IL GRANDE MONOPOLIO DEI MEDIA – Come hanno cercato di lavarci il cervello e come, forse, hanno fallito
Non più di 20 anni fa, negli USA si era scatenata una gigantesca polemica sul fatto che l’intera industria dei media fosse ormai diventata un monopolio; a partire dagli anni del governo Reagan, una gigantesca ondata di liberalizzazioni, come sempre, invece che a più mercato e più concorrenza aveva portato a una gigantesca ondata di fusioni ed acquisizioni: nel 1989 era stato il turno della fusione tra Sony e Columbia Pictures; nel 1990 della fusione tra Time e Warner che, sei anni dopo, si erano comprati pure la Turner Broadcasting – che è l’editore della CNN – e, nel 2004, c’era stata la fusione tra la NBC e la Universal Studios. E così, alla fine dei giochi, 6 soli gruppi controllavano sostanzialmente tutta l’industria cinematografica e televisiva statunitense e, quindi, buona parte di quella globale – quelli che noi definiamo i mezzi di produzione del consenso.
“Uno scandalo” tuonavano gli esperti del settore più critici; “La fine della democrazia” rilanciavano i più catastrofisti: visti da oggi, in realtà, erano “Bei vecchi tempi” come titola il suo speciale, questo mese, The Nation. Oggi infatti – sottolinea il titolo – “a dominare il business dei media” le aziende rimaste sono soltanto 2 e gli azionisti di entrambe sono esattamente gli stessi. Indovinati quali? Ovviamente Vanguard, BlackRock e State Street; le due aziende in questione, ovviamente, sono Netflix e Disney – i padroni assoluti dell’immaginario dell’intera popolazione mondiale.
E non è stato l’unico processo di concentrazione feroce dei mezzi di produzione del consenso a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni: per ripercorrere la storia, sempre The Nation riparte addirittura dal 1883 “quando”, scrive Zephyr Teachout della Fordham University, “furono gettati i semi della stampa popolare che definì il giornalismo americano per gran parte della vita del paese”; il riferimento è alla comparsa per la prima volta per le strade di New York di The Sun che, ricorda la Teachout, “costava appena un centesimo, e a differenza dei grandi giornali finanziari, che stavano in piedi economicamente grazie agli abbonamenti, aveva la sua principale fonte di entrate nella pubblicità”. “Per i 180 anni successivi” sottolinea la Teachout “questa formula fu replicata per migliaia di testate locali in giro per tutto il paese”, nessuna delle quali era in grado di esercitare un’influenza significativa oltre il suo ristretto angolo di paese. A partire dai primi anni 2000, invece, “Le società di social media, guidate da Facebook e Google, hanno iniziato ad acquisire aziende tecnologiche al ritmo di una la settimana. E si sono create così un ecosistema digitale dove chiunque volesse seguire le notizie doveva passare da loro”; fino ad arrivare al 2017, quando Facebook e Google, da sole, si sono intascate il 99% – ripeto, il 99% – delle entrate pubblicitarie dell’intero internet mentre, nel frattempo, il personale impiegato dalle testate giornalistiche USA passava dai 365 mila del 2005 a poco meno di 100 mila oggi (che uno potrebbe anche dire ma saranno un po’ stracazzi degli americani). Purtroppo però, ovviamente, non è così semplice, e non solo perché se gli americani si riempiono la testa di stronzate poi a pagare il conto siamo anche noi, ma perché se siamo una colonia da tanti punti di vista, dal punto di vista dell’informazione e dell’ideologia siamo colonia al cubo.
Eppure, in questo schema distopico, c’è qualcosa che deve essere sfuggito di mano: nonostante la macchina propagandistica, ricorda The Free Press, “Secondo un sondaggio di Harvard, il 51% degli americani di età compresa tra i 18 e i 24 anni ritiene che Hamas fosse giustificato negli attacchi terroristici del 7 ottobre contro i cittadini israeliani”. Com’è possibile? Semplice: basta “guardare cosa fa TikTok”.
