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Operazione J.D. Vance: un’icona dell’America profonda al servizio della guerra e delle oligarchie

Il prossimo leader repubblicano: così David Graham martedì intitolava su The Atlantic il suo ritratto dell’uomo del momento, James David Vance, il volto iconico dell’America profonda che The Donald ha incoronato suo vice in piena zona Cesarini pochi minuti prima dell’inizio della grande convention repubblicana di Milwaukee. Una mossa a sorpresa che ha immediatamente incendiato gli animi delle opposte tifoserie che, tutto sommato, condividono un’idea di fondo: The Donald non è un presidente come gli altri; la sua eventuale elezione comporterà stravolgimenti profondi e la scelta di Vance come vice non fa che confermarlo, solo che una parte considera questa profonda trasformazione un pericolo esistenziale che rischia di mettere fine alla democrazia per come l’abbiamo conosciuta e l’altra, invece, la considera l’ultima opportunità che abbiamo per mettere fine alla dittatura del gender e dei minipony imposta dalle élite globaliste e dal deep state. Ovviamente – per quanto entrambe le tifoserie, in realtà, non siano del tutto prive di argomenti – si tratta, in soldoni, nella migliore delle ipotesi di un gigantesco equivoco; nella peggiore, di una gigantesca messa in scena. Al netto di alcune differenze tutto sommato piuttosto trascurabili, anche a questo giro, come in ogni elezione presidenziale americana, il popolo non sarà chiamato a scegliere tra opzioni realmente alternative, ma – molto più banalmente – a dare una semplice indicazione sul tipo di narrazione che, in questa fase specifica, ha più possibilità di distrarci dalle scelte drammatiche che vengono prese sulla nostra pelle dal partito unico della guerra e degli affari, attirando la nostra attenzione su una lunga serie di puttanate sostanzialmente ininfluenti; l’incoronazione di Vance a vice, allora, va letta principalmente da questo punto di vista: il colpo di scena di uno sceneggiatore talentuoso che sta scrivendo il copione della favoletta che proveranno a rifilarci mentre, sotto la superficie, continuano a portare avanti gli interessi strategici dell’imperialismo USA e delle oligarchie finanziarie che lo dominano. E a questo giro, bisogna ammetterlo, il copione è veramente appassionante e incredibilmente efficace, esattamente quello che serviva per provare a ridare uno slancio ideale a un paese che si trova ad affrontare sfide epocali in una condizione di frammentazione mai vista prima. Ma prima di addentrarci nei dettagli del grande romanzo popolare di James David Vance, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra battaglia contro gli algoritmi e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche, perché se loro, per diffondere le loro favolette, possono contare su Netflix, i guru della Silicon Valley e tutti gli altri mezzi di produzione del consenso, noi, per provare a riportare il dibattito sul piano della realtà, abbiamo soltanto il vostro sostegno.

