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Tag: giordania

Petroliere in fiamme e basi senza difesa: è arrivata la fine del dominio USA in Medio Oriente?

Dopo 3 settimane di attacchi USA alle installazioni militari di Ansar Allah, “quei quattro beduini” – come li ha definiti in un commento qualche suprematista sulla nostra bacheca – sono talmente devastati che venerdì notte, nell’arco di poche ore, hanno prima colpito in pieno una petroliera del colosso del commercio di materie prima Trafigura e poi hanno preso di mira una nave da guerra della coalizione costringendola, per l’ennesima volta, a spendere qualche milione per intercettare un’arma che ne costa poche decine di migliaia; e il vero weekend di paura doveva ancora iniziare: domenica infatti, per la prima volta dall’inizio della fase terminale del genocidio di Gaza, a lasciarci le penne sono stati direttamente 3 soldati USA, con altri 34 che non se la passano esattamente benissimo, diciamo.

John Helmer

E la conta delle vittime è il problema minore: come scrive il leggendario giornalista ed analista statunitense trapiantato a Mosca John Helmer sul suo blog, l’attacco della fazione irachena dell’asse della resistenza alla Tower-22 giordana sta alla credibilità delle forze armate USA come l’operazione diluvio di Al-Aqsa sta a quella dell’intelligence israeliana : “L’attacco” scrive “dimostra che sia la postazione di Tower-22 che l’intero complesso militare di Al-Tanf, sia sul lato giordano che su quello siriano, sono vulnerabili alle armi che le forze statunitensi non sono riuscite a rilevare e neutralizzare. Come è altrettanto vulnerabile anche l’imponente base aerea statunitense di Muwaffaq Salti, 230 chilometri ad ovest in territorio giordano”. Helmer, inoltre, racconta che le sue fonti all’interno delle forze armate USA ci vedono anche lo zampino russo: le basi statunitensi dell’area, infatti, “generalmente” scrive Helmer “affidano la loro difesa a sistemi C-RAM” che sta per Counter rocket, artillery, and mortar e, sostanzialmente, descrive l’insieme di sistemi utilizzati per rilevare e/o distruggere razzi, artiglieria e colpi di mortaio in arrivo prima che colpiscano i loro bersagli a terra o, perlomeno, in grado di fornire un’allerta precoce, sistemi che – sottolinea Helmer – “sono stati inviati in Ucraina a partire dall’anno scorso, dove i russi hanno imparato ad aggirarli”. Fino ad adesso, in Medio Oriente gli USA hanno fatto un buon lavoro nell’abbattere i droni e oggi, sottolinea Helmer, sembra una coincidenza un po’ strana che facciano cilecca “nemmeno una settimana dopo gli incontri a Mosca con arabi, iraniani e yemeniti”; “i sistemi su cui USA e alleati facevano affidamento” conclude Helmer “sono stati sconfitti prima dai russi sulla terraferma in Ucraina, e ora che vengono impiegati per difendere le nostre navi nel Mar Rosso, rischiano di essere sconfitti anche lì. E le implicazioni sono enormi: anche il più piccolo paese marittimo, a costi molto contenuti, oggi è in grado di infliggere danni considerevoli agli attori tradizionalmente dominanti”. “Ad essere onesti” scrive Simplicius the thinker sul suo blog “è difficile immaginare come questa situazione potrebbe risolversi senza un ritiro totale degli Stati Uniti dal Medio Oriente o in alternativa nell’esplosione di una nuova grande guerra”.
Il tempo del dominio incontrastato dell’Occidente collettivo a guida USA in Medio Oriente sta andando incontro al suo epilogo?
“Era solo questione di tempo” commenta affranto l’Economist: “a partire dal 7 ottobre”, ricorda la testata britannica, “i gruppi sostenuti dall’Iran hanno lanciato droni e razzi contro gli avamposti americani in tutto il Medio Oriente in 160 occasioni. Quasi tutti hanno mancato il bersaglio o sono stati abbattuti. fino a domenica scorsa, quando uno è riuscito a passare, e ha ucciso 3 soldati americani e ne ha feriti altri 34”; secondo l’Economist si tratterebbe nientepopodimeno che del “primo attacco aereo mortale contro le forze di terra americane dalla Guerra di Corea” e rischia di costringere l’amministrazione Biden a fare una scelta avventata. “La retorica dell’amministrazione Biden, in Iran” ha scritto su X il famigerato senatore repubblicano Lindsey Graham “cade nel vuoto”; “potete eliminare tutti i rappresentanti iraniani che volete” continua, “ma questo non scoraggerà l’aggressione iraniana”. La soluzione è quella classica, la sola buona per tutte le stagioni che un redneck con una quantità di neuroni che si contano sulle dita di una mano può elaborare: “Colpite l’Iran adesso. Colpitelo forte” scrive Graham, con quel linguaggio tipico dello statista di indiscusso spessore; “Chiedo all’amministrazione Biden di colpire obiettivi significativi all’interno dell’Iran” insiste Graham “non solo come rappresaglia per l’uccisione delle nostre forze, ma come deterrente contro future aggressioni”. E Lindsey Graham non è certo l’unico assetato di sangue: anche dal cuore dell’establishment clintoniano arrivano segnali di insofferenza: “Dovremo riflettere di più su ciò che facciamo affinché gli iraniani capiscano che qui c’è un rischio, e non è un rischio che loro vogliono correre” avrebbe affermato l’ex inviato della Casa Bianca per il Medio Oriente ai tempi dell’amministrazione Clinton Dennis Ross; “se il carattere della nostra risposta rimane lo stesso adottato fino ad ora” conclude “il messaggio è che possono continuare così e non gli costerà nulla”.
La tesi dei suprematisti di entrambi gli schieramenti politici è sostanzialmente sempre la stessa: gli USA, dall’alto della loro incontrastata superiorità tecnologica e militare, potrebbero facilmente chiudere la partita, ma sono troppo buoni per farlo. Potrebbe non essere così semplice: secondo Simplicius, l’ipotesi di un nuovo intervento sul campo, infatti – ammesso e non concesso abbia senso – “richiederebbe come minimo un anno abbondante di preparazione”; in Iraq infatti, ricorda, ci sono voluti oltre 6 mesi “solo per trasportare materiali e risorse nella regione, allestirli, ecc.” “ma l’Iran” continua “non permetterebbe tutto questo, perché ha sistemi balistici moderni molto più sofisticati di qualsiasi cosa avesse l’Iraq, il che significa che le grandi concentrazioni di truppe e le aree di sosta di armature e materiali potrebbero essere colpite e spazzate via molto prima dell’ora zero”. “L’unica cosa che potrebbero tentare, al limite” continua Simplicius “è una campagna aerea di lunga durata. Ma scalfire anche solo lontanamente le capacità dell’Iran richiederebbe una vasta campagna della durata di almeno 6-12 mesi e probabilmente molto di più. Un periodo durante il quale l’Iran chiuderebbe tutti i principali punti di strozzatura marittima ed economica della regione, mandando in crash l’economia globale”; “Se pensate che il fatto che alcune navi oggi vengano colpite nel Mar Rosso sia un male” conclude Simplicius “aspettate di vedere le forze iraniane regolari, invece che gli Houthi, colpire tutto ciò che vedete: non sarà carino”. Spinta dai mal di pancia sempre più diffusi nell’intero arco costituzionale USA – ma impossibilitata a perseguire una qualsiasi soluzione finale – l’amministrazione Biden quindi, con ogni probabilità, farà di nuovo quello a cui ci ha abituato da un paio di anni a questa parte: aumenterà un pochino il livello del conflitto causando un po’ di distruzione in più senza, sostanzialmente, ottenere una seganiente.