A lanciare l’allarme è Mike Gallagher, un parlamentare repubblicano del Wisconsin ossessionato dalla Cina: “L’app” scrive “è Fentanyl digitale prodotto dalla Cina. E sta facendo il lavaggio del cervello ai nostri giovani contro il nostro Paese e i nostri alleati”. Avrà anche dei difetti? Sempre impegnati a perculare i protagonisti più improbabili della propaganda suprematista e analfoliberale di casa nostra, troppo spesso trascuriamo le perle che arrivano da oltreoceano, in quella patria del declino cognitivo dell’uomo bianco che sono gli Stati Uniti d’America; a questo giro, però, ne vale decisamente la pena.
Lui si chiama Mike Gallagher: ha servito il paese in Iraq e in Siria tra le fila dell’intelligence militare e dopo aver contribuito attivamente alla disfatta militare degli USA ha deciso di contribuire anche a quella del Congresso. Nell’arco di due mandati ha sostenuto calorosamente tutti peggio deliri del trumpismo: dalla “mossa geopolitica geniale” di comprarsi la Groenlandia dalla Danimarca al permesso di attaccare l’Iran senza passare dal Congresso, passando per l’autorizzazione all’omicidio del generale Soleimani in Iraq; in politica estera, l’unica volta che si è opposto a Trump è quando The Donald ha deciso di ritirare le truppe dalla Siria. E la politica estera non è nemmeno il suo lato peggiore: Gallagher, infatti, ha votato contro l’aumento del salario minimo federale a 15 dollari, a favore dello smantellamento della legge che metteva un limite alle speculazioni delle banche che avevano portato alla crisi del 2008, e anche contro la proposta che avrebbe permesso al governo federale di negoziare con Big Pharma prezzi più ragionevoli per i farmaci finanziati attraverso il Medicare. E, da un paio di anni a questa parte, s’è fissato sulla Cina e su quel pericolo esistenziale che arriva dalla Cina e che si chiama TikTok; ed ecco così che quando è iniziata la guerra di Israele contro i bambini arabi a Gaza e qualcuno gli ha fatto notare che su TikTok giravano un sacco di contenuti pro Palestina, gli si è partito l’embolo e c’ha regalato questa perla di narrativa contemporanea, un vero classico dell’era della post verità: 8000 caratteri senza nemmeno un’informazione reale. Un record.
Il punto di partenza è quello che vi abbiamo già anticipato: il sondaggio di Harvard secondo il quale “il 51% degli americani di età compresa tra i 18 e i 24 anni ritiene che Hamas fosse giustificato nei suoi brutali attacchi terroristici contro innocenti cittadini israeliani il 7 ottobre”. “Ho letto quella statistica” scrive “in un momento in cui pensavo di aver perso la capacità di scioccarmi. Per settimane” sottolinea “avevo visto e letto le storie di prima mano che documentavano le atrocità di Hamas: corpi bruciati, bambini decapitati, donne violentate, bambini legati insieme ai loro genitori, cadaveri mutilati”: eppure, di fronte a questo fiume in piena di fake news, i giovani americani continuano a credere che, dopo 70 anni di occupazione militare, che tu sia un po’ incazzato è comprensibile. “Come siamo arrivati al punto in cui la maggioranza di giovani americani ha una visione del mondo così moralmente fallimentare?” si chiede Gallagher: “La risposta” scrive “si chiama TikTok”; “Oggi” sottolinea “TikTok è il principale motore di ricerca per più della metà della generazione Z ed è controllato dal principale avversario dell’America: il partito comunista cinese”. “Modificando l’algoritmo di TikTok” spiega Gallagher “il PCC può influenzare gli americani di tutte le età, può determinare quali fatti considerano accurati, e quali conclusioni traggono dagli eventi mondiali”; “Sappiamo per certo che il partito comunista cinese utilizza TikTok per promuovere la sua propaganda” continua. Insomma, “nella migliore delle ipotesi TikTok è uno spyware del partito comunista. Nella peggiore” conclude “è forse l’operazione di influenza maligna su larga scala mai condotta”.
