Skip to main content

Tag: greco

¡Desaparecinema! ep. 17 – Dalla propaganda nazista al film maledetto di Jerry Lewis

Oggi parliamo del cinema che ha raccontato la Shoah e il nazismo. Shoah significa letteralmente “tempesta devastante” come si legge nella Bibbia, ed è preferito ad Olocausto, che fa riferimento al concetto di “sacrificio”. Ma la descrizione per immagini e suoni della Shoah – in quanto momento massimo dell’orrore e dell’abiezione di cui è capace l’uomo, così come altri genocidi invece poco raccontati – la ripresa filmica della Shoah, dicevo, necessita di una riflessione importante prima di essere attuata perché si rischia facilmente di cadere nella retorica, nel ricatto, nella morbosità, nella amoralità. Può il cinema rappresentare quel dolore? Può riportarlo fedelmente? Può riuscire a non cadere nella più bieca retorica? In che modo può restituirgli la sua tragica sacralità, invece che sfruttarlo a fini di spettacolarizzazione e propaganda? (quest’ultima è la domandina che dovreste tenervi in un angolo del cervello per tutta questa puntata). Questi timori sono portati all’estremo – fin quasi a sfiorare l’iconoclastia – dal cinema francese della Nouvelle Vague e raggiunsero l’apice col documentario di dieci ore Shoah (del 1985) di Claude Lanzmann, amico di Sartre e Simone de Beauvoir, fiero ebreo anticolonialista: una pellicola oggetto di migliaia di recensioni, studi, libri e seminari nelle università di tutto il mondo che ha ottenuto le più alte onorificenze ed è stata premiata in numerosi festival; una pellicola che sembra anticipare di quasi 40 anni La zona di interesse, il film dell’anno scorso di Jonathan Glazer in cui si racconta la storia del comandante di Auschwitz che vive con la sua famiglia poco fuori il campo di concentramento (campo che non vediamo mai: che è appunto, letteralmente, fuori campo). Anche in Shoah dello sterminio non si vede nulla: ogni immagine diretta, anche documentaria, viene bandita; il film è composto, infatti, per intero da interviste a sopravvissuti e a qualche ex-nazista. Per Lanzmann, insomma, l’Olocausto è irrappresentabile: come ricorda Claudio Bisoni dell’Università di Bologna “Il regista affermò che qualora si trovasse per le mani filmati inediti dei campi di sterminio ripresi dai nazisti, li brucerebbe, li distruggerebbe senza neppure guardarli”.
Ma il cinema sulla Shoah è anche cinema inevitabilmente politico, cinema che racconta storie e, allo stesso, tempo racconta la Storia. La Storia è composta di fatti e la prima battaglia culturale è stare di guardia ai fatti, diceva Annah Arendt, filosofa statunitense autrice de La banalità del male. E allora iniziamo ripulendo i fatti dalla crosta che si è formata col tempo per scarsa memoria, ideologia, propaganda o interessi economici e di potere; lo facciamo aiutandoci, anche stavolta, con un libro formidabile e, al contempo, poco conosciuto (soprattutto in Italia): L’industria dell’Olocausto (del 2000) di Norman Finkelstein, storico, politologo e attivista statunitense di origini ebraiche. A causa di esso, nel 2008 gli è stato proibito per dieci anni l’ingresso in patria. Il libro è scritto col contributo di Noam Chosmky (che, tra l’altro, è uno dei protagonisti del nostro film inchiesta sull’Unione europea e l’euro –PIIGS) ed ha avuto eccellenti recensioni, fra gli altri, anche da parte di Raul Hilberg (storico statunitense considerato uno dei più eminenti studiosi della Shoah). Ovviamente Finkelstein è stato tacciato di antisemitismo (e come te sbaji…); peccato che i genitori fossero due sopravvissuti al massacro del ghetto di Varsavia, ai campi di concentramento e di sterminio di Majdanek e Auschwitz e a due campi di lavoro schiavistico. Le loro famiglie in Polonia furono, invece, interamente sterminate. Ma, d’altronde, qualche