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Tag: governo

Contro il governo del partito unico liberal-imperialista – ft. Michela Arricale, Marta Collot, Giorgio Cremaschi

Oggi il nostro Gabriele intervista Michela Arricale, Marta Collot e Giorgio Cremaschi per parlare con loro del partito unico liberal-liberista che dal governo all’opposizione amministra con continuità da decenni il nostro paese. Mentre le elezioni sono roventi e piene di parole forti, le scelte politiche del centrodestra e del centrosinistra sembrano mirate tutte a compiacere le classi dirigenti e gli Stati Uniti. Mentre tutti parlano di pace, pochi discutono l’adesione del paese alla NATO, le sanzioni all’Ucraina o il supporto ad Israele; queste politiche scellerate si associano a decenni di deindustrializzazione, attacco al mondo del lavoro, alla nostra Costituzione antifascista e al welfare state. Per questo motivo, varie associazioni si sono date appuntamento il 1 giugno a Roma, a piazza Vittorio Emanuele alle ore 14.30 per protestare contro il governo Meloni e il suo portato ideologico radicalmente conservatore, liberista e guerrafondaio. Vi aspettiamo numerosi! Buona visione!

#Meloni #1giugno #manifestazione

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Pasquale Tridico – La nuova Italia oltre il neoliberismo

Pasquale Tridico, ex presidente INPS e candidato alle elezioni europee 2024, spiega come nel nostro Paese la diseguaglianze e la mancanza di solidarietà siano una delle cause fondamentali del mancato sviluppo dell’Italia. Governare l’economia. Per non essere governati dai mercati sono le parole d’ordine per ripoliticizzare la Questione meridionale e, con essa, ripensare una politica per lo sviluppo generalizzato nel nostro paese.

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Fardelli d’Italia (ep. 15) – Il patto del Governo con le banche contro gli italiani

In questa quindicesima puntata di Fardelli D’Italia parliamo di Ilaria Salis, della tassazione dei profitti delle banche e delle ultime su Daniela Santanchè.

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Sinistra ZTL: anatomia di un tradimento

Sinistra ZTL non è un’offesa, ma una vera e propria categoria sociologica che indica una mutazione storica fondamentale nella politica della sinistra occidentale; tutte le rilevazioni post elettorali sia in Italia che in Europa ci indicano infatti che, nella stragrande maggioranza dei casi, i partiti di sinistra e centrosinistra sono votati da elettori con alti redditi. Una situazione di completo ribaltamento rispetto a quanto era accaduto nel ‘900, rispetto a quando i partiti e gli intellettuali socialisti si erano posti il compito di rappresentare gli interessi degli ultimi e portarli al governo e, per questo, avevano radicato il proprio consenso tra le classi popolari. Ma che cosa è accaduto dopo? E quale è, invece, il compito politico e la visione del mondo della nuova sinistra 2.0 completamente inglobata nelle logiche oligarchiche e antisociali del capitalismo neoliberista? Lo vedremo tra poco. Quello che è sicuro è che non possiamo più certo accontentarci di come i rappresentanti della sinistra ZTL raccontano e giustificano a se stessi questo abbandono di consensi nel proprio ex elettorato e, cioè, delle solite argomentazioni per le quali al popolino delle periferie, essendo ignorante e un po’ rozzo, gli sfuggirebbe la complessità del mondo contemporaneo ed essendo questa gente un po’ come infanti – e, quindi, gente incapace di capire il proprio vero interesse – si lascerebbe prendere in giro da quegli egoisti e beceri populisti che parlano alla loro pancia e non alla loro testa; ecco: da queste argomentazioni snob e classiste in stile salotti vittoriani di fine ‘800 è bene stare alla larga.

