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Autore: OttolinaTV

[LIVE LA BOLLA] – Netanyahu Zelensky, è Terapia di Coppia – con Andrea Lucidi, Antonio Mazzeo e il Bulgaro

Diretta del 19/11/2023 ore 21.00

Cmq i nostri prefe rimangono le anime belle che pensano sinceramente che, nel caso del genocidio di Gaza, il Nord Globale sia il carnefice, ma nel caso della guerra per procura della Nato contro la Russia in Ucraina sia il paladino del diritto all’autodeterminazione. Come nella celebre massima di Mario Braga, l’imperialismo USA, secondo questi fini analisti, “po’ esse piuma, po’ esse fero”. Più che pensiero liquido, sarebbe più congruo definirlo direttamente diarrea. Ne parliamo in questa super – puntatona de La Bolla che, oltre ai mitici Francesco Dall’Aglio e alla ormai irrinunciabile Clara Statello, vede il ritorno di Antonio Mazzero e l’esordio assoluto su Ottolina TV di Andrea Lucidi.

Il naufragio della strategia di Biden sull’Indo-pacifico?

video a cura di Davide Martinotti

Joe Biden interrompe il piano per l’accordo commerciale indo-pacifico dopo l’opposizione dei democratici – Financial Times: https://www.ft.com/content/d124ee69-d… I fallimenti di Joe Biden sul fronte commerciale avvantaggiano la Cina – Economist: https://www.economist.com/finance-and… All’interno del ritardo di Biden sull’accordo commerciale indo-pacifico

Axios: https://www.axios.com/2023/11/14/bide…

Chi è Sahra Wagenknecht? La critica alla sinistra alla moda e l’accusa di rossobrunismo

Maischberger – 2023-02-08

Uno spettro si aggira per l’Europa!
È lo spettro del rossobrunismo ed ha un aspetto terrificante, il suo: si chiama Sarah Wagenknecht ed ha causato un vero e proprio terremoto in quel che rimane della così detta sinistra radicale europea.
Per la prima volta dai tempi della riunificazione tedesca, infatti, la scorsa settimana un partito ha proclamato il proprio autoscioglimento al Bundestag. Il partito in questione è Die Linke, un partito di sinistra radicale di cui Sarah Wagenknecht faceva parte e da cui in questi giorni ha annunciato la scissione insieme a un nutrito gruppo di parlamentari. Il nuovo partito si chiamerà Alleanza Sahra Wagenknecht, e il motivo della scissione è che agli occhi della Wagenknecht Die linke da forza radicale si è trasformata nell’ennesima variante di quella sinistra liberista e anti-popolare che anche noi in Italia, purtroppo, conosciamo molto bene.
Ma se anche potrebbe sembrare l’ennesima inutile scissione a sinistra e l’ennesimo partitino personalistico destinato sparire in poco tempo, questa volta le cose potrebbero andare diversamente.

Innanzitutto, la Wagenknecht è dei uno dei personaggi pubblici più conosciuti in Germania, il suo libro “critica alla sinistra neo-liberale” è stato per anni un best-seller, e secondo un sondaggio del periodico Frankfurt Allgemeine Zeitung il 27% dei tedeschi non escluderebbe di votare il suo nuovo partito.
Inoltre, l’attuale coalizione di sinistra che governa la Germania è forse uno dei più grandi fallimenti politici degli ultimi decenni, avendo spinto il paese sull’orlo della recessione a causa di una politica estera suicida, e avendo così trasformato l’AFD, il principale partito dell’estrema destra tedesca, e di gran lunga il primo partito in molti dei laender economicamente più arretrati. La sinistra liberal e alla moda insomma, in questi anni di governo del paese ha sfoggiato senza ritegno tutte le proprie ipocrisie, contraddizioni, e soprattutto incapacità di perseguire l’interesse nazionale e popolare, aprendo finalmente gli occhi a molti elettori e forse lo spazio ad un soggetto politico nuovo. La cosa sorprendente però, è che alcune delle persone interessate alla proposta politica della Wagenknecht sembrerebbero proprio molti degli attuali elettori dell’AFD.

Ma non è una novità.