giorno fa all’ONU, davanti a una platea di delegati che (giustamente) si sono alzati e se ne sono andati, Nethanyau ha detto – praticamente di fronte a uno specchio in cui era riflessa la sua stessa immagine – che l’ONU è una palude antisemita. E a proposito (ancora) di fatti, immagino conosciate Ilan Pappé, storico, politologo ed ex politico israeliano; anche lui nel 2008, come Finkelstein, ha dovuto lasciare il suo Paese dopo essere stato condannato dalla Knesset, il parlamento monocamerale israeliano: un ministro dell’Istruzione aveva chiesto il suo licenziamento, la sua fotografia era apparsa su un giornale al centro di un bersaglio e aveva ricevuto diverse minacce di morte. In un’intervista del 2004 Pappé aveva dichiarato: “L’obiettivo [dei sionisti] è sempre stato, e rimane tuttora, quello di avere la maggior parte possibile della Palestina con il minor numero possibile di palestinesi”. Il primo ottobre è uscito per l’editore Fazi l’ultimo, interessantissimo libro di Pappé, Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina dal 1882; il titolo parla da solo: la storia del conflitto arabo-israeliano non è iniziata il 7 ottobre 2023 come la propaganda israelo-atlantista cerca di far credere ai gonzi piddini, e neppure nel 1967, quando Israele ha occupato la Cisgiordania, o nel 1948, quando è stato proclamato lo Stato ebraico. È iniziata nel 1882, quando i primi coloni sionisti sono arrivati in quella che era la Palestina ottomana. Anche il titoli dei capitoli parlano chiaro e diretto; uno di questi recita: Perché il movimento sionista avviò la pulizia etnica negli anni 20? Per inquadrare il senso di questa puntata e a sottolineare quanto ho affermato nella puntata precedente, e cioè che non esiste l’obiettività nel cinema né esiste il cinema non politico, tanto meno esiste nella storia (ebbene sì!), secondo Pappé ogni narrazione è intrinsecamente politica e, consapevolmente o meno, serve a fini politici: “Tutti gli storici sono necessariamente esseri umani soggettivi che si sforzano di raccontare la propria versione del passato” afferma.
Infine, soprattutto, chiariamo una cosa; una cosa ovvia, ma che non sono per nulla sicuro sia evidente a tutti: criticare il tradimento o l’uso strumentale che si fa di una tragedia, di un’ideologia, di un accadimento storico, è il modo più trasparente e onesto per dimostrare che a quella tragedia, a quell’ideologia, a quel fatto storico ci si tiene. Oggi, per esempio, non c’è nessuno più comunista di chi ha il coraggio – pochi, purtroppo – di smascherare il tradimento del comunismo storico italiano (mentre molti ex comunisti o sessantottini sono oggi in posizioni di potere filo-neoliberiste); nessuno è più attento alla lotta di classe, alla giustizia sociale, ai diritti dei lavoratori, alla pace, alla sanità e alla scuola pubbliche di chi disapprova fortemente il traditore per eccellenza, il PD e truffaldine liste civetta varie, principali responsabili della distruzione dello stato sociale e, in alcuni casi, anche certe formazioni e politici sedicenti di sinistra radicale ma che, per esempio, votano per le armi all’Ucraina. Nell’introduzione al suo libro, Finkelstein scrive che l’Olocausto, che paragona (giustamente) a un vero e proprio cataclisma naturale, “ha dimostrato di essere un’arma ideologica indispensabile grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di vittima, e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo negli Stati Uniti. Da questo specioso status di vittima derivano dividendi considerevoli, in particolare l’immunità alle critiche, per quanto fondate esse siano”. Forse è questo che intende il rabbino Arnold Jacob Wolf, un caro amico di Obama, quando dice A me sembra che l’Olocausto venga venduto, più che insegnato. Se è vero, venduto a chi? E con quale obiettivo?