Vincenzo Costa

Molto più utile, invece, è leggersi l’ultimo libro Vincenzo Costa, Categorie della politica, dove il professore di filosofia teoretica all’Università San Raffaele svolge un’interessante analisi storica e culturale della politica contemporanea e in cui dimostra come, oggi, le categorie di destra e sinistra non rispecchino più interessi sociali contrapposti, ma sia diventata una distinzione tutta interna alla classe dominante; insomma: una distinzione concettuale e politica che invece di esprimere i reali conflitti sociali in atto e aiutarci a comprendere le principali sfide politiche per la nostra comunità, al contrario occulta e manipola la realtà proponendo una finta alternanza, svuotando così di significato la democrazia rappresentativa e portando, tra le altre cose, agli spaventosi dati attuali dell’astensionismo. Costa propone di lasciarsi alle spalle questa rappresentazione binaria e propone un modello politico diverso (di cui ci occuperemo sicuramente in un prossimo video); in questo, invece, cercheremo di capire insieme a lui la storia e le caratteristiche della variante snob e moralisteggiante dell’ideologia della classe dominante – la cosiddetta, appunto, sinistra ZTL – facendo così luce su uno dei più meschini voltafaccia politici della modernità.
È negli anni ‘80 che si comincia a parlare di superare, una volta per tutte, la diade destra/sinistra, anche se con un intento completamente opposto a quello di Costa: l’idea era di voler abbandonare le visioni politiche alternative a quella capitalista e liberale dominante per costruire un sistema politico sostanzialmente omogeneo e indifferenziato che avrebbe trasformato la politica da pratica trasformatrice della realtà a mera gestione amministrativa dell’esistente; erano, infatti, gli anni della cosiddetta fine della storia e, cioè, di quell’atmosfera culturale che si era diffusa in tutto l’Occidente per la quale le società occidentali erano arrivate alla fine del loro percorso politico. Secondo questa visione un po’ fanciullesca, alle democrazie liberali, protette dall’ombrello dell’esercito americano, non restava che conservare quanto più gelosamente possibile il proprio assetto politico ed economico, un assetto che si era dimostrato di gran lunga il migliore della storia e a cui tutti i popoli del mondo non potevano che guardare con invidia e ammirazione; insomma: “Viviamo nel migliore dei mondi possibili” si pensava convinti. “Ogni altro progetto politico non può che trasformarsi in gulag e persecuzioni di ogni tipo e solo qualche adolescente un po’ ribelle o frustrato vetero-comunista di mezz’età può davvero mettere in dubbio la sostanziale bontà e giustizia dell’attuale regime.”
Sfortunatamente, prima con la crisi e poi con il crollo definitivo dell’Unione Sovietica e con l’imporsi definitivo dell’egemonia americana in Europa che ne è conseguito, questo unico campo politico capitalista e liberista (diviso da qualche sfumatura folkloristica su questioni secondarie) ipotizzato negli anni ‘80 è, infine, diventato realtà; una situazione distopica di cui solamente adesso tante persone cominciano a rendersi conto. Venendo infatti meno l’alternativa tra visioni del mondo e modelli politici alternativi, i partiti politici si riposizionarono come semplici varianti dell’unica visione del mondo rimasta – quella neoliberista -, ossia quella visione del mondo fondata sull’ideologia del primato del capitale sulla politica, sull’idea del governo dei cosiddetti competenti (intesi come coloro che sanno come soddisfare il mitologico mercato adeguando lo Stato e la democrazia alle sue esigenze) e sul primato morale e militare di Washington nel pianeta. “A partire dagli anni ottanta” scrive Costa “si passò da partiti politici che rappresentavano un’alternanza al modo di produzione capitalistico a partiti che della sua stabilizzazione e modernizzazione fanno la base del loro progetto politico”; quest’unica visione del mondo e della politica, di matrice anglosassone, scalzò nel nostro paese tanto la tradizione socialista quanto quella del popolarismo cattolico, le tradizioni che, più di ogni altra, avevano condizionato la nostra vita politica e ispirato la nostra Costituzione, tradizioni politiche e culturali che ancora condividevano una visione della politica fondata sull’idea dell’emancipazione materiale e morale della maggioranza delle persone, della lotta ai privilegi e della pace internazionale attraverso la cooperazione e la diplomazia. Va da sé che, scomparendo tutto questo dall’orizzonte culturale e politico, destra e sinistra hanno pian piano assunto significati completamente diversi, se non opposti, rispetto a quelli novecenteschi.
Il risultato più eclatante di questa trasformazione del campo politico fu la scomparsa del tema della redistribuzione della ricchezza e dell’emancipazione delle classi popolari dai progetti politici dei partiti: “Nel corso di queste trasformazioni” scrive Costa “le classi subalterne cessarono di essere un soggetto storico. Un soggetto ancora posto al centro sia dalla tradizione socialista che da quella del popolarismo cattolico. La loro emancipazione non fu più parte del progetto politico.”; e se quindi, nel corso della Prima Repubblica, i partiti di massa si erano posti come obiettivo l’inclusione delle masse popolari nella vita politica nazionale, con gli anni ‘80 iniziò un processo opposto, ossia di graduale esclusione delle masse popolari dalla vita politica. Secondo questo cambio di paradigma, le classi popolari non dovevano più esser le protagoniste e il fine della vita politica, ma coloro che – dato il loro stato di minorità – si dovevano limitare a scegliere dei candidati esprimendo delle preferenze: c’è, insomma, un’élite illuminata che decide la rosa di coloro che possono essere eletti e che possono governare; compito degli elettori è quello di scegliere entro quella rosa prestabilita.
Forse ancora più decisiva e strutturale però, è stata la trasformazione del ruolo e della funzione della politica nazionale nel suo complesso perché, come conseguenza dell’ideologia neoliberista, il sistema politico ha perso progressivamente la propria autonomia ed è diventato semplicemente un sottosistema di quello economico e finanziario: la funzione della politica neoliberista di destra, centro e sinistra, scrive Costa “venne a consistere nell’adattare le istituzioni e l’impianto legislativo alle esigenze del mercato, rendendo possibile il libero dispiegamento delle sue dinamiche naturali”; in tutto questo – perché forse è bene sempre ricordarlo – l’amministrazione dell’esistente intesa come mera esecuzione delle scelte politiche prese dai mercati (e quindi, oggi, dalle oligarchie finanziare che il mercato lo muovono e dalla superpotenza militare a cui fanno riferimento) ha significato per l’Italia un disastroso declino economico, la distruzione dello stato sociale, la diminuzione di salari e pensioni e l’aumento della povertà e della disoccupazione: questo è il risultato tangibile di 30 anni di neoliberismo e, nonostante sia da anni sotto gli occhi di tutti, sovranismo, qualunquismo e populismo sono state le accuse pronte ad essere indirizzate da partiti e intellettuali di regime contro chi osava mostrare perplessità sul migliore dei mondi possibili.
Per chi, infatti, è il migliore dei mondi possibili? dovremmo chiederci: per l’Italia e per le classi lavoratrici occidentali? Per la partecipazione del popolo al potere? A quanto pare no.
Ma l’offensiva delle oligarchie e della superpotenza contro le classi popolari italiane non si è fermata qui, perché furono anche i loro valori e le loro forme di legame a finire sotto attacco: “Il loro attaccamento alle tradizioni, le loro forme di legame solidaristico, il loro rifiuto di uno stile di vita competitivo e comparativo, così come i loro modi di sentire la vita, furono declassati a mero residuo del passato” scrive Costa, una roba antimoderna da buttare sostanzialmente nel cesso della storia per abbracciare, senza sé e senza ma, le forme culturali chic ipercapitaliste che ci venivano proposte dal centro dell’impero; specialmente, come vedremo tra poco, per la cosiddetta sinstra ZTL, in questo straordinario stravolgimento della realtà le classi popolari non solo cessarono di essere le classi da emancipare, ma le loro forme culturali il modello da cui emanciparsi per diventare finalmente liberi e moderni.
Solo adesso, quindi, possiamo capire l’emergere di TonyBlair in Inghilterra, di Schroeder in Germania e del PD in Italia, ossia della classe dirigente che traghettò le culture del socialismo e del popolarismo cristiano verso il partito unico neoliberale. E così, riflette Costa, per far felici i nuovi padroni del mondo “la vecchia novecentesca contrapposizione tra capitale e lavoro doveva cedere il passo a una sinistra pragmatica, concreta, gestionale, e le stesse differenze tra destra e sinistra dovevano essere considerate in una prospettiva di un’alternanza ma senza reale alternativa”; “La nuova destra teorizzata da Alessandro Campi e la nuova sinistra auspicata da molti intellettuali progressisti convergevano su ciò: l’orizzonte politico entro cui siamo entrati prevede avvicendamento di governi, senza che ciò metta in discussione il sistema delle compatibilità previste dall’ordine del mercato.” Ma, conclude Costa, “Se la politica non è il luogo della trasformazione storica che incide su privilegi e disuguaglianze, allora destra/sinistra è, logicamente, una distinzione tutta interna alle classi dominanti.” Ancora nel 2013, su Repubblica, Massimo Cacciari, uno degli intellettuali più organici a questo cambiamento della sinistra e, quindi, tra i più invitati dai salotti televisivi, scriveva: “I valori in politica sono i buoni progetti. Che la politica possa rendere giusto il mondo lo raccontano nei comizi”.
Il neolibersimo, insomma, ha trasformato la politica in mera amministrazione di condominio, che si chiami Italia oppure Unione europea: una mera gestione tecnica di questioni che nulla hanno a che fare con la lotta alla disuguaglianza o i rapporti di forza e i sistemi di potere storicamente determinati con i relativi privilegi. Di qui, una serie anche di slittamenti di significato dei termini politici novecenteschi che Costa fa bene a ricordare: il primo riguarda il termine riformista che, nella storia del movimento operaio e socialista, alludeva a una via, a una società più libera e giusta fatta di passaggi graduali resi possibili dal sistema parlamentare; riforme significava, insomma, riforme strutturali che permettessero gradualmente una maggiore partecipazione del popolo alla politica, quindi una maggiore distribuzione della ricchezza, quindi una maggiore libertà per tutti gli individui. “Nella riformulazione che conduce ai nostri giorni invece” scrive Costa “la nozione di riformismo venne a indicare una politica che tende a mantenere l’efficienza del sistema attraverso lo smantellamento dei diritti sociali: riforme venne a significare introduzione di elementi di liberalismo, privatizzazioni, precarizzazione del lavoro. Riformismo non si coniuga più con trasformazione sociale, ma con efficienza sistemica.” In questo slittamento semantico, anche il termine giustizia ha cambiato di significato per diventare non il risultato della lotta dal basso contro i privilegi, ma, al contrario, una sorta di dono che viene concesso dall’élite dall’alto della loro superiorità morale: per le élite della sinistra ZTL, scrive il professore di filosofia “La giustizia diviene un dono concesso dall’alto, non una conquista dal basso. La sinistra filantropica è ai buoni sentimenti che fa appello, non all’analisi delle contraddizioni oggettive di un regime politico-economico storicamente determinato.”
Ovviamente, per conservare l’esistente e difendere il regime che, ricordiamocelo sempre, è da sempre l’unico vero scopo e funzione della sinistra ZTL, ogni conflitto di classe deve essere non solo sopito, ma addirittura negato: “Ma quale conflitto di classe?” ci racconta la sinistra ZTL; “Non esistono le classi sociali! È un concetto superato, novecentesco. Esistono i buoni da una parte, ossia noi, poi quelli arretrati che ancora credono alla nazione e ai valori tradizionali e, infine, gli estremisti senza scampo, che sono rimasti al ‘900 e ancora non hanno capito che il capitalismo e l’America avranno anche forse dei difetti, ma sono assolutamente necessari” pensa la sinistra ZTL. La logica conseguenza di questa ideologia di regime, scrive Costa, è che “Non occorre redistribuire il profitto, ma favorire i processi di accumulazione del capitale. Non si tratta più, pertanto, di criticare o di contestare il capitalismo o l’ordine di mercato per la sua irrazionalità strutturale come aveva fatto il marxismo, né di contestarlo in quanto sistema che, generando differenze di ricchezza, genera anche differenze di potere e strutture di subordinazione. Si tratta solo di farlo funzionare, di favorire il processo di accumulazione del capitale e la sua circolazione. Il concetto di emancipazione viene sostituito dal concetto di crescita.”
Se ci pensiamo bene infatti, ogni provvedimento legislativo è stato infatti valutato, negli ultimi decenni, sempre e solo a partire dalla domanda Come reagiranno i mercati? È solo il mercato infatti, e cioè le oligarchie economiche e l’impero che lo governano, ad essere diventato l’unico giudice politico; è solo il mercato a dire se un governo è un buon governo, “per cui” continua Costa “da un lato il sistema politico diviene dipendente dal sistema economico-finanziario, perché è questo a dettare le condizioni di verità del suo operato, dall’altro le classi popolari devono accettare il verdetto di questo Dio che, a rigore, si presenta adesso come un Dio immortale, origine di ogni senso e di ogni verità, che elargisce premi a quei governi e quelle comunità che osservano le sue leggi ferree e punizioni a quelle che le violano.” Forse adesso, dopo tutti i ragionamenti, si capiscono anche meglio le ragioni dell’amore spasmodico della sinistra ZTL e del sistema nel suo complesso per i governi tecnici. Ce lo ricordiamo tutti: prima Monti, ma poi soprattutto Draghi; canti, ovazioni, redazione di Repubblica. Finalmente erano arrivati gli uomini della provvidenza. Effettivamente, essendo il mitologico mercato l’unico sovrano della politica, l’unica cosa di cui abbiamo veramente bisogno è di un esecutore efficiente delle sue volontà, uno che finalmente si lasci alle spalle la politica vecchio stampo – fatta ancora di parlamenti, partiti ed elettori – e proceda con saggezza alla modernizzazione del paese. Lasciatelo lavorare urlavano frementi i giornalisti della sinistra ZTL impauriti dall’idea che rappresentanti del popolo potessero essere d’intralcio all’uomo di Goldman Sachs. Escluso che la politica debba fare altro che assecondare gli interessi dei mercati, ci conferma Costa “L’esito fu la propensione per governi tecnici che nessuno ha eletto, dettati da stati di eccezione continui. I governi non devono infatti esprimere l’opinione pubblica, non devono rappresentare il popolo e l’articolarsi del mondo della vita: devono dargli forma.”: e chi meglio di un tecnico illuminato che ha lavorato a stretto contatto con la finanza ed è un fedele servitore dell’impero è in grado di farlo? Come ebbe a dire Mario Monti in un’intervista a Time, l’obiettivo del suo governo era cambiare “la cultura e un certo modo di vivere e di lavorare degli italiani”. Sono, insomma, queste le ragioni profonde dell’amore dei cosiddetti antifascisti di Repubblica e del Corriere per tecnici autocrati privi di mandato popolare a cui vorrebbero sostanzialmente dare pieno potere.
Ma come hanno fatto i partiti della sinistra ZTL a salvarsi la faccia di fronte ad un’opinione pubblica che, fino a qualche tempo fa, ancora aveva nel suo immaginario le parole d’ordine del socialismo e del popolarismo cattolico? La risposta, argomenta Costa, è che cessando di combattere le discriminazioni e le diseguaglianze economiche, si sono cominciati a spacciare come i paladini dei cosiddetti diversi: non più, quindi, lotta politica per l’emancipazione delle classi popolari, ma lotta per la tutela delle minoranze etniche, religiose e sessuali la cui inclusione nel migliore dei mondi possibili (se sei ricco o puoi emigrare) non deve certo essere impedita a nessuno dagli egoisti e beceri fascisti e sovranisti; “L’inclusione stessa dei diversi – a cui la sinistra progressista si richiama come alla sua caratteristica di fondo – diventa il modo in cui ci si autorizza a tacere dell’esclusione di chi subisce il mercato” scrive Costa. “L’inclusione progressista è un’inclusione che esclude. Viene inclusa ogni differenza che non turba l’ordine di mercato, ed esclusa (al punto che non ha né voce né rappresentazione nella sfera pubblica) ogni differenza che sarebbe contestazione del mercato e dei rapporti di dominio da esso generati.” E, così, i temi della giustizia e dell’uguaglianza vengono incredibilmente sganciati da quelli della ricchezza e del potere e si occulta in tutti i modi il fatto, evidente a tutti, che chi ha denaro ha potere sugli altri e che i veri discriminati sono sempre i poveri, indipendentemente dall’essere donne, musulmani o di colore; e si tenta di far credere che a dover essere emancipate sono le cosiddette minoranze, indipendentemente dal loro reddito. Ancora nel ‘900, quando non si era completamente obnubilati dalla propaganda neoliberista, lo si sapeva tutti: è la differenza di ricchezza il vero grande pericolo per la libertà di tutti, ma perdendosi nel proprio mondo autoreferenziale (spacciato persino per realismo e pragmatismo) la sinistra ZTL ha invece completamente rimosso il reale anche se forse, scrive Costa, “dovremmo parlare di negazione del reale, di una sorta di difesa primitiva attorno a cui è strutturata la cultura progressista.”
Arrivati a questo punto, in questa radiografia ideologica e politica della sinistra ZTL, mancherebbe solo un ultimo penosissimo passaggio: la politica estera; e si potrebbero passare ore a parlare dell’armamentario ideologico del partito unico neoliberista quando si tratta di giustificare l’occupazione americana del nostro Paese o del suo imperialismo nel mondo. La sinistra ZTL anche in questo ha reciso ogni legame con il socialismo e tradito ogni tipo di riferimento alla pace e alla cooperazione tra stati sovrani, ma – in fondo – è pur sempre domenica e Ottolina Tv sono mesi che ha sviscerato l’argomento in lungo e in largo; per concludere, invece, possiamo dire che la sinistra ZTL e la destra ZTL (a cui dedicheremo uno dei prossimi video) sono un’espressione culturale vincente dell’imperialismo e dell’eterna lotta di classe dall’alto verso il basso, lotta che adesso anche il 99 per cento deve riprendere a combattere. La buona notizia è che adesso anche tu puoi decidere se continuare a ripetere a pappagallo la propaganda e continuare difendere con le unghie il regime oppure, magari, saltare dal nostro lato della barricata e cominciare tutti insieme una nuova storia. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Mario Draghi