Una delle accuse che le sono state più spesso rivolte in questi anni infatti, appunto, è quella di rosso-brunismo, a causa delle sue posizioni sovraniste, del suo scetticismo su alcune politiche ambientaliste e alla sua posizione decisamente conservatrice relativamente alle politiche migratorie.
Ma quale è quindi la vera linea politica della Wagenknecht? E perché le sue proposte si pongono perfettamente agli antipodi rispetto a quelle della “sinistra della ZTL”?

“Il rappresentante della sinistra alla moda è cosmopolita e ovviamente a favore dell’Europa. Si preoccupa per il clima e si impegna in favore dell’ dell’immigrazione e delle minoranze sessuali. È convinto che lo Stato nazionale sia un modello in via di estinzione e si considera cittadino del mondo senza troppi legami con il proprio paese. Non può – né desidera – essere definito un “socialista”: semmai un liberale di sinistra.”

Nel suo libro “Critica alla sinistra neo-liberale”, uscito nel 2021 e pubblicato in Italia da Fazi editore, la Wagenknecht condensa il proprio manifesto politico e dipinge un ritratto realistico della sinistra occidentale degli ultimi decenni. Ad esser sinceri il titolo italiano non rende giustizia all’originale tedesco, che sarebbe Die Selbstgerechten, letteralmente “i pieni di sé”, “i presuntuosi”, con riferimento all’atteggiamento presuntuoso ed elitario dell’elettore medio della sinistra liberale.

«“Sinistra”, scrive Wagenknecht “era un tempo sinonimo di ricerca della giustizia e della sicurezza sociale, di resistenza, di rivolta contro la classe medio-alta e di impegno a favore di coloro che non erano nati in una famiglia agiata e dovevano mantenersi con lavori duri e spesso poco stimolanti. Essere di sinistra”, prosegue la Wagenknecht, “voleva dire perseguire l’obiettivo di proteggere queste persone dalla povertà, dall’umiliazione e dallo sfruttamento, dischiudere loro possibilità di formazione e di ascesa sociale, rendere loro la vita più facile, più organizzata e pianificabile. Chi era di sinistra credeva nella capacità della politica di plasmare la società all’interno di uno Stato nazionale democratico e che questo Stato potesse e dovesse correggere gli esiti del mercato. Nel complesso”, conclude la Wagenknecht, “una cosa era chiara: i partiti di sinistra, che fossero socialdemocratici, socialisti o, in molti paesi dell’Europa occidentale, comunisti, non rappresentavano le élite, ma i più svantaggiati».

Ma oggi le cose sono evidentemente cambiate. L’autrice individua il punto di svolta nella cosiddetta “terza via” di Clinton, Blair e Schröder, che diede inizio alla seconda ondata di riforme economiche neoliberali dopo quella di Reagan e di Thatcher, e che trovò come sappiamo illustri imitatori anche nella sinistra italiana. Se un tempo al centro dell’interesse dei partiti di sinistra c’erano i problemi sociali ed economici da cui lo Stato aveva il dovere di emancipare la maggioranza della popolazione, oggi per la “sinistra alla moda” come la chiama Wgenknecht, sembra che i problemi fondamentali delle persone comuni non riguardino la sicurezza sociale e la povertà, ma bensì questioni come gli stili di vita, le abitudini di consumo, e i giudizi morali sul comportamento individuale. Problemi insomma più facilmente risolvibili con qualche lezione di bon ton e qualche appuntamento dall’armocromista piuttosto che con nuove politiche sociali ed economiche. Frutto di questo approccio ai problemi secondo Wagenknecht sono due distinti cambi di linea politica: il primo è lo spostamento dal campo dei diritti sociali a quello dei diritti civili e, più di recente, della salvaguardia ambientale; il secondo è la sostanziale adesione all’identificazione concettuale e politica, prima solo della destra, tra politiche economiche neoliberiste e l’idea di “progresso”.

Altro aspetto distintivo della sinistra alla moda, scrive la Wagenknecht, è quello di risultare ipocrita e poco simpatica, e questo perché: “pur sostenendo una società aperta e tollerante, mostra di solito nei confronti di opinioni diverse dalle proprie un’incredibile intolleranza”.