John Raine

“Gli Stati Uniti” ha dichiarato all’Economist l’ex diplomatico britannico John Raine, “cercheranno di trovare una risposta che sia proporzionata e non implichi un’escalation, ma che allo stesso tempo sia anche efficace come deterrente”; peccato però che” continua Raine “nelle attuali condizioni della regione e con l’attuale schiera di attori ostili attivi, si tratti di un compito estremamente arduo. E almeno su uno di questi criteri dovrà cedere”. Per uscire da questo collo di bottiglia ecco allora che i pochi consiglieri USA che non sono cascati dal seggiolone da bambini hanno ricominciato a porre in varie forme la domanda delle domande: ma perché mai gli USA non prendono atto della realtà e non se ne vanno finalmente dal Medio Oriente? “Dovremo chiederci” ha affermato, ad esempio, l’ex ufficiale dei Marines Gil Barndollar “se vale davvero ancora la pena la presenza delle truppe statunitensi in Iraq e Siria”. Giovedì scorso intanto, ricorda il sito Analisi difesa, “Il ministero degli esteri iracheno ha reso noto che è stato concordato con gli USA di formulare un calendario che specifichi la durata della presenza della coalizione internazionale contro l’ISIS in Iraq, sottolineando che l’accordo prevede l’inizio della graduale riduzione di tali forze”; a sua volta poi, continua Analisi difesa, “Il ritiro delle forze americane in Iraq renderebbe inoltre logisticamente impossibile sostenere le truppe schierate nelle basi situate nella Siria orientale”. Il ritiro totale delle truppe dalla Siria d’altronde – dove, ricordiamo, gli USA sono presenti come vera e propria forza di occupazione senza uno straccio di legittimità – era già stato ventilato dall’amministrazione Trump; all’epoca però, ricorda sempre Analisi difesa, “il Pentagono convinse la Casa Bianca a mantenere la presenza di truppe a sostegno delle milizie curde situate nei pressi di alcune basi russe con l’obiettivo di impedire a Damasco di riprendere il controllo dei pozzi petroliferi dell’est”. Ora che entriamo nel bel mezzo della contesa presidenziale, però, la questione torna a fare capolino; un bel rompicapo perché, nel frattempo, il ruolo della Russia nell’area sembra consolidarsi continuamente: l’ultima novità, ricorda ancora Analisi difesa, è “la recente decisione di Mosca di impiegare i propri aerei schierati in Siria alla fine del 2015 nella base di Hmeymin, per sorvolare l’area di confine con Israele nel Golan”, una scelta – continua Analisi difesa – “che sembra indicare la volontà di Mosca di porsi come garante di Damasco anche nei confronti di Israele, che nel frattempo continua a colpire in territorio siriano milizie e obiettivi legati all’Iran”. In questo contesto, sottolinea ancora Analisi difesa, “Il ritiro statunitense dalla Siria costituirebbe quindi una grande vittoria per la Russia, l’Iran e per il governo siriano di Bashar Assad”, un’alleanza che continua a consolidarsi e a espandersi: come riporta John Helmer, infatti, giusto la settimana scorsa “in tutta Mosca, delegazioni insolitamente numerose di funzionari del consiglio di sicurezza russo, guidate da Nikolai Petrushev e Ali-Akbar Aahmadian, rappresentante speciale presidenziale e segretario del Consiglio di sicurezza nazionale iraniano, si sono incontrate per discutere un ordine del giorno dettagliato che prevede un’ampia cooperazione in materia di sicurezza russo – iraniana e l’attuazione pratica degli accordi raggiunti al più alto livello”. Il negoziato avrebbe dato il via alla firma definitiva di un nuovo accordo ventennale tra Russia e Iran che, stando a quanto riportato da Simon Watkins su Oilprice, “rafforza esponenzialmente il legame tra i due paesi, a partire proprio dalla difesa e dalle politiche energetiche”; “Il nuovo accordo” sottolinea Watkins “dà alla Russia il primo diritto di estrazione nella sezione iraniana del Mar Caspio, compreso il giacimento potenzialmente enorme di Chalous” che, secondo le stime più recenti, ammonterebbe alla cifra spaventosa di 250 miliardi di metri cubi di gas: e come sempre, le politiche energetiche vanno a braccetto con la difesa, dove il nuovo accordo rafforzerebbe enormemente la collaborazione sul fronte della guerra elettronica al quale si va ad aggiungere la questione dei missili, con nuovi missili destinati ad essere inviati in Iran dalla Russia. “Il personale selezionato del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica” scrive Watkins “sarà addestrato sugli ultimi aggiornamenti russi di diversi missili a corto e lungo raggio: dai Kinzhal, all’Iskander, prima che inizi il piano per fabbricarli su licenza in Iran, con l’obiettivo di far sì che il 30% di essi rimanga in Iran, mentre il resto venga rispedito in Russia”; “questo” sottolinea Watkins “significa che il nuovo accordo ventennale tra Iran e Russia cambierà il panorama del Medio Oriente, dell’Europa meridionale e dell’Asia poiché l’Iran avrà una portata militare molto estesa che gli darà molta più influenza. E questo significa che i paesi di quest’area cominceranno inevitabilmente a realizzare che continuare a fare affidamento sugli Stati Uniti per la loro protezione è un’opzione molto più precaria di quanto non fosse prima”.

