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Tag: obama

Il regime feudale saudita prova a salvarsi abbonando agli USA lo sterminio dei palestinesi

Dopo settimane e settimane di pipponi pieni di speranza sulle magnifiche sorti e progressive del nuovo ordine multipolare, l’implosione dell’imperialismo – e, già che ci siamo, pure del lato più feroce e distopico del capitalismo che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni – oggi, invece, è una giornata di lutto; nonostante tutto il nostro wishful thinking e gli sforzi disumani messi in campo dalle diplomazie russe e cinesi, alla fine sembra proprio avesse ragione Matteo Renzi: nei regimi monarchici assolutisti del Golfo spira un vento di rinascimento. E quando un sicario del volto più feroce del capitalismo monopolista finanziario come Renzi parla di rinascimento, per noi e per il 99% può significare una cosa sola: enormi, giganteschi, smisurati cazzi volanti che si insinuano dal buco del culo, risalgono su su lungo tutto l’intestino fino all’esofago e ci sventrano in due.
A conclusione della sessione speciale del World Economic Forum che si è tenuta a Riad nei giorni scorsi, infatti, il segretario di stato USA Anthony Blinken e quello Saudita Faisal bin Farhan hanno annunciato all’unisono che i negoziati per un accordo di sicurezza tra i due paesi sarebbero quasi completati e anche se in cosa consisterebbe questo accordo nel dettaglio nessuno ancora lo sa, i pilastri principali sembrano essere piuttosto chiari e non lasciano presagire nulla di buono: in soldoni, riporta la testata della sinistra antimperialista libanese Al Akhbar, si tratterebbe di un obbligo di difesa del regime assolutista dei Saud da parte di Washington, sulla falsariga di quelli in essere con Corea del Sud e Giappone; un primo passo per arrivare in futuro, magari, a un vero e proprio vincolo di mutuo soccorso come quello in vigore tra i paesi che aderiscono alla NATO, ma non solo. L’accordo prevederebbe, infatti, anche la rinuncia da parte saudita di proseguire sulla strada della cooperazione tecnologica con i nemici degli USA e dell’imperialismo, a partire – ovviamente – dalla Cina. I più schierati, come la testata filo iraniana Al Mayadeen, cercano a tutti i costi di vedere il bicchiere mezzo pieno e sottolineano come si tratti in realtà di un “piano B, che esclude Israele”, ma pur con tutta la buona volontà e con tutti i distinguo dal trionfalismo becero della propaganda suprematista al servizio dell’impero, a questo giro a noi sembra ci sia veramente molto poco da festeggiare. Ma prima di provare a capire per bene perché, vi ricordo di mettere un like a questo video perché, che si vinca o che si perda, ora e sempre algoritmo merda e, se non l’avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche (soprattutto oggi, che non abbiamo molto altro da festeggiare).
Prima che il 7 ottobre scorso l’operazione diluvio di al aqsa riaprisse la partita, molti analisti occidentali davano per quasi fatta l’adesione definitiva della monarchia assoluta saudita agli accordi di Abramo, il piano architettato dall’amministrazione criptofascista di parrucchino The Donald e, dopo alcuni tentennamenti, fatto proprio dal compagno Rimbambiden che cercava di garantirsi l’egemonia imperialista sul Medio Oriente permettendo, allo stesso tempo, agli USA di disimpegnarsi dalla gestione diretta della sicurezza dell’area: l’idea era quella di consolidare l’alleanza strategica tra l’avamposto sionista dell’imperialismo USA e le fazioni più retrograde e reazionarie dell’area, incarnate dai regimi assolutisti premoderni delle petromonarchie del Golfo, in modo da creare un blocco sufficientemente potente da poter contrastare la lotta sovranista e popolare per la decolonizzazione del Medio Oriente – guidata dall’Iran e dall’asse della resistenza – senza dover necessariamente continuare a ricorrere direttamente a Washington. Grazie alla rivoluzione avviata dal compagno Obama che, a costo di devastare completamente gli Stati Uniti manco fossero la Cina dei primi anni ‘80, ha regalato al suo paese l’autosufficienza energetica a suon di fracking, l’interesse concreto diretto degli USA per le ricchezze del sottosuolo mediorientale, ovviamente, è diminuito sensibilmente; quello che ancora non è diminuito – anzi, semmai è aumentato – è l’obiettivo di impedire che altre aree del mondo escano dalla sfera d’influenza dell’imperialismo e vadano a rafforzare le fila di chi cerca spazi di autonomia strategica e contribuisce alla creazione di un nuovo ordine multipolare, soprattutto se, appunto, si tratta di aree che per la ricchezza di materie prime indispensabili per continuare ad alimentare la crescita (in particolare cinese) hanno un valore strategico così rilevante.
Il piano USA, però, era stato ostacolato a più riprese da una lunga serie di avversità: la debacle di USA e alleati che, tramite i loro proxies fondamentalisti, avevano causato la guerra mondiale per procura in Siria, aveva sollevato più di qualche dubbio sulla reale capacità della superpotenza militare a stelle e strisce di garantire la sicurezza agli alleati dell’area, un dubbio che era diventato sempre più concreto mano a mano che si manifestava l’incapacità di arrestare la lotta di liberazione dello Yemen guidata da Ansar Allah. Cosa che, nel tempo, aveva spinto Riad a cercare una qualche forma di distensione, perlomeno temporanea, con l’Iran; una distensione che poi si era evoluta in una vera e propria riapertura ufficiale dei rapporti diplomatici grazie all’intermediazione della Cina che, nel frattempo, è diventata di gran lunga il primo partner commerciale dell’Arabia Saudita, della quale assorbe il grosso del petrolio che agli USA non serve più. Ma non solo; con lo scoppio della fase 2 della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, l’imperialismo ha dato un’ulteriore prova di debolezza: ha intaccato ancora di più il mito dell’invincibilità della macchina bellica USA e ha spinto i sauditi a intensificare le relazioni con i partner impegnati nella costruzione di un nuovo ordine multipolare, fino addirittura ad aderire ufficialmente ai BRICS+.

