Skip to main content

Tag: netflix

Operazione J.D. Vance: un’icona dell’America profonda al servizio della guerra e delle oligarchie

Il prossimo leader repubblicano: così David Graham martedì intitolava su The Atlantic il suo ritratto dell’uomo del momento, James David Vance, il volto iconico dell’America profonda che The Donald ha incoronato suo vice in piena zona Cesarini pochi minuti prima dell’inizio della grande convention repubblicana di Milwaukee. Una mossa a sorpresa che ha immediatamente incendiato gli animi delle opposte tifoserie che, tutto sommato, condividono un’idea di fondo: The Donald non è un presidente come gli altri; la sua eventuale elezione comporterà stravolgimenti profondi e la scelta di Vance come vice non fa che confermarlo, solo che una parte considera questa profonda trasformazione un pericolo esistenziale che rischia di mettere fine alla democrazia per come l’abbiamo conosciuta e l’altra, invece, la considera l’ultima opportunità che abbiamo per mettere fine alla dittatura del gender e dei minipony imposta dalle élite globaliste e dal deep state. Ovviamente – per quanto entrambe le tifoserie, in realtà, non siano del tutto prive di argomenti – si tratta, in soldoni, nella migliore delle ipotesi di un gigantesco equivoco; nella peggiore, di una gigantesca messa in scena. Al netto di alcune differenze tutto sommato piuttosto trascurabili, anche a questo giro, come in ogni elezione presidenziale americana, il popolo non sarà chiamato a scegliere tra opzioni realmente alternative, ma – molto più banalmente – a dare una semplice indicazione sul tipo di narrazione che, in questa fase specifica, ha più possibilità di distrarci dalle scelte drammatiche che vengono prese sulla nostra pelle dal partito unico della guerra e degli affari, attirando la nostra attenzione su una lunga serie di puttanate sostanzialmente ininfluenti; l’incoronazione di Vance a vice, allora, va letta principalmente da questo punto di vista: il colpo di scena di uno sceneggiatore talentuoso che sta scrivendo il copione della favoletta che proveranno a rifilarci mentre, sotto la superficie, continuano a portare avanti gli interessi strategici dell’imperialismo USA e delle oligarchie finanziarie che lo dominano. E a questo giro, bisogna ammetterlo, il copione è veramente appassionante e incredibilmente efficace, esattamente quello che serviva per provare a ridare uno slancio ideale a un paese che si trova ad affrontare sfide epocali in una condizione di frammentazione mai vista prima. Ma prima di addentrarci nei dettagli del grande romanzo popolare di James David Vance, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra battaglia contro gli algoritmi e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche, perché se loro, per diffondere le loro favolette, possono contare su Netflix, i guru della Silicon Valley e tutti gli altri mezzi di produzione del consenso, noi, per provare a riportare il dibattito sul piano della realtà, abbiamo soltanto il vostro sostegno.