E Di questo atteggiamento intollerante e presuntuoso la stessa Wagenknecht ci offre diversi esempi che ci ricordano le etichette dispregiative e gli slogan a cui anche noi in Italia siamo purtroppo abituati. «Chi si aspetta che il proprio governo si occupi prima di tutto del benessere della popolazione interna e la protegga dal dumping internazionale e da altre conseguenze negative della globalizzazione – un principio, questo, che per la sinistra tradizionale sarebbe stato ovvio – viene oggi etichettato come nazionalsociale” (L’insulto corrispettivo di “sovranista” in Italia) E «chi non trova giusto trasferire sempre più competenze dai parlamenti e dai governi prescelti a un’imperscrutabile lobbycrazia a Bruxelles è di certo un antieuropeo».
Come ci viene ripetuto continuamente in Italia, chi desidera che l’immigrazione sia regolamentata è un razzista, chi ritiene che il Trattato di Maastricht e la moneta unica abbia in gran parte danneggiato i lavoratori e la nostra economia è un “nostalgico della liretta”, chi ritiene che lo Stato debba recuperare alcune prerogative fondamentali è una persona fuori dal tempo che non ha capito che siamo nell’epoca della globalizzazione. Come ricorda anche Vladimiro Giacchè nell’Introduzione al libro, tra gli aspetti importanti di questo saggio c’è poi il coraggio di mettere direttamente in questione valori fondamentali della sinistra alla moda come l’individualismo e il cosmopolitismo.

Wagenknecht osserva infatti che: «con questi valori si può sottrarre legittimità tanto a una concezione dello Stato sociale elaborata entro i confini dello Stato nazionale, quanto a una concezione repubblicana della democrazia. Ricorrendo a questo canone di valori, è possibile inserire il liberismo economico, la globalizzazione e lo smantellamento delle infrastrutture sociali in una narrazione che li fa apparire alla stregua di cambiamenti progressisti: una narrazione che parla di superamento dell’isolamento nazionalista, dell’ottusità provinciale e di un opprimente senso della comunità, una narrazione a favore dell’apertura al mondo, dell’emancipazione individuale e della realizzazione di sé».

Naturalmente, questa mutazione antropologica delle sinistre occidentali non poteva che spianare la vittoria delle destre più reazionarie proprio tra gli strati più disagiati della popolazione. Questi elettori vedono nella retorica e nelle politiche della sinistra alla moda un duplice attacco nei propri confronti: un attacco ai loro diritti sociali, in quanto viene descritta come modernizzazione progressista proprio la distruzione di quello stato sociale che dava loro benessere e la sicurezza; ma al tempo stesso un attacco ai loro valori e al modo in cui vivono, costantemente delegittimato moralmente e squalificato come retrogrado.
Insomma, conclude la Wagenknecht, possiamo tranquillamente dire che i partiti di sinistra occidentale oggi non rappresentino più gli interessi degli ultimi e dei più svantaggiati, ma anzi quelli di una up-middle class metropolitana che anche attraverso la sua sostanziale egemonia negli apparati mediatici e culturali combatte ogni giorno con gli artigli per conservare i propri privilegi e contemporaneamente affossare, come fisiologico in ogni lotta di classe, le condizioni di vita delle classi sociali inferiori.
Eppure, nonostante tutto questo, i rappresentanti della sinistra alla moda non sembrano proprio capacitarsi di come mai non vengano più votati nelle provincie e nelle periferie, o meglio, lo hanno capito. Il motivo è che essendo i poveri (detto tra noi) un pò ignoranti e retrogradi, non sono nemmeno in grado poverini di capire quali sono o loro veri interessi, e così si lasciano facilmente abbindolare da quei rozzi populisti e sovranisti. Insomma, se il popolino fosse un tantino più illuminato e moralmente progredito, immediatamente capirebbe che i populisti stanno parlando alla loro pancia e non alla loro testa, che la realtà è più complessa di come sembra, e che costruire ponti è sempre molto più saggio che costruire muri.

La seconda parte del libro della Wagenknecht è dedicata invece alla sua proposta politica.

Ovviamente qui ci limitiamo a richiamare i punti più interessanti, non potendo analizzare tutto nel dettaglio né discutere alcune delle sue teorie più controverse sul clima e sull’immigrazione. Uno dei motivi per i quali molti ex elettori di sinistra hanno cominciato a votare a destra, riflette la Wagenknecht, è che una certa destra sociale anche se quasi sempre solo a parole, ha continuato a fare riferimento a concetti come comunità, nazione, e difesa senza e senza ma dei propri cittadini, che invece la sinistra alla moda ha sostanzialmente abbandonato in nome del liberismo economico, del cosmopolitismo, dell’individualismo. La sinistra del futuro quindi, riallacciandosi alla propria tradizione socialista, dovrà recuperare questi valori, che non sono valori retrogradi o identitari, ma anzi possiedono una forte carica democratica e di emancipazione umana e materiale.