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La sindrome del vincolo esterno – Come l’Italia può riconquistare se stessa

Una grave malattia affligge la nostro comunità nazionale: la sindrome del vincolo esterno, o anche chiamata la sindrome del suddito. Secondo quest’atmosfera culturale tossica e autodistruttiva, gli italiani sarebbero per natura incapaci di governare e destinati a passare da essere una colonia di una superpotenza ad un altra. Come uscirne? Ne abbiamo parlato con il filosofo e analista geopolitico Giuseppe De Ruvo.

CONTRO LE ELEZIONI – Come il sorteggio salverà la democrazia

Il 2024 sarà un anno esplosivo e a dirlo non sono gli astri o le bombe sganciate da Biden e vassalli un giorno sì e l’altro pure, ma i dati elettorali: più di cinquanta paesi, con oltre quattro miliardi di cittadini alle urne, segnano l’anno con maggiore partecipazione democratica di sempre. E se noi di Ottosofia rimaniamo sempre scettici sull’equazione elezioni = democrazia, non siamo tanto gonzi da sminuire la portata di questa gigantesca tornata elettorale: oltre agli USA e all’Unione Europea, infatti, saranno coinvolti diversi soggetti del Sud globale, inclusi ad esempio India, Pakistan, Sud Africa, Messico. Tutto l’entusiasmo per la partecipazione democratica nasconde, però, un paradosso: in Europa, che nella vulgata mainstream è da sempre decantata come la culla della Democrazia, l’affluenza al voto nazionale ed europeo è in calo, e da diverso tempo: l’Italia, per dire, alle elezioni politiche del 2022 ha toccato il record negativo di votanti – un italiano su tre non pervenuto; se poi guardiamo alle recenti elezioni europee, sfondare il tetto del 50% è già grasso che cola. Ecco quindi il paradosso: un sistema elettorale sempre più diffuso su scala mondiale cui corrisponde una crisi di partecipazione democratica; da questo nodo, apparentemente inspiegabile, parte la riflessione di David van Reybrouck, filosofo e drammaturgo olandese, nel suo eloquente saggio Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico.

David van Reybrouck

Come ricorda l’autore dati alla mano, infatti “La percentuale della popolazione mondiale favorevole al concetto di democrazia non è mai stata così elevata come ai giorni nostri.” (p. 7); nonostante questo, “nel mondo intero, il bisogno affermato di leader forti, che non necessitino di tenere conto di elezioni o di un Parlamento, è considerevolmente aumentato negli ultimi dieci anni e (…) la fiducia nei parlamenti, nei governi e nei partiti politici ha raggiunto un livello storicamente basso. È come se avessimo aderito all’idea della democrazia, ma non alla sua pratica, per lo meno non alla sua pratica attuale.” (p. 8). Abbiamo tutti sottomano una risposta semplice e facilona a questo fenomeno: è tutta colpa delle nuove generazioni e dei cittadini apatici che non si interessano di politica!. Peccato, ricorda Reybrouck, che le cose non stiano così: tutti i dati statistici, infatti, registrano un aumento di interesse per le tematiche politiche trasversale alle età e alle classi sociali; il problema, quindi, sta da un’altra parte e in particolare nella sfiducia dei cittadini verso i loro rappresentanti politici e nella frustrazione derivata dall’incapacità di incidere nelle politiche economiche e sociali; molti cittadini percepiscono la loro istanza come un flatus vocis destinato a perdersi nell’infinità di paletti, mediazioni e magnamagna che investono la politica su più livelli. “La politica è sempre stata l’arte del possibile, ma oggi è diventata l’arte del microscopico. Perché l’incapacità di affrontare i problemi strutturali s’accompagna a una sovraesposizione del triviale, incoraggiata da un sistema mediatico che, fedele alle logiche di mercato, preferisce ingigantire conflitti futili piuttosto che analizzare problemi reali, soprattutto in un periodo di calo delle quote di mercato dell’audiovisivo.” (p. 17); non è quindi il sistema democratico a essere un problema in sé, quanto l’idea che si realizzi esclusivamente tramite l’elezione di rappresentanti. La democrazia, potremmo dire, è bella ma non balla: è intelligente, ma non si applica; il populismo, la tecnocrazia e l’antiparlamentarismo non sono altro che tentativi politici di fornire risposta a questo enorme problema, tutti con l’obiettivo dichiarato di salvare la democrazia. Il populismo, ad esempio, punta a ridurre la distanza tra eletti ed elettori cercando di imporre comportamenti virtuosi ai politici vincolandoli alla volontà elettorale; la tecnocrazia, al contrario, sacrifica la volontà dell’elettorato puntando tutto sulla presunta efficienza di governi tecnici, di coalizione, multicolor: in entrambe queste risposte alla crisi democratica – nota Van Reybrouck – il problema non è mai la pratica elettorale, quanto i suoi risultati, siano essi politici corrotti o tecnocrati spietati. 
E se, invece, per gestire il problema della democrazia bella che non balla la soluzione fosse cambiare musica? Il nuovo spartito proposto da Van Reybrouck consiste nel dare ossigeno alla partecipazione democratica affiancando le istituzioni parlamentari presenti con una forma alternativa di decisione collettiva: la democrazia partecipativa aleatoria, un sistema decisionale composto da assemblee di cittadini estratti a sorte in grado di proporre leggi e soluzioni politiche ai problemi più attuali. A prima vista, rimaniamo perplessi: il sistema del sorteggio sembra quanto di più alieno alle democrazie parlamentari; come la mettiamo con la rappresentatività della maggioranza, Il controllo degli elettori sugli eletti, la competenza dei sorteggiati? Sembra assurdo pensare che una comunità politica possa mai accettare di farsi governare da qualcosa di imprevedibile come la pura sorte, eppure, allargando lo sguardo oltre i nostri confini geografici e temporali, scopriamo che in Occidente per diversi secoli il sorteggio non solo è stato utilizzato, ma ha pure rivestito un ruolo cruciale nelle decisioni politiche collettive. Nella culla della democrazia occidentale, l’Atene del quinto secolo a.C., la maggior parte dei membri delle istituzioni di governo erano scelti tramite sorteggio, col risultato che “dal 50 al 70 per cento dei cittadini di età superiore ai trent’anni” avevano ricoperto il ruolo di legislatori nel Consiglio dei Cinquecento: fu questa situazione di complesso equilibrio a stimolare la famosa riflessione di Aristotele, quando nella Politica afferma che “uno dei tratti distintivi della libertà è l’essere a turno governati e governanti”.