¡Desaparecinema! ep. 15 – La guerra fredda culturale in USA e in Europa (parte 2)

Premessa importante a questa seconda parte dedicata al soft power statunitense: il cinema dei grandi registi rimane grande cinema anche se quei registi lo hanno fatto per imporre ideologie e propaganda. Rimane cinema quello di John Ford che, come vedremo, era contiguo alla CIA; rimane cinema quello di Chaplin, comunista convinto; rimane cinema quello di Stanley Kubrick, a cui di fascismo e antifascismo non importava nulla. La dico meglio: non smette di essere cinema con la C maiuscola il cinema di parte, altrimenti dovremmo buttare nel cesso (come per esempio ha fatto certa ignorante sinistra italiana con Stanley Kramer o Howard Philips Lovecraft) Luigi Magni e Gian Maria Volonté, Fernando Solanas e Sergej Ejzenstein, Clint Eastwood e David Wark Griffith (quest’ultimo è il padre del cinema narrativo, del montaggio e del lungometraggio con Nascita di una nazione del 1915: un film profondamente razzista). L’imparzialità non è necessariamente un valore nel cinema, anzi! Sempre che non si tratti di cinema sfacciatamente propagandistico, didascalico, agiografico, manicheista, retorico e, soprattutto, partitico invece che politico, tipo Ennio Doris – C’è anche domani e declinazioni titolistiche varie. D’altro canto è sempre importante sapere che cinema stiamo guardando e come è stato finanziato: è l’unico modo per essere liberi di non farci fregare; è sempre importante sapere quale operazione politico-culturale c’è dietro perché La cinematografia è l’arma più forte dicevano, giustamente, i fascisti. Forse oggi è superata dai social e dalla Tv, ma rimane ancora un’arma potente. Come Dom Cobb, il protagonista di Inception di Nolan: è capace di farti credere il contrario di ciò in cui credi, di farti odiare il tuo amico e di convincerti pure che sia una tua idea: per esempio, è capace di farti credere che l’eroe del mondo occidentale sia chi è in grado di vincere secondo le regole del neoliberismo, della competizione a discapito degli altri, dell’auto-schiavismo (come ne La ricerca della felicità di Gabriele Muccino con Will Smith) invece che chi, questo paradigma, decide di ribaltarlo. Oppure è capace di farti credere che a odiare i comunisti fossero solo il partito repubblicano e il senatore McCarthy. E, invece, “Ci sono oggi in America molti comunisti. Sono dappertutto. Nelle fabbriche, negli uffici, nelle macellerie, negli incroci, nel mondo degli affari. E ognuno di essi porta in sé, in germe, la morte della nostra società”: questo era il democratico Truman, lo stesso che dopo che la guerra contro il nazismo era stata vinta in Europa, aveva deciso che fosse necessario sterminare più di 250.000 innocenti a Hiroshima e Nagasaki solo per mostrare i muscoli a Stalin; sotto la sua presidenza, nel 1951, J. Edgar Hoover, il direttore dell’FBI, poteva ritenere possibile, in caso di guerra, la deportazione in campi di concentramento di mezzo milione di cittadini statunitensi sospettati di contiguità col comunismo. L’anno dopo la fine della presidenza Truman, il 19 agosto del 1954 – 70 anni fa secchi – il partito Comunista americano veniva messo fuori legge.

Italia sotto shock: il paese rientra a scuola, ma invece dei prof ci trova Flavio Briatore

Oltre 7 milioni di studenti e poco meno di 700 mila insegnanti (oltre i quasi 200 mila tra personale amministrativo, tecnico e ausiliario); da stamattina si rimette completamente in moto quella che potremmo definire, in assoluto, la più grande industria del paese ed anche quella che -probabilmente più di ogni altra – è indicativa del nostro stato di salute e del nostro grado di civiltà: l’industria della conoscenza o, come la definisce il nostro Federico Greco, l’industria della d’istruzione pubblica (con la d davanti). La scuola che infatti finiamo di ripopolare con oggi è una scuola che, in ossequio ai dettami del neoliberismo più fondamentalista, è