Mohammed Abdelsalam – Mikhail Bogdanov

Nel frattempo, giovedì sera a Mosca a incontrarsi erano stati il ministro degli esteri russo Mikhail Bogdanov e una delegazione di Ansar Allah capitanata da Mohammed Abdelsalam: “Particolare attenzione” recita il comunicato rilasciato alla fine dell’incontro dallo stesso Bogdanov “è stata prestata allo sviluppo dei tragici eventi nella zona del conflitto israelo – palestinese, così come all’aggravamento della situazione nel Mar Rosso. In questo contesto, sono stati fortemente condannati gli attacchi missilistici e bombe contro lo Yemen intrapresi dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, che sono in grado di destabilizzare la situazione su scala regionale”. “La dimostrazione di sostegno russo all’Asse della Resistenza contro Israele e gli Stati Uniti” commenta Helmer “non ha precedenti. Gli incontri del Ministero degli Esteri e del Consiglio di Sicurezza confermano che ora esiste una nuova definizione di terrorismo nella strategia di guerra russa, in cui vi è sostegno sia pubblico che segreto ad Hamas, agli Houthi e ad altri gruppi in Libano e Iraq che lottano per la liberazione nazionale contro Israele e Stati Uniti”.
La lunga era della finta pax americana è ormai un antico ricordo: forse è arrivato il momento che gli USA prendano atto di quanto rapidamente, drasticamente e irreversibilmente è venuta meno la loro capacità di determinare a proprio piacimento gli equilibri geopolitici dell’intero pianeta e si concentrino magari un po’ di più su casa loro prima che, oltre a perdere l’Ucraina e il Medio Oriente, non si ritrovino a perdere pure il Texas. Ma sollazzarsi alla vista del vecchio che muore potrebbe non essere sufficiente: dobbiamo continuare anche a fare tutto il possibile perché finalmente nasca il nuovo e per combattere tutti i fenomeni morbosi che questa lunga e dolorosa fase di transizione genera necessariamente. Per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che stia dalla parte della pace e degli interessi concreti del 99%, dallo Yemen alla periferia di Houston e, soprattutto, a casa nostra. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Bill Clinton

Delegazione arabo-islamica in Cina e vertice straordinario BRICS su Gaza: cosa sta succedendo?

All’inizio di questa settimana è arrivata a Pechino una delegazione di paesi arabo-islamici, che comprende, tra gli altri, i ministri degli esteri dell’Arabia Saudita, della Giordania, Egitto, Indonesia, Autorità Nazionale Palestinese e il segretario generale dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica. Al centro dei colloqui la guerra tra Israele e Gaza, e per la delegazione è l’inizio di un tour di mediazione internazionale che dovrebbe riguardare tutti i cinque paesi del consiglio di sicurezza delle nazioni unite, e la prima tappa è stata la Cina. Questo è accaduto lunedì, mentre martedì si è tenuta la riunione straordinaria dei paesi BRICS con al centro la questione israelo-palestinese. Ma come si sta evolvendo la posizione cinese in riferimento al conflitto? Ne parliamo in questo video!

Il genocidio di Gaza: se per risolvere il rebus la propaganda non basta più

“BREAKING: L’aeronautica israeliana ha colpito una base terroristica di Hamas dentro un ospedale a Gaza”: a scriverlo su Twitter è Hananya Naftali, giovane influencer israeliano diventato ultra-popolare a suon di boutade islamofobe e suprematiste e che da poco è entrato ufficialmente a far parte del team digitale preposto alla propaganda online del governo più reazionario della storia del paese. Pochi minuti prima, una gigantesca esplosione aveva letteralmente raso al suolo l’ospedale Al-Ahli Arab di Gaza. Non era la prima volta: come ha rivelato alla BBC il prete della diocesi anglicana proprietaria dell’ospedale, infatti, “sabato scorso un missile aveva già colpito l’ospedale, causando gravi danni alla struttura e ferendo 4 persone”. Il prete ha anche affermato che, per quanto ne sapeva lui, si trattava ovviamente di un missile israeliano: “era un avvertimento”, ha dichiarato, “volevano fosse chiaro che non si trattava di un posto sicuro”. Il timore delle forze armate israeliane, non privo di fondamento, è che Hamas utilizzi in modo spregiudicato luoghi come scuole e ospedali per mettere al riparo uomini e attrezzature. Ovviamente escluderlo è impossibile; in tutte le guerre asimmetriche,. l’utilizzo spregiudicato degli scudi umani è spesso una componente essenziale, esattamente come facevano i lettori di Kant dei battaglioni Azov durante la battaglia di Mariupol. Colpire questi bersagli, per quanto cinico e spregiudicato possa apparire, non è sadismo ingiustificato, ma serve a mettere in chiaro che non ci sarà scudo umano in grado di ostacolare la forza distruttrice della vendetta sionista.
D’altronde è una storia antica: durante i bombardamenti del 2014, ad esempio, vennero rase al suolo numerose scuole dell’Agenzia per i rifugiati palestinesi delle Nazioni Unite che venivano utilizzate come rifugio dai civili. Le vittime furono in tutto 44 e oltre 200 i feriti; le indagini successive rivelarono che effettivamente 3 delle 7 strutture rase al suolo erano state utilizzate come deposito di armi da parte delle milizie della resistenza. Negli altri 4 casi, invece, si erano sbagliati e avevano bombardato civili inermi senza nessunissimo motivo. Insomma, in questo contesto qualche decina di vittime innocenti non sarà particolarmente educato, ma da parte di Israele non viene considerato comunque niente di particolare di cui vergognarsi, tanto comunque la verità – se mai si saprà – arriverà mesi se non anni dopo e l’imbarazzo per l’ennesima carneficina degli israeliani avrà già bell’e che lasciato lo spazio all’ammirazione per i bellissimi pride e il rispetto per le minoranze sessuali.
Ma a questo giro però qualcosa deve essere andato storto; dopo poco, infatti, Naftali – il genocida mattacchione – decide improvvisamente di cancellare il suo tweet e la rivendicazione di Israele di un atto di guerra certo feroce, ma indispensabile, sparisce. Il punto è che l’ospedale di Al-Ahli è un ospedale piccolino (poco più di 80 posti letto); quante vittime vorrai che faccia mai un bel razzetto… 50, 60? Rispetto agli oltre 1000 bambini che sono stati trucidati in questa settimana, dettagli. Purtroppo, però, a questo giro i calcoli non tornano: dentro il piccolo ospedale infatti si erano rifugiati in oltre 1000 e il bilancio è disastroso. Il grosso dei resoconti parla di almeno 500 vittime; secondo l’organizzazione umanitaria MedGlobal è “il peggior attacco a una struttura sanitaria del 21esimo secolo”. Giustificarlo con la possibile presenza di qualche razzo Qassam, potrebbe risultare un po’ difficile, ed ecco allora che magicamente il copione cambia completamente. Al posto del vecchio tweet, Naftali pubblica questo