La Rivoluzione Francese

Tutto qui? Manco per scherzo, visto che sistemi di sorteggio spuntano come funghi per tutta l’Europa medievale e rinascimentale: nei comuni e in alcune repubbliche come Venezia, ad esempio, il sistema del sorteggio era ampiamente utilizzato per la nomina di cariche di altissimo livello; certo, il procedimento non era dei più semplici, ma garantiva notevole stabilità e, soprattutto, compensazione delle posizioni più o meno privilegiate dei candidati, tanto da essere oggetto ancora oggi di studi di ricerca informatica. Fino agli albori della Rivoluzione Francese, sorteggio è sinonimo di democrazia, laddove elezione lo è di aristocrazia; ciò che ribadisce, nel 1748, Montesquieu ne Lo Spirito delle Leggi era allora qualcosa di scontato: “La sorte è un modo di eleggere che non affligge nessuno [e] lascia a ciascun cittadino una ragionevole speranza di servire la patria” (Lo Spirito delle Leggi). . Poi, qualcosa nelle esperienze politiche impone una brusca sterzata alle procedure democratiche; con la Rivoluzione Francese e l’Indipendenza americana le élites politiche impongono sempre più la necessità di garantire un unico sistema: l’elezione dei rappresentanti e la netta separazione di questi ultimi dai rappresentati, cioè dal popolo.
A un paradosso, ne segue un altro: tendiamo a pensare che le rivoluzioni francese e americana siano state una svolta democratica fondamentale per l’Occidente; eppure, leggendo le dichiarazioni e gli scritti dei rivoluzionari, scopriamo uno scenario del tutto diverso. James Madison, John Adams e Thomas Jefferson, oltre allo status di padri della rivoluzione americana, condividono il disprezzo per la democrazia come sistema di governo: se Adams e Jefferson ripongono la propria fiducia in una sorta di aristocrazia naturale che guidi la maggioranza dei cittadini americani verso il bene comune, Madison specifica – con vagonate di ottimismo – che i rappresentanti politici eletti saranno per forza i migliori, poiché saranno “tutti i cittadini il cui merito gli avrà valso il rispetto e la fiducia del loro paese. […] Poiché emergeranno grazie alla preferenza dei loro concittadini, siamo in diritto di supporre che si distingueranno anche in genere per le loro qualità.” (James Madison, Federalist papers).

Samuele Nannoni

Dall’altra parte dell’Atlantico, nella Francia giacobina, la svolta politica per una partecipazione popolare senza precedenti andava a infilarsi sullo stesso binario morto; non è un caso, ricorda Van Reybrouck, che nei tre anni di dibattiti sull’estensione del diritto di voto dalla presa della Bastiglia, il termine democrazia sia del tutto assente e non è solo questione di terminologia, visto che da questi lavori parlamentari uscirà la Costituzione del 1791 che blinderà definitivamente l’elezione come unico sistema democratico possibile. L’esperienza plurisecolare della democrazia aleatoria interrotta bruscamente con la Rivoluzione Francese e americana, quindi, non può che condurci a un totale ribaltamento di prospettiva: “è da ormai quasi tremila anni che sperimentiamo la democrazia, e solo da duecento che lo facciamo esclusivamente per mezzo delle elezioni.” (Van Reibrouck, p. 44); certo, potremmo sempre obiettare che la situazione politica odierna non è la stessa del medioevo o dell’età antica e, quindi, che forse il sistema del sorteggio risulta antiquato rispetto alle libere elezioni. Ancora una volta, la risposta è negativa; a smontare definitivamente questo preconcetto è Samuele Nannoni, esperto di democrazia aleatoria, ricordando che a partire dagli anni Duemila la realtà deliberativa delle assemblee estratte a sorte è sempre più diffusa: dalla Francia all’Irlanda, dal Belgio alla Polonia fino al Regno Unito, spuntano iniziative politiche per dare voce ai cittadini sulla legiferazione nei temi più disparati, dalla bioetica alle politiche ambientali. Persino in Italia, dopo due secoli di letargo, si sta risvegliando l’interesse concreto per questa pratica, promossa tra gli altri da realtà associative come Prossima Democrazia allo scopo di cogliere quel rinnovamento necessario prospettato da David Van Reybrouck: “Bisognerà pure trarre una conclusione, anche se non fa piacere ammetterlo: oggigiorno le elezioni sono un meccanismo primitivo. Una democrazia che si limita a questo è condannata a morte. È come se riservassimo lo spazio aereo alle mongolfiere, senza tener conto della comparsa dei cavi ad alta tensione, degli aerei da turismo, delle nuove evoluzioni climatiche, delle trombe d’aria e delle stazioni spaziali.” (p. 64).
Ma come possiamo, concretamente, integrare la democrazia rappresentativa con quella aleatoria? Basterà il sorteggio per ripristinare un’autentica partecipazione democratica? E soprattutto, siamo davvero pronti a superare il meccanismo primitivo delle elezioni? Di questo e molto altro parleremo mercoledì 7 febbraio con la live di Ottosofia. Ospite d’onore Samuele Nannoni, vicepresidente di Prossima Democrazia.

LA RIVOLTA DEI TRATTORI – Se destra e sinistra fanno a gara a chi umilia di più l’agricoltura