stata e sarà sempre di più spogliata del suo ruolo fondamentale: la formazione di una cittadinanza consapevole che abbia tutti gli strumenti per partecipare attivamente e consapevolmente alla vita pubblica; un progetto di lunga durata, coltivato meticolosamente nel tempo, che rappresenta uno dei pilastri fondamentali di quella che noi definiamo, appunto, la Controrivoluzione Neoliberista – che, in soldoni, significa la guerra delle classi dominanti contro la democrazia. Io sono Letizia Lindi, di mestiere insegno storia e filosofia nelle scuole superiori e, con questo video, Ottolina Tv oggi ha deciso di salutare il ritorno sui banchi di scuola dei nostri ragazzi e dei miei colleghi ricostruendo, passo dopo passo, gli snodi fondamentali di questo crimine contro il popolo italiano che è stata la devastazione della scuola pubblica e cercando di fare una proposta concreta per riprendercela.
Il termine scuola significa oggi “luogo nel quale si attende allo studio”; in realtà, però, deriva dal latino schŏla che, a sua volta, deriva dal greco scholé e che in origine significa – udite, udite – tempo libero, un po’ come l’otium dei latini: quella parentesi dalle fatiche quotidiane durante la quale ci si dovrebbe poter occupare liberamente di coltivare le proprie predisposizioni intellettuali senza necessariamente avere secondi fini, giusto per il gusto di farlo. Un bel lusso che, infatti, è sempre stato appannaggio di pochi, almeno fino a quando non è arrivata la nostra Carta Costituzionale; da allora, sulla carta, quel lusso diventava un diritto di tutti, senza distinzione di classe. L’istruzione pubblica dovrebbe essere, appunto, l’istituzione preposta a garantire a tutti questo privilegio: tredici anni di scuola durante i quali conoscere il mondo e la sua storia e quindi, in sostanza, noi stessi, senza alcun riferimento all’applicazione di queste conoscenze nel mondo del lavoro: un obiettivo che non è soltanto ovviamente equo e giusto, ma è anche perfettamente razionale. “E’ nell’interesse della produzione che non tutti siano ingegneri, medici, professori od operai specializzati, e che vi sia un gran numero di manovali dell’industria o di manovali dell’agricoltura” scriveva ad esempio Elio Vittorini nel 1945; “Ma è nell’interesse della civiltà che anche il più umile lavoratore manuale si trovi di fronte ai libri, di fronte alle opere di arte, di fronte al pensiero scientifico e filosofico, di fronte alle ideologie politiche, di fronte ad ogni ricerca e ad ogni esperimento della cultura, nelle stesse condizioni di assimilabilità in cui funzionalmente si trova l’ingegnere, il medico e il professore”. Facciamo ora un balzo nel tempo di un’ottantina di anni. 2023 ; relazione della Corte dei Conti a commento del rendiconto generale dello Stato: in sette anni i contratti a tempo dei docenti sono passati da 135mila a 232 mila (un bel +72%) e ora si va verso un nuovo record di 250 mila. Ed è giusto uno degli innumerevoli dati oggettivi che potremmo sciorinare per dare un’idea plastica della devastazione che è stata scientemente portata a compimento; se nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale le classi dominanti si sono viste sottrarre molti dei loro profitti (e anche dei poteri) a favore dei sistemi pubblici di protezione sociale, dalla fine degli anni settanta ci troviamo di fronte alla messa in atto di una lotta di classe dall’alto per recuperare il terreno perduto. Grazie ad una strategia che unisce interventi economici e culturali, i diritti garantiti dal sistema sociale vengono mano a mano trasformati in opportunità da conquistarsi – o, meglio, da comprare; insomma: da studenti (e cittadini), a clienti. Dalla scuola emancipatrice alla scuola della sottomissione il passo è breve, ma per arrivare alla completa trasmutazione genetica sono necessari alcuni passaggi fondamentali, prima di tutto la delegittimazione della scuola pubblica in quanto tale.