James David Vance

C’era una volta il wishful thinking degli analfoliberali: interpretavano ogni segnale come la premessa del crollo della Russia sotto il peso delle sanzioni economiche e dell’eroica resistenza Ucraina e quello della Cina sotto il peso del suo sistema dirigista e distopico fondato su numeri fasulli e propaganda; nonostante la macchina propagandistica, giorno dopo giorno la realtà gli ha presentato il conto. Ovviamente, ancora oggi, gli analfoliberali e i loro potenti organi di disinformazione di massa continuano a bombardarci di minchiate totalmente infondate, ma la stragrande maggioranza della popolazione ormai ha imparato il giochino e alle loro vaccate, sostanzialmente, non abbocca più. Purtroppo però, non abbiamo fatto manco in tempo a festeggiare questa epocale disfatta di una forma di wishful thinking che eccone avanzare a passo spedito subito un’altra, possibilmente ancora più delirante e pericolosa: è la speranza che un palazzinaro multimiliardario, una sorta di Flavio Briatore on steroids imperialista e suprematista fino al midollo come Donald Trump, rappresenti un’alternativa concreta ai piani distopici delle oligarchie e del deep state impegnati in un’escalation bellica senza limiti a sostegno della lotta di classe dall’alto contro il basso e dal centro dell’impero contro il resto del mondo, una speranza che ultimamente rischiava di venire un po’ incrinata dal sostegno che The Donald, nelle ultime settimane, ha cominciato a raccogliere da pezzi consistenti delle stesse oligarchie – dal potentissimo fondatore di BlackStone Stephen Schwarzman agli odiatissimi venture capitalist della Silicon Valley, nonché dall’intero establishment neo-conservatore del Partito Repubblicano. Per rilanciare allora la narrazione del Trump antisistema avversato dalle élite c’era bisogno di un colpo di scena; anzi, di due: il primo è la manna dal cielo dell’attentato fallito di sabato scorso che, inevitabilmente, ha scatenato ogni tipo di teoria cospirazionista. Il secondo, appunto, è stata la nomina a vice di James David Vance.
Ma chi è James David Vance e perché la sua nomina è così importante dal punto di vista della narrazione trumpiana? Come sottolinea sempre David Graham su The Atlantic, “La rapida ascesa di J. D. Vance dall’oscurità alla nomina alla vicepresidenza è una di quelle storie che possono accadere soltanto negli USA, e che modellerà ciò che l’America è, nel bene e nel male, per le generazioni a venire”. La scelta della candidatura di Vance è stata immediatamente salutata, appunto, come la prova provata che Trump non ha rinunciato alla sua crociata anti-sistema per assecondare le élite che lo hanno prima sdoganato e poi riempito di quattrini: di origini più che umili, con una storia personale più che travagliata e solito a dichiarazioni fortemente anti-establishment, dalla politica economica a quella internazionale, Vance viene infatti spacciato come l’anima più genuinamente anti-sistema del MAGA, il movimento che si riconosce nello slogan del Make America Great Again.
Purtroppo, però, potrebbe essere un giudizio piuttosto avventato: Vance infatti diventa un personaggio pubblico di rilievo nel 2016 quando, appena 32enne, diventa un caso letterario nazionale grazie al suo Hillbilly Elegy – Memoria di una famiglia e di una cultura in crisi; si tratta di un’opera autobiografica dove, attraverso la travagliata storia della sua disastratissima famiglia, Vance compone un affresco spietato della classe lavoratrice bianca impoverita della Rust Belt che rappresenta uno degli zoccoli duri dell’affermazione del trumpismo. Nonostante si tratti di un testo che ha la profondità di un editoriale di Massimo Gramellini (o forse proprio per questo), il libro riceve immediatamente una quantità spropositata di recensioni entusiaste dal gotha dell’editoria conservatrice e diventa immediatamente un enorme caso letterario, ma probabilmente con finalità diametralmente opposte a quelle a cui state pensando: il ritratto che Vance fa del white-trash, infatti, è impietoso e superficiale; la sua storia è la storia di una famiglia che viene da un angolo remoto del Kentucky, nella catena montuosa degli Appalachi, e poi si trasferisce nella piccola cittadina di Middletown, in Ohio, nel cuore della Rust Belt. Qui il giovane e paffutello JD viene cresciuto insieme alla sorella dai nonni materni, mentre la madre passa da una relazione sconclusionata all’altra e, soprattutto, da una dipendenza all’altra; ma la descrizione impietosa del degrado, invece che spingere alla ricerca delle cause profonde, sfocia esclusivamente nel classico appello alle responsabilità individuali e alla necessità di darsi da fare e superare gli ostacoli a suon di determinazione per inseguire il sogno americano, che Vance cita innumerevoli volte lungo tutto il testo e che, alla fine, realizza: JD, infatti, rincorre la sua emancipazione prima arruolandosi nei Marines e poi conquistandosi faticosamente un posto nella scuola di legge di Yale. Ma attenzione: al contrario dei figli di papà che lo circondano da lì in poi, non si scorderà mai da dove viene; nonostante il giudizio moralistico sui parenti, tiene fede ai suoi obblighi nei confronti della famiglia, e, grazie al suo successo personale conquistato con così tanta dedizione, riesce a portare un po’ di sicurezza e di serenità anche in quel posto di merda di Middletown. Insomma: più che un working class hero, un mezzo mitomane.