“La misteriosa esplosione a Gaza” scrive. “Hamas incolpa Israele per questo” e invece, procede arrampicandosi, “credo che si tratti di un razzo fallito che ha colpito l’ospedale o di qualcosa che è stato fatto apposta per ottenere il sostegno internazionale”. Da lì in poi la linea della propaganda sarà quella: l’efficiente missile israeliano che aveva sgominato l’ennesima base nascosta di Hamas, si trasformerà magicamente in una false flag architettata dagli untermensch, dai subumani. D’altronde avete visto tutti di cosa sono capaci: “tutto il mondo ha visto Hamas tagliare teste di bambini” ha affermato in un’intervista su Skynews l’ambasciatrice israeliana nel Regno Unito. Ma che davvero? Cioè, gli avete visti tutti e a me non mi avete detto niente? Vatti a fidare. D’altronde, forse, non è una fonte proprio affidabilissima: sempre nella stessa intervista, infatti, ha dichiarato che “a Gaza non c’è nessuna crisi umanitaria”.
Chi di sicuro aveva detto di averli visti di persona personalmente i bimbi decapitati comunque era stato Joe Biden che poi aveva costretto a una smentita addirittura il suo stesso staff. E a questo giro ci risiamo; costretto a trovare una giustificazione ragionevole al fatto di aver deciso di portare la sua solidarietà a un regime terrorista poche ore dopo averlo visto commettere un atto genocida di dimensioni epiche, da Tel Aviv – più rimbambiden che mai – ecco che gioca di nuovo la carta della post-verità. “In base a quello che ho visto, è stato fatto dall’altro team, non da voi” ha dichiarato a un compagno Netanyahu evidentemente compiaciuto. Che poi io, ormai, mi son fatto questa idea: che zio Joe sia rimbambiden secondo me è una messa in scena. Fa finta, così la può sparare grossa quanto gli pare, e al limite poi con una piccola smentita si aggiusta tutto.
E’ un po’ la strategia che ha deciso di adottare anche Naftali.