Flavio Briatore professore all’università per parlare di Crazy Pizza e Billionaire (fonte: Gallura Oggi)

Il primo assalto in grande stile risale ormai all’inizio degli anni ‘80, gli anni della grande controrivoluzione avviata in tandem sulle due sponde dell’Atlantico da Reagan e Thatcher; nel 1983 viene pubblicata, da parte dell’amministrazione federale statunitense, un’analisi sullo stato della scuola dal titolo quanto mai emblematico: A nation at risk, una nazione a rischio. Il rischio sarebbe proprio causato dalla scuola pubblica che, così come è stata riformata durante l’era della democrazia di massa, non soddisfa più le esigenze dell’accumulazione capitalistica: “Se una potenza nemica avesse tentato d’imporre all’America il livello mediocre di prestazioni scolastiche che conseguiamo ora, probabilmente saremo indotti a considerare un tale gesto come un atto di guerra (…)” si legge nel rapporto; “La nostra società e le sue istituzioni scolastiche hanno perso di vista gli scopi fondamentali della scuola”. Non è da meno la Lady di ferro, che già nel 1970 si era conquistata il nomignolo di milk snatcher, “ruba-latte”: aveva imposto l’abolizione del latte gratuito nelle scuole per i bambini di età compresa tra i 7 e gli 11 anni. Coerentemente a questo simpatico esordio politico, da Primo Ministro la Thatcher imputa alla scuola e all’università la responsabilità della mancata crescita e stabilità della Gran Bretagna: il sistema scolastico britannico, a suo avviso, non sarebbe in grado di preparare una forza lavoro motivata, qualificata e disciplinata; viene così elaborato il famigerato Education Reform Act . L’idea è semplice e, tutto sommato, apparentemente anche innocua: come ogni tassello della gigantesca macchina che permette la produzione e la riproduzione sociale, anche la scuola deve essere valutata e i finanziamenti devono essere distribuiti a seconda degli esiti di questa valutazione; semplice no? Indolore. Insomma… Come sempre, infatti, il diavolo si nasconde nei dettagli: chi decide, infatti, chi deve essere valutato e chi valuta? E chi ne stabilisce i criteri? Alla fine il modello adottato funziona così: un comitato di esperti introduce alcuni criteri per la valutazione degli studenti; a conclusione di ciascun ciclo, gli studenti vengono sottoposti a degli esami, predisposti e gestiti dall’esterno. In base ai risultati ottenuti vengono stilate quelle che vengono definite le league tables, che valutano l’efficacia pedagogico-didattica delle singole scuole e, in base a questa valutazione, si determina il livello dei finanziamenti e anche il grado di autonomia concessa ai singoli istituti per gestirli. E’ la logica fondativa della dittatura liberista: dare di più a chi ha già di più e sempre di meno a chi ha già meno. L’idea perversa, ma geniale, della Thatcher consiste nel coinvolgere in questo processo di divisione tra scuole di serie A e di serie B l’intera società e responsabilizzare così i genitori, che devono imparare a fregarsene della società nel suo complesso e a guardare solo ed esclusivamente al loro orticello, meglio se in competizione con quello degli altri: “Noi crediamo che tu possa diventare un cittadino responsabile se sei tu che prendi le decisioni” dichiarava la Thathcer durante la presentazione della riforma; “non quando queste vengono prese da qualcun altro al posto tuo. Ma sotto i governi laburisti, naturalmente, venivano prese da altri. Prendiamo ad esempio l’educazione. (…) Sotto il socialismo le opportunità e le eccellenze nella nostra scuola pubblica sono state degradate. E naturalmente ai genitori questo non piace”.
Gli anni 80 ci lasciano, così, una bella eredità: la formazione di un ampio fronte bipartisan che guarda con favore a un sistema scolastico interamente orientato alla prestazione: la questione non è più il raggiungimento dell’eguaglianza democratica, ma la competizione per determinare dove sta l’eccellenza, e lasciare indietro tutti gli altri. La ricreazione è finita titolava nel 1986 un suo famoso libro il ricercatore svizzero Norbero Bottani; il messaggio è chiaro: è arrivato il momento di dismettere quel riformismo progressista che negli anni ‘60 e ‘70 aveva provato a spingere sull’acceleratore dell’uguaglianza e della democrazia in ambito scolastico e riconfigurare la scuola come un’agenzia di formazione per produttori dotati dell’equipaggiamento cognitivo necessario alle aziende. Si trattava cioè, sostanzialmente, di trasformare la scuola in produttori di affari, di lavoro, di negozio che, per tornare al latino, deriva da negotium e, cioè, “nec otium”: la negazione di otium e, quindi, la negazione di ciò che dovrebbe essere la scuola. Per incontrare il secondo snodo fondamentale di questa lunga controriforma bisognerà poi arrivare al decennio successivo; siamo nel 1992 e sulla rivista statunitense The Nation viene pubblicato uno storico articolo: Un ristretto cerchio di amici – si intitola – La nuova scuola americana dell’era Bush. Poco prima, infatti, l’allora presidente George H. W. Bush, insieme a un nutrito gruppo di dirigenti di grandi aziende, aveva dichiarato pubblicamente in pompa magna di aver finalmente trovato un rimedio contro il presunto inesorabile declino delle scuole statali: a salvare le future generazioni di studenti americani sarebbe stato – pensate un po’ – il mondo