James David Vance

C’era una volta il wishful thinking degli analfoliberali: interpretavano ogni segnale come la premessa del crollo della Russia sotto il peso delle sanzioni economiche e dell’eroica resistenza Ucraina e quello della Cina sotto il peso del suo sistema dirigista e distopico fondato su numeri fasulli e propaganda; nonostante la macchina propagandistica, giorno dopo giorno la realtà gli ha presentato il conto. Ovviamente, ancora oggi, gli analfoliberali e i loro potenti organi di disinformazione di massa continuano a bombardarci di minchiate totalmente infondate, ma la stragrande maggioranza della popolazione ormai ha imparato il giochino e alle loro vaccate, sostanzialmente, non abbocca più. Purtroppo però, non abbiamo fatto manco in tempo a festeggiare questa epocale disfatta di una forma di wishful thinking che eccone avanzare a passo spedito subito un’altra, possibilmente ancora più delirante e pericolosa: è la speranza che un palazzinaro multimiliardario, una sorta di Flavio Briatore on steroids imperialista e suprematista fino al midollo come Donald Trump, rappresenti un’alternativa concreta ai piani distopici delle oligarchie e del deep state impegnati in un’escalation bellica senza limiti a sostegno della lotta di classe dall’alto contro il basso e dal centro dell’impero contro il resto del mondo, una speranza che ultimamente rischiava di venire un po’ incrinata dal sostegno che The Donald, nelle ultime settimane, ha cominciato a raccogliere da pezzi consistenti delle stesse oligarchie – dal potentissimo fondatore di BlackStone Stephen Schwarzman agli odiatissimi venture capitalist della Silicon Valley, nonché dall’intero establishment neo-conservatore del Partito Repubblicano. Per rilanciare allora la narrazione del Trump antisistema avversato dalle élite c’era bisogno di un colpo di scena; anzi, di due: il primo è la manna dal cielo dell’attentato fallito di sabato scorso che, inevitabilmente, ha scatenato ogni tipo di teoria cospirazionista. Il secondo, appunto, è stata la nomina a vice di James David Vance.
Ma chi è James David Vance e perché la sua nomina è così importante dal punto di vista della narrazione trumpiana? Come sottolinea sempre David Graham su The Atlantic, “La rapida ascesa di J. D. Vance dall’oscurità alla nomina alla vicepresidenza è una di quelle storie che possono accadere soltanto negli USA, e che modellerà ciò che l’America è, nel bene e nel male, per le generazioni a venire”. La scelta della candidatura di Vance è stata immediatamente salutata, appunto, come la prova provata che Trump non ha rinunciato alla sua crociata anti-sistema per assecondare le élite che lo hanno prima sdoganato e poi riempito di quattrini: di origini più che umili, con una storia personale più che travagliata e solito a dichiarazioni fortemente anti-establishment, dalla politica economica a quella internazionale, Vance viene infatti spacciato come l’anima più genuinamente anti-sistema del MAGA, il movimento che si riconosce nello slogan del Make America Great Again.
Purtroppo, però, potrebbe essere un giudizio piuttosto avventato: Vance infatti diventa un personaggio pubblico di rilievo nel 2016 quando, appena 32enne, diventa un caso letterario nazionale grazie al suo Hillbilly Elegy – Memoria di una famiglia e di una cultura in crisi; si tratta di un’opera autobiografica dove, attraverso la travagliata storia della sua disastratissima famiglia, Vance compone un affresco spietato della classe lavoratrice bianca impoverita della Rust Belt che rappresenta uno degli zoccoli duri dell’affermazione del trumpismo. Nonostante si tratti di un testo che ha la profondità di un editoriale di Massimo Gramellini (o forse proprio per questo), il libro riceve immediatamente una quantità spropositata di recensioni entusiaste dal gotha dell’editoria conservatrice e diventa immediatamente un enorme caso letterario, ma probabilmente con finalità diametralmente opposte a quelle a cui state pensando: il ritratto che Vance fa del white-trash, infatti, è impietoso e superficiale; la sua storia è la storia di una famiglia che viene da un angolo remoto del Kentucky, nella catena montuosa degli Appalachi, e poi si trasferisce nella piccola cittadina di Middletown, in Ohio, nel cuore della Rust Belt. Qui il giovane e paffutello JD viene cresciuto insieme alla sorella dai nonni materni, mentre la madre passa da una relazione sconclusionata all’altra e, soprattutto, da una dipendenza all’altra; ma la descrizione impietosa del degrado, invece che spingere alla ricerca delle cause profonde, sfocia esclusivamente nel classico appello alle responsabilità individuali e alla necessità di darsi da fare e superare gli ostacoli a suon di determinazione per inseguire il sogno americano, che Vance cita innumerevoli volte lungo tutto il testo e che, alla fine, realizza: JD, infatti, rincorre la sua emancipazione prima arruolandosi nei Marines e poi conquistandosi faticosamente un posto nella scuola di legge di Yale. Ma attenzione: al contrario dei figli di papà che lo circondano da lì in poi, non si scorderà mai da dove viene; nonostante il giudizio moralistico sui parenti, tiene fede ai suoi obblighi nei confronti della famiglia, e, grazie al suo successo personale conquistato con così tanta dedizione, riesce a portare un po’ di sicurezza e di serenità anche in quel posto di merda di Middletown. Insomma: più che un working class hero, un mezzo mitomane.