Jamal Ahmad Khashoggi

Inoltre, c’è anche un aspetto sovrastrutturale che ha spinto Riad sempre più verso est; e la sovrastruttura, quando hai a che fare con un paese premoderno che, quindi, assomiglia davvero alla caricatura che fanno gli analfoliberali alla Rampini di paesi complessi come la Cina o la Russia – dove, secondo loro, c’è uno che si sveglia la mattina e prende decisioni a caso a seconda dell’umore – conta parecchio. L’aspetto in questione è la reazione di Biden all’assassinio (con tanto di spezzettamento in pieno stile pulp) del povero Jamal Khashoggi, che ha visto sleepy Joe impegnato nel tentativo di fare contenta la sua base di ipocriti fintoprogressisti e bombaroli dirittumanisti accusando apertamente gli alleati sauditi e raffreddando platealmente i rapporti; ciononostante, l’ombra dell’accordo di Abramo e, quindi, di un ritorno all’ovile del sostegno al progetto neocoloniale dell’impero continuava a incombere: d’altronde, il regime saudita è un regime premoderno e antistorico che può sperare in una sua sopravvivenza nella sua forma attuale soltanto ancorandosi a un progetto più complessivo di repressione generalizzata delle istanze popolari nel Medio Oriente. Inoltre le oligarchie saudite, come quelle dei fratelli coltelli emiratini, anche se ora si stanno un po’ divertendo a giocare con un po’ di investimenti produttivi per differenziare l’economia ed emanciparla gradualmente dalla dipendenza dalle fonti fossili, sono totalmente integrate nel grande schema Ponzi della speculazione finanziaria globale e, quindi, vedono nella sopravvivenza dell’imperialismo finanziario un loro interesse vitale.
C’è anche un altro aspetto, poi, da tenere in considerazione, che è di nuovo frutto della guerra per procura in Ucraina, ma che spinge in direzione opposta e, cioè, il fatto che la graduale scomparsa del petrolio russo dall’Europa come conseguenza delle sanzioni apriva un’opportunità straordinaria per Riad per emanciparsi dalla dipendenza da Pechino come principale acquirente, variabile di non poco conto soprattutto dal momento che mentre Pechino la transizione ecologica la sta facendo davvero, l’Europa la fa solo a chiacchiere e, fra pochino, manco più con quelle. Poi, però, è arrivato il 7 ottobre e, soprattutto, il genocidio dei palestinesi del quale, ovviamente, a Bin Salman e alla sua cricca di oligarchi non gliene può fregare di meno; ai popoli del Medio Oriente, però, sì e quindi, per non regalare l’egemonia su tutta l’area all’Iran e all’asse della resistenza, Riad ha dovuto far finta di essere indignata. Certo, non che abbia mosso mezzo dito per contrastare la pulizia etnica, ma, per lo meno, ha dovuto rimandare ogni possibile trattativa con Israele a sterminio completato.
Ed ecco che, finalmente, siamo arrivati a oggi: Stati Uniti e Arabia Saudita si avvicinano al patto di difesa inteso a rimodellare il Medio Oriente titolava ieri entusiasta Bloomberg; “Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita” commenta l’articolo “si stanno avvicinando a un patto storico che offrirebbe garanzie di sicurezza al regno e traccerebbe un possibile percorso verso legami diplomatici con Israele”. “L’accordo” concede Bloomberg “deve affrontare numerosi ostacoli, ma equivarrebbe a una nuova versione del piano che è stato affondato quando l’attacco di Hamas del 7 ottobre contro Israele ha innescato il conflitto a Gaza. I negoziati tra Washington e Riad infatti hanno subito un’accelerazione nelle ultime settimane, e molti funzionari sono ottimisti sul fatto che potrebbero raggiungere un accordo entro poche settimane”; “Un simile accordo” continua l’articolo “rimodellerebbe potenzialmente il Medio Oriente e oltre a rafforzare la sicurezza di Israele e dell’Arabia Saudita, rafforzerebbe la posizione degli Stati Uniti nella regione a scapito dell’Iran e persino della Cina”. Secondo Bloomberg l’accordo garantirebbe ai sauditi l’accesso a sistemi d’arma USA prima preclusi, in cambio del quale il principe Bin Salman sarebbe disposto a limitare l’ingresso di tecnologia cinese a patto che gli USA aiutino il regno a sviluppare tecnologia nei campi dell’intelligenza artificiale, del quantum computing e dell’energia nucleare, un aut aut che ha già portato a un successo USA negli Emirati dove g42, l’azienda leader dell’intelligenza artificiale, ha accettato di porre fine alla cooperazione con la Cina in cambio di un investimento da parte di Microsoft; “Una volta raggiunto l’accordo” continua Bloomberg, l’ipotesi è che venga presentato a Netanyahu che, a quel punto, potrà decidere “se aderire, e quindi stabilire per la prima volta legami diplomatici con l’Arabia Saudita, e approfittare di maggiori investimenti e di maggiore integrazione economica regionale, o essere messo da parte”.
“Le condizioni poste a Netanyahu però non sarebbero roba da poco” e cioè “porre fine alla guerra di Gaza e accettare un percorso verso uno Stato palestinese”: “Si tratta di un atto strategico tra l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti che ha lo scopo di proteggere e consolidare la posizione dell’America in Medio Oriente in un momento in cui il regno stava diversificando le sue opzioni di politica estera e allontanandosi da Washington” ha affermato Firas Maksad del Middle East Institute; le condizioni che i sauditi imporrebbero a Netanyahu sono sicuramente complicate per Israele, soprattutto se considerato che fino a pochi mesi fa “se non fossero stati attaccati con il diluvio di al aqsa” come sottolinea Al Akhbar “erano quasi riusciti a farla franca con un accordo simile del tutto gratuitamente” e, cioè, senza nessuna richiesta aggiuntiva. A ben vedere, però, il problema del cessate il fuoco, molto banalmente, non fa che rimandare l’estensione dell’accordo a Israele a quando avrà completato la sua opera di sterminio e di pulizia etnica e quello di “accettare un percorso verso uno stato palestinese” non sarebbe altro che una riproposizione ancora più farsesca della gigantesca presa per il culo che è stata Oslo, con in più la Palestina ormai sostanzialmente ridotta a due grandi campi profughi che non hanno nessunissima possibilità concreta di formare uno Stato minimamente autonomo; in sostanza, sottolinea Al Akhbar, USA e Israele sembrano considerare il regno una sorta di “moglie che cerca di migliorare le sue condizioni di vita nella sua casa coniugale, ma non ha alternative al marito anche se non le dà ciò che chiede, il che potrebbe significare che l’Arabia Saudita alla fine potrebbe scegliere di accettare la normalizzazione accontentandosi delle garanzie americane, ma senza ottenere alcuna concessione da parte del nemico israeliano”.
Alla fine, il sanguinario regime distopico sionista e quello feudale saudita sembrano essere uniti da un’esigenza comune che sovrasta tutte le altre: che gli USA non abbandonino l’area, per garantire con la sua superpotenza militare che i loro regimi contrari agli interessi del 99% non vengano travolti dalle lotte popolari e anticoloniali – che è l’unico aspetto a cui, a questo giro, ci possiamo attaccare per vedere comunque le difficoltà che gli USA incontrano per perpetrare il loro sistema imperialistico nonostante il declino; dall’Ucraina al Medio Oriente, il loro impero, per rimanere in piedi, non si può affidare interamente ai proxies, ma richiede il loro impegno diretto. E l’impegno diretto su tutti i fronti caldi della guerra dell’imperialismo contro il resto del mondo è un compito che, comunque, va oltre le loro possibilità. Per chi, proprio a causa della ferocia imperialista, è costretto a fare lo slalom tra le bombe o a rischiare di essere fucilato mentre è in fila nella speranza di ricevere un tozzo di pane, potrebbe non essere una consolazione sufficiente; la grande battaglia di liberazione globale per mettere fine all’imperialismo e costruire un nuovo ordine multipolare più equo e democratico è un’esigenza storica inaggirabile. Pensare che sia un percorso lineare che porta verso il sol dell’avvenire sarebbe puerile: la battaglia è appena cominciata e, forse, l’unica nota veramente positiva di oggi è che sappiamo che a combatterla ormai siamo in parecchi.
A partire dalle migliaia di manifestanti che nelle università americane, nonostante una morsa repressiva che se fosse avvenuta in Russia, in Cina o in Iran sarebbe bastata agli analfoliberali per chiedere di raderle al suolo, continuano a occupare strade e piazze in nome di un sogno concreto che non ci faremo rovinare dai capricci di un principe multimiliardario. Prepariamoci a una lunga battaglia e armiamoci adeguatamente per vincerla, a partire da un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Matteo Renzi