Ragionano da anni di carrarmati; saranno asfaltati dai trattori. Dalla Germania alla Francia, dalla Romania alla Polonia per arrivare, negli ultimi giorni, pure in Italia, gli agricoltori di tutta Europa sono sul piede di guerra, e a Bruxelles sudano freddo non solo perché – nonostante l’agricoltura e quello che ci gira attorno contribuisca per poco più dell’1% del PIL europeo – coinvolge direttamente poco meno di 15 milioni di addetti ma anche perché, nel vecchio continente in declino, ogni miccia può innescare un’esplosione in grado di far saltare tutto, a partire dai posti di comando.
La rivolta degli agricoltori europei è tornata a occupare le prime pagine dei giornali a partire dallo scorso 9 gennaio, quando il centro di Berlino è stato invaso da una colonna di 566 trattori che si sono piazzati in fila davanti alla Porta di Brandeburgo, a pochi metri dagli ufficio di Olaf Scholz. Ed era solo la punta dell’iceberg: secondo la ricostruzione de La Verità, nel Baden Wuttemberg si sarebbero mobilitati addirittura in 25 mila; in Baviera in 19 mila; in Sassonia avrebbero bloccato interamente la circolazione in ingresso a Dresda e imposto uno stop allo stabilimento della Volkswagen di Emden. “La più grande protesta, o perlomeno la più estesa, che il paese abbia visto nel dopoguerra” scrive il Corriere. Sulla carta, le proteste tedesche sarebbero esplose per motivi meramente interni, ma il fatto che in men che non si dica abbiano contagiato mezzo continente dimostra che in realtà c’è molto altro che bolle in pentola; ma cosa?
Come ormai accade sempre più spesso, limitandosi a leggere le principali testate mainstream e quelle della destra reazionaria – che giocano a fare gli antimainstream ma sono ancora più mainstream del mainstream – non è che si capisca proprio benissimo: la rivolta degli agricoltori è stata immediatamente trasformata in una guerra ideologica tra fazioni contrapposte, entrambe totalmente disinteressate a entrare nel merito delle questioni e impegnate esclusivamente a cercare di strumentalizzare la faccenda per rinsaldare le fila rispettivamente dei fintosovranisti e degli analfoliberali; in un modello ormai ampiamente sperimentato durante la pandemia e perfezionato con la guerra, i mezzi di produzione del consenso delle due fazioni del capitalismo europeo in declino si sono sostenute l’un l’altra, nel tentativo di politicizzare le puttanate e spoliticizzare tutto quello che, invece, avrebbe un impatto concreto sulla vita delle persone – riuscendoci benissimo. Ed ecco così che per i fintosovranisti (ma reazionari veri) la protesta è diventata l’ultima barricata per salvare l’Eden incontaminato del mondo rurale dall’assalto dei rettiliani turboglobalisti incarnati in quella creatura demoniaca nota col nome di Greta Thumberg e, per l’establishment liberal, i calli nelle mani degli allevatori di maiali della Bassa Sassonia sono diventati l’emblema del ritorno della minaccia nazifascista. E se li mandassimo entrambi in una bella miniera di coltan nel Congo e provassimo una volta tanto a capire cosa bolle davvero in pentola?
“Centinaia di accessi alle autostrade bloccati, serpentoni di decine di chilometri ai confini, picchetti e palchi improvvisati nei centri di Monaco, Brema, Amburgo” (Mara Gergolet, Corriere della sera). Lunedì 8 gennaio la Germania si è improvvisamente trovata di fronte a uno scenario completamente inedito: “In Germania, dove lavoratori e padroni gestiscono congiuntamente molte aziende” sottolinea infatti l’Economist “uno sciopero di grandi dimensioni è insolito. Un’ondata di grandi scioperi è quasi inaudita”; lo abbiamo visto chiaramente negli ultimi 30 anni, durante i quali una feroce politica di deflazione salariale ha imposto alle buste paga dei lavoratori di crescere sempre enormemente meno della loro produttività senza che, sostanzialmente, mai nessuno si incazzasse sul serio. Nell’arco di appena 8 giorni, invece, a questo giro ha dovuto affrontare – continua l’Economist – “una settimana d’azione da parte di contadini arrabbiati che hanno bloccato le strade coi loro trattori, uno sciopero di tre giorni dei ferrovieri e pure un imminente sciopero dei lavoratori medici, che avevano già chiuso gli ambulatori tra Natale e capodanno”. “L’era merkeliana della pace sociale e dell’accomodamento in una qualche forma di accordo e sovvenzione di tutte le tensioni” scrive il Corriere della serva “visto dalla Porta di Brandeburgo sembra veramente solo un ricordo”; ma cos’è esattamente che ha fatto incazzare così tanto gli agricoltori tedeschi?
I nodi fondamentali della mobilitazione sono sostanzialmente due: la riduzione dello sconto fiscale sull’accisa applicata al diesel per il consumo agricolo e la fine dell’esenzione dalla tassa sull’acquisto per i mezzi agricoli, che risaliva addirittura al 1922; due misure introdotte in fretta e furia dal governo tedesco, dopo che la sentenza della Corte Costituzionale gli ha vietato di ricorrere ai soldi rimasti dal fondo covid per far tornare i conti di faccende che con la crisi pandemica non avevano niente a che vedere, causando così un buco nel bilancio da ripianare con ogni mezzo necessario. Ma qui c’è il primo mistero: ancora prima che gli agricoltori invadessero Berlino, annusata l’aria, il governo più debole dell’intero continente infatti aveva fatto un deciso passo indietro diluendo il ritorno della tassa sul gasolio negli anni e reintroducendo l’esenzione per quella sugli acquisti, ma non è servito a niente. Ma allora, cosa c’è sotto? Per capirlo ho letto attentamente tutti gli articoli usciti sull’argomento su La Verità, il giornale di riferimento dell’alt right italiana e quello che, in assoluto, ha dedicato più spazio a queste proteste, e indovinate un po’? Non c’è scritto un cazzo: fiumi di parole, frasi a effetto come se non ci fosse un domani, ma mai un numero che sia uno, una statistica, qualcosa di misurabile, di verificabile.

Bonifacio Castellane

Il premio assoluto fuffologia al potere va, senza dubbio, a Bonifacio Castellane, una vera rivelazione: è questo tizio qua, che scrive sotto pseudonimo e agli eventi pubblici si presenta sempre con questa maschera perché le cose che ci rivela sono troppo dirompenti, troppo scottanti, e cioè ha stata Greta Thumberg; il nemico contro cui stanno combattendo gli agricoltori – ci racconta con tono un po’ dannunziano il nostro V di Vendetta dei poveri – sarebbe nientepopodimeno che “l’ideologia woke-green che ispira il governo dell’UE nel suo tentativo crepuscolare di infliggere gli ultimi colpi ai nemici prima di tramontare”. Oltre alla dittatura gretina, il grande nemico degli agricoltori – spiega Castellane – sarebbero anche, in uno slancio di retorica fascioliberista da manuale, in generale tutti i lavoratori dipendenti: “Gli agricoltori” continua Castellane, infatti “non sono scesi in piazza perché minacciati nei loro diritti acquisiti o indicendo il venerdì uno sciopero a fine servizio per manifestare contro il patriarcato: sono scesi in piazza perché la loro esistenza è in pericolo”. In che senso? Difficile capirlo: i numeri sono roba da pervertiti globalisti e Castellone non ne cita manco mezzo. Al posto suo, però, li cita la DBV, il più grande sindacato degli agricoltori tedesco e organizzatore della mobilitazione: “Dopo molti anni di debolezza” scrivono, “nell’ultimo biennio la situazione economica delle nostre aziende è nettamente migliorata. In particolare gli agricoltori hanno beneficiato degli elevati aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari”; in soldoni, fa un bel +45% del fatturato medio rispetto a 3 anni fa, un dato piuttosto rilevante ma che in tutti gli articoli de La Verità non viene citato mai, nemmeno per sbaglio. Fosse semplice dimenticanza, si potrebbe risolvere facilmente invitandoli a trovarsi un lavoro che gli si addice di più; in realtà, però, è peggio di così. Il loro lavoro lo fanno benissimo, solo che il loro lavoro non è informare, ma fare propaganda per fomentare la guerra tra poveri. E come faccio a elevare gli agricoltori a paladini della società giusta ed equa che voglio costruire contro la dittatura di Bruxelles – contrapposti ai lavoratori salariati che approfittano di diritti acquisiti e scioperano il venerdì per allungare il weekend – se poi si scopre che mentre i lavoratori salariati perdevano potere d’acquisto, gli agricoltori aumentavano del 45% il fatturato? E’ una notizia non grata e quindi da omettere: non farete mica i professoroni!?
E però c’è pure chi fa di peggio perché c’è chi, invece, quel dato non solo lo riporta, ma lo brandisce come un’arma per un’altra tesi altrettanto brillante e rivelatoria: gli agricoltori sarebbero tutti avidi, brutti, sporchi, cattivi e, ovviamente, anche parecchio fascisti. La prova provata? Vorrebbero abbattere il governo giallorossoverde, e chi altro mai vorrebbe mandare a casa Olaf Scholz se non un branco di fascisti? Ha lavorato così bene… Beh, certo, per Washington di sicuro. Negli stessi giorni della protesta, Destatis ha pubblicato i dati definitivi per il mese di novembre: la produzione industriale è crollata di un altro 0,7% in un solo mese; i vari analisti interpellati da Bloomberg avevano previsto una crescita dello 0,3. D’altronde, avevano previsto anche un segno + per il PIL del 2023, e ancora più sostenuto per il 2024; nel 2023 è diminuito di 0,3 punti e ormai in molti credono lo stesso accadrà anche quest’anno: in totale, in 12 mesi la produzione industriale infatti è crollata del 4,8%. Ma la crisi, verso la fine dell’anno, invece che affievolirsi si è approfondita e se nel 2024 si confermasse il trend degli ultimi 3 mesi, si arriverebbe a un ulteriore crollo di poco meno del 10%: per incazzarsi, effettivamente, bisogna essere proprio degli invasati neonazisti.
La leggenda degli agricoltori neonazisti nasce, come sempre, dall’infiltrazione di qualche gruppuscolo, ma soprattutto – temo – dalla consapevolezza che le forze di governo non hanno nessuna soluzione possibile da offrire e, al di là del fatturato straordinario degli ultimi 2 anni, i problemi decisamente non mancano. E sì, in buona parte hanno proprio a che vedere con le politiche ambientali dell’Unione Europea, che vuole fare la transizione ecologica continuando a garantire rendite di posizione astronomiche alle oligarchie finanziarie sulla pelle di chi lavora, di tutti quelli che lavorano, dagli agricoltori a quelli che – secondo La Verità – vivono nella bambagia per i diritti acquisiti e chiamano il weekend lungo sciopero. D’altronde, scrive Tonia Mastrobuoni su La Repubblichina, di cosa si lamentano? “La tutela dell’ambiente costa” scrive, e “ha inevitabilmente ricadute su tutte le categorie sociali” dove, giustamente, nelle categorie sociali non mette i suoi editori e, in generale, gli oligarchi.
Come sosteneva brillantemente il mitico documentario The Corporation, gli oligarchi sono sociopatici per definizione: tra le varie cose imposte dalla UE sulle spalle degli agricoltori (senza nessuna forma di paracadute) ci sono, ad esempio, le misure sul ripristino della natura, che puntano a contrastare il degrado degli ecosistemi sottraendo terreno alla coltivazione per restituirlo alla natura, oppure le norme sull’abbattimento delle emissioni degli allevamenti, o le direttive che impongono restrizioni sulle emissioni di zolfo e di nitrato – che avevano già spinto sulle barricate gli agricoltori olandesi poco tempo fa; tutte misure più che ragionevoli, volendo, se solo a pagarle non fosse chi sta piegato sui campi a giornate per due lire ma chi, con la svolta green, incasserà miliardi su miliardi senza rischi perché garantito dagli Stati e dai governi. Lo ha dovuto ammettere candidamente anche un ultramoderato come Paolo de Castro, eurodeputato PD, ex ministro dell’agricoltura e universalmente riconosciuto come uno dei massimi esperti dell’economia del settore: “Per la prima volta questa legislatura europea” ha dichiarato “ha creato la percezione di un’Unione nemica degli agricoltori e delle categorie produttive. Non abbiamo saputo costruire un progetto che coinvolga l’agricoltura facendola sentire protagonista della transizione verde, e non imputata”. Risultato? Chi s’è messo contro gli agricoltori ha fatto una brutta fine: in Olanda è toccato a Rutte e Timmermans che, per la faccenda dell’azoto, si erano messi in testa di chiudere di botto 3 mila stalle; Rutte oggi è stato costretto ad andarsene in pensione e Timmerman è stato letteralmente umiliato alle elezioni da Geert Wilders, che è improponibile ma le rivendicazioni degli agricoltori le aveva sostenute.
Ora tocca alla Francia, dove il contagio tedesco è arrivato per primo e dove Macron, ancora prima delle sue nefandezze dirette, dovrà scontare il fatto di aver assoldato tra le sue fila al parlamento europeo Pascal Canfin, che del finto ambientalismo delle élite che odiano i poveri è proprio il prototipo; ex capo esecutivo del WWF francese, era a capo della Commissione Ambiente quando il green deal europeo è stato concepito, e ora contro di lui e il suo datore di lavoro i contadini francesi sono tornati sulle barricate e il grosso della popolazione li sostiene, senza se e senza ma: il 68% in Germania, addirittura l’89 in Francia, in entrambi i casi circa il doppio dei consensi che possono vantare i rispettivi governi. Per capire il livello di strumentalizzazione che la fuffa liberaloide fa della faccenda, basta vedere la differenza di trattamento riservato ad agricoltori tedeschi e francesi, che contestano governi di centrosinistra, rispetto a quelli italiani. Anche gli agricoltori italiani, infatti, sono tornati a manifestare: negli ultimi giorni, decine di cortei hanno invaso mezzo paese, da Verona alla Calabria; “La marcia dei trattori attraversa l’Italia contro tutto e tutti” scrive La Stampa. “L’Unione Europea, le farine d’insetti, la carne coltivata, la burocrazia, il caro gasolio, i terreni svenduti, e soprattutto i sindacati degli agricoltori”, ma qui non c’è traccia di disprezzo: “Una rivolta dal basso” scrive anzi La Stampa “animata da gente che non ha mai saltato un giorno di lavoro”, eppure qualcosa a cui attaccarsi ce l’avrebbero avuta.

Danilo Calvani

La mobilitazione, infatti, è stata organizzata da questo gruppo informale denominato CRA, Comitati Riuniti Agricoltori traditi, e il leader indiscusso del CRA è lui, Danilo Calvani, un piccolo imprenditore agricolo della provincia di Latina che nel 2009 è stato tra i fondatori della Lega nel Lazio; agli agricoltori tedeschi hanno dato dei reazionari fascisti per molto meno: perché qui, allora, invece no? Semplice: in Italia al governo mica ci sono i democraticissimi Scholz e Macron; in Italia al governo c’è la Meloni, e Calvani con il governo Meloni ce l’ha a morte perché “come tutti quelli che l’hanno preceduto” afferma Calvani “si è prostrato a Europa e multinazionali”. Tutto sommato i pennivendoli al servizio di GEDI sono magnanimi, si accontentano di poco e, così, quelli che altrove sono una pericolosa deriva autoritaria qui incredibilmente “partono da un tema reale: lo scollamento quasi incolmabile tra chi detta le regole e chi affonda le mani nella terra, come Franco Clerico” continua empatico il giornalista, “che mi ha detto: per chi lavora la terra mollare tutto per andare a protestare è un atto di disperazione. Ho investito tutto in quest’azienda. Mio papà è morto a novembre, a 91 anni. Ha aiutato me e mio fratello a mettere in piedi l’azienda. Noi invece ai nostri figli lasceremo debiti. Da anni per tirare avanti non ci versiamo i contributi. Quando va bene in un anno ci mettiamo in tasca 16 mila euro. E’ vita questa?”. Ecco, bravi: la stessa identica cosa vale per gli agricoltori che protestano in Francia e in Germania anche se, in quel caso, al governo ci sono quelli che vi stanno simpatici a voi.
Nell’Europa in declino, le élite di ogni colore scaricano la crisi sui poveri cristi e le diverse propagande non fanno altro che inventarsi storielle per parare il culo a quei parassiti dei loro padroni. Noi stiamo sempre dalla stessa parte, dalla parte del 99% senza chiedere pedigree e per difenderne la causa avremmo bisogno come il pane di un vero e proprio media. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Olaf Scholz

Il pasticcio dell’ultimatum: quando l’Italia provò a dichiarare guerra alla Cina!

A inizio del 1899 l’Italia invia un ultimatum alla Cina: l’impero cinese ha quattro giorni di tempo per cedere parte della sua costa all’Italia, cioè la baia di Sanmen dello Zhejiang, altrimenti sarebbe stata guerra. Ma c’è un problema: quando l’ambasciatore italiano a Pechino consegna l’ultimatum, il governo italiano non ne è al corrente, e il ministro degli esteri italiano scopre di aver dichiarato guerra alla Cina solo leggendo i giornali britannici… È l’inizio dell’avventura coloniale italiana in Asia, un episodio poco conosciuto della nostra storia, anche perché non finì particolarmente bene, ma anzi, l’ultimatum si tradusse in una forte umiliazione per il governo italiano, che cadde proprio a seguito di questo episodio. Ma come mai all’Italia è venuto in mente di lanciare un ultimatum alla Cina? Ne parliamo in questo video!

Alessandro Volpi: perchè oggi la fine del Mercato Tutelato per Luce e Gas è una Follia

Intervist8lina: benvenuti a questo nuovo appuntamento con le interviste di OttolinaTV. Il nostro ospite oggi è Alessandro Volpi, professore all’università di Pisa e attento osservatore di tutti quei processi che mirano alla finanziarizzazione della nostra disastrata economia e comportano sia un attacco sempre più feroce alle condizioni di vita della stragrande maggioranza del popolo italiano, sia a una devastazione totale del suo tessuto produttivo. La fine del mercato tutelato delle bollette energetiche delle famiglie italiane è un obiettivo che il partito unico degli affari e della guerra persegue orami da anni. Per compiere il passo definitivo però, evidentemente, serviva proprio il Governo di quelli che con sprezzo del pericolo si autodefiniscono patrioti e sovranisti, e che hanno deciso di fare il salto definitivo della staccionata nel peggiore dei momenti possibili, con  tutti i dati sull’economia nazionale in caduta libera, e sopratutto con le famiglie che non riescono più a risparmiare un euro e ricorrono sempre di più all’indebitamento selvaggio, come se fossimo ormai degli americani qualsiasi.

LA MORTE DELL’AUTO ITALIANA – Stellantis: profitti record, licenziamenti e capannoni in svendita

Ciao ciao Mirafiori!
Dopo gli ultimi sviluppi, la dichiarazione di morte dell’automotive italiano è sostanzialmente ufficiale: “Costruisci il tuo futuro” l’ha chiamato Stellantis, con una bella dose di sano masochismo. E’ il progetto che ha previsto l’invio di una mail a 15 mila dipendenti, dove venivano invitati a mettersi in tasca qualche euro e levarsi definitivamente dai coglioni: il futuro che si dovrebbero costruire è da disoccupati. Vista l’aria che tira – e la possibilità concreta che se non se ne vanno oggi con una bella dose di incentivi in tasca, se ne dovranno andare comunque domani con in mano un pugno di mosche – in 500 avrebbero già accettato; a convincerli, in particolare, un annuncio apparso l’altra settimana su Immobiliare.it: capannone in vendita, Grugliasco, 115 mila metri quadrati, prezzo su richiesta.

Sergio Marchionne

Neanche 10 anni fa, il venditore di pentole in cachemire Sergio Marchionne lo aveva definito il fiore all’occhiello dell’automotive italiano: doveva essere il cuore pulsante di un fantomatico “polo del lusso” specializzato nella produzione di due modelli Maserati: la Ghibli e la Quattroporte, roba da 150/200 mila euro a botta. “Questi sono giorni cruciali per riposizionare il marchio e avviare una fase di espansione senza precedenti” aveva declamato enfaticamente Marchionne il giorno dell’inaugurazione, e a un certo punto avevano cominciato a macinare così tanto che, nel 2016, il sindacato s’era dovuto mobilitare perché “i carichi e i ritmi di lavoro sono troppo sostenuti, e questo mette a rischio la salute dei lavoratori” (Fiom-Cgil, 2016).
E’ durato come un gatto in tangenziale: “A pieno regime” ricorda Davide Depascale su Il Domani “l’impianto Maserati impiegava duemila operai. Nell’ultimo anno ne erano rimasti un centinaio.” Li hanno spremuti come limoni per qualche anno e poi gli hanno dato una pedata nel culo, e ora l’intero capannone te lo porti a casa con un click: “Lo stabilimento” si legge nell’annuncio “si presenta in buone condizioni manutentive a seguito di recenti e rilevanti interventi di ristrutturazione”. Si divertono pure a girare il dito nella piaga. D’altronde, però, quando è crisi è crisi, insomma. “Stellantis, record di utili nel 2022” titolava entusiasta Milano Finanza già nel febbraio scorso, e il banchetto era solo all’inizio: giusto pochi giorni fa sono stati pubblicati i risultati del terzo trimestre e Stellantis registra un altro risultato record: +7% di ricavi netti rispetto all’anno prima. Ottimo! Nella guerra mondiale dell’automotive in corso, per finanziare la transizione all’elettrico e mantenere la quota di mercato, un po’ di quattrini da investire sono proprio quello che ci vuole.
Macché: sapete cosa ci hanno fatto? Ci hanno ricomprato le loro azioni, l’ennesimo caso di buyback selvaggio che non serve ad altro che a continuare a gonfiare la bolla speculativa sui titoli azionari e a far intascare al management premi multimilionari a suon di stock option e altri meccanismi simili; nel 2022, il solo CDA si è messo in tasca oltre 31 milioni, 3 in più dell’anno precedente. Quando la FIAT sfornava milioni di auto e dava da lavorare a 200 mila persone, lo storico amministratore delegato Vittorio Valletta non guadagnava più di 500 mila euro: riusciremo mai a mettere fine a questo saccheggio?
A rimettere in fila due numeri su Il Domani ci pensa Edi Lazzi, segretario generale della Fiom di Torino: “A Mirafiori dal 2007, ultimo anno senza cassa integrazione” ricorda “la produzione è calata dell’89%, e la cassa integrazione ha raggiunto picchi del 70”. Nel 2022 gli occupati complessivi sono arrivati alla quota miserrima di 12 mila; erano 20 mila solo 8 anni prima. Mille in meno l’anno, “come se ogni anno chiudesse una fabbrica di medie dimensioni” sottolinea Depascale su Il Domani. “Nei prossimi anni” rilancia Lazzi “il 70 per cento dei lavoratori va in pensione. Senza nuove assunzioni Mirafiori si fermerà”, e pensare che a Mirafiori sarebbero dovuti finire anche i lavoratori della Maserati di Grugliasco dove, nel frattempo, a ritrovarsi con le pezze al culo ovviamente è anche tutto l’indotto “con tutta la componentistica” sottolinea Depascale “a rischio chiusura”. Un esempio su tutti la Lear Corporation: è una multinazionale americana con oltre 160 mila dipendenti in 37 paesi, la 147esima azienda al mondo per fatturato, stando alla classifica di Fortune 500; è specializzata di sistemi elettrici e di interni per auto – in particolare sedili – e fare i sedili in pelle umana per le auto da 200 mila euro della Maserati era un ottimo business, ma ora che la Ghibli e la Quattroporte nello stabilimento accanto non le producono più, ecco che – dei 420 dipendenti che hanno – la bellezza di 300, a breve, si ritroveranno in mezzo a una strada senza grosse alternative. Stellantis, infatti, tra un buyback e l’altro qualche investimento – in realtà – in giro per il mondo lo fa anche, a partire dalle famose gigafactory, solo che non li fa coi soldi suoi e non in Italia. Negli Stati Uniti, da pochissimo, ha annunciato il secondo impianto: entrambi si troveranno a Kokomo, in Indiana; 6,3 miliardi di investimento per 2.800 posti di lavoro previsti, oltre 2 milioni di dollari l’uno che, in buona parte, ricadranno sulle casse dello Stato sottoforma di credito d’imposta. Esattamente come in Europa, dove Stellantis ha incassato una quantità spropositata di incentivi per completare il suo primo impianto a Douvrin, nel nord della Francia, e ora sta procedendo con il cantiere di Kaiserslautern in Germania. Dopo – e soltanto dopo – arriverà, forse, il contentino anche per l’Italia: anche l’ex FIAT di Termoli, infatti, dovrebbe diventare una gigafactory. Per convincere Tavares a farci la grazia gli abbiamo dovuto promettere la bellezza di 600 milioni del PNRR, ma le condizioni che abbiamo chiesto in cambio non convincono proprio tutti: la fabbrica, infatti, dovrebbe riassorbire i vecchi operai FIAT ma il management ha già fatto sapere – riporta l’Ansa – che “l’azienda avrà la necessità di disporre di professionalità totalmente diverse da quelle tuttora presenti nel vecchio stabilimento”.
Cosa significa? Che a una bella fetta dei vecchi operai che, grazie all’anzianità, hanno raggiunto finalmente stipendi quasi dignitosi, si darà il benservito con qualche ammortizzatore sociale pagato con le nostre tasse e, al loro posto, se ne prenderanno di nuovi con trattamenti salariali e accessori peggiori possibile. D’altronde, dire che la morte dell’automotive italiano era annunciata è un eufemismo, e pensare che anche l’Italia possa avanzare qualche pretesa per le briciole che il protezionismo USA e il ritorno dell’austerity nell’Unione Europea lasceranno cadere dal banchetto della transizione ecologica e dell’elettrificazione potrebbe rivelarsi del tutto velleitario; dentro alla gabbia delle compatibilità con l’agenda geopolitica USA, da un lato, e il culto dell’austerità dell’Unione Europea dall’altro, il nostro destino è segnato. Non deve essere necessariamente così e, per dimostrarvelo, ora vi racconto una bella storiella. L’articolo è ormai un po’ datato; siamo nel 9 agosto scorso e Bloomberg titola : “La chiusura della Ford dopo 100 anni in Brasile cede il territorio degli Stati Uniti alla Cina”. La location è uno dei luoghi più iconici della lunga storia dell’automotive globale: siamo nella cittadina di Camacari, una trentina di chilometri a nord di Salvador, la capitale dello stato di Bahia; qui, in uno spazio sterminato più grande del Central park di New York, sorgeva una delle principali fabbriche della Ford del gigantesco paese sudamericano che, da un paio di anni, è stata totalmente smantellata pezzo per pezzo. Ma nell’aria non c’è segno né di sconfitta, né di rassegnazione: a breve qui si tornerà a lavorare a pieno ritmo. L’ex Ford di Camacari, infatti, è stata acquisita da BYD, il colosso dell’automotive elettrico che vanta tra i suoi principali investitori anche la Bearkshire Hathway di Warren Buffett; qui sorgerà la sua fabbrica più grande fuori dall’Asia.

Lula, Hugo Chavez e Néstor Kirchner

Per Lula, che di fabbriche se ne intende – visto che c’ha passato mezza vita e c’ha perso pure un dito -, è una vittoria di portata storica: convincere gli investitori cinesi a riaprire quella fabbrica è sempre stato un suo pallino. Per questo, quando s’è recato a Pechino appena due mesi dopo l’inizio del suo mandato, ha voluto in tutti i modi incontrare di persona l’amministratore delegato di BYD. Durante il mandato del suo predecessore, i rapporti con la Cina erano precipitati ai minimi storici: puntava a un rapporto privilegiato con l’America di Trump mentre l’America di Trump chiudeva le fabbriche. La Ford, ad esempio, non si è ritirata in fretta e furia solo dallo stato di Bahia, ma tutto il paese – dal giorno alla notte – dopo 100 anni di attività; è l’epilogo di un lungo declino, un po’ come quello italiano. La produzione industriale pesava per quasi metà PIL fino alla fine degli anni ‘80; ora pesa per meno di un quarto.
La deindustrializzazione, in questi anni, ha riguardato anche i paesi del Nord globale; la differenza però è che – grazie alle logiche neo – coloniali – il Nord globale mantiene comunque il controllo delle catene del valore. Il Brasile e l’Italia, no. Lula non è il solo protagonista della rinascita dell’ex sito Ford di Camacari; un ruolo chiave l’ha svolto anche il governatore dello stato di Bahia, il primo – nella storia dello Stato – appartenente alle popolazioni indigene: si chiama Jeronimo Rodrigues e si aspetta che i cinesi portino nella regione almeno 10 mila nuovi posti di lavoro, e non solo quelli. BYD prevede di aprire una nuova miniera nello Stato per estrarre localmente il litio che servirà alla fabbrica, e ha già investito 700 milioni solo per la parte di ricerca e sviluppo per una nuova monorotaia che permetterà di liberare Salvador dal traffico. Se è questa la giungla selvaggia che minaccia il nostro giardino ordinato, forse varrebbe la pena farci un pensierino.
C’è un intero mondo, là fuori, che è alla ricerca di opportunità per tornare a far crescere l’economia reale, e non si chiama Carlos Tavares o John Elkann, che se ancora possono scendere per strada senza essere rincorsi da una folla inferocita è perché i soldi che non reinvestono per rilanciare l’industria automobilistica italiana li spendono per far dire alla propaganda che – tutto sommato – va bene così e che “there is no alternative”, quando invece l’alternativa c’è eccome. Solo che per raccontarla per bene abbiamo bisogno di un media tutto nostro, che dia voce al Sud globale e al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è John Elkann

Chi decide chi è terrorista? come la propaganda strumentalizza senza ritegno un concetto ambiguo

L’accusa di terrorismo è una delle accuse politiche più abusate dell’ultimo secolo. Sono stati chiamati terroristi gli indipendentisti Algerini, i liberatori cubani, le brigate rosse, quelle nere, l’Isis, i curdi, la Russia e pure l’Ucraina.
Ma che cosa hanno in comune tutti questi soggetti politici così diversi tra loro per ricadere tutti sotto la categoria di terrorismo? La risposta è: nulla. Perché nonostante i nostri media continuino a ripeterlo come ossessi quando si tratta di demonizzare il nuovo nemico dell’occidente americano, la verità è che a livello internazionale, sia sul piano giuridico che politologico, non esiste alcuna definizione univoca del termine terrorismo e di chi debba essere considerato come tale. Tenere presenta questa ambiguità e arbitrarietà concettuale del termine, che lo rende particolarmente strumentalizzabile dalle diverse propagande, è oggi più che mai decisivo. In questi giorni di guerra di Indipendenza palestinese infatti, sia i palestinesi che gli israeliani vengono accusati da parti diverse di terrorismo, e sia sul piano giornalistico che diplomatico, utilizzare le definizioni e il linguaggio di una delle due parti in conflitto significa sposare, anche inconsciamente, la sua visione del mondo.

Il termine terrorismo è stato utilizzato storicamente per descrivere fenomeni molto diversi: dalle uccisioni di sovrani, agli attentati di gruppi armati o individui isolati, fino ai crimini compiuti direttamente da apparati statali: il così detto terrorismo di stato. In epoca moderna comincia a diffondersi nella seconda metà dell’800 e in particolare per condannare azioni violente o attentati compiuti da anarchici o da organizzazioni nazionaliste e indipendentiste. I patrioti italiani ad esempio, mentre lottavano per la liberazione del nostro territorio dalla colonizzazione straniera, furono più volte etichettati dai colonizzatori come terroristi e uccisi e perseguitati insieme alle organizzazioni di cui facevano parte, come La giovine Italia di Mazzini, la Carboneria, o la Società Nazionale italiana di Daniele Manin.
Il ricorso al termine terrorismo torna poi in auge nei media e nel linguaggio politico occidentale tra gli anni 60-70 del novecento, e anche in questo caso nel contesto delle guerre di decolonizzazione e autodeterminazione dei popoli. Diventano così “Terroristici” atti come il dirottamento di aerei, il sequestro di persone, o attentati in cui rimangono coinvolto civili o militari al di fuori di un contesto di guerra tra eserciti regolari. In realtà però questi atti di violenza, per quanto crudeli e terrificanti, raramente sono mossi da un irrazionale volontà omicida. Piuttosto, vi si ricorre per provare a esercitare una pressione sugli Stati e i soggetti interessati, o anche solo per riaccendere l’attenzione dell’opinione pubblica su determinate rivendicazioni politiche.
All’inizio del nuovo millennio, con l’attentato alle torri gemelle prima, e con quelli di Parigi per mano di miliziani jhadisti poi, “terrorismo”, soprattutto in occidente, diventa sinonimo di terrorismo islamico.
Ma negli ultimi due anni, prima con la guerra in Ucraina e adesso con il riaccendersi della lotta di indipendenza palestinese, l’uso del termine si è di nuovo ampliato quando sia la Russia che l’Ucraina prima, sia i palestinesi e gli israeliani poi, si sono dati del terrorista a vicenda.
Questa estrema arbitrarietà di significato e applicazione, si riflette anche a livello scientifico e giuridico. Nel suo saggio “Il terrorismo nel mondo contemporaneo”, la professoressa di scienze politiche Donatella della Porta scrive: “Per essere utilizzabile a fini scientifici un concetto deve avere alcuni requisiti: deve essere neutrale e univoco, comunicabile e discriminante. Importato nel linguaggio scientifico dalla vita quotidiana, il concetto di terrorismo manca di questi requisiti: infatti quelli che alcuni chiamano terroristi sono partigiani, o combattenti per la libertà, per altri. Anche gli studi di taglio storico o sociologico sul terrorismo lamentano la difficoltà di trovare una definizione accettata del fenomeno, ricordando che il termine terrorismo viene frequentemente riservato a quelle lotte di liberazione che falliscono, resistenza invece a quelle che hanno successo.”
Non solo. Definire o meno un’organizzazione “terrorista” risulta sostanzialmente impossibile anche se ci si focalizza esclusivamente sul modo e sul metodo con cui la violenza viene esercitata. Infatti, riflette Della Porta, se tentassimo una definizione di terrorismo in base al tipo di metodi violenti utilizzati “Fenomeni eterogenei – dalle attività delle bande criminali organizzate alle contese dinastiche, dalle guerre tra nazioni a gran parte delle interazioni politiche nei regimi autoritari – verrebbero così confusi insieme in un medesimo concetto, privandolo sia di capacità euristiche che di una qualsiasi utilità descrittiva.”
Purtroppo però, qualificare un gruppo come terrorista in base al modo in cui questo uccide, è uno degli argomenti più utilizzati in queste settimane dai media occidentali. Vi ricordate quando per giorni hanno riportato la notizia ancora mai confermata dei bambini israeliani decapitati? E vi ricordate quando si portava a prova del terrorismo di Hamas il fatto che solo dei terroristi ucciderebbero in modo così crudele ed efferato? Bene, questo ragionamento “sotto-culturale”, come lo ha definito giustamente in televisione l’ex ambasciatrice Elena Basile, non poteva che sfociare in uno degli esempi più eclatanti di doppio standard degli ultimi anni: abbiamo infatti scoperto che per l’inteligencija italiana esiste un modo politicamente corretto di uccidere, ossia quello degli Stati che utilizzano droni e aerei per distruggere palazzi e far morire in agonia i bambini sotto le macerie, e un metodo non politicamente corretto, ossia quello di chi droni ed aerei non li ha e deve ricorrere all’utilizzo di armi rudimentali.

Mah si, ma vuoi mettere quei selvaggi anti-estetici di Hamas che uccidono con i kalashnikov e i coltelli, con l’eleganza e il bon ton di un bel missile Jericho lanciato comodamente dalla postazione di comando? Davvero vi serve dell’altro per capire la differenza tra i terroristi e l’unica democrazia del medioriente?! Come ormai sostanzialmente tutto, anche lo sterminio dei bambini non è più un crimine in se, ma un lusso, che deve essere riconosciuto a chi ha i mezzi per perpetrarlo in modo elegante e tecnologicamente al passo coi tempi

Ma torniamo alle cose serie.

Anche il diritto internazionale, dicevamo, non è mai riuscito a trovare una definizione unanime di terrorismo: Nel 1996, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite istituì un comitato ad hoc per predisporre una convenzione globale sul terrorismo internazionale, ma i lavori si arenarono proprio per l’impossibilità di arrivare a una definizione condivisa.
I problemi fondamentali furono due: primo; in determinati contesti come si fa a distinguere atti di terrorismo da legittime guerre di liberazione nazionale? Secondo, come si fa a distinguere il terrorismo di stato da legittime attività svolte dalle forze ufficiali dell’esercito per salvaguardare la sicurezza?
Applicando questi dilemmi alla situazione in Palestina, possiamo chiederci: Hamas è un’organizzazione terroristica o il braccio armato della resistenza palestinese che combatte con i mezzi a sua disposizione per la libertà e l’indipendenza del suo popolo? E Israele è uno stato terrorista in quanto colonizza e annette territori non suoi e stermina da 70 anni migliaia di civili inermi in operazioni militari, oppure quello che fa, pur contravvenendo le risoluzioni Onu, lo fa per legittima difesa e sicurezza?

Ognuno tragga le sue conclusioni.

Ma visto che siamo nel campo dell’arbitrarietà più assoluta, e che come abbiamo visto questo aggettivo è privo di validità scientifica e giuridica per comprendere dinamiche di conflitto, la cosa più utile e razionale sarebbe smetterla proprio di utilizzarlo. La ragione per la quale è così in auge nell’informazione di propaganda infatti, è che come per l’accusa di nazismo di cui abbiamo parlato nel video precedente, anche l’accusa di terrorismo è una forma di demonizzazione assoluta del nemico che impedisce la comprensione delle sue ragioni e quindi ogni possibilità di dialogo e di risoluzione del conflitto. Con i terroristi infatti, come ci viene insegnato dalle autorità israeliane in questi giorni, non si parla, non si tratta, li si distrugge ad uno ad uno con tutti i mezzi a disposizione, e mettendo in conto tutti i “danni collaterali” possibili immaginabili

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E chi non aderisce, è Paolo Mieli.

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