La cosa interessante è che questa lettura prettamente moralistica e ultra-individualista dei problemi che affliggono il proletariato impoverito della Rust Belt, in realtà, viene utilizzata in quell’anno da Vance stesso per criticare proprio Trump e il suo movimento: all’apice del successo letterario e della prima campagna presidenziale di The Donald, sempre su The Atlantic Vance pubblica un articolo/manifesto che non lascia troppo spazio alle interpretazioni e dove definisce esplicitamente Donald Trump “oppio per il popolo”.
Vance parte col descrivere di nuovo il suo cavallo di battaglia: l’epidemia di consumo di oppiacei ed eroina che ha travolto il proletariato bianco della Rust Belt, a partire da sua madre: “Qualche sabato fa” scrive Vance “io e mia moglie abbiamo trascorso la mattinata facendo volontariato in un orto comunitario nel nostro quartiere di San Francisco. Dopo alcune ore di lavoro occasionale, noi e gli altri volontari ci siamo dispersi verso le nostre rispettive destinazioni: gustosi brunch, gite di un giorno nella regione del vino, visite alle gallerie d’arte. Era una giornata perfettamente normale, per gli standard di San Francisco”, ma in “Quello stesso sabato, nella piccola cittadina dell’Ohio dove sono cresciuto, quattro persone sono andate in overdose di eroina. Un tenente della polizia locale ha riassunto freddamente la banalità di tutto ciò: Non è poi così insolito per un periodo di 24 ore qui. Aveva ragione: anche a Middletown, Ohio, era stata una giornata perfettamente normale”. “Gli americani veramente estranei alla dipendenza” continua Vance “sono veramente pochi. Poco prima di laurearmi in giurisprudenza, ho saputo che mia madre giaceva in coma in un ospedale, conseguenza di un’apparente overdose di eroina. E l’eroina era solo l’ultima delle sue droghe preferite. Gli oppioidi da prescrizione l’avevano già portata più volte in ospedale in passato, e nel decennio precedente al suo primo assaggio di vera eroina erano costati terribilmente cari alla nostra famiglia. E prima che suo padre abbandonasse la bottiglia verso la mezza età, era un ubriacone notoriamente violento. Nella nostra comunità c’è da tempo un grande desiderio di alleviare il dolore; l’eroina è solo il veicolo più nuovo”; “Ora” continua Vance “in questa stagione elettorale, sembra che molti americani siano alla ricerca di un altro antidolorifico. Come gli altri, promette una rapida fuga dalle preoccupazioni della vita e una soluzione facile ai crescenti problemi sociali delle comunità e della cultura degli Stati Uniti. Non richiede nulla di particolare. Ed entra in circolo non attraverso i polmoni o le vene, ma attraverso gli occhi e le orecchie. Il suo nome è Donald Trump”: “Ciò che Trump offre” continuava Vance “è una facile fuga dal dolore. Ad ogni problema complesso promette una soluzione semplice. Può riportare posti di lavoro semplicemente punendo le società che delocalizzano. Può curare l’epidemia di dipendenza costruendo un muro messicano e tenendo fuori i cartelli. Può risparmiare agli Stati Uniti l’umiliazione e la sconfitta militare con bombardamenti indiscriminati. E non importa che nessun leader militare credibile abbia appoggiato il suo piano. Trump non offre mai dettagli su come funzioneranno questi piani, perché non può. Le promesse di Trump sono l’ago nella vena collettiva dell’America”. “La grande tragedia” continuava Vance “è che molti dei problemi individuati da Trump sono reali e richiederebbero una riflessione seria e un’azione misurata”, ma “Trump è eroina culturale: fa sentire meglio alcuni per un po’. Ma non può risolvere ciò che li affligge e un giorno se ne renderanno conto. E solo allora, forse, la nazione sarà in grado di sostituire il rapido effetto placebo dello slogan Make America Great Again con la vera medicina”. Appena due anni dopo, come per incanto, il nostro caro James David si era convinto che quell’oppiaceo, quella eroina culturale, in realtà era esattamente quello che serviva per risvegliare il popolo americano e da lì in poi, da critico fervente, diventerà uno dei volti più noti proprio del MAGA, il Make america great again; cosa sarà stato mai a fargli cambiare idea?