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

L’impasse dell’impero dopo il capolavoro iraniano

Carissimi ottoliner, anche oggi, prima di passare alle cose serie, un brevissimo aggiornamento sulla nostra travagliata love story col bimbo prodigio dell’analismo geopolitico fai da te del Tubo, il dottor Parabellum 7 cervellum; grazie alla sua sconfinata cultura e alla sua irraggiungibile perspicacia, Parabellum 7 cervellum, infatti, è riuscito a dimostrare una cosa che ci mette profondamente in imbarazzo: facciamo giornalismo scandalistico e puntiamo alla pancia dei complottari più buzzurri con la favoletta del noncielodikono. La prova provata? E’ sotto i vostri occhi: il nostro motto, il media del 99% che voi ingenuotti pensavate fosse un tributo all’arcinoto slogan di Occupy Wall Street; non a caso voi siete sempre e solo i soliti poveri comunisti e Parabellum 7 cervellum, invece, è CEO di un celebre think tank e vi svela un segreto: “Prendi ad esempio la presentazione di Ottolina” ha raccontato sul canale di Iban Grieco, “loro dicono raccontiamo quello che il 99% della gente non vi racconta” e giù risate. “Cioè” continua “se lo dicono da loro: noi siamo portatori di quella verità alternativa. Io” conclude “non ho mai scritto una cosa del genere sul mio canale”; visto il livello culturale, direi che la cosa stupefacente è che – comunque – sa scrivere e, a quanto pare, anche in modo efficace: grazie a un suo reclamo, infatti, Youtube c’ha buttato giù per la seconda volta il video che lo riguarda. L’altra volta la scusa era il copyright, ora la privacy.
Non gli deve rodere poi tanto, dai; l’ha presa benissimo, talmente bene che, tra una crociata contro i complottisti e l’altra, ha anche elaborato una sua teoria del complotto: secondo Parabellum 7 cervellum, infatti, tutti i video emersi ultimamente che dimostrano come il nostro raffinato analista abbia citato spesso dati a sproposito (ma, soprattutto, abbia completamente ribaltato la sua idea sul ruolo della NATO nel conflitto Ucraino) sarebbero frutto di un coordinamento tra noi, Andrea Lombardi, Dazibao e non so chi altro, intervenuti per difendere il nostro leader maximo Marco Travaglio dopo che, con le sue argomentazioni ficcanti nella fantastica realtà parallela in cui vivono i liberioltristi, lo aveva asfaltato in diretta streaming. Non ha esplicitato, però, a che titolo e in che modo siano intervenuti anche i servizi cinesi, gli hacker nordcoreani e i delfini soldati di Putin, ma non ho dubbio che, prima o poi, riuscirà a svelarcelo; e, con questo, abbiamo finito l’ormai immancabile appuntamento quotidiano con le fantastiche rivelazioni di Parabellum 7 cervellum e torniamo a occuparci di cose serie.
Anzi, no, perché qui la situazione è drammatica, ma non seria: impanicati per le potenziali conseguenze di un’eventuale reazione muscolare da parte di Israele, dopo che sabato l’Iran ha dimostrato di essere in grado di colpire tutti gli obiettivi militari che vuole all’interno dello Stato genocidario di Israele, la propaganda suprematista è alla disperata ricerca di un qualche trofeo simbolico da offrire in pasto all’opinione pubblica e al regime suprematista di Tel Aviv come contentino. Ed ecco, immancabile, il titolone del Corriere della serva: Spinta per le sanzioni all’Iran, spiattella a 6 colonne in prima pagina; Dagli USA alla UE: studiamo le misure. Uno studio, tutto sommato, piuttosto semplice anche per degli alunni non particolarmente brillanti come i camerieri delle oligarchie che guidano le istituzioni dell’Occidente collettivo; la minaccia delle sanzioni, infatti, rischia non essere esattamente uno spauracchio efficace, soprattutto dal momento che l’Iran le sanzioni secondarie illegali degli USA (che l’impero di Washington, grazie alla dittatura del dollaro, impone anche a tutti gli altri) sono in campo ormai da oltre 40 anni e, cioè, da quando la rivoluzione khomeinista ha liberato il paese da quel pupazzo dello Scià messo lì dagli USA con un colpo di stato per rovesciare il governo popolare e sovranista di Mossadeq, e riguardano sostanzialmente tutto, aiuti umanitari e farmaci salvavita compresi.