imprenditoriale; viene così fondata la New American Schools Development Corporation, una società privata che aveva lo scopo di promuovere e finanziare progetti miranti allo sviluppo di un nuovo modello di istruzione. Sulla carta, si trattava di finanziare con fondi privati alcuni gruppi di ricerca che avrebbero elaborato progetti innovativi da sperimentare nelle scuole; nei fatti, si trattava di promuovere la creazione delle cosiddette charter schools: istituti scolastici ai quali veniva garantita un’ampia autonomia organizzativa e che diventavano responsabili non più di fronte a commissioni scolastiche formate dai professionisti dell’educazione e della formazione, ma ai fantomatici stakeholders, gli sponsor e le famiglie degli studenti. Le charter schools, pur ricevendo la maggior parte dei loro fondi comunque sempre dallo Stato o dalle amministrazioni locali, non sono gestite dallo Stato come le altre scuole pubbliche, ma da organizzazioni private, con o senza fini di lucro; e così, in un battibaleno, ecco che uomini politici, avvocati e persino direttori di banca vengono inseriti in posizioni apicali all’interno del sistema scolastico statale.
E l’Europa non poteva certo restare indietro: già nel 1989 lo European Round Table of Industrialist, la potentissima lobby degli industriali europei, aveva pubblicato un rapporto dal titolo Istruzione e competenza in Europa ; “L’istruzione e la formazione” si legge nel rapporto “sono investimenti strategici vitali per la competitività europea e per il futuro successo dell’impresa”, ma “l’insegnamento e la formazione, purtroppo, sono sempre considerati dai governi e dagli organi decisionali come un affare interno. L’industria ha soltanto una modestissima influenza sui programmi didattici, che invece devono assolutamente essere rinnovati insieme ai sistemi d’insegnamento”. Il rapporto sottolineava infatti come gli insegnanti abbiano “una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari, della nozione di profitto (…) e non capiscono i bisogni dell’industria”: ecco così che 6 anni dopo, nel 1995, viene pubblicato il libro bianco dell’Unione europea che traduce pedissequamente le richieste degli industriali; un intero capitolo viene dedicato a come “avvicinare la scuola all’impresa”, perché la costruzione della società futura “dipenderà dalla capacità di apportare due grandi risposte (…): una prima risposta incentrata sulla cultura generale, una seconda volta a sviluppare l’attitudine al lavoro e all’attività”. “La responsabilità della formazione deve, in definitiva, essere assunta dall’industria” rilancia nel 1996 sempre lo European Round Table of Industrialist: “Sembra che nel mondo della scuola non si percepisca chiaramente quale sia il profilo dei collaboratori di cui l’industria ha bisogno. L’istruzione deve essere considerata come un servizio reso al mondo economico”. A tradurre queste indicazioni in legge, in Italia ci penserà, poco dopo, il compagno Luigi Berlinguer, cugino di Enrico e famigerato Ministro dell’Istruzione dal 1996 al 2000: la parola d’ordine è autonomia; autonomia didattica, finanziaria e anche organizzativa. L’indirizzo di fondo che viene prospettato è la creazione di un sistema di istruzione pluralistico, che da statale diventa più genericamente pubblico e all’interno del quale sono legittimate ad operare tanto le scuole statali quanto quelle gestite da altri enti pubblici (p.e. i comuni e le province), ma soprattutto anche quelle gestite da enti privati, religiosi o no. Le une e le altre godono sia della facoltà di rilasciare titoli di studio aventi valore legale sia dell’opportunità di attingere a finanziamenti statali, non senza numerosi dubbi dal punto di vista della legittimità costituzionale vera e propria; d’altronde, la controrivoluzione e la d’istruzione di massa non possono attendere e non sarà qualche cavillo legale a ostacolarle.
L’autonomia di Berlinguer è il pilastro fondamentale sul quale si inseriranno tutte le controriforme degli ormai quasi 30 anni successivi; la più importante, ovviamente, non poteva che far capo al più spregiudicato e servizievole faccendiere degli interessi delle oligarchie che sia mai transitato, anche se fortunatamente piuttosto rapidamente, tra i nostri palazzi del potere: parlo, ovviamente, di Matteo Shish Renzi, il Tony Blair dei poveri, che ispirandosi all’amico criminale di guerra di oltremanica riesce nell’incredibile operazione di unire tutti i tasselli del grande progetto di controriforma della scuola neoliberale. Fino alla parodia: “Ogni scuola” recita infatti senza pudore un documento di presentazione della riforma della Buona scuola “dovrà avere la possibilità di schierare la squadra con cui giocare la partita dell’istruzione”; dai ragazzi! Siamo una squadra fortissimi! Come scrive Angela Angelucci su Roars “La riforma dell’autonomia scolastica in Italia è un pezzo importante delle riforme del mercato del lavoro, perché sta dentro un gioco di scatole cinesi che riesce ad incrociare perfettamente le direttive europee in materia di istruzione, obbedendo alla perfezione ai dettami di Confindustria”: “dalla legge Fornero, ai Modelli nazionali di certificazione delle competenze al termine del primo ciclo appena emanati, dal Quadro europeo delle qualifiche, al Jobs act sono tutte disposizioni che si rincorrono in un incastro di reciproci riferimenti normativi (…) e il risultato è chiaro: lo studente perfetto da un alto e il lavoratore perfetto dall’altro: competente come un idiot savant, abile in lavori scarsamente qualificati, flessibile e fungibile per lo sfruttamento e il precariato e senza alcuna consapevolezza storica, giuridica, sociale, culturale e politica”. Insomma: la scuola non più fucina di sapere, di scienza e di coscienza, ma di individui con un mediocre livello di conoscenze tecnologiche spendibili sia come promettenti consumatori che come lavoratori flessibili.