Peter Thiel

La risposta è piuttosto semplice: si chiama Peter Thiel, il famigerato venture capitalist multimiliardario della Silicon Valley che, da sempre, affianca alla sua carriera di imprenditore visionario un’aura da guru dell’anarco-capitalismo più selvaggio che, però, non gli ha impedito di andare sempre a braccetto con l’intelligence USA; in particolare a partire dal 2004, quando con i soldi di In-Q-Tel, la società di venture capital della CIA, fondò Palantir che, come ha scritto Enrique Dans della IE Business School di Madrid, è “una delle società più sinistre del mondo”, “incarna tutto ciò che è sbagliato e immorale nella scienza dei dati” e che, in combutta – appunto – con i servizi, è impegnata sin dalla sua fondazione “in quello che sembra essere il più grande tentativo della storia di creare un macro-database globale da parte di un’azienda privata”. Peter Thiel è considerato uno degli ispiratori del cosiddetto movimento neo-reazionario, una specie di accelerazionismo di estrema destra che mira al ritorno a forme ultra-autoritarie di governo, monarchia assoluta compresa; la tesi – tutto sommato anche abbastanza corretta – è che “libertà e democrazia non siano compatibili”, almeno se prendiamo la loro accezione (sostanzialmente da sociopatici) di libertà e che, ovviamente, la priorità vada data alla difesa della libertà assoluta delle persone con maggiori capacità di fare un po’ cosa cazzo gli pare. Insomma: per usare un termine che magari vi è un po’ più familiare, parliamo sostanzialmente di nazisti, anche se fanno fatica a identificarsi direttamente ed esplicitamente col nazifascismo perché lì c’era comunque l’idea dello Stato imprenditore come promotore dello sviluppo delle forze produttive che, invece, per loro è un compito che spetta esclusivamente alle grandi corporation e al capitale finanziario privato. Il nostro JD ha avuto modo di conoscere da vicino Thiel durante gli anni alla scuola di legge di Yale e, come scrive Vance stesso in un suo articolo di 4 anni fa intitolato Come mi sono unito alla resistenza, “L’incontro con Peter” sottolinea JD “rimane il momento più significativo del mio periodo alla Yale Law School” non solo perché “era forse la persona più intelligente che avessi mai incontrato, ma anche, se non soprattutto, perché era un fervente cristiano” ed è proprio per devozione cristiana che, qualche anno dopo, Vance seguirà Thiel in una delle sue innumerevoli iniziative imprenditoriali, diventando uno dei top manager del fondo di venture capital specializzato in nuove tecnologie Mithril Capital; nel frattempo Thiel era diventato tra i principali sostenitori proprio di Donald Trump ed ecco così che, per pura coincidenza, avviene anche la conversione di JD non solo al cristianesimo messianico e filo-sionista, ma anche al trumpismo.
Ma la costruzione del personaggio Vance era appena all’inizio; nel 2017 JD decide di tornare in Ohio dove fonda un’organizzazione no-profit per combattere l’epidemia di oppiacei nella Rust Belt e un altro fondo per favorire la crescita delle iniziative imprenditoriali locali, ma secondo una lunga inchiesta di Business Insider del 2021 è tutta fuffa: “Molti politici cercano di rafforzare la propria immagine puntando sul proprio senso degli affari e sugli sforzi filantropici” sottolinea l’articolo. “In realtà, però, non è chiaro cosa Vance abbia ottenuto attraverso la sua azienda o il suo ente di beneficenza. Un’analisi di Insider della documentazione fiscale di Our Ohio Renewal ha mostrato che nel suo primo anno, l’organizzazione no-profit ha speso di più in servizi di gestione forniti dal suo direttore esecutivo – che funge anche da principale consigliere politico di Vance – che in programmi per combattere l’abuso di oppioidi. Il gruppo, che ha chiuso il suo sito web e abbandonato il suo account Twitter dopo aver pubblicato solo due tweet, afferma di aver commissionato un sondaggio per valutare i bisogni e il benessere degli abitanti dell’Ohio, ma la campagna di Vance ha rifiutato di fornire qualsiasi documentazione del progetto. E una portavoce della più grande coalizione anti-oppioidi dell’Ohio ha detto a Insider di non aver sentito parlare dell’organizzazione di Vance. E’ tutta una farsa, ci ha dichiarato Doug White, l’ex direttore del programma di master in gestione della raccolta fondi presso la Columbia University, che ha esaminato la dichiarazione dei redditi di Our Ohio Renewal per Insider” . D’altronde si sa: gli innovatori intraprendenti che combattono contro il sistema e il deep state non possono muovere un passo senza che gli si scateni contro la solita macchina del fango; rimane qualche dubbio sul fatto che Vance appartenga davvero a questa categoria, un dubbio che deve essere sorto non solo a noi: mentre infatti Vance lavorava giorno e notte per costruirsi questa immagine di Don Chisciotte anti-sistema, in quelli che vengono spesso considerati i posti più strategici da dove si costruisce la propaganda delle élite globaliste evidentemente si cominciava a pensare che la minaccia non fosse poi così reale e che, anzi, si poteva dare un bel contributo concreto a creare questo personaggio di fiction.
Nel 2020, infatti, nientepopodimeno che Netflix – e cioè l’avamposto per eccellenza della cosiddetta ideologia gender – decideva di dare un’altra botta di celebrità al nostro paladino anti-establishment investendo 50 milioni di dollari per trasformare il suo mediocre libro in un film che sarei tentato dire essere di bruttezza rara, ma che tutto sommato, visto quanto sono brutti in media i prodotti Netflix, non sfigura nemmeno troppo: il film si chiama, appunto, Hillbilly Elegy (tradotto in Italia in Elegia Americana) e da quando Vance è stato nominato vicepresidente in pectore, è tornato a scalare la classifica dei film Netflix più visti. Il film è piuttosto fedele al testo e allo spirito del libro: il degrado, verissimo, nel quale è precipitata l’America profonda, l’assoluta mancanza di una risposta collettiva e politica a questa deriva, il primato assoluto della famiglia e dei valori tradizionali come risposta a questo degrado, l’idea che solo la determinazione individuale paga e il ritratto di JD come di un eroe buono e senza macchia, intelligentissimo e in grado di trovare il successo nonostante tutte le avversità, ma anche un po’ pacioccone e sempre in grado di prendersi le sue responsabilità e perdonare i peccatori che lo circondano. Da quando è stato nominato, il cosiddetto mondo del dissenso si è messo a dissezionare le varie dichiarazioni politiche e le possibili mosse future, inseguendo l’illusione che la risposta che non siamo in grado di costruire dal basso con il nostro lavoro quotidiano arrivi magicamente un bel giorno dall’alto per gentile concessione; non fanno che parlare, giustamente, di quanto la classe politica sia una branca di teatranti e poi, inspiegabilmente, si fanno incantare da un personaggio costruito meticolosamente, pezzo dopo pezzo, a tavolino, col sostegno di oligarchi multimiliardari invischiati con la CIA e dei principali mezzi di produzione del consenso in circolazione. Se oggi Vance incarna meglio il senso comune è, molto banalmente, perché è stato costruito nel tempo a tavolino proprio per questo e intercettare così il voto che oggi i vecchi tromboni liberaloidi, dopo che sono stati presi a schiaffi per anni, non possono più intercettare; pensare che questa rappresentazione teatrale corrisponda poi anche a un cambio di linea concreto, significa molto semplicemente non aver capito come funziona il teatrino della democrazia rappresentativa nell’era della dittatura delle oligarchie – e con questo non voglio in nessun modo sostenere che all’interno delle classi dirigenti non esista nessuna forma di dialettica e che ogni opzione vada valutata nel dettaglio, al di là di ogni settarismo e di ogni schematismo, ma che ancora ci sia qualcuno che valuta politicamente le opzioni possibili in base alle puttanate che ci raccontano e alle commedie che mettono in scena mi sembra disarmante.
Per de-costruire le narrazioni e la propaganda degli arruffapopoli, abbiamo sempre più bisogno di un vero e proprio media tutto nostro che, invece che alla loro commedia, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Matteo Salvini

Come la piovra militare della NATO ha inglobato l’Ucraina – ft. David Colantoni

Oggi il nostro Gabriele torna ad intervistare David Colantoni, scrittore e artista, presentando il panel in cui David esporrà le sue uniche teorie sulla classe militare, il suo ruolo all’interno della NATO e la penetrazione pluridecennale della NATO in Ucraina. Sullo sfondo, intrighi di potere e denaro, ricatti e manovre politiche che alla fine spinsero l’Ucraina nelle braccia di Regno Unito e Stati Uniti, fino ad arrivare ad essere il terzo contingente militare presente in Iraq per numero di uomini. Il panel di David Colantoni sarà a Pisa (Circolo Arci di Putignano) domenica 7 luglio alle 11 del mattino. Non mancate!

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare!

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

David Colantoni – Le prove definitive che è stata l’Ucraina a dichiarare guerra alla Russia

Nel suo ultimo libro David Colantoni porta, documenti alla mano, le prove che inchiodano l’Ucraina e la NATO alle loro responsabilità. L’infiltrazione USA in Ucraina comincia subito dopo la caduta dell’URSS ed è parte del disegno di estensione dell’impero americano alle porte del storico rivale. Il governo ucraino aveva firmato un accordo con Eltsin di non far entrare forze nemiche della Russia sul proprio territorio in cambio della Crimea. Accordo che il governo Ucraino non ha voluto rispettare, dando via alla guerra degli ultimi anni.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

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Quando l’Ucraina invase l’Iraq – ft. David Colantoni

Torniamo a parlare con David Colantoni, autore e studioso italiano che vive in Russia.
Con lui parleremo del recente attentato a Mosca e degli ultimi sviluppi bellici in Ucraina. Presenteremo, inoltre, il suo libro Quando l’Ucraina invase l’Iraq. Le mani del Pentagono sulla storia edito da Arianna Editrice, in prossima uscita.
Buona visione!

Link alla prevendita del libro: https://www.ariannaeditrice.it/prodotti/quando-l-ucraina-invase-l-iraq

L’Occidente in panico per il trionfo di Putin reagisce a suon di fake news e leggende metropolitane

I media occidentali non sembrano avere dubbi: sapete chi è stato il vero vincitore delle elezioni in Russia? Alexander Navalny! Lo sapevo! Hai presente quando ti ritrovi a un megapranzo di famiglia e c’è il parente scemo – e anche un po’ antipatichello – e non si capisce bene per quale motivo sei un po’ in apprensione perché temi si metta in imbarazzo da solo con qualche discorso a cippadicazzo? Ecco, il mio mood per tutto il weekend è stato esattamente quello: speravo che i nostri giornali, per elaborare il lutto del trionfo elettorale di Putin, non si inventassero qualche megastronzata galattica delle loro che ci fa apparire sempre di più lo zimbello dell’universo mondo, ma la speranza è durata pochino. Il primo episodio, che ormai conoscerete già tutti, è quello di questo video; tra i primi a ripostarlo in Italia è l’infallibile Daniele Angrisani, uno dei più brillanti e acuti giornalisti d’inchiesta della penisola, firma di punta della sempre puntualissima e scrupolosissima Fanpage e arcinoto nel microcosmo dei NAFO più intransigenti per il suo incrollabile ottimismo che, in passato, l’ha portato ad affermare che “La Russia ha già perso la guerra”(maggio 2022), che “La Russia può e deve essere sconfitta militarmente” (settembre 2022)