Maurizio Belpietro

Lo ricorda, in un editoriale totalmente delirante, anche Maurizio Belpietro su La Verità, solo che per lui, appunto, è cosa buona e saggia perché è un’arma di distruzione di massa che permette democraticamente di affamare gli iraniani e mettere in ginocchio la repubblica islamica e di proteggere gli interessi di quella che ancora oggi, dopo 15 mila bambini sterminati, definisce serenamente l’unica democrazia del Medio Oriente; Belpietro, anzi, ricorda come – per un paio d’anni – il ricorso sistematico a questa arma di distruzione di massa sia stato leggermente indebolito. Ed è stata proprio quella la causa di tutti i mali: Se l’Iran minaccia il mondo, è infatti il titolo dell’editoriale, ringraziate i Dem USA; Belpietro ricorda infatti come Obama, come sempre, s’era fatto guidare dal cuore tenero e dall’infantilismo politico tipico dei democratici e aveva concesso all’Iran una riduzione delle sanzioni unilaterali illegali. In cambio, ovviamente, Obama aveva pensato di poter ottenere che l’Iran rinunciasse allo sviluppo del nucleare, per permettere a Israele di essere l’unico paese della regione a detenere segretamente il nucleare al di fuori di ogni accordo internazionale e garantire, così, la supremazia strategica dell’avamposto coloniale dell’imperialismo USA; ma siccome – si sa – gli iraniani sono cattivi, invece che sfruttare questa possibilità “per migliorare le condizioni di vita della propria popolazione… hanno usato quei soldi per armarsi e per riempire gli arsenali di una serie di movimenti terroristi dell’area, senza mai sospendere il programma nucleare”. Ovviamente l’AIEA, in realtà, dopo le sue ispezioni affermava il contrario, ma anche Saddam diceva di non avere le armi chimiche e poi Powell dimostrò il contrario con una fialetta piena di borotalco all’ONU.
Fortunatamente, però, dopo quel bambinone di Obama arrivò alla Casa Bianca un vero macho tutto d’un pezzo come Trump che, dietro consiglio di un vero statista integerrimo come John Bolton, “stracciò l’accordo con Teheran” e dichiarò guerra agli ayatollah, tra embargo, accordi di Abramo per saldare il progetto coloniale israeliano alle monarchie assolute del golfo e una bella dose di omicidi extra giudiziali ed extraterritoriali che, insieme alle sanzioni illegali, sono il vero simbolo della democrazia e dello stato di diritto con caratteristiche statunitensi; peccato, però, che dopo questa età dell’oro alla Casa Bianca siano tornati uomini senza banana arancione e senza spina dorsale che, da bravi traditori dei veri valori dell’Occidente, le sanzioni hanno deciso di allentarle e hanno permesso così all’Iran di tornare a sostenere “Hezbollah, Houthi, Hamas e qualsiasi altro movimento di tagliagole in attività nel mondo islamico” (a parte quelli democratici addestrati e foraggiati da Israele, dagli Stati Uniti e dalle illuminate petromonarchie del Golfo, ovviamente) e ora, continua Belpietro, “L’agenzia nucleare mondiale ci informa che gli ayatollah sono a un passo dalla produzione della bomba atomica”. “Insomma” conclude Belpietro, “grazie a Obama, Clinton e Biden siamo sull’orlo di una nuova guerra, che non riguarda il Medio Oriente, ma tutto il mondo”.
Ora, io di cazzate – come sapete – sono abituato a leggerne tante, ma un intero editoriale dove non c’è nemmeno una, e dico una, notizia non dico vera, ma nemmeno verosimile, forse non m’era mai capitato (e meno male che il giornale si chiama La Verità); l’Iran infatti, al contrario di cosa farfuglia Belpietro, il ramo di ulivo offerto da Obama l’ha utilizzato per dare un po’ di respiro alla sua popolazione e alla sua economia, eccome: tra il 2012 e il 2015, infatti, con l’inasprirsi delle sanzioni l’Iran aveva subìto un tracollo economico impressionante che aveva visto il PIL passare da 640 a 400 miliardi; peggio di una guerra – e con altrettanti morti. Allentate le sanzioni, che – ribadiamo – non è una concessione, ma solo un ripristino di un minimo di legalità internazionale, l’economia iraniana ha ripreso a correre: oltre il 20% in due anni, due anni di attività frenetiche e di grandi aspettative. Se Belpietro, tra una propaganda suprematista e l’altra, avesse parlato non dico con qualche antimperialista, ma anche solo con qualche imprenditore italiano (di quelli che dice di difendere e rappresentare) lo saprebbe benissimo, a partire proprio da quelli politicamente più vicini a lui: ad esempio, dallo stesso Adolfo Urso, che aveva colto l’occasione al balzo e aveva fondato una società di consulenza per le aziende ad hoc.
Un periodo che ricordo benino perché, a differenza di Belpietro, ogni tanto (per mia disgrazia) ho anche lavorato e dovevo andare con una delegazione di imprenditori italiani a Teheran per documentare alcune trattative molto importanti e promettenti, a partire dai mega progetti di ammodernamento della rete ferroviaria – dove l’Italia e alcune sue eccellenze l’avrebbero fatta da padroni – fino a che non arrivò parrucchino e la sua gang di guerrafondai suprematisti che, su richiesta dello stato terrorista di Tel Aviv, mentre in Siria foraggiavano insieme il terrorismo islamista della peggior specie, ingaggiarono una guerra per la distruzione e il regime change a Teheran e l’Italia perse di botto commesse da centinaia di milioni e potenzialmente, in prospettiva, plurimiliardarie. E l’Iran ripiombò nella crisi e comprese che ogni tentativo di trovare un nuovo dialogo con l’Occidente era del tutto velleitario. L’unico obiettivo degli USA era impedire in ogni modo la stabilità di uno Stato sovrano nella regione che mettesse a rischio il suo progetto imperiale e neocoloniale, e l’obiettivo dell’Europa, molto banalmente, non c’era: era solo obbedire a Washington e smentire sistematicamente accordi presi il giorno prima; da lì, tutti gli sforzi della repubblica islamica si sono concentrati nell’organizzazione dell’asse della resistenza per mano di uno dei più grandi strateghi militari degli ultimi decenni, il leggendario generale Soleimani, poi barbaramente assassinato da Washington nell’ennesimo omicidio extragiudiziale.
La bomba più eclatante, però, Belpietro la tira quando afferma che l’IAEA (che non sa manco come si chiama) avrebbe affermato che “Gli ayatollah sono a un passo dalla bomba atomica”; peccato che, durante la conferenza stampa di martedì, Rafael Grossi, che dell’IAEA è il direttore generale, abbia detto esplicitamente che “Per quanto riguarda l’Agenzia non abbiamo alcuna informazione o indicazione che l’Iran abbia un programma di armi nucleari” . L’editoriale infarcito di fake news di Belpietro, purtroppo, però è soltanto il caso più sguaiato ed eclatante di una propaganda che dalla notte di sabato lavora instancabilmente per tentare di rovesciare completamente la realtà e, ancora una volta, trasformare l’aggressore in aggredito, fino al paradosso. Il nostro amico Paolo Ferrero, ex ministro della solidarietà sociale, ieri infatti è stato intervistato da una piccola radio: Ferrero, ovviamente, ha ricordato il precedente dell’attacco illegale criminale del regime genocida al consolato iraniano di Damasco, al che il giornalista ha spiazzato tutti ed ha chiesto “Ministro, ma lei come ha saputo di questo bombardamento contro l’ambasciata iraniana? Perché io non l’ho letto da nessuna parte”; ma non solo, perché oltre a ribaltare platealmente il rapporto aggredito – aggressore, nell’agenda della propaganda suprematista, infatti, ci sono almeno altre due partite altrettanto importanti.
La prima è decantare la supremazia militare dell’uomo bianco, che non può mai essere confrontata con quella dei popoli inferiori, ma – come ricorda anche Guido Olimpo sul Corriere della serva – a febbraio la TV di Stato iraniana aveva trasmesso in pompa magna una strana esercitazione militare: in un poligono, erano stati ricostruiti degli hangar che assomigliavano in tutto e per tutto alle strutture della base di Nevatim, la famosa base aerea del deserto del Negev, che sono stati raggiunti da una selva di missili con gittate dai 1.400 ai 2.000 chilometri e, cioè, esattamente quello che è successo sabato scorso; nello sciorinare le altissime percentuali di abbattimenti effettuati con successo dalla possente alleanza messa in piedi in fretta e furia dagli USA a sostegno del genocidio, si dimenticano di sottolineare che, per la stragrande maggioranza, si trattava di droni da due bicci che sono stati lanciati apposta per essere abbattuti, ma che, per essere abbattuti, hanno impegnato una bella fetta dell’antiaerea che ha lasciato dei buchi grossi come case dove i missili veri, invece, sono passati eccome. Risultato: gli obiettivi militari che l’Iran voleva dimostrare di essere in grado di colpire e, cioè, tre installazioni (tutte e tre coinvolte, a vario titolo, nell’attacco criminale al consolato iraniano di Damasco), sono stati tutti colpiti. L’entità dei danni non è chiara, ma, con ogni probabilità, sono minimi – e graziarcazzo, non era quello lo scopo: lo scopo era semplicemente dimostrare che l’Iran è in grado, dal suo territorio, di colpire gli obiettivi che vuole.