“Una sinistra che ridicolizzi il pensiero comunitario e i valori che da esso derivano perde consensi e diventa sempre più ininfluente. Ma non si tratta solo di questo. La vera domanda è un’altra: i valori comunitari sono davvero invecchiati e superati? Il desiderio di vivere in un mondo fidato e riconosciuto, di avere posti di lavoro sicuri, di risiedere in quartieri tranquilli e godere di rapporti familiari stabili è davvero un sentimento retrogrado? Oppure questi valori non sono invece un’alternativa molto più convincente al capitalismo sfrenato, che si fa portavoce dell’individualismo, dell’autorealizzazione priva di vincoli, dell’idea tipica del liberalismo di sinistra di essere cittadini del mondo, un’idea che, guarda caso, si adatta particolarmente bene all’ambiente economico dei mercati globali e alle aspettative di mobilità e flessibilità delle imprese?”

Ma il vero e proprio nemico politico del pensiero liberista di destra e di sinistra, è secondo la Wagenknecht lo Stato nazionale. Secondo la retorica della destra liberista, che combatte ogni giorno e senza ipocrisie contro la redistribuzione della ricchezza e a favore delle oligarchie finanziare, lo Stato deve essere abbattuto in quanto il welfare sarebbe troppo costoso, la burocrazia limiterebbe la libera impresa, e la gestione privata dei servizi sarebbe ontologicamente più efficiente di quella pubblica. La variante di sinistra a questo attacco allo Stato invece, consiste nel rappresentare lo Stato nazionale:«non solo come obsoleto, ma addirittura come pericoloso, ovvero potenzialmente aggressivo e guerrafondaio. Per questo i contributi del liberalismo di sinistra sul tema culminano quasi sempre con l’avvertimento che non ci deve essere un ritorno allo Stato nazionale, come se esso facesse parte del passato e noi vivessimo già in un mondo transnazionale».
In Italia, dove l’esterofilismo snob della elite di sinistra ha ormai raggiunto livelli surreali, va di moda dire che per loro limiti ontologici gli italiani non sarebbero in grado di governarsi da soli, e che quindi dovremmo immediatamente cedere quanti più poteri e sovranità possibile ai tecnici dell’Unione europea, i quali non essendo stati eletti non sarebbero populisti e saprebbero sicuramente tutelare meglio di noi il nostro interesse. Ma al di là di questa parentesi un pò folkloristica e tornando al testo della Wagenknecht, all’autrice l’idea che l’UE possa sostituire le democrazie nazionali appare invece una pericolosa illusione.

I diritti attribuiti al Parlamento europeo infatti non solo sono ben poco rilevanti, ma funzionano oggi da malcelata copertura a una deterritorializzazione delle decisioni politiche a vantaggio di poteri sovranazionali opachi e sostanzialmente privi di legittimazione democratica.

«Il progressivo scivolamento delle competenze decisionali dal piano nazionale più controllabile ed esposto alla sorveglianza pubblica” scrive Wagenkncht “a quello internazionale, poco trasparente e facilmente manovrabile da banche e grandi imprese, significa allora soprattutto una cosa: la politica perde il suo fondamento democratico».

Alla pericolosa utopia europeista, per la quale per incanto i 27 Stati membri a suon di pacche sulle spalle si unificheranno in un grande abbraccio democratico e fraterno, Wagenknecht contrappone allora un’altra prospettiva: «il livello più alto in cui potranno esistere istituzioni, che si occupino del commercio e della soluzione di problemi condivisi e siano controllate in modo democratico, non sarà in tempi brevi né l’Europa né il mondo. Sarà, invece, il tanto vituperato e troppo precocemente dato per morto Stato nazionale. Esso rappresenta al momento l’unico strumento a disposizione per tenere sotto controllo i mercati, garantire l’uguaglianza sociale e liberare determinati ambiti dalla logica commerciale. È quindi possibile ottenere maggiore democrazia e sicurezza sociale non limitando, bensì accrescendo la sovranità degli Stati nazionali».