e che ci sono ben “Otto motivi per cui l’Ucraina può vincere la guerra nel 2023 (dicembre 2022). Il video condiviso da Angrisani riprenderebbe un militare russo che entra in fretta e furia in un seggio e poi si affaccia in due cabine elettorali “chiedendo cortesemente”, sottolinea Angrisani, “di vedere il voto”, ma così a occhio non sembra esattamente convincentissimo, diciamo: solo per rimanere alle cose più eclatanti, infatti, si nota immediatamente che dentro le cabine manca un piano dove appoggiarsi per scrivere sulla scheda e, all’arrivo del militare, le persone che stanno votando non hanno nessunissima reazione; manco si girano. Nonostante il controllo poliziesco, chi sta riprendendo inquadra la scena in maniera perfetta, senza muoversi di un millimetro e quindi, si presume, è perfettamente visibile dal militare che, però, non ha niente da ridire e che entra in scena esattamente al momento giusto dal lato giusto; manca solo una vocina che dica ciak, si gira: potevano fare di meglio, diciamo, ma tanto – avranno pensato – con tutti st’invasati che girano su Twitter un Angrisani che se la beve, in Occidente, lo troviamo di sicuro lo stesso.
Il problema è che, oltre a un Angrisani qualsiasi, a crederci – o a sperare che ci creda chi li segue – sono anche parecchi altri e il video, così, viene trasmesso da tutti i principali tg nazionali, da La7 a RAI 1, e quando è montata l’indignazione ecco che, immancabile, è arrivato anche il MacGiver del debunking, David 7cervelli Puente che, irreprensibile come sempre, ha denunciato come “La propaganda russa si sta impegnando per far passare il video come falso e fabbricato da parte degli ucraini, ma le prove fornite risultano deboli”. Quelle a sostegno dell’autenticità, invece, sono inossidabili: “Diversamente da altri casi verificati” ammette lo stesso Puente “il video non risulta geograficamente individuabile” e “non si conosce” né “l’esatta ubicazione del seggio”, né “in quale giorno sia accaduto il presunto episodio”; inoltre, riporta sempre Puente, l’account che ha caricato il video per primo sul social VK non è più presente, ma sono tutti dettagli che per alzare un polverone a caso sullo svolgimento del voto russo, evidentemente, possono essere trascurati e, purtroppo, questa trashata era destinata a non essere altro che un piccolo antipastino del delirio che sarebbe seguito.
Carissimi Ottoliner, ben ritrovati: oggi vi allieteremo con un altro entusiasmante racconto della cripta della post verità; prima di andare oltre, però, ricordatevi di mettere un like per aiutarci nella nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e anche di iscrivervi e di attivare le notifiche su tutti i nostri canali, compreso quello in lingua inglese – e così vediamo se insieme riusciamo a rompere l’oscurità della propaganda che ci circonda.
Durante tutto il weekend, mano a mano che cominciavano ad arrivare i primi dati che facevano odorare un’affluenza record alle urne in tutta la Russia, passo dopo passo la propaganda suprematista metteva le basi per la sua sceneggiata da oscar ricalcando la tecnica propagandistica sviluppata in mesi e mesi di sconfitte eclatanti sul fronte ucraino e che affonda le sue radici nella teoria della macchina del fango dell’FBI di Hoover: di fronte a un evento dall’esito scontato e di un’entità che rende impossibile ignorarlo tout court, si tenta di creare una narrazione ad hoc che miri perlomeno a ridurre la portata e l’impatto dell’evento stesso; una realtà parallela costruita ad hoc dove una cacatina ininfluente, sufficientemente gonfiata, distoglie l’attenzione dall’evento che si vuole dissimulare e permette di creare una cortina fumogena all’interno della quale è possibile continuare a sostenere una narrazione palesemente irrealistica, almeno di fronte al pubblico più distratto o ideologicamente più favorevolmente orientato. E’ esattamente quello che si è cercato di ottenere con le varie operazioni mediatiche sul fronte ucraino – dallo sbarco di qualche disperato a bordo di qualche barchino sulla riva orientale dello Dnepr spacciata per potenziale testa di ponte, agli attacchi suicidi dei lettori di Kant in quel di Belgorod. A questo giro, a mettere le basi della brillante strategia che avrebbe permesso alla gigantesca macchina propagandistica dell’Occidente collettivo di negare il trionfo di Putin qualsiasi fosse stato il risultato, c’aveva pensato lo stesso Navalny nella sua ultimissima apparizione: si chiamava Mezzogiorno contro Putin e consisteva, molto banalmente, nel recarsi alle urne alle 12 di domenica. A fare cosa? Assolutamente niente. E come si sarebbero riconosciuti? Ma in nessunissimo modo, ovviamente: un po’ come se io ora organizzassi un boicottaggio contro Carrefour, accusata di commerciare prodotti che arrivano direttamente dai territori occupati illegalmente da Israele, e dessi appuntamento ai protestatari in qualche catena concorrente nell’ora di punta di un giorno che precede una festività importante senza indicare, appunto, nessuna azione da fare e nessun segno distintivo; poi, all’ora X, faccio un po’ di foto alle code che si formano inevitabilmente a quell’ora (protesta o non protesta) e con la connivenza dei media le spaccio per la prova del grande successo della mia protesta. Gli italiani boicottano Carrefour. Alla vigilia di Natale migliaia di persona in fila alla Conad e alla Coop in sostegno alla campagna lanciata da Ottolina Tv: come presa per il culo sembra un po’ troppo spregiudicata; eppure è esattamente quello che è successo con queste elezioni.