“Oggi”, ha scritto in un tweet, “ho condiviso un rapporto pubblicato su @reuters sull’attentato all’ospedale di Gaza in cui si affermava falsamente che Israele aveva colpito l’ospedale. Ho erroneamente condiviso queste informazioni in un post cancellato in cui facevo riferimento all’uso di routine degli ospedali da parte di Hamas per immagazzinare depositi di armi e condurre attività terroristiche. Mi scuso per questo errore. Dato che l’IDF non bombarda gli ospedali, ho pensato che Israele stesse prendendo di mira una delle basi di Hamas a Gaza”. Geniale! L’IDF non bombarda gli ospedali – dice – a parte quando li bombarda, tipo 94 volte dall’inizio di questo conflitto, e in tal caso però fa bene perché potrebbero nascondere armi di Hamas, anche quando non le nascondono. Ma sopratutto: cioè, te fai parte del team digitale per la propaganda online di un governo che in quanto a propaganda non teme confronti al mondo, e su una cosa così delicata ti basi su un articolo a cazzo della Reuters, che tra l’altro si basa sulle dichiarazioni di funzionari di Hamas? Quello di Naftali non è stato l’unico epic fail della blasonatissima propaganda israeliana; per sostenere la pista del razzo della contraerea palestinese fuori rotta, l’account Twitter ufficiale dello Stato israeliano martedì sera infatti pubblica questo post: “Secondo informazioni di intelligence provenienti da diverse fonti in nostro possesso”, scrivono, “l’organizzazione terroristica della Jihad islamica è responsabile della fallita sparatoria che ha colpito l’ospedale”. A prova di questa tesi allegano un video dove si vede la contraerea di Gaza in azione proprio in quell’area, ma gli è sfuggito un piccolo dettaglio: il video è stato registrato 40 minuti dopo il massacro. Soluzione? Semplice: si cancella il video, ma rimane il testo. Tanto ai sostenitori del genocidio gli basta. Ed ecco infatti che, subito dopo, arriva la nostra Ursulona a metterci il suo carico da 90: a “causare immense sofferenze al popolo palestinese” – afferma con sicurezza Ursolona 7cervelli – è stato “il terrorismo di Hamas”.
Se, per risolvere il rebus, la propaganda non basta più e la prova provata di chi fosse in definitiva il missile che ha sterminato oltre 500 civili inermi martedì sera probabilmente non ce l’avremo mai, di chi è la responsabilità morale – invece – lo sappiamo benissimo. Lunedì scorso, infatti, la Russia aveva presentato al consiglio di sicurezza dell’ONU una risoluzione per imporre immediatamente il cessate il fuoco; i rappresentanti dell’occidente globale l’hanno respinta in blocco e a Tel Aviv hanno brindato. Era il semaforo verde: qualunque azione decidiamo di intraprendere per portare a termine il genocidio, il sostegno degli alleati non si discute. Il giorno dopo, ecco che la pioggia di bombe cade più fitta che mai, tanto se la situazione poi sfugge di mano, la propaganda una toppa sicuro la trova.
Sterminare e terrorizzare il maggior numero possibile di civili non è un atto di puro sadismo: fa parte di una precisa strategia militare che, tanto per iniziare, prevede che in tutta la parte nord della striscia non rimanga sostanzialmente nessun civile. Sgomberare completamente il terreno attraverso questa democratica pulizia etnica è indispensabile perché, prima di entrare via terra, è necessario radere Gaza completamente al suolo. “Il concetto”, ricorda Seymour Hersh in un lungo articolo sul suo profilo Substack, “risale ai primi anni della guerra del Vietnam in America, quando l’amministrazione del presidente John F. Kennedy autorizzò il Piano Strategico Amleto che prevedeva il trasferimento forzato dei civili vietnamiti in aree ritenute essere controllate dai vietnamiti del sud. Le loro terre deserte furono poi dichiarate zone di fuoco libero dove chiunque fosse rimasto avrebbe potuto essere preso di mira dalle truppe americane”. La differenza, a questo giro, è che radere tutto al suolo potrebbe non bastare; bisognerà andare più giù, molto più giù.
Uno dei punti di forza principali della resistenza palestinese a Gaza, infatti, è lo sterminato reticolo di tunnel e magazzini sotterranei costruiti negli ultimi anni, “la metropolitana di Gaza”, come è stata ribattezzata. Un “campo di battaglia chiave per Israele” scrive l’Economist,che sottolinea: “La guerra sotterranea è terrificante, claustrofobica e lenta. Individuare, ripulire e far crollare diverse centinaia di chilometri di cunicoli sotterranei”, continua l’Economist, “sarà un lavoro di anni, non di settimane o mesi”. A meno, appunto, che non si faccia prima dall’alto: come scrive Seymour Hersh, una volta rasa al suolo Gaza Nord, “Israele” infatti “inizierà a sganciare bombe da 5.000 libbre di fabbricazione americana note come “bunker busters” o JDAM, nelle aree rase al suolo dove è noto che i combattenti di Hamas vivono e fabbricano i loro missili e altre armi sottoterra. Gli attuali pianificatori di guerra israeliani sono convinti, mi ha dichiarato un insider, che la versione aggiornata dei JDAM con testate più grandi penetrerebbe abbastanza in profondità nel sottosuolo prima di esplodere – da trenta a cinquanta metri – con l’esplosione e la conseguente onda sonora in grado di uccidere tutti entro mezzo miglio”. A quel punto, continua Hersh, “nello scenario dei pianificatori, la fanteria israeliana sarà assegnata alle operazioni di rastrellamento: ricercare e uccidere quei combattenti e lavoratori di Hamas che sono riusciti a sopravvivere agli attacchi della JDAM”.
In realtà, però, potrebbe essere più semplice da dire che da fare. Primo ostacolo: nonostante vengano impiegate pratiche genocide per imporla, la pulizia etnica del nord di Gaza potrebbe non essere così semplice da portare a termine; a pesare, il fatto che persone che sono state rinchiuse per 20 anni in gabbia tendenzialmente pensano di non avere poi tantissimo da perdere, e consapevoli del fatto che, una volta sfollate, con ogni probabilità a casa non ci potranno tornare più, sembrano quasi più propense ad andare incontro alla morte che non a soddisfare i desiderata di Tel Aviv. Ma, sostiene Hersh, c’è anche dell’altro: una fonte interna al governo israeliano, infatti, avrebbe confidato ad Hersh che Israele sta cercando di convincere il Qatar a finanziare una tendopoli per i rifugiati subito oltre il valico di Rafah. Nello specifico, il vecchio sito di Yamit, colonizzato da Israele dopo la guerra dei 6 giorni del 1967 e poi evacuato e raso al suolo dagli israeliani stessi nel 1982, subito prima che il Sinai venisse restituito all’Egitto. Ma come potrebbero mai riuscire a convincere l’Egitto ad accollarsi un milione e più di profughi palestinesi? “Teniamo gli egiziani per le palle”, avrebbe dichiarato ad Hersh la sua fonte. “Si riferiva” – specifica Hersh – “alle recenti incriminazioni del senatore democratico Bob Menendez del New Jersey e di sua moglie, accusati di corruzione in seguito a vari rapporti d’affari con alti funzionari egiziani, e alla presunta trasmissione di informazioni su persone in servizio presso l’ambasciata americana al Cairo”.
Per convincere le persone ad evacuare, comunque, la strategia più convincente rimane quella di bombardarli ovunque senza pietà, come non ci fosse un domani. Cosa che Israele sicuramente sta facendo con un certo impegno; però anche qui, forse, c’è un limite. Qualche prima timida avvisaglia si è avuta proprio ieri, con le reazioni al massacro dell’ospedale: in tutto il mondo arabo la gente è scesa per strada a decine di migliaia, costringendo i paesi arabi a una rara dimostrazione di unità. Ad Amman le proteste hanno preso di mira l’ambasciata israeliana e hanno imposto al re Abdullah II di cancellare l’incontro previsto con Biden. A Beirut, visto che l’ambasciata israeliana non c’è, le proteste si sono indirizzate contro quella francese prima e, sopratutto, il consolato statunitense poi, che è stata dato alle fiamme. Anche ad Istanbul i manifestanti hanno preso di mira l’ambasciata USA e a Ramallah, invece, l’oggetto delle proteste è stata direttamente l’autorità palestinese, con le forze di polizia accusate di essere al soldo delle forze di occupazione che sono state attaccate con le care vecchie sassaiole e qualche botto non meglio identificato. Insomma: la carneficina che serve a Israele per sgomberare il campo è la stessa che sta riaccendendo la fiaccola della solidarietà filo-palestinese in tutta la regione, nonostante la cautela dei vari governi che, alla causa palestinese, hanno sempre preferito accordi commerciali generosi con Washington. Il ruolo diplomatico che stanno provando a svolgere gli USA sembrerebbe in buona parte consistere proprio in questo: garantire agli interlocutori regionali che, se collaborano, riuscirà a tenere a freno la ferocia del regime sionista e quindi evitare altri scoppi d’ira delle popolazioni che metterebbero a repentaglio la stabilità dei governi stessi. Peccato che per ora, però, la strategia di Biden non stia dando grandi risultati e la sete di sangue del governo più reazionario della storia di Israele non sembra conoscere mediazioni.
Ma i problemi non finiscono qua perché, nella remota ipotesi che in qualche modo la campagna aerea alla fine permetta di portare a termine la pulizia etnica senza che, nel frattempo, qualche vicino arabo perda definitivamente la pazienza, anche la fase due – quella della distruzione dall’alto della “metropolitana di Gaza” – potrebbe non essere esattamente una passeggiata. “Sembra quasi”, scrive sempre Hersh, “che Hamas non stia aspettando altro. D’altronde l’operazione diluvio di Al-Aqsa è stata pianificata nei minimi dettagli, e Hamas sapeva esattamente quale sarebbe stata la reazione israeliana. Il problema” sottolinea Hersh “è che le bombe anti-bunker israeliane potrebbero non essere in grado di penetrate abbastanza in profondità. Secondo la mia fonte infatti Hamas starebbe operando in tunnel costruiti a 60 metri di profondità che sarebbero in grado di resistere agli attacchi dei JDAM”. Per quanto devastante, quindi, la campagna aerea potrebbe non essere in grado di danneggiare Hamas quanto necessario, il che significa che – per quanto preparata nei dettagli – l’invasione via terra comporterebbe comunque da parte delle forze armate israeliane uno sforzo notevole di uomini e di mezzi, che se gli impieghi tutti da una parte, poi ce n’è un’altra che rimane scoperta. Sicuramente la Cisgiordania.
Ma – quel che sarebbe ancora più devastante – il confine a nord con il Libano dove, secondo alcuni, le milizie di Hezbollah non starebbero aspettando altro. Una bella rogna, come ricorda Hasan Illaik su The Cradle; infatti “Hezbollah potrebbe contare su circa 100 mila uomini” e “gli analisti regionali e occidentali stimano che abbia un arsenale di oltre 130 mila missili. Per la maggior parte sarebbero non guidati, ma il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, avrebbe dichiarato in un intervista del febbraio del 2022 che Hezbollah avrebbe la capacità di convertirne una buona parte in missili di precisione”. E potrebbero non essere da soli: nonostante il bordello che era scoppiato a Gaza, infatti, nell’ultima settimana Israele s’è preso la briga di bombardare per ben due volte l’aeroporto di Aleppo, in Siria. L’obiettivo sarebbero le milizie filosciite legate a doppio filo a Teheran, che starebbero spostando uomini e mezzi in quantità dalle regioni più orientali. Insomma: se l’obiettivo di Israele, come dichiarato più volte, è quello di annientare totalmente Hamas, ogni tentativo di evitare di allargare il conflitto potrebbe alla fine risultare velleitario. Un contributo importante da questo punto di vista è arrivato dallo zio Sam, che ha pensato bene di mandare subito ben due portaerei e anche di rinforzare la flotta di caccia presenti nelle sue numerose basi nell’area; lo scopo, appunto, è quello di funzionare da deterrenti nei confronti di attori terzi che si fossero messi in testa strane idee. Da questo punto di vista, un incentivo diretto nei confronti di Israele a perpetrare il genocidio senza doversi troppo curare delle conseguenze, perché alle conseguenze ci penserebbero – appunto – gli USA, se ci riescono: come titola il Financial Times, infatti, “La guerra tra Israele e Hamas mette alla prova il settore della difesa statunitense già messo a dura prova dal conflitto in Ucraina”. Secondo il Times, “I produttori di armi statunitensi si stanno preparando ad accelerare le forniture di armi a Israele in un momento in cui sono già sotto pressione per armare l’Ucraina e ricostituire le scorte esaurite del Pentagono. Una sfida” sottolinea il Times “che secondo gli analisti metterà a dura prova una base industriale della difesa già estesa”. Al momento, in realtà, si tratta principalmente di fornire “bombe di piccolo diametro, munizioni di precisione aria-terra e proiettili per carri armati calibro 120 millimetri” e cioè roba diversa da quella spedita in Ucraina, “ma se il conflitto dovesse estendersi” sottolinea il Times “le forze di difesa israeliane potrebbero aver bisogno dello stesso tipo di sistemi missilistici guidati che attualmente scarseggiano in Ucraina, compresi droni armati e proiettili di artiglieria da 155 mm”.
Biden ostenta sicurezza: “Siamo gli Stati Uniti d’America, per l’amor di Dio” ha dichiarato enfaticamente domenica scorsa durante una lunga intervista. “La nazione più potente della storia – non del mondo, nella storia del mondo. Possiamo occuparci di entrambi questi aspetti e mantenere comunque la nostra difesa internazionale complessiva”. Per tenere fede a questa volontà di potenza, Biden sarebbe in procinto di presentare al Congresso l’autorizzazione per un pacchetto gigantesco di aiuti che tenga insieme il sostegno all’Ucraina, quello ad Israele e anche una montagna di soldi per rafforzare la sicurezza al confine col Messico, come richiesto dai Repubblicani. Peccato che al momento, dopo la defenestrazione dello speaker McCarthy, l’attività del Congresso sia sospesa, e per ora non siano stati neanche in grado di fare il nome del potenziale successore. Probabilmente, alla fine, una quadra magari la trovano pure; quando si tratta di difendere gli interessi imperiali la trovano sempre. Solo che, grazie alla dittatura globale del dollaro, la fanno pagare sempre agli altri e a questo giro gli altri potrebbero essersi scocciati; mentre Biden, infatti, pagava il suo sostegno incondizionato al genocidio sionista con l’isolamento – almeno temporaneo – rispetto anche agli alleati arabi più storici, dall’altra parte del mondo, a Pechino, atterrava Putin per partecipare al summit che festeggia i dieci anni di vita della Belt and Road Initiative, da dove la nuova “partnership senza limiti” tra Russia e Cina lanciava al mondo un messaggio piuttosto chiaro: di fronte all’arroganza unilaterale del vecchio impero, è arrivata l’ora di non arretrare di un millimetro.
Il rebus del nuovo ordine globale per Washington e il nord globale è un vero rompicapo; l’unica cosa certa è che se sperano di risolverlo semplicemente a suon di propaganda stantia, buona solo per rafforzare l’autostima suprematista della piccola tribù dell’uomo occidentale, a questo giro il fallimento potrebbe essere inevitabile.
Contro la propaganda del nord globale che giustifica i genocidi e ci trascina nel baratro, abbiamo bisogno di un media che racconti il mondo per quel che è e non per quello che vorrebbero fosse un manipolo di suprematisti scollegati dalla realtà. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Benjamin Netanyahu








La controffensiva palestinese: come Hamas ha asfaltato il mito dell’invincibilità di Israele

Contessa sapesse, gli schiavi hanno osato addivittuva vibellavsi
Questa, in estrema sintesi, la reazione dei media occidentali ai fatti di Gaza di sabato scorso; di tutti, all’unisono, a partire da quelli che negli ultimi due anni hanno provato a infinocchiare la maggioranza silenziosa pacifista e democratica sollevando qua e là qualche critica alla guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina.

Gli amici della sinistra distruggono Israele”, titolava ieri ad esempio la Verità; “ci siamo svenati per Kiev, ora che faremo con l’unica democrazia dell’area?”

La realtà ovviamente è che destra e sinistra, che ormai sono solo etichette che svolgono una funzione di puro marketing per spartirsi il mercato elettorale, fanno finta di dividersi sulle cazzate, ma tutte insieme appassionatamente sostengono senza se e senza ma un regime di apartheid fondato sull’occupazione militare e la discriminazione su base etnica, e lo fanno a partire dall’assunto condiviso che la comunità umana è divisa in due categorie: gli uomini liberi, e i sub-umani, gli unter-mensch, come li definivano i nazisti. La differenza, rispetto ad allora, consiste nella definizione di chi appartiene all’una o all’altra categoria e nella retorica ideologica con la quale si cerca di legittimare ogni forma di violenza e sopruso: dalla pagliacciata antiscientifica della teoria della razza, alla pagliacciata della retorica democratica.

Da questo punto di vista il suprematismo bipartisan contemporaneo altro non è che una nuova declinazione del nazifascismo che, nel frattempo, ha preso qualche lezione di galateo e che ha incluso tra le sue fila una nuova piccola minoranza che prima era stata esclusa.

Son progressi.