La seconda partita, invece, è quella di dimostrare che in ballo non c’è la guerra tra l’imperialismo colonialista bianco e il resto del mondo, ma che abbiamo un sacco di amici anche nell’islam moderato – e, cioè, quello delle monarchie, meglio se assolute; il culmine del trash della propaganda woke al servizio di questa retorica coloniale l’ha toccato La Stampa con un articolo imbarazzante di Francesca Paci, scandalizzata perché “La sfida del velo non ci scalda più”, una battaglia coraggiosa per permettere alle donne gazawi di essere sterminate liberamente senza velo.
Ma – al di là delle solite trashate dell’imperialismo delle ZTL – in questa partita c’è anche un aspetto decisamente più inquietante: sin dall’inizio, infatti, si è giocata una partita delicatissima sul ruolo dei paesi arabi nell’alleanza che ha intercettato l’attacco iraniano. Quali paesi arabi siano stati coinvolti, e come, rimane ancora ad oggi un mistero; una cosa però è certa: se hanno aiutato Israele, lo hanno fatto contro le loro opinioni pubbliche che, anche laddove abbiano una pessima opinione dell’Iran, ovviamente questo sentimento non è comparabile con il disprezzo viscerale per l’entità sionista e l’imperialismo USA. Ergo, anche nel caso venga confermata la loro collaborazione, il loro interesse fondamentale è che rimanga tutto dietro le quinte (come d’altronde sono sempre rimaste le trattative e i negoziati, in particolare tra sauditi e israeliani) e tutto questo ancora prima che Israele sterminasse decine di migliaia di bambini e affamasse tutti gli altri; e visto che questi eventuali partner locali per Israele e per l’imperialismo USA sono fondamentali e sono in una posizione delicatissima, a rigor di logica il primo obiettivo della nostra propaganda dovrebbe essere quello di negare un loro ruolo anche di fronte all’evidenza.
Eppure, a questo giro, è successo esattamente il contrario: nonostante non vi siano notizie certe – e nonostante sauditi ed emiratini abbiano addirittura evitato sistematicamente anche solo di condannare l’operazione iraniana, al contrario di quanto avvenuto nel caso dell’attacco terrorista di Tel Aviv al consolato iraniano di Damasco, prontamente condannato in mondovisione da tutte le cancellerie dell’area – già domenica tutti i nostri media di regime sottolineavano con forza il ruolo attivo dei paesi arabi; forse, come dice Parabellum, sono diventato complottista e cavalco la retorica del noncielodikono, ma a me, sinceramente, questa roba mi è puzzata un po’ di operazione piscologica spinta dai servizi sin da subito. E quel sospetto è diventato, ieri, un’ossessione quando su La Stampa ho visto questa intervista qua: un giornalista anonimo intervista un riservista anonimo israeliano che parla di piani anonimi che prevedono il coinvolgimento anonimo di paesi arabi anonimi; quanto sono complottista inside, da 1 a 10, se mi viene il sospetto che questo articolo l’abbia pubblicato direttamente l’intelligence senza neanche passare dalla redazione? “Ci sono rapporti e smentite a proposito del ruolo svolto dai paesi arabi” chiede l’intervistatore anonimo; “qual è stato l’apporto degli stati arabi?”. “Quello che posso dire” risponde il riservista anonimo “è che per dispiegare questo tipo di difesa, in grado di bloccare un attacco di quella portata, abbiamo utilizzato risorse che non sono solo di dominio israeliano. E che a livello di spazio aereo, per affrontare qualcosa che viene da est, abbiamo dovuto volare da qualche parte a est di Israele, sopra territori che sono al di fuori dei nostri confini. Tutto è stato fatto in coordinamento, ma non posso entrare nel dettaglio di chi esattamente ha fatto cosa”; “Cosa comporta la cooperazione, in materia di sicurezza, tra Israele e i partner arabi?” rilancia l’intervistatore anonimo: “Non aspettatevi che condivida i termini esatti dell’accordo, sempre che esista questo tipo di documento. Come si può immaginare, se uno Stato partecipa a questo tipo di coordinamento e ti permette di sorvolare il suo spazio aereo, si tratta di una relazione unica. Non sono qui per svelare alcun segreto. Ma chiunque sappia fare due conti, se si pensa a un missile che vola da centinaia di chilometri verso Israele e si vuole intercettarlo prima che arrivi a destinazione, bisogna volare in cieli altrui. E non è stato certamente fatto senza chiedere permesso”.
Ora, io purtroppo non ho il curriculum di Giuliano Ferrara e devo dire che non ho mai avuto a che fare con nessun servizio di intelligence; quindi, in realtà, esattamente come operano non lo so, ma questa intervista dove nessuno dice niente, priva di ogni qualsivoglia minimo riferimento a qualcosa di verificabile, che può voler dire tutto e il contrario di tutto, tutto sotto forma anonima, non è proprio palesemente e platealmente una roba da servizi?
Ora, ovviamente qui c’è un aspetto piuttosto comprensibile che è, appunto, la necessità dell’imperialismo di far finta di fare anche gli interessi almeno di pezzi di popolazione locale, una battaglia di propaganda che ha assunto toni paradossali nel solito articolo di Di Feo: USA, Israele e sunniti: la nuova alleanza che ha fornito lo scudo politico militare anti-Iran, titolava; cioè, non i loro governi dispotici, ma proprio i sunniti come etnia che, ovviamente, prima di dare una mano al regime genocida che sta sterminando in diretta streaming i loro fratelli, si tagliano un braccio. Come ha riportato candidamente anche Deutsche Welle per mano del suo inviato in Giordania: “L’Iran non è popolare in Giordania, in generale, ma rifiuto l’intercettazione dei missili iraniani da parte della Giordania e il suo coinvolgimento involontario in questa guerra” avrebbe affermato una manifestante pro Palestina che, secondo la giornalista, rappresentava lo spirito diffuso nella piazza. Nelle ore successive, diverse fonti saudite, tra cui al Arabiya, hanno riportato dichiarazioni anonime che escludevano categoricamente ogni coinvolgimento saudita nell’alleanza costruita in fretta e furia dagli USA a difesa del genocidio. Ovviamente non significa che sia vero, anzi; ma ovviamente, immagino – che abbiano dato un sostegno o no – vedersi sputtanati così su tutti i media occidentali non credo gli abbia fatto piacere. E non credo che aumenti la capacità di USA e Israele di riportarli nettamente dalla loro parte, dopo le manovre di avvicinamento agli iraniani magistralmente coordinate l’anno scorso dalla diplomazia cinese.
Sarò ottimista, ma in questa maldestra operazione psicologica da parte della propaganda occidentale io vedo un chiaro segno di debolezza che non può che spostare ulteriormente i rapporti di forza a favore dell’asse della resistenza e convincere ancora di più le petromonarchie che il regime coloniale non è più in grado di garantirne la sicurezza in opposizione alle forze popolari e antimperialiste dell’area e che, se vuole tentare di far sopravvivere il suo regime feudale, deve provare attivamente a trovare un nuovo equilibrio regionale che le permetta di emanciparsi dal ruolo di cagnolino obbediente dell’imperialismo. L’operazione psicologica fatta dall’impero ai danni dei suoi partner arabi, da questo punto di vista, potrebbe essere un tentativo disperato di entrare a gamba tesa sulla dialettica interna a questi paesi per metterli di fronte a un fatto compiuto: è inutile che vi arrampichiate sugli specchi per dimostrare all’opinione pubblica della regione che non siete gli utili idioti dell’imperialismo, perché vi abbiamo già sputtanato. E potrebbe anche essere il tentativo di fornire un assist alle fazioni più filo-occidentali e più dubbiose sulla possibilità di costruire una nuova distensione con l’Iran e l’asse della resistenza che non metta automaticamente a rischio la sopravvivenza del loro regime premoderno.
Una cosa è certa: l’era dove USA e Israele colpivano a destra e manca senza dover temere le ripercussioni e disponendo a loro piacimento degli Stati pupazzo dell’area sembra essere definitivamente tramontata ed essere ancora in salute solo nella propaganda delle SS, gli specializzati in stronzate che ancora parassitano il nostro sistema mediatico. Mentre l’asse della resistenza dà il benservito all’imperialismo, noi almeno facciamo la nostra parte per dare il benservito ai suoi pennivendoli. Aiutaci a costruire un vero e proprio media alternativo, che dia voce al 99%: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio Belpietro

LA TERZA GUERRA MONDIALE PUO’ ATTENDERE: perché il bilaterale tra Xi e Biden è un’ottima notizia

L’armageddon può attendere.
Al di là di tutte le considerazioni e tutti i distinguo possibili immaginabili, il motivo per cui di fronte alle strette di mano e ai sorrisi che Sleepy Joe e Xi Dada si sono scambiati copiosamente la scorsa settimana, non possiamo che dirci un pochino sollevati sta tutto qui. Checché ne dicano tutti i dispensatori di analisi che straboccano del senno di poi, non era scontato. Ma proprio manco per niente: a partire dai colpi di coda della presidenza Trump, le relazioni bilaterali tra i due paesi hanno gradualmente raggiunto il punto più basso da quando, nel 1972, Richard Nixon e Kissinger avevano deciso di rivoluzionare l’intera politica internazionale giocandosi la carta cinese contro l’eterno avversario sovietico, e quando nel febbraio del 2022 è scoppiata la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, noi – sinceramente – abbiamo immediatamente pensato al peggio. L’idea, forse un po’ paranoica, era che il fronte ucraino servisse principalmente per appaltare al vassallo europeo una sorta di manovra di distrazione della Russia sul fronte occidentale per potersi concentrare sull’Indo – pacifico e dare una botta mortale all’ascesa cinese approfittando di qualche casus belli creato ad arte attorno alla questione Taiwan.
“L’Ucraina potrebbe essere solo il primo capitolo di una nuova grande guerra totale a partire da Taiwan” scrivevamo già nel marzo del 2022 “e l’escalation potrebbe essere più rapida del previsto” e in effetti, per qualche mese, i segnali non hanno fatto che andare tutti in quella direzione: l’Europa, andando palesemente contro ogni suo interesse, si impegnava sempre di più in una guerra che si confermava sempre più chiaramente andare in direzione di un lungo pantano; gli USA schiacciavano al massimo sul pedale della retorica del disaccoppiamento economico del Nord globale dalla Cina e ingaggiavano una guerra tecnologica a suon di chip di ultima generazione contro l’industria cinese e, ad agosto, l’incredibile provocazione della visita a sorpresa a Taiwan – contro ogni protocollo diplomatico possibile immaginabile – dell’allora speaker della camera democratica Nancy Pelosi (già tristemente nota per essersi arricchita a dismisura investendo nelle azioni di aziende che, da politica, avrebbe dovuto controllare) aveva clamorosamente rischiato di far precipitare tutta la situazione. Ne erano seguiti giorni infuocati di dimostrazione di forza a suon di missili e di incursioni navali ed aeree come mai si era registrato da parte cinese, alla quale era seguita l’interruzione repentina di tutte le linee di comunicazioni militari ad alto livello tra Cina ed USA. Le previsioni più catastrofiste sembravano avverarsi, ora dopo ora, sotto i nostri occhi increduli ; interrotta ogni forma di dialogo e immersi in un nebbia fitta di diffidenza reciproca, da lì in poi nessuno era più in grado di garantire che una qualsiasi incomprensione sulle manovre continue intorno all’isola non sarebbe potuta degenerare rapidamente in uno scontro frontale.
Fortunatamente non accadde niente del genere e anzi, da entrambi i lati – piuttosto rapidamente – si cominciarono a provare a rimettere le basi per riportare il tutto sotto controllo, fino ad arrivare al G20 di Bali e al bilaterale a latere tra Xi e Biden: un faccia a faccia, universalmente definito come storico, che inaugurava una stagione che veniva definita “new detente”, nuova distensione. Che è durata pochissimo: per farla saltare è bastato aspettare due mesi dopo che nei cieli del Montana venisse avvistato un gigantesco e innocuo pallone gonfiabile bianco.