A dare il la, già domenica, c’aveva pensato l’Economist: La farsa della rielezione di Vladimir Putin – titolavaè degna di nota solo per le proteste; in serata, Reuters riportava le parole di Leonid Volkov, l’”aiutante di Navalny in esilio che è stato attaccato con un martello la scorsa settimana a Vilnius” e che, sottolinea Reuters, “stima che centinaia di migliaia di persone si siano recate ai seggi elettorali a Mosca, San Pietroburgo, Ekaterinburg e in altre città”. “Reuters” però, purtroppo – sottolinea l’articolo con una forma davvero apprezzabile di autoironia british involontaria – “non ha potuto verificare in modo indipendente tale stima”, però, aggiunge, “giornalisti Reuters hanno notato code di diverse centinaia di persone, in alcuni luoghi anche migliaia”; peccato si fossero dimenticati il telefonino a casa e, alla fine, la foto più esplicativa che sono riusciti a recuperare è questa. Ciononostante, ieri mattina sui giornali italiani la grande mobilitazione delle bimbe di Navalny dominava la scena in modo totalmente bipartisan: Migliaia di persone si sono radunate davanti ai seggi per il mezzogiorno contro Putin titolava Il Domani; Code per Navalny – rilanciava Libero – “I sostenitori dell’attivista in massa ai seggi alla stessa ora”. “Le immagini che Vladimir Putin e i suoi sodali non avrebbero mai voluto vedere” riporta concitato Roberto Fabbri sul Giornanale “hanno fatto il giro del mondo”: “Code di centinaia di metri” insiste, “nonostante rischino perfino anni di carcere”; ma che dico anni, millenni! E che dico centinaia di metri di coda: decine di migliaia di chilometri, che dimostrano chiaramente “il coraggio di chi resiste nel regime che uccide l’opposizione”. “Un sassolino nella macchina da guerra del trionfo annunciato di Vladimir Putin” rilancia sempre sul Giornanale Andrea Cuomo che, di solito, quando parla di sassolino si riferisce al liquore (visto che si occupa di enogastronomia), ma – d’altronde – per fare un po’ di propaganda spiccia con vaccate del genere non è che serva un master in relazioni internazionali, diciamo; basta un po’ di estro creativo che a Cuomo, onestamente, non manca: questo, continua infatti ispiratissimo, “è un sassolino che fa rumore”, un rumore che “per lo Zar che, salute permettendo, resterà al Cremlino fino al 2030 è fastidioso”, ma che “per i russi e per buona parte del mondo” è “una sottile melodia di libertà”.
Anche Marco Imarisio sul Corriere della serva era partito col caricatore della retorica bello pieno; strada facendo, però, gli deve essere montato qualche dubbio e dalle centinaia di migliaia di persone citate da Reuters, passa a un più modesto e realistico “Piccolo incremento di presenze ai seggi attorno alle 12” per poi ammettere che le immagini divulgate dall’opposizione “mostrano assembramenti di dimensione contenuta che solo con un notevole sforzo di fantasia possono essere definiti una moltitudine”. Fantasia che, evidentemente, al nostro esperto di enogastronomia del Giornanale non manca: “Una forma di obiezione non illegale, ma comunque clamorosa” – sottolinea – e per la quale, continua con la solita enfasi poetica, “ci voleva coraggio, ma questo al fiero popolo russo non manca di certo”.
Ora, non so se si possa parlare di coraggio, ma che siano fieri mi pare indubbio: come spesso capita ai popoli che si sentono accerchiati, i russi, invece che arretrare, sembrano piuttosto aver voluto rilanciare con decisione e, per farlo, hanno dato un mandato pieno al loro presidente che più pieno non si può perché, ovviamente, sull’esito del voto dubbi non ce ne erano; ma sminuire il fatto che si sia recato alle urne il maggior numero di elettori in assoluto dalla fine dell’Unione Sovietica, ho come l’impressione che potrebbe impedire, ancora una volta, di farci un’idea minimamente sensata di cosa stia accadendo in Russia. Con l’88% del 78% degli aventi diritto che si è recato alle urne, Putin conferma di essere uno dei leader contemporanei con in assoluto il maggior sostegno popolare al mondo, soprattutto se confrontato con la stragrande maggioranza dei leader occidentali, dove non solo quel livello di consenso non viene nemmeno sfiorato da nessun leader, ma nemmeno dalla somma dei consensi di tutte le varie fazioni del partito unico della guerra e degli affari. I consensi per i leader al governo nei vari paesi occidentali, infatti, sono ormai praticamente sistematicamente al di sotto della maggioranza (e, spesso, manco di poco): secondo i dati di Morning Consult, a parte Berset in Svizzera e Tusk in Polonia (che gode ancora dei fasti delle ormai sempre più brevi lune di miele tra elettorato e leader neoeletti), quella messa meno peggio sarebbe proprio la nostra Giorgia Meloni con il 44% di approvazioni; Biden sarebbe al 37, Sunak al 27, Macron al 24 e Scholz addirittura sotto al 20 che, a ben vedere, è una situazione meno paradossale di quanto possa apparire; come sottolinea sempre il nostro guru Michael Hudson, infatti, da quando è finita la democrazia moderna e siamo entrati nell’era della distopia neoliberista, abbiamo imparato a definire autocratici tutti i regimi che hanno ancora abbastanza potere da tenere a bada gli appetiti delle oligarchie, mentre definiamo democrazie tutti quei regimi dove le oligarchie dettano legge incontrastate e i rappresentanti politici sono relegati al ruolo di utili idioti che si prendono gli insulti dalla gente per aver messo la faccia nelle varie azioni di rapina condotte in nome dei loro datori di lavoro. Da questo punto di vista, quindi, i leader occidentali sono i rappresentanti dell’1% contro il 99 e, quindi, che riescano comunque ad avere tassi di approvazione a doppia cifra è già un mezzo miracolo, in buona parte dovuto al ruolo che continuano a svolgere la propaganda e i mezzi di disinformazione di massa.
Discorso diametralmente opposto, invece, per i leader dei paesi che definiamo autocratici, che non derivano il loro potere dalle oligarchie, ma – in qualche misura – si potrebbe dire, appunto, dal popolo contro le oligarchie; e quindi, da questo punto di vista, che i leader che noi definiamo autocratici – da Putin a Xi Jinping, da Maduro a Raisi – registrino un sostegno, appunto, non solo maggiore rispetto a qualche singolo leader occidentale, ma – più in generale – alla somma di tutti i leader occidentali, sembra essere un dato piuttosto normale e strutturale.
Ma se ancora servisse un’altra prova provata della strutturale debolezza delle opposizioni filo occidentali (e quindi, volenti o nolenti, filo oligarchiche) all’interno delle autocrazie, in generale – e di quella russa, in particolare – basta vedere il risultato dell’unica new entry della politica russa, il giovane Vladislav Davankov, candidato presidenziale del piccolo partito liberale Nuova Gente, un liberale con caratteristiche russe che non si presta, in realtà, a rappresentare davvero il voto dei dissidenti, ma che, ciononostante – proprio in quanto quarto parzialmente incomodo – era stato indicato proprio dai dissidenti come la meno peggio delle alternative; che su di lui siano confluiti i voti dei giovani liberali cosmopoliti lo dimostra il fatto che nelle grandi metropoli europee, sia Mosca che San Pietroburgo, ha ottenuto i risultati di gran lunga migliori con, rispettivamente, il 6,6 e il 7%. A livello nazionale, però, si è fermato al 3,9, appena una manciata di voti in più rispetto a quelli ottenuti dal suo partito alle elezioni parlamentari del 2021. Insomma: il peso della dissidenza filo occidentale antiputin si pesa, ad essere generosi, in qualche centinaio di migliaia di voti quasi tutti concentrati nelle grandi metropoli europee, ma ciononostante, insiste Vittorio Da Rold sul Domani, “Il segnale per il Cremlino è forte e chiaro: c’è un forte malcontento verso Vladimir Putin che cerca solo un catalizzatore politico interno o una crisi esterna per esplodere”; non a caso Da Rold, come sottolinea orgoglioso in ogni sua biografia che si trova online, è Media Leader del World Economic Forum, che vuol dire essersi dimostrato sufficientemente allineato con gli interessi delle oligarchie da godere della loro fiducia per moderare gli eventi più importanti del loro salotto buono.
“La folla, e quindi le immagini feticcio dall’effetto balsamico per le illusioni occidentali” conclude amaramente Imarisio sul Corriere della Serva “c’è stata, ma altrove, lontano dalla Russia”: quando davvero ci sbarazzeremo definitivamente della nostra supponenza coloniale e impareremo a conoscere e a rispettare gli altri popoli per quello che sono realmente – e non per quello che dovrebbero essere per permettere alle nostre oligarchie e ai loro leccapiedi di continuare a vivere al di sopra delle loro possibilità – una bella fetta della grande rivoluzione verso un nuovo ordine multipolare sarà già fatta; per arrivarci, prima di tutto abbiamo bisogno di un vero e proprio media nuovo di zecca che, invece che all’arroganza del miliardo d’oro, dia voce agli interessi concreti del 99% del pianeta. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari

I militari NATO scavalcano i governi e dichiarano guerra totale a Russia e Cina – ft. David Colantoni

Intervista importante per la cassetta degli attrezzi di OttolinaTv, oggi David Colantoni ci parla di fine del capitalismo, classe militare e lotta tra militari di professione e borghesia. Il Pentagono è il nuovo centro di potere in Occidente? E i militari alimentano i conflitti per continuare a drenare risorse ai sistemi produttivi? Russia e Cina rappresentano il vecchio capitalismo industriale contrapposto all’Occidente “militarizzato”? Cerchiamo di fare chiarezza assieme.

L’ITALIA NON E’ OCCIDENTALE: Storia di un concetto strumentale alla sottomissione del nostro paese

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In questi giorni, nel silenzio generale, il Governo Meloni a dato via alla vendita della rete fissa di Telecom Italia al fondo speculativo KKR. L’infrastruttura più strategica fra tutte le infrastrutture strategiche, soprattutto sul piano militare, finisce così in mano a uno dei centri delle oligarchie finanziarie legate a doppio filo con il comparto militare e industriale americano.

Tra il suo top management, figura addirittura David Petreus: ex generale della CIA.

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