittura intimato a tutti i media del paese di evitare anche solo di citare di sfuggita il nome stesso di Imran Khan.
Nel frattempo, migliaia di suoi sostenitori sono stati incarcerati e il suo processo si è trasformato in una vera e propria farsa, con l’obiettivo palese di impedirgli di partecipare alle prossime elezioni che – secondo tutti i sondaggi – lo vedrebbero di gran lunga favorito.
“Questi attacchi radicali alla democrazia”, scrive ancora The Intercept, “sono passati in gran parte inosservati da parte dei funzionari statunitensi. Alla fine di luglio il capo del comando centrale degli Stati Uniti, generale Michael Kurilla, ha visitato il Pakistan, poi ha rilasciato una dichiarazione affermando che la sua visita era stata incentrata sul “rafforzamento delle relazioni tra militari”, senza fare menzione della situazione politica in Pakistan. E quando quest’estate il deputato USA Greg Casar ha tentato di aggiungere una misura al National Defense Authorization Act che ordinava al Dipartimento di Stato di esaminare il declino democratico in Pakistan, gli è stato addirittura negato il voto alla Camera”.
Chi l’avrebbe mai detto? Quando in ballo ci sono gli interessi strategici, la retorica sullo scontro di civiltà tra democrazie illuminate e regimi totalitari passa inspiegabilmente in secondo piano.
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E chi non aderisce è David Parenzo
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