Il pallone gonfiabile cinese

I cinesi hanno provato a spiegare, come poi è stato confermato, che non si trattava di altro che di uno strumento per la raccolta di dati scientifici e meteorologici sfuggito al controllo a causa del vento, ma contro la sete di sangue della propaganda sinofoba e guerrafondaia la spiegazione più logica è un’arma spuntata. E così risiamo punto e a capo. Ecco, io a quel punto, se fossi stato la Cina, avrei mollato: se siete così invasati da trasformare una puttanata del genere in un casus belli vuol dire che non c’è niente da fare. Se proprio volete la guerra, che guerra sia.
Fortunatamente per il resto dell’umanità, però, io mi limito a sproloquiare su un canale Youtube, e a guidare la Cina – invece – ci sono gli eredi di un impero millenario che, al contrario di qualche governatore zoticone dell’impero fondato sulle armi semiautomatiche in vendita al tabacchino, riesce a mantenere la calma anche in queste circostanze e ragiona sui tempi lunghi della storia che, poco dopo, torna a fare capolino. Nell’arco di pochi mesi, dopo questa figura barbina di fronte all’intero pianeta, il termine disaccoppiamento comincia a diventare tabù: che l’economia USA e quella cinese non possono fare a meno l’una dell’altra diventa il nuovo mantra, ripetuto prima da Sullivan, poi dalla Yellen, poi da Blinken. Intendiamoci: le parole non costano nulla e i fatti continuano ad andare in un’altra direzione ma, alla fine, nella diplomazia anche il tono conta, eccome. Ed ecco così che si ricomincia a parlare di un eventuale nuovo faccia a faccia che riprenda il filo del discorso iniziato a Bali e naufragato per un pallone gonfiabile. Manco al campino del parroco quando andavo alle medie… Ma d’altronde la Cina la distensione la deve trovare con chi c’è, anche se quello che c’è si chiama Rimbambiden e, tra una gaffe e l’altra, ormai è abbastanza evidente che tiene in pugno la politica estera USA un po’ come io tengo in pugno l’opinione pubblica italiana.
L’occasione giusta, appunto, viene identificata nella riunione annuale dell’APEC organizzata per metà novembre a San Francisco; le due diplomazie lavorano giorno e notte per risolvere ogni tipo di ostacolo e, per avere la conferma definitiva, si dovranno aspettare gli ultimissimi giorni: andrà, non andrà, ci sarà un incontro bilaterale ad hoc, oppure no, si concluderà con una dichiarazione congiunta… fino all’ultimo minuto niente è scontato. Ecco perché, oggi, mi fanno un po’ ridere quelli che minimizzano: la sanno lunga, però solo dopo. In realtà mai come oggi, almeno da 60 anni a questa parte, l’umanità intera sta camminando su una fune sospesa a 50 metri d’altezza dal suolo; basteranno queste strette di mano e questi sorrisi a farci mantenere in equilibrio almeno per un altro po’?
Il messaggio che arriva da San Francisco, stringi stringi, è uno: per quanto, effettivamente, tutto sembri ineluttabilmente crollarci sotto i piedi e sfuggirci di mano, per il momento le due principali potenze globali di annichilirsi l’un l’altra a suon di testate atomiche non sembrano averne intenzione. Per gli inguaribili ottimisti – che sono ancora convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili, dove le magnifiche sorti e progressive della grande civiltà dell’uomo bianco ha relegato la tentazione della mutua distruzione reciproca ai libri di storia – probabilmente è poca cosa, ma per noi che siamo pessimisti cosmici e che ancora facciamo fatica a vedere quali alternative all’armageddon dovrebbe avere l’imperialismo occidentale a guida USA a sua disposizione non solo per impedire, ma anche solo per ostacolare efficacemente il suo inesorabile declino, in realtà è tipo – non voglio dire – un miracolo, ma quasi.
Ma non di sole profezie millenariste si vive e allora, intanto, cominciamo da qualcosa di completamente diverso: la cosa più bella di questo bilaterale infatti, è stata la location perché la tenuta dove Xi e Biden si sono confrontati in modo “franco e diretto” – come hanno sottolineato i comunicati – per la bellezza di 4 ore, non è un luogo qualsiasi ma è nientepopodimeno che la tenuta di famiglia al centro di uno dei prodotti più iconici in assoluto dell’industria culturale USA: Dynasty. E non è tutto, perché c’è un aspetto che non tutti conoscono di Dynasty: durante i lavori per la realizzazione di tutte e 8 le stagioni della telenovela, un personaggio di primissimo piano negli USA ha continuato ininterrottamente a stalkerizzare la produzione elemosinando – con ogni mezzo possibile – una parte qualsiasi, venendo sistematicamente rimbalzato. Quel personaggio di primissimo piano è nientepopodimeno che Donald Trump. Un caso? Io non kreto. E con questo retroscena dall’incontro bilaterale, sostanzialmente è tutto. Poi sì – per carità – dice che hanno parlato di Fentanyl, di ostacolare la deriva che potrebbe portarci a breve al paradosso che a decidere se scoppierà la guerra mondiale o meno sia direttamente l’intelligenza artificiale, di clima; d’altronde, in qualche modo, queste 4 ore andavano riempite ma, tutto sommato, è solo fuffa. Il punto è che, a parte la promessa reciproca di non distruggersi a vicenda, i due leader non hanno niente da dirsi; le traiettorie e gli interessi strategici dei due paesi, semplicemente, non sono compatibili: da un lato l’ordine unipolare fondato sulla concentrazione dei capitali in mano alle oligarchie finanziarie, dall’altro un nuovo ordine multipolare fondato sullo sviluppo delle forze produttive e sulle relazioni commerciali tra stati sovrani. Un dualismo semplicemente irrisolvibile, a meno di una rivoluzione all’interno di uno dei due poli; e allora è proprio da questo punto di vista che dobbiamo provare a leggere tutto quello che è successo negli ultimi giorni.
Come tutti sapete, infatti, il tête-à-tête tra Sleepy Joe e Xi Dada non è stato altro che uno dei tanti incontri che si sono svolti in occasione della riunione annuale dell’APEC, l’Asia-Pacific Economic Cooperation, un organo multilaterale del quale – nella nostra provincia profonda dell’impero – a malapena conosciamo l’esistenza, figurarsi l’importanza e il ruolo. D’altronde con i suoi 21 membri che rappresentano il 38% della popolazione, il 50% del commercio globale e il 62% del PIL globale, è soltanto l’organismo di cooperazione economica più grande del pianeta. Che ce frega a noi?
In cima all’agenda dei lavori dell’APEC – a questo giro – c’era una questione piuttosto delicata: si chiama IPEF, che sta per Indo-Pacific Economic Framework; lanciato dallo stesso Rimbambiden nel maggio scorso, sarebbe dovuto servire agli USA per controbilanciare l’aumento dell’influenza economica cinese nell’area. Un buco nell’acqua: “Il fallimento degli Stati Uniti nell’accordo commerciale Indo – pacifico apre le porte alla Cina” scrive Bloomberg, e l’Economist rilancia “I fallimenti di Joe Biden sul fronte commerciale avvantaggiano la Cina”.