La cosa interessante è che questa lettura prettamente moralistica e ultra-individualista dei problemi che affliggono il proletariato impoverito della Rust Belt, in realtà, viene utilizzata in quell’anno da Vance stesso per criticare proprio Trump e il suo movimento: all’apice del successo letterario e della prima campagna presidenziale di The Donald, sempre su The Atlantic Vance pubblica un articolo/manifesto che non lascia troppo spazio alle interpretazioni e dove definisce esplicitamente Donald Trump “oppio per il popolo”.
Vance parte col descrivere di nuovo il suo cavallo di battaglia: l’epidemia di consumo di oppiacei ed eroina che ha travolto il proletariato bianco della Rust Belt, a partire da sua madre: “Qualche sabato fa” scrive Vance “io e mia moglie abbiamo trascorso la mattinata facendo volontariato in un orto comunitario nel nostro quartiere di San Francisco. Dopo alcune ore di lavoro occasionale, noi e gli altri volontari ci siamo dispersi verso le nostre rispettive destinazioni: gustosi brunch, gite di un giorno nella regione del vino, visite alle gallerie d’arte. Era una giornata perfettamente normale, per gli standard di San Francisco”, ma in “Quello stesso sabato, nella piccola cittadina dell’Ohio dove sono cresciuto, quattro persone sono andate in overdose di eroina. Un tenente della polizia locale ha riassunto freddamente la banalità di tutto ciò: Non è poi così insolito per un periodo di 24 ore qui. Aveva ragione: anche a Middletown, Ohio, era stata una giornata perfettamente normale”. “Gli americani veramente estranei alla dipendenza” continua Vance “sono veramente pochi. Poco prima di laurearmi in giurisprudenza, ho saputo che mia madre giaceva in coma in un ospedale, conseguenza di un’apparente overdose di eroina. E l’eroina era solo l’ultima delle sue droghe preferite. Gli oppioidi da prescrizione l’avevano già portata più volte in ospedale in passato, e nel decennio precedente al suo primo assaggio di vera eroina erano costati terribilmente cari alla nostra famiglia. E prima che suo padre abbandonasse la bottiglia verso la mezza età, era un ubriacone notoriamente violento. Nella nostra comunità c’è da tempo un grande desiderio di alleviare il dolore; l’eroina è solo il veicolo più nuovo”; “Ora” continua Vance “in questa stagione elettorale, sembra che molti americani siano alla ricerca di un altro antidolorifico. Come gli altri, promette una rapida fuga dalle preoccupazioni della vita e una soluzione facile ai crescenti problemi sociali delle comunità e della cultura degli Stati Uniti. Non richiede nulla di particolare. Ed entra in circolo non attraverso i polmoni o le vene, ma attraverso gli occhi e le orecchie. Il suo nome è Donald Trump”: “Ciò che Trump offre” continuava Vance “è una facile fuga dal dolore. Ad ogni problema complesso promette una soluzione semplice. Può riportare posti di lavoro semplicemente punendo le società che delocalizzano. Può curare l’epidemia di dipendenza costruendo un muro messicano e tenendo fuori i cartelli. Può risparmiare agli Stati Uniti l’umiliazione e la sconfitta militare con bombardamenti indiscriminati. E non importa che nessun leader militare credibile abbia appoggiato il suo piano. Trump non offre mai dettagli su come funzioneranno questi piani, perché non può. Le promesse di Trump sono l’ago nella vena collettiva dell’America”. “La grande tragedia” continuava Vance “è che molti dei problemi individuati da Trump sono reali e richiederebbero una riflessione seria e un’azione misurata”, ma “Trump è eroina culturale: fa sentire meglio alcuni per un po’. Ma non può risolvere ciò che li affligge e un giorno se ne renderanno conto. E solo allora, forse, la nazione sarà in grado di sostituire il rapido effetto placebo dello slogan Make America Great Again con la vera medicina”. Appena due anni dopo, come per incanto, il nostro caro James David si era convinto che quell’oppiaceo, quella eroina culturale, in realtà era esattamente quello che serviva per risvegliare il popolo americano e da lì in poi, da critico fervente, diventerà uno dei volti più noti proprio del MAGA, il Make america great again; cosa sarà stato mai a fargli cambiare idea?