E così, finalmente, arriviamo all’oggi. Il 2022 segna un altro anno cruciale: nascono infatti i nuovi Licei TED, che sta per Transizione Ecologica e Digitale, perché una bella dose di greenwashing non si nega a nessuno; i TED propongono una formazione quadriennale che, come si legge nel sito di presentazione, si avvale “della rete di grandi gruppi e imprese che aderiscono al Consorzio di aziende CONSEL“ tra le quali figurano tra gli altri colossi come Microsoft, Atlantia, Generali, Sky e Vodafone. Nel contempo, viene approvato a larghissima maggioranza dalla Camera il disegno di legge relativo “all’istituzione del sistema terziario di istruzione tecnologica superiore”; nascono così gli ITS Academy che, come recita il sito della Regione Toscana, “sono accademie tecnologicamente qualificate e avanzate, finalizzate alla promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, e al rafforzamento delle condizioni per lo sviluppo di un’economia ad alta intensità di conoscenza, competitiva e resiliente, in grado di rispondere alla domanda di nuove ed elevate competenze tecniche e tecnologiche da parte delle imprese del territorio, concorrendo così alla crescita e allo sviluppo della Regione”. Anche qui troviamo ben rappresentata la scuola neoliberale: al posto della scuola pubblica, apriamo le porte ai privati che determinano programmi e finalità dello studio; al posto delle conoscenze, parliamo di competenze che, secondo l’Unione europea, non sono altro che flessibilità e disponibilità alla riconversione continua, altrimenti detta precarietà; al posto del docente che ha avuto una formazione specifica per il suo lavoro, apriamo le porte ai tecnici del mondo del lavoro e gli insegnanti rimangono a guardare e, al limite, vengono impiegati come facilitatori. La scuola che finiremo di ripopolare da stamattina, in mezzo al solito profluvio di retorica sui nostri ragazzi che rappresentano il nostro futuro è, in buona parte, esattamente questa e noi, molto banalmente, la vogliamo cambiare, e siamo convinti che le energie per farlo non mancano: dopo decenni di lotta di classe dall’alto contro il basso combattuta tra i banchi di scuola, la scuola pubblica italiana – grazie alla resistenza di centinaia di migliaia di docenti rispettosi del dettato costituzionale e di altrettanti studenti e famiglie che non hanno nessuna intenzione di farsi asfaltare dal rullo compressore delle controrivoluzione assistendo passivi – rimane ancora oggi una delle più grandi fucine di disobbedienza civile e di resistenza democratica del paese e noi siamo fermamente intenzionati a fare tutto quello che è in nostro potere per provare a riaccendere la miccia, alla maniera di Ottolina.
Ecco così che quando abbiamo incrociato Federico Greco e Mirko Melchiorre è sbocciato subito l’amore. Sicuramente li conoscete già: sono i registi di quei due straordinari esempi di resistenza culturale popolare che sono stati PIIGS e C’era una volta in Italia; non semplicemente dei film, ma dei veri e propri aggregatori di energia popolare. Prima per come sono stati prodotti: i relativamente pochi soldi necessari – almeno rispetto ai risultati straordinari – sono stati infatti raccolti attraverso una campagna di crowdfunding che ha rappresentato un’opportunità straordinaria per mettere in rete le migliori energie del Paese, una rete che poi si è fatta sentire al momento della distribuzione; i due film, infatti, per anni sono stati portati in lungo e in largo per tutta la penisola e ogni proiezione si è trasformata in un vero e proprio momento collettivo di mobilitazione politica, come raramente se ne sono visti in questi anni di sonnolenza e rassegnato disfattismo. L’unico tassellino che è mancato è stata un’organizzazione capace di dare un seguito strutturato a tutta questa energia sprigionata; e questo è esattamente il contributo che come Ottolina TV e come MultiPopolare abbiamo deciso di provare a dare in occasione di questo nuovo lavoro che i nostri due amici si apprestano ad affrontare. L’appello, quindi, è a mobilitarci tutti quanti per portare a termine la campagna di raccolta fondi, trasformandola (appunto) in un primo momento di mobilitazione; e poi tenerci pronti sin da subito per far girare il film in ogni angolo del paese e trasformarlo nell’occasione che stavamo aspettando per rilanciare un movimento di massa per riprenderci l’istruzione pubblica. In descrizione trovate tutte le informazione necessarie per partecipare a questo progetto tanto ambizioso quanto necessario, come tanto ambizioso quanto necessario è in generale l’obiettivo di Ottolina TV e di MultiPopolare: dare vita finalmente a un vero e proprio media che, invece che ai sacerdoti della controrivoluzione neoliberale, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maria Stella Gelmini

¡Desaparecinema! ep. 14 – La guerra fredda culturale in USA e in Europa (parte 1)

Vista la complessità e l’importanza dell’argomento – il soft power statunitense come non l’ho ancora mai affrontato prima – questa volta la puntata sarà divisa in due parti. Perciò iniziamo senza indugi.
Secondo molti dizionari il termine complottista sta anche a significare, ovviamente, “organizzatore di complotti”. E cos’è un complotto? Secondo la Treccani è un’ “intesa segreta tra poche persone, volta a rovesciare un potere”. Bene: oggi parliamo del complotto dei complotti perché è formato non da poche persone, ma da decine di migliaia – alcune delle quali neppure si rendevano conto di esserne complici (forse). Perché è stato ed è tuttora volto a imporre il potere dei poteri, quello imperialista statunitense sull’Europa e sul mondo, ma soprattutto perché, come il migliore dei complotti possibili, soddisfa in pieno questa ovvia massima di Richard Crossman, un politico laburista del secolo scorso e quindi figura centrale di un ramo segreto del Ministero degli Esteri britannico dedicato alla disinformazione durante la Guerra Fredda: “Il modo migliore per fare buona propaganda è non far mai apparire che si sta facendo propaganda”.

È possibile fare vero cinema senza soldi? – con Federico Greco e Poccia Bros

In questo panel di Fest8lina, il nostro Federico Greco e i Poccia Bros ci parlano di come fare cinema senza soldi: è possibile? Come? E in che termini? Il cinema come momento democratico di sviluppo e incontro della coscienza estetica, ma anche di gesti politici e dibattito pubblico democratico; il cinema come arte, ma anche momento impegnato di riflessione. Buona visione!

¡Desaparecinema! ep. 9 – Oscar e Donatello: alfieri della propaganda

La conoscete tutti, immagino, quella simpatica e innocua storiella che rivela perché i premi cinematografici hollywoodiani si chiamino Oscar; il nome ufficiale del premio sarebbe Academy Award of Merit (premio di merito dell’accademia) e un giorno una bibliotecaria dell’Academy, vedendo la statuetta, esclamò “Ma sembra mio zio Oscar!”. Qualcun altro, invece, pensa che il nome derivi dal dio egizio dei morti e degli artigiani, una mummia con la testa di falco di nome Sokar (che, infatti, è l’anagramma di Oscar), mentre la forma deriverebbe dal dio Ptah, anche lui patrono degli artigiani nonché dio del sapere e della conoscenza.
Bene. Bravo. Ma cos’è questa Accademia? È l’ Academy of Motion Pictures Arts and Sciences. E perché si chiama così? Che c’entrano l’arte e la scienza – e, al limite, anche il cinema – con gli Oscar? Un indizio: molto poco. Infatti trovo più indovinata quest’altra affermazione di Frances Marion, una prolifica sceneggiatrice americana, anche lei vincitrice di Oscar (quindi non incolpabile di acrimonia, visto che oggi qualunque critica porti al sistema sei tacciato o di antisemitismo o di invidia sociale): “L’Oscar è un simbolo perfetto dell’industria cinematografica: un uomo con un corpo forte e atletico che stringe in mano una grossa spada scintillante e a cui è stata tagliata una bella fetta di testa, quella che contiene il cervello”. E adesso immaginate un italiano vincitore del David di Donatello sparare a zero su questo premio. Fatto?

Il regista italiano che non piace ai cinefili

Il cinema di cui parliamo oggi è quello di un autore cancellato dall’egemonia culturale, il cinema di un regista sconosciuto a volte anche agli addetti ai lavori, ma che secondo me ha scritto e diretto alcuni dei film più interessanti degli ultimi 50 anni: Emidio Greco, “di quei registi italiani che non piacciono ai cinefili”, come scrisse Alberto Crespi sull’Unità quando scomparve nel 2012. Emidio Greco, che ha fatto 8 film in 40 anni. Emidio Greco, che non era mio padre, ma solo un mio caro amico, scomparso nel 2012 a soli 74 anni e sul quale, nel 2001, diressi un documentario per la RAI: Ambiguità e disincanto.
.

­¡ Desaparecinema ! (ep. 1) – George Lucas ha anticipato il cinema reaganiano e oggi si becca la Palma d’Oro a Cannes

Ottoliner, quanti format volete? Sì! E quindi inauguriamo il format sul cinema ¡ Desaparecinema ! i film che non avete mai visto e quello che non avete visto nei film in collaborazione con il regista Federico Greco, autore, tra gli altri, di Piigs e C’era una volta in Italia. Per l’occasione, Federico analizza il cinema reganiano e il suo precursore George Lucas fresco di premiazione della Palma d’Oro a Cannes. Buona visione.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Come la sinistra neoliberista ha distrutto l’istruzione pubblica – ft. Federico Greco e La Fionda – Fiond8lina ep. 4

Dopo gli incredibili successi di PIIGS e C’era una volta in Italia, la premiata ditta Federico Greco/Mirko Melchiorre si è rimessa al lavoro per portare a termine la trilogia sulle devastazioni politiche, economiche e culturali della controrivoluzione neoliberista. A questo giro si occuperanno di istruzione o, per meglio dire, d’istruzione. Ne abbiamo parlato con Federico Greco in questa bella intervista organizzata e condotta direttamente dagli amici de La Fionda in questa nuova puntata di Fion8lina.