Un pallone gonfiato americano

Facciamo un piccolo passo indietro; per contrastare la crescente influenza commerciale del dragone in Asia, nel 2005 l’amministrazione Bush Junior avvia una serie di negoziati con 14 partner locali: l’obiettivo è raggiungere un quadro regolatorio onnicomprensivo per favorire il libero scambio e l’integrazione economica tra le due sponde del pacifico tenendo fuori la Cina. Si chiama TPP, Trans-Pacific Partnership (partenariato trans-pacifico) ed è il classico strumento della globalizzazione neoliberista a guida USA e fondata sul dollaro e, sebbene sia stato avviato da Bush Jr, diventerà il cavallo di battaglia del Pivot to Asia dell’amministrazione Obama; attraverso l’accordo si dovrebbe facilitare ulteriormente la delocalizzazione e la deindustrializzazione degli USA e, in cambio, le oligarchie locali avrebbero l’opportunità di estrarre plusvalore dalle loro economie per incassare dollari ed andarli a reinvestire nelle bolle speculative a stelle e strisce, e a pagare il conto sarebbero i lavoratori che, però, si oppongono con ogni mezzo necessario – compresa l’elezione di un pazzo furioso. In mezzo a mille proteste, infatti, i negoziati procedono a rilento e la scadenza iniziale del 2012 viene rimandata per ben 4 volte. La firma, finalmente, arriva nel febbraio del 2016: durerà come un gatto in tangenziale; l’opposizione al vecchio paradigma liberoscambista, pochi mesi dopo, porterà alla vittoria alle presidenziali di Donald Trump che, poco dopo, ritirerà l’adesione degli USA al TPP.
Le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione neoliberista, come meccanismo fondamentale per far avanzare le ambizioni egemoniche USA, non convincono più nessuno; nel frattempo la Cina continua, con passo lento ma inesorabile, a rafforzare i suoi legami commerciali e a lavorare a una sempre maggiore integrazione e interdipendenza economica dell’area. E’ un modello completamente diverso che, invece di essere fondato sulle delocalizzazioni, è fondato sulla liberazione delle forze produttive della regione attraverso gli investimenti e l’integrazione delle catene produttive: non ruba lavoro a qualcuno per darlo a qualcuno con meno diritti e pagato meno, ma crea le condizioni perché entrambi, cooperando, siano in grado di creare più ricchezza. Per la crescita dell’economia – in generale – è un modello molto più ragionevole, anche se per le élite economiche un po’ meno; in questo modello, infatti, per fare soldi non basta investirli in azioni al Nasdaq o in prodotti finanziari garantiti da BlackRock e Vanguard, ma tocca lavorare. Ma con l’America ripiegata su se stessa, rimane l’unica opzione a disposizione; quindi l’integrazione economica regionale trainata dalla Cina e fondata sulla liberazione delle forze produttive prosegue, mentre una fetta consistente delle élite continua a sperare che un giorno si possa tornare a depredare l’economia reale per fare quattrini al casinò a stelle e strisce, che è esattamente quello che gli promette Biden nel maggio del 2022 con l’avvio dei negoziati per l’Indo-Pacific Economic Framework e che, però, si ritrova di fronte agli stessi identici ostacoli del passato. I lavoratori USA di pagare di tasca loro i piani egemonici delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce non ce n’hanno voglia e – con le elezioni presidenziali alle porte e Trump che torna a minacciare lo scricchiolante ordine liberale – meglio rimandare tutto. “Una terribile battuta d’arresto per la leadership americana” ha commentato John Murphy, vicepresidente della Camera di Commercio degli Stati Uniti; “In privato” riporta Bloomberg “un dirigente aziendale ha paragonato il caos attorno alle discussioni commerciali dell’IPEF al ritiro disordinato degli USA dall’Afghanistan”. “Lascia la porta aperta alla Cina” avrebbe commentato. “Nella competizione tra America e Cina per l’influenza sul commercio asiatico” commenta l’Economist “solo una parte sta facendo progressi. I governi asiatici non riponevano grosse speranze sull’IPEF, ma ormai è evidente che se mai un accordo arriverà anche quelle basse aspettative saranno tradite”. E Xi Dada passa all’incasso: a latere delle riunione dell’APEC Xi ha incontrato faccia a faccia la leadership filippina che, delusa dalle trattative sull’IPEF, da spina nel fianco cinese eterodiretta da Washington si è riscoperta pacifista. “I problemi rimangono” ha sottolineato il presidente Marcos “ma abbiamo concordato su alcuni meccanismi per ridurre le tensioni nel Mare Cinese Meridionale. Nessuno vuole una guerra”. Ancora più significativo il bilaterale tra Cina e Giappone, sfociato in un testa e testa tra Xi e Kishida di oltre un’ora, al termine del quale gli analisti hanno parlato di un ritorno allo spirito del “rapporto strategico di reciproco vantaggio” del 2008, considerato l’apice dell’era d’oro delle relazioni sino – giapponesi, poi nel tempo gravemente deteriorate. Ma il vero trionfo di Xi è stata – come l’ha definita Santevecchi sul corriere della serva – la “conquista degli imprenditori”: il riferimento, ovviamente, è alla cena che ha visto Xi sedersi al fianco di 400 tra i principali imprenditori e dirigenti d’azienda USA e durante la quale Xi “ha incassato applausi scroscianti”. Per strapparli non ha dovuto fare altro che ribadire che “la Cina non combatterà una guerra con nessuno, né fredda, né calda. La Cina non cerca egemonia, né espansionismo”. “La grande settimana di Xi” titola a 6 colonne Bloomberg “si conclude con una serie di vittorie nei confronti di Stati Uniti, Taiwan ed economia”: a Taiwan infatti – che fa parte della lunga serie di paesi delusi dalla ritirata USA dai negoziati sull’IPEF – le opposizioni che tifano per un riavvicinamento a Pechino e che fino a ieri marciavano divise, avrebbero trovato uno storico accordo che le rende le favorite in vista delle prossime elezioni presidenziali.
Di tutto questo e di molto altro parleremo oggi, lunedì 21 novembre alle 13 e 30, durante la nuova puntata di MondoCina in collaborazione con i nostri soci di Dazibao e dintorni che tra l’altro – sempre per analizzare questa settimana storica – ha fatto un altro dei suoi imperdibili video che vi consiglio assolutamente di andare subito a vedere sul suo canale. Perché, d’altronde, se c’è una cosa che questa settimana conferma è che il mondo nuovo avanza e che non ce lo possiamo far raccontare dai vecchi media. Per raccontarlo senza fette di prosciutto sugli occhi abbiamo bisogno di un vero e proprio nuovo media che dia voce al sud globale e al 99%.
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E chi non aderisce è er bretella Rampini