Peter Thiel

La risposta è piuttosto semplice: si chiama Peter Thiel, il famigerato venture capitalist multimiliardario della Silicon Valley che, da sempre, affianca alla sua carriera di imprenditore visionario un’aura da guru dell’anarco-capitalismo più selvaggio che, però, non gli ha impedito di andare sempre a braccetto con l’intelligence USA; in particolare a partire dal 2004, quando con i soldi di In-Q-Tel, la società di venture capital della CIA, fondò Palantir che, come ha scritto Enrique Dans della IE Business School di Madrid, è “una delle società più sinistre del mondo”, “incarna tutto ciò che è sbagliato e immorale nella scienza dei dati” e che, in combutta – appunto – con i servizi, è impegnata sin dalla sua fondazione “in quello che sembra essere il più grande tentativo della storia di creare un macro-database globale da parte di un’azienda privata”. Peter Thiel è considerato uno degli ispiratori del cosiddetto movimento neo-reazionario, una specie di accelerazionismo di estrema destra che mira al ritorno a forme ultra-autoritarie di governo, monarchia assoluta compresa; la tesi – tutto sommato anche abbastanza corretta – è che “libertà e democrazia non siano compatibili”, almeno se prendiamo la loro accezione (sostanzialmente da sociopatici) di libertà e che, ovviamente, la priorità vada data alla difesa della libertà assoluta delle persone con maggiori capacità di fare un po’ cosa cazzo gli pare. Insomma: per usare un termine che magari vi è un po’ più familiare, parliamo sostanzialmente di nazisti, anche se fanno fatica a identificarsi direttamente ed esplicitamente col nazifascismo perché lì c’era comunque l’idea dello Stato imprenditore come promotore dello sviluppo delle forze produttive che, invece, per loro è un compito che spetta esclusivamente alle grandi corporation e al capitale finanziario privato. Il nostro JD ha avuto modo di conoscere da vicino Thiel durante gli anni alla scuola di legge di Yale e, come scrive Vance stesso in un suo articolo di 4 anni fa intitolato Come mi sono unito alla resistenza, “L’incontro con Peter” sottolinea JD “rimane il momento più significativo del mio periodo alla Yale Law School” non solo perché “era forse la persona più intelligente che avessi mai incontrato, ma anche, se non soprattutto, perché era un fervente cristiano” ed è proprio per devozione cristiana che, qualche anno dopo, Vance seguirà Thiel in una delle sue innumerevoli iniziative imprenditoriali, diventando uno dei top manager del fondo di venture capital specializzato in nuove tecnologie Mithril Capital; nel frattempo Thiel era diventato tra i principali sostenitori proprio di Donald Trump ed ecco così che, per pura coincidenza, avviene anche la conversione di JD non solo al cristianesimo messianico e filo-sionista, ma anche al trumpismo.
Ma la costruzione del personaggio Vance era appena all’inizio; nel 2017 JD decide di tornare in Ohio dove fonda un’organizzazione no-profit per combattere l’epidemia di oppiacei nella Rust Belt e un altro fondo per favorire la crescita delle iniziative imprenditoriali locali, ma secondo una lunga inchiesta di Business Insider del 2021 è tutta fuffa: “Molti politici cercano di rafforzare la propria immagine puntando sul proprio senso degli affari e sugli sforzi filantropici” sottolinea l’articolo. “In realtà, però, non è chiaro cosa Vance abbia ottenuto attraverso la sua azienda o il suo ente di beneficenza. Un’analisi di Insider della documentazione fiscale di Our Ohio Renewal ha mostrato che nel suo primo anno, l’organizzazione no-profit ha speso di più in servizi di gestione forniti dal suo direttore esecutivo – che funge anche da principale consigliere politico di Vance – che in programmi per combattere l’abuso di oppioidi. Il gruppo, che ha chiuso il suo sito web e abbandonato il suo account Twitter dopo aver pubblicato solo due tweet, afferma di aver commissionato un sondaggio per valutare i bisogni e il benessere degli abitanti dell’Ohio, ma la campagna di Vance ha rifiutato di fornire qualsiasi documentazione del progetto. E una portavoce della più grande coalizione anti-oppioidi dell’Ohio ha detto a Insider di non aver sentito parlare dell’organizzazione di Vance. E’ tutta una farsa, ci ha dichiarato Doug White, l’ex direttore del programma di master in gestione della raccolta fondi presso la Columbia University, che ha esaminato la dichiarazione dei redditi di Our Ohio Renewal per Insider” . D’altronde si sa: gli innovatori intraprendenti che combattono contro il sistema e il deep state non possono muovere un passo senza che gli si scateni contro la solita macchina del fango; rimane qualche dubbio sul fatto che Vance appartenga davvero a questa categoria, un dubbio che deve essere sorto non solo a noi: mentre infatti Vance lavorava giorno e notte per costruirsi questa immagine di Don Chisciotte anti-sistema, in quelli che vengono spesso considerati i posti più strategici da dove si costruisce la propaganda delle élite globaliste evidentemente si cominciava a pensare che la minaccia non fosse poi così reale e che, anzi, si poteva dare un bel contributo concreto a creare questo personaggio di fiction.
Nel 2020, infatti, nientepopodimeno che Netflix – e cioè l’avamposto per eccellenza della cosiddetta ideologia gender – decideva di dare un’altra botta di celebrità al nostro paladino anti-establishment investendo 50 milioni di dollari per trasformare il suo mediocre libro in un film che sarei tentato dire essere di bruttezza rara, ma che tutto sommato, visto quanto sono brutti in media i prodotti Netflix, non sfigura nemmeno troppo: il film si chiama, appunto, Hillbilly Elegy (tradotto in Italia in Elegia Americana) e da quando Vance è stato nominato vicepresidente in pectore, è tornato a scalare la classifica dei film Netflix più visti. Il film è piuttosto fedele al testo e allo spirito del libro: il degrado, verissimo, nel quale è precipitata l’America profonda, l’assoluta mancanza di una risposta collettiva e politica a questa deriva, il primato assoluto della famiglia e dei valori tradizionali come risposta a questo degrado, l’idea che solo la determinazione individuale paga e il ritratto di JD come di un eroe buono e senza macchia, intelligentissimo e in grado di trovare il successo nonostante tutte le avversità, ma anche un po’ pacioccone e sempre in grado di prendersi le sue responsabilità e perdonare i peccatori che lo circondano. Da quando è stato nominato, il cosiddetto mondo del dissenso si è messo a dissezionare le varie dichiarazioni politiche e le possibili mosse future, inseguendo l’illusione che la risposta che non siamo in grado di costruire dal basso con il nostro lavoro quotidiano arrivi magicamente un bel giorno dall’alto per gentile concessione; non fanno che parlare, giustamente, di quanto la classe politica sia una branca di teatranti e poi, inspiegabilmente, si fanno incantare da un personaggio costruito meticolosamente, pezzo dopo pezzo, a tavolino, col sostegno di oligarchi multimiliardari invischiati con la CIA e dei principali mezzi di produzione del consenso in circolazione. Se oggi Vance incarna meglio il senso comune è, molto banalmente, perché è stato costruito nel tempo a tavolino proprio per questo e intercettare così il voto che oggi i vecchi tromboni liberaloidi, dopo che sono stati presi a schiaffi per anni, non possono più intercettare; pensare che questa rappresentazione teatrale corrisponda poi anche a un cambio di linea concreto, significa molto semplicemente non aver capito come funziona il teatrino della democrazia rappresentativa nell’era della dittatura delle oligarchie – e con questo non voglio in nessun modo sostenere che all’interno delle classi dirigenti non esista nessuna forma di dialettica e che ogni opzione vada valutata nel dettaglio, al di là di ogni settarismo e di ogni schematismo, ma che ancora ci sia qualcuno che valuta politicamente le opzioni possibili in base alle puttanate che ci raccontano e alle commedie che mettono in scena mi sembra disarmante.
Per de-costruire le narrazioni e la propaganda degli arruffapopoli, abbiamo sempre più bisogno di un vero e proprio media tutto nostro che, invece che alla loro commedia, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Matteo Salvini

Il problema del “problema dei 3 corpi”: perché rovinare un capolavoro?

Questa serie Netflix appare come un’occasione sprecata, una rappresentazione piatta e noiosa di un capolavoro della letteratura cinese contemporanea in cui la Cina contemporanea è stata completamente omessa. Come mai? Ne parliamo in questo video!

Il problema dei 3 copri: il LIBRO dietro il capolavoro della fantascienza cinese

La fantascienza cinese attinge le sue immagini dalle diseguaglianze e dai disequilibri della società, proiettandoli al futuro e riflette su quello che è il ruolo della tecnica nei cambiamenti sociali e il ruolo e l’identità della Cina nel mondo, nel presente e nel futuro. Capolavoro della fantascienza cinese è il problema dei 3 corpi, di cui è appena uscita una serie TV su Netflix. Ne parliamo in questo video!

IL GRANDE MONOPOLIO DEI MEDIA – Come hanno cercato di lavarci il cervello e come, forse, hanno fallito

Non più di 20 anni fa, negli USA si era scatenata una gigantesca polemica sul fatto che l’intera industria dei media fosse ormai diventata un monopolio; a partire dagli anni del governo Reagan, una gigantesca ondata di liberalizzazioni, come sempre, invece che a più mercato e più concorrenza aveva portato a una gigantesca ondata di fusioni ed acquisizioni: nel 1989 era stato il turno della fusione tra Sony e Columbia Pictures; nel 1990 della fusione tra Time e Warner che, sei anni dopo, si erano comprati pure la Turner Broadcasting – che è l’editore della CNN – e, nel 2004, c’era stata la fusione tra la NBC e la Universal Studios. E così, alla fine dei giochi, 6 soli gruppi controllavano sostanzialmente tutta l’industria cinematografica e televisiva statunitense e, quindi, buona parte di quella globale – quelli che noi definiamo i mezzi di produzione del consenso.
“Uno scandalo” tuonavano gli esperti del settore più critici; “La fine della democrazia” rilanciavano i più catastrofisti: visti da oggi, in realtà, erano “Bei vecchi tempi” come titola il suo speciale, questo mese, The Nation. Oggi infatti – sottolinea il titolo – “a dominare il business dei media” le aziende rimaste sono soltanto 2 e gli azionisti di entrambe sono esattamente gli stessi. Indovinati quali? Ovviamente Vanguard, BlackRock e State Street; le due aziende in questione, ovviamente, sono Netflix e Disney – i padroni assoluti dell’immaginario dell’intera popolazione mondiale.
E non è stato l’unico processo di concentrazione feroce dei mezzi di produzione del consenso a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni: per ripercorrere la storia, sempre The Nation riparte addirittura dal 1883 “quando”, scrive Zephyr Teachout della Fordham University, “furono gettati i semi della stampa popolare che definì il giornalismo americano per gran parte della vita del paese”; il riferimento è alla comparsa per la prima volta per le strade di New York di The Sun che, ricorda la Teachout, “costava appena un centesimo, e a differenza dei grandi giornali finanziari, che stavano in piedi economicamente grazie agli abbonamenti, aveva la sua principale fonte di entrate nella pubblicità”. “Per i 180 anni successivi” sottolinea la Teachout “questa formula fu replicata per migliaia di testate locali in giro per tutto il paese”, nessuna delle quali era in grado di esercitare un’influenza significativa oltre il suo ristretto angolo di paese. A partire dai primi anni 2000, invece, “Le società di social media, guidate da Facebook e Google, hanno iniziato ad acquisire aziende tecnologiche al ritmo di una la settimana. E si sono create così un ecosistema digitale dove chiunque volesse seguire le notizie doveva passare da loro”; fino ad arrivare al 2017, quando Facebook e Google, da sole, si sono intascate il 99% – ripeto, il 99% – delle entrate pubblicitarie dell’intero internet mentre, nel frattempo, il personale impiegato dalle testate giornalistiche USA passava dai 365 mila del 2005 a poco meno di 100 mila oggi (che uno potrebbe anche dire ma saranno un po’ stracazzi degli americani). Purtroppo però, ovviamente, non è così semplice, e non solo perché se gli americani si riempiono la testa di stronzate poi a pagare il conto siamo anche noi, ma perché se siamo una colonia da tanti punti di vista, dal punto di vista dell’informazione e dell’ideologia siamo colonia al cubo.
Eppure, in questo schema distopico, c’è qualcosa che deve essere sfuggito di mano: nonostante la macchina propagandistica, ricorda The Free Press, “Secondo un sondaggio di Harvard, il 51% degli americani di età compresa tra i 18 e i 24 anni ritiene che Hamas fosse giustificato negli attacchi terroristici del 7 ottobre contro i cittadini israeliani”. Com’è possibile? Semplice: basta “guardare cosa fa TikTok”.
A lanciare l’allarme è Mike Gallagher, un parlamentare repubblicano del Wisconsin ossessionato dalla Cina: “L’app” scrive “è Fentanyl digitale prodotto dalla Cina. E sta facendo il lavaggio del cervello ai nostri giovani contro il nostro Paese e i nostri alleati”. Avrà anche dei difetti? Sempre impegnati a perculare i protagonisti più improbabili della propaganda suprematista e analfoliberale di casa nostra, troppo spesso trascuriamo le perle che arrivano da oltreoceano, in quella patria del declino cognitivo dell’uomo bianco che sono gli Stati Uniti d’America; a questo giro, però, ne vale decisamente la pena.

Mike Gallagher

Lui si chiama Mike Gallagher: ha servito il paese in Iraq e in Siria tra le fila dell’intelligence militare e dopo aver contribuito attivamente alla disfatta militare degli USA ha deciso di contribuire anche a quella del Congresso. Nell’arco di due mandati ha sostenuto calorosamente tutti peggio deliri del trumpismo: dalla “mossa geopolitica geniale” di comprarsi la Groenlandia dalla Danimarca al permesso di attaccare l’Iran senza passare dal Congresso, passando per l’autorizzazione all’omicidio del generale Soleimani in Iraq; in politica estera, l’unica volta che si è opposto a Trump è quando The Donald ha deciso di ritirare le truppe dalla Siria. E la politica estera non è nemmeno il suo lato peggiore: Gallagher, infatti, ha votato contro l’aumento del salario minimo federale a 15 dollari, a favore dello smantellamento della legge che metteva un limite alle speculazioni delle banche che avevano portato alla crisi del 2008, e anche contro la proposta che avrebbe permesso al governo federale di negoziare con Big Pharma prezzi più ragionevoli per i farmaci finanziati attraverso il Medicare. E, da un paio di anni a questa parte, s’è fissato sulla Cina e su quel pericolo esistenziale che arriva dalla Cina e che si chiama TikTok; ed ecco così che quando è iniziata la guerra di Israele contro i bambini arabi a Gaza e qualcuno gli ha fatto notare che su TikTok giravano un sacco di contenuti pro Palestina, gli si è partito l’embolo e c’ha regalato questa perla di narrativa contemporanea, un vero classico dell’era della post verità: 8000 caratteri senza nemmeno un’informazione reale. Un record.
Il punto di partenza è quello che vi abbiamo già anticipato: il sondaggio di Harvard secondo il quale “il 51% degli americani di età compresa tra i 18 e i 24 anni ritiene che Hamas fosse giustificato nei suoi brutali attacchi terroristici contro innocenti cittadini israeliani il 7 ottobre”. “Ho letto quella statistica” scrive “in un momento in cui pensavo di aver perso la capacità di scioccarmi. Per settimane” sottolinea “avevo visto e letto le storie di prima mano che documentavano le atrocità di Hamas: corpi bruciati, bambini decapitati, donne violentate, bambini legati insieme ai loro genitori, cadaveri mutilati”: eppure, di fronte a questo fiume in piena di fake news, i giovani americani continuano a credere che, dopo 70 anni di occupazione militare, che tu sia un po’ incazzato è comprensibile. “Come siamo arrivati al punto in cui la maggioranza di giovani americani ha una visione del mondo così moralmente fallimentare?” si chiede Gallagher: “La risposta” scrive “si chiama TikTok”; “Oggi” sottolinea “TikTok è il principale motore di ricerca per più della metà della generazione Z ed è controllato dal principale avversario dell’America: il partito comunista cinese”. “Modificando l’algoritmo di TikTok” spiega Gallagher “il PCC può influenzare gli americani di tutte le età, può determinare quali fatti considerano accurati, e quali conclusioni traggono dagli eventi mondiali”; “Sappiamo per certo che il partito comunista cinese utilizza TikTok per promuovere la sua propaganda” continua. Insomma, “nella migliore delle ipotesi TikTok è uno spyware del partito comunista. Nella peggiore” conclude “è forse l’operazione di influenza maligna su larga scala mai condotta”.

Logo del Maligno

Ovviamente ognuno ha i suoi Maurizio Gasparri e questo potrebbe anche essere, semplicemente, il delirio di un ex soldato traumatizzato in stato confusionale; in realtà, però, questa narrazione che neanche i manifesti della DC degli anni ‘50 sui comunisti che mangiavano i bambini, è più credibile e diffusa di quanto si possa credere: come riporta FAIR, un osservatorio indipendente sui media statunitensi, dopo l’articolo di Gallagher si sono uniti al suo appello per la messa al bando immediata di TikTok la senatrice del Tennessee Marsha Blackburn, l’ex candidato alle primarie repubblicano Marco Rubio, il senatore repubblicano Josh Hawley e anche tutto il comitato di redazione del New York Post. C’è stato anche un gruppo di 90 altissimi dirigenti della Silicon Valley che ha firmato una lettera indirizzata all’amministratore delegato di TikTok dove chiedeva alla piattaforma di mettere un freno alla propaganda pro – palestinese e anti – israeliana.
La prova che TikTok spinga la causa palestinese? Per ogni video con hashtag #standwithisrael ce ne sarebbero addirittura 54 con, invece, hashtag filo – palestinesi, da #standwithpalestine a #freepalestine: il problema, però, è che i video su TikTok non li carica l’amministratore delegato di TikTok, immagino; li caricheranno gli utenti, credo. Quindi si fa un po’ fatica a capire concretamente di cosa stiano parlando.
Il punto è che non ci sono abituati: sono talmente abituati ad avere il pieno controllo dei messaggi che filtrano attraverso media e piattaforme che se c’è una piattaforma che non fa assolutamente niente per favorire una posizione piuttosto che un’altra, non gli torna; e se poi questa posizione non è esattamente quella che condividono tra loro a livello di una ristrettissima élite, gli va proprio in palla il cervello. Com’è possibile che abbiamo fatto di tutto per concentrare tutta l’industria dei media nelle mani di una manciata di attori – che poi fanno capo tutti a una manciata ancora più ristretta di azionisti – e ciononostante non solo c’è ancora tanta gente che la pensa diversamente da noi, ma addirittura c’è una piattaforma nella quale diventano addirittura maggioritari? Com’è possibile che, di fronte allo sterminio di una popolazione civile inerme sottoposta a un regime di apartheid da 70 anni, noi raccontiamo che – alla fine – si tratta semplicemente di diritto alla difesa e una bella fetta dei nostri giovani non ci crede? E c’ha anche un luogo dove dirlo apertamente? So’ delusioni, io li capisco eh? Il progetto distopico di concentrare i mezzi di produzione del consenso nelle mani di una manciata di soggetti è stato perseguito con tale fervore che rendersi conto che, dopo tutta quella fatica, non ha funzionato al 100% non deve essere semplice; forse, però, un po’ di responsabilità ce l’hanno anche loro, diciamo. Cioè, da un certo punto di vista sono stati geniali, diciamo: ci hanno riempito di sempre più contenuti tecnicamente ineccepibili che ci inchiodano davanti agli schermi a giornate e ci danno un’ottima alternativa all’utilizzo costruttivo delle nostre capacità cognitive e, in più, hanno concentrato la proprietà dei mezzi di produzione del consenso e dell’immaginario in pochissime mani, mettendosi al riparo dai rischi di qualsiasi forma di pluralismo. Però – ecco – forse si sono fatti prendere un po’ troppo la mano: le serie delle grandi piattaforme sono tutte uguali e, dopo un po’, fracassano i coglioni e il cinema – ormai – è diventato una barzelletta; come ricorda The Nation, alla fine degli anni 10, per 4 anni consecutivi, Disney s’è assicurata la bellezza del 33% del mercato USA con appena 10 nuovi titoli, 9 dei quali erano sequel di vecchi franchise. I primi 10 film al botteghino nel 2022 sono stati, di nuovo, tutti sequel e franchise e si sono pappati – da soli – oltre metà del botteghino USA.
Insomma: anche nell’intrattenimento (che, nel capitalismo, rappresenta lo strumento principale per il governo del consenso e l’appiattimento ideologico), il capitalismo più selvaggio – alla fine – oltre che essere disumano, è pure estremamente noioso; che una fetta sempre più consistente di supergiovani cerchino qualcosa di meno artefatto nei video apologetici sulla resistenza armata palestinese su TikTok, alla fine è abbastanza inevitabile. Piuttosto che sorbirsi l’ennesimo film di supereroi o l’ennesima serie woke su Netflix, c’è addirittura chi si guarda i video su Ottolina Tv; aiutaci a fornirgli sempre più materiale per uscire dalla bolla artificiale del monopolio dei media: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Walt Disney