Ovviamente ognuno ha i suoi Maurizio Gasparri e questo potrebbe anche essere, semplicemente, il delirio di un ex soldato traumatizzato in stato confusionale; in realtà, però, questa narrazione che neanche i manifesti della DC degli anni ‘50 sui comunisti che mangiavano i bambini, è più credibile e diffusa di quanto si possa credere: come riporta FAIR, un osservatorio indipendente sui media statunitensi, dopo l’articolo di Gallagher si sono uniti al suo appello per la messa al bando immediata di TikTok la senatrice del Tennessee Marsha Blackburn, l’ex candidato alle primarie repubblicano Marco Rubio, il senatore repubblicano Josh Hawley e anche tutto il comitato di redazione del New York Post. C’è stato anche un gruppo di 90 altissimi dirigenti della Silicon Valley che ha firmato una lettera indirizzata all’amministratore delegato di TikTok dove chiedeva alla piattaforma di mettere un freno alla propaganda pro – palestinese e anti – israeliana.
La prova che TikTok spinga la causa palestinese? Per ogni video con hashtag #standwithisrael ce ne sarebbero addirittura 54 con, invece, hashtag filo – palestinesi, da #standwithpalestine a #freepalestine: il problema, però, è che i video su TikTok non li carica l’amministratore delegato di TikTok, immagino; li caricheranno gli utenti, credo. Quindi si fa un po’ fatica a capire concretamente di cosa stiano parlando.
Il punto è che non ci sono abituati: sono talmente abituati ad avere il pieno controllo dei messaggi che filtrano attraverso media e piattaforme che se c’è una piattaforma che non fa assolutamente niente per favorire una posizione piuttosto che un’altra, non gli torna; e se poi questa posizione non è esattamente quella che condividono tra loro a livello di una ristrettissima élite, gli va proprio in palla il cervello. Com’è possibile che abbiamo fatto di tutto per concentrare tutta l’industria dei media nelle mani di una manciata di attori – che poi fanno capo tutti a una manciata ancora più ristretta di azionisti – e ciononostante non solo c’è ancora tanta gente che la pensa diversamente da noi, ma addirittura c’è una piattaforma nella quale diventano addirittura maggioritari? Com’è possibile che, di fronte allo sterminio di una popolazione civile inerme sottoposta a un regime di apartheid da 70 anni, noi raccontiamo che – alla fine – si tratta semplicemente di diritto alla difesa e una bella fetta dei nostri giovani non ci crede? E c’ha anche un luogo dove dirlo apertamente? So’ delusioni, io li capisco eh? Il progetto distopico di concentrare i mezzi di produzione del consenso nelle mani di una manciata di soggetti è stato perseguito con tale fervore che rendersi conto che, dopo tutta quella fatica, non ha funzionato al 100% non deve essere semplice; forse, però, un po’ di responsabilità ce l’hanno anche loro, diciamo. Cioè, da un certo punto di vista sono stati geniali, diciamo: ci hanno riempito di sempre più contenuti tecnicamente ineccepibili che ci inchiodano davanti agli schermi a giornate e ci danno un’ottima alternativa all’utilizzo costruttivo delle nostre capacità cognitive e, in più, hanno concentrato la proprietà dei mezzi di produzione del consenso e dell’immaginario in pochissime mani, mettendosi al riparo dai rischi di qualsiasi forma di pluralismo. Però – ecco – forse si sono fatti prendere un po’ troppo la mano: le serie delle grandi piattaforme sono tutte uguali e, dopo un po’, fracassano i coglioni e il cinema – ormai – è diventato una barzelletta; come ricorda The Nation, alla fine degli anni 10, per 4 anni consecutivi, Disney s’è assicurata la bellezza del 33% del mercato USA con appena 10 nuovi titoli, 9 dei quali erano sequel di vecchi franchise. I primi 10 film al botteghino nel 2022 sono stati, di nuovo, tutti sequel e franchise e si sono pappati – da soli – oltre metà del botteghino USA.
Insomma: anche nell’intrattenimento (che, nel capitalismo, rappresenta lo strumento principale per il governo del consenso e l’appiattimento ideologico), il capitalismo più selvaggio – alla fine – oltre che essere disumano, è pure estremamente noioso; che una fetta sempre più consistente di supergiovani cerchino qualcosa di meno artefatto nei video apologetici sulla resistenza armata palestinese su TikTok, alla fine è abbastanza inevitabile. Piuttosto che sorbirsi l’ennesimo film di supereroi o l’ennesima serie woke su Netflix, c’è addirittura chi si guarda i video su Ottolina Tv; aiutaci a fornirgli sempre più materiale per uscire dalla bolla artificiale del monopolio dei media: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Walt Disney
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