Anche nelle modalità attraverso le quali si esercita questo dominio violento degli umani sui subumani non si possono non registrare alcuni importanti progressi: ai vecchi campi di concentramento, organizzati scientificamente per lo sterminio senza se e senza ma, si è sostituita una forma moderna di campi di concentramento democratici e progressisti, dove i reclusi sono lasciati liberi anche di sopravvivere. Se ci riescono: in un’area che è circa un quarto di quella del solo comune di Roma, nella striscia di Gaza oltre 3 milioni di persone vivono recluse per la stragrande maggioranza con meno di due dollari al giorno di reddito. La mistificazione della realtà però in queste ore ha raggiunto un nuovo livello: “Ai residenti di Gaza dico”, ha scritto Netanyahu su twitter, “andatevene adesso, perché opereremo con la forza ovunque”.

Eh, è ‘na parola; come in ogni buon campo di concentramento che si rispetti, infatti, i residenti di Gaza sono a tutti gli effetti prigionieri, e “andarsene”, molto banalmente, non gli è concesso.

Come denuncia da mesi Save the children, manco per andarsi a curare.

E non dico in Israele: manco negli altri territori palestinesi, manco se sono bambini, manco se rischiano la vita. “Nel solo mese di maggio”, si legge in un comunicato della pericolosa organizzazione bolscevica Save the children pubblicato lo scorso settembre, “quasi 100 richieste per bambini ammalati presentate alle autorità israeliane sono state respinte o lasciate senza risposta”. Tre sono morti solo quel mese. “Tra questi, un bambino di 19 mesi con un difetto cardiaco congenito e un ragazzo di 16 anni affetto da leucemia”.

La Verità, Repubblica e Pina Picierno del PD però c’avevano judo e si sono dimenticati di denunciarlo

Adesso, si rifanno con gli interessi: “L’Europa è con Israele e il suo popolo”, ha affermato la vicepresidente piddina del parlamento europeo. “La sua lezione di libertà e progresso”, ha sottolineato con enfasi, “non sarà spenta dalla violenza e dalla barbarie”.

L’apartheid come lezione di libertà e progresso: dopo i neonazisti russi spacciati come partigiani, i nazisti vecchio stile ucraini acclamati come eroi nei parlamenti democratici e l’idea che non bisognava per forza essere nazisti per combattere contro l’Armata rossa durante la seconda guerra mondiale, il capovolgimento totale della realtà ad opera dei sacerdoti di quest’era di post verità può dirsi completamente compiuto. Li lasceremo fare senza battere ciglio?

Lo stato di Israele è fondato su un regime di apartheid. Lo è sempre stato, ma prima lo sostenevamo in pochi, i pochi militanti antimperialisti nell’occidente del pensiero unico suprematista e ovviamente tutti i leader che l’apartheid l’avevano combattuto davvero a casa loro: da Nelson Mandela a Desmond Tutu. Per tutti gli altri, era un tabù.

Oggi, però, non più; dopo decenni di tentennamenti, a chiamare le cose con il loro nome da un paio di anni ci s’è messa pure un’organizzazione umanitaria mainstream come Amnesty International. “L’apartheid israeliano contro i palestinesi”, si intitola un famoso report del febbraio del 2022, “un sistema crudele di dominio, e un crimine contro l’umanità”.

Sempre in prima linea a fare da megafono alle denunce di abusi contro i diritti umani in giro per il mondo per giustificare tentativi di cambi di regimi a suon di bombe umanitarie e svolte reazionarie in ogni paese non perfettamente allineato all’agenda dell’impero USA, pidioti e criptofascisti di ogni genere, quando è uscito questo rapporto, erano curiosamente tutti assenti.

Poco male: anche fossero stati seduti buoni ai primi banchi, non lo avrebbero capito.

Quella che definiscono ossessivamente come “l’unica democrazia del Medio Oriente” infatti, in realtà, è sin dalle sue origini nient’altro che un progetto coloniale, come lo definiva esplicitamente Theodore Herzl stesso, il padre nobile del sionismo, e affonda le sue radici nella pulizia etnica di massa della Nakba nel 1948, che ancora oggi costringe circa 6 milioni di palestinesi a vivere in una miriade di miserabili campi profughi sparsi in tutta la regione.

Nella striscia di Gaza è un apartheid al cubo: più propriamente, infatti, si tratta del più grande carcere a cielo aperto del pianeta, come lo ha definito ormai quasi 15 anni fa lo stesso premier britannico David Cameron.

D’altronde, è una cosa abbastanza visibile: i confini terrestri di Gaza infatti sono interamente ricoperti da una doppia recinzione in filo spinato, con un’area cuscinetto nel mezzo totalmente presidiata da forze armate israeliane che, di tanto in tanto giusto per ammazzare un po’ il tempo, si dilettano nel tiro al bersaglio direttamente oltre il confine. Come quando – come dimostrato da un’indagine condotta da una commissione internazionale indipendente nominata dalle Nazioni Unite – nell’arco di tutto il 2018 presero di mira le proteste note col nome di grande marcia che si svolgevano settimanalmente proprio per chiedere la fine dell’assedio di Gaza: in tutto, ferirono oltre 6000 persone e ne uccisero 183, compresi 35 bambini.

E come sottolinea il sempre ottimo Ben Norton, essendo Gaza a tutti gli effetti una prigione a cielo aperto, “in base al diritto internazionale, hanno il diritto riconosciuto dalla legge alla resistenza armata”: il riferimento in particolare è una risoluzione dell’ONU del 1977 approvata da una schiacciante maggioranza dei paesi presenti che, proprio relativamente alla causa palestinese, riconosce esplicitamente “la legittimità della lotta popolare per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e dalla sottomissione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”.

La retorica suprematista dei sacerdoti del dominio dell’uomo libero sui subumani oggi non potrebbe apparire più ridicola e infondata. Come per l’Ucraina, pidioti e criptofascisti si accorgono di una guerra sempre e solo quando arriva. Sono gli uomini liberi a subire una sconfitta da parte dei subumani e, a questo giro, la sconfitta è stata eclatante, clamorosa.

Dotato dei servizi segreti più efficienti e spregiudicati del pianeta e di un apparato militare ultramoderno e ipersofisticato, adeguatamente addestrato in oltre settant’anni di feroce occupazione militare e di militarizzazione totale del territorio, l’invincibile gigante israeliano ha subìto una ferita difficilmente rimarginabile da parte degli ultimi tra gli ultimi. Se in Ucraina il suprematismo del nord globale è stato messo davanti alla sua impotenza di fronte alla determinazione di uno stato sovrano, considerato fino ad allora nient’altro che un pigmeo economico pronto a crollare su se stesso da un momento all’altro, in Israele ieri lo choc è stato di un ordine di grandezza superiore, tanto superiore quanto superiore era la sproporzione tra le forze in campo.

Mentre scriviamo questo pippone, il bilancio delle vittime israeliane supererebbe le 650 unità: non ci è possibile verificare le informazioni, ma secondo Ramallah News, mentre gli israeliani parlano di liberazione degli insediamenti conquistati da Hamas, in realtà le forze palestinesi continuerebbero ad avanzare e i territori ad est di Gaza sarebbero soltanto una delle linee del fronte.
Secondo quanto riportato da Colonelcassad, i palestinesi avrebbero bruciato un posto di blocco all’ingresso di Jenin, e in Cisgiordania molti temono possa esplodere finalmente la tanto paventata terza intifada di cui si parla ormai da tempo.
Secondo poi quanto riportato da Middle East Eye, i palestinesi con cittadinanza israeliana si starebbero preparando per respingere gli attacchi annunciati dai gruppi dell’estrema destra sionista.
A nord, al confine col Libano, si intensificano gli scontri con Hezbollah che, secondo quanto riportato da Al Jazeera, rivolgendosi ai ribelli palestinesi avrebbe dichiarato che “la nostra storia, le nostre armi e i nostri missili sono con voi”.
E le ripercussioni del conflitto sarebbero arrivate addirittura fino ad Alessandria di Egitto, dove un agente di polizia avrebbe aperto il fuoco contro due turisti israeliani, uccidendoli.

Il gabinetto politico-militare israeliano ha ufficialmente decretato lo stato di guerra per la prima volta dalla guerra dello Yom Kippur, della quale si celebra proprio in queste ore il cinquantesimo anniversario, e sono in corso evacuazioni sia nell’area che circonda Gaza che a nord, al confine con il Libano.

A confermare che, a questo giro, per il gigante israeliano potrebbe non trattarsi esattamente di una gita di piacere, ci sarebbero poi le dichiarazioni di Blinken, secondo il quale Israele avrebbe richiesto nuovi aiuti militari. Probabilmente quando leggerete questo articolo, sapremo già qualcosa di più su questo aspetto. Qualsiasi siano i dettagli però, un punto è chiaro: la resistenza di un gruppo di militanti che vivono in carcere da 15 anni ha costretto una delle principali potenze militari del pianeta a chiedere aiuto. Non so se è chiaro il concetto.

A complicare ulteriormente la faccenda, la questione degli ostaggi: il Guardian parla di oltre 100
e di qualche nome eccellente
. Un altro elemento inedito e un deterrente importante; abituati a combattere una guerra totalmente asimmetrica, gli israeliani non digeriscono molto facilmente qualche perdita tra le loro fila. L’esempio che salta subito alla mente è quello di Gilad Shalit: carrista israelo-francese, venne rapito da Hamas nel 2006 e 5 anni dopo, pur di ottenere il suo rilascio, il governo israeliano fu costretto a concedere la liberazione di addirittura 1000 prigionieri politici.

Insomma, a questo giro potrebbe non trattarsi semplicemente di un gesto disperato dall’esito scontato compiuto da avventurieri che non hanno niente da perdere, anche perché si inserisce in un contesto globale piuttosto incandescente, diciamo così, dove molto di quello che piace alla propaganda suprematista e che fino a ieri davamo per scontato, scontato comincia a non esserlo poi più di tanto.
Inquadrare dal punto di vista geopolitico quanto successo in questi due giorni al momento potrebbe rivelarsi un po’ ozioso e infondato; limitiamoci per ora quindi a sottolineare alcuni aspetti e a porci qualche domanda.

Il mio primo pensiero, ovviamente, è andato ai sauditi. A nostro modesto avviso, infatti, la riapertura dei canali diplomatici con l’Iran avvenuta sotto la sapiente mediazione cinese, e addirittura l’adesione a un organo multilaterale come i BRICS+, proprio fianco a fianco con l’Iran, è probabilmente il singolo evento geopolitico in assoluto più importante di questo intero anno, la cui portata, però, continua ad essere messa a dura prova dall’apertura che i sauditi sembrano aver fatto ad USA e Israele in direzione della loro adesione al famigerato accordo di Abramo. Che però appunto continua a faticare a concretizzarsi proprio a causa del nodo della questione palestinese.

Tweet del ministero esteri Saudita

Il mio primo pensiero è stato: e se l’obiettivo di Hamas fosse proprio impedire il concretizzarsi di questa fantomatica nuova distensione? Ovviamente la risposta non la sappiamo; questo però è il comunicato ufficiale del ministero degli esteri saudita a poche ore dall’inizio dell’operazione Diluvio di Al-Aqsa.
I sauditi parlano di “situazione inedita tra numerose fazioni palestinesi e le forze di occupazione israeliane”, quindi, da una parte numerose fazioni e dall’altra forze di occupazione.
Sempre i sauditi ricordano “i numerosi avvertimenti di pericolo di esplosione della situazione come risultato dell’occupazione, la negazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese e le sistematiche provocazioni contro i loro luoghi di culto”.
“Il reame”, conclude il comunicato, “rinnova l’appello alla Comunità Internazionale ad assumersi le sue responsabilità e ad attivare un processo di pace credibile che conduca alla soluzione dei due stati per raggiungere pace e sicurezza per tutta l’area e proteggere i civili”.
Nessuna condanna dell’azione di Hamas. Manco l’ombra. Non so se alla Casa Bianca l’abbiano presa proprio benissimo, diciamo.

L’altro aspetto è appunto la posizione degli USA e di questo strano annuncio sull’estensione degli aiuti militari perché che Israele ne abbia bisogno per combattere la guerriglia di Hamas, o anche di Hezbollah, sembra comunque piuttosto strano. E sopratutto: da dove se li tirerà fuori Biden i quattrini per finanziare un altro pacchetto di aiuti, quando giusto la settimana scorsa ha dovuto rinunciare a 6 miliardi di nuovi aiuti da inviare all’Ucraina?
Qualquadra non cosa, ma è decisamente troppo presto anche solo per speculare su cosa sia esattamente.
Proveremo a farlo in modo più fondato nei prossimi giorni perché è quello che un media indipendente può fare liberamente: osservare, riflettere, riportare.
A quelli a libro paga dell’imperialismo e delle oligarchie finanziarie, diciamo che gli risulta un po’ più complicato e saltano di puttanata suprematista in puttanata suprematista, senza soluzione di continuità, e senza temere contraddizioni e ribaltamenti della realtà.

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E chi non aderisce è Maurizio Belpietro.