Per concludere, vorrei fare infine un accenno alla politica estera.

In questi anni la Wagenknecht ha spesso preso posizione contro le politiche americaniste del proprio paese, soprattutto durante la guerra in Ucraina e riguardo alle suicide sanzioni economiche imposte alla Russia. Ma sia nel suo libro che nelle sue ultime dichiarazioni la questione della vitale lotta di indipendenza tedesca dagli Usa non viene affrontata abbastanza, e questo nonostante sia assolutamente evidente come tutte le derive della sinistra europea che lei dice di combattere siano una chiara importazione dei valori e del modello culturale del partito democratico americano. In generale, credo si possa però dire che la descrizione della Wagenknecht della sinistra alla moda sia giusta e calzante, e che la sua proposta politica sia interessante in moltissimi aspetti anche se decisamente discutibile in altri.

E se anche tu ti auguri che anche in Italia possano affermarsi nuovi soggetti politici liberi dalle maglie ideologiche collaborazioniste, abbiamo bisogno di un media libero e indipendente che combatta l’egemonia culturale della sinistra alla moda

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E chi non aderisce, è Elly Schlein

Xi Jinping e Biden: apocalisse rimandata?

video a cura di Davide Martinotti

Questa settimana c’è stato l’incontro tra Biden e Xi Jinping. La Cina ha accettato di condurre politiche anti droga congiuntamente agli Stati Uniti e di riattivare il dialogo militare ad alti livelli con Washington, entrambe richieste statunitensi. Ma alla richiesta cinese di allentare la guerra commerciale e tecnologica che dai tempi di Trump gli Stati Uniti hanno lanciato contro la Cina e che con Biden si è intensificata, a questa richiesta gli Stati Uniti per il momento hanno risposto di no… ma è davvero difficile credere che la Cina abbia fatto concessioni gratuite agli Stati Uniti senza ottenere nulla in cambio. In attesa di saperne di più sugli accordi dietro le quinte, per il momento non possiamo fare altro che limitarci solo a ciò che sappiamo, cioè alle letture ufficiali dell’incontro e ai discorsi che sono stati fatti pubblicamente!

LA MORTE DELL’AUTO ITALIANA – Stellantis: profitti record, licenziamenti e capannoni in svendita

Ciao ciao Mirafiori!
Dopo gli ultimi sviluppi, la dichiarazione di morte dell’automotive italiano è sostanzialmente ufficiale: “Costruisci il tuo futuro” l’ha chiamato Stellantis, con una bella dose di sano masochismo. E’ il progetto che ha previsto l’invio di una mail a 15 mila dipendenti, dove venivano invitati a mettersi in tasca qualche euro e levarsi definitivamente dai coglioni: il futuro che si dovrebbero costruire è da disoccupati. Vista l’aria che tira – e la possibilità concreta che se non se ne vanno oggi con una bella dose di incentivi in tasca, se ne dovranno andare comunque domani con in mano un pugno di mosche – in 500 avrebbero già accettato; a convincerli, in particolare, un annuncio apparso l’altra settimana su Immobiliare.it: capannone in vendita, Grugliasco, 115 mila metri quadrati, prezzo su richiesta.

Sergio Marchionne

Neanche 10 anni fa, il venditore di pentole in cachemire Sergio Marchionne lo aveva definito il fiore all’occhiello dell’automotive italiano: doveva essere il cuore pulsante di un fantomatico “polo del lusso” specializzato nella produzione di due modelli Maserati: la Ghibli e la Quattroporte, roba da 150/200 mila euro a botta. “Questi sono giorni cruciali per riposizionare il marchio e avviare una fase di espansione senza precedenti” aveva declamato enfaticamente Marchionne il giorno dell’inaugurazione, e a un certo punto avevano cominciato a macinare così tanto che, nel 2016, il sindacato s’era dovuto mobilitare perché “i carichi e i ritmi di lavoro sono troppo sostenuti, e questo mette a rischio la salute dei lavoratori” (Fiom-Cgil, 2016).
E’ durato come un gatto in tangenziale: “A pieno regime” ricorda Davide Depascale su Il Domani “l’impianto Maserati impiegava duemila operai. Nell’ultimo anno ne erano rimasti un centinaio.” Li hanno spremuti come limoni per qualche anno e poi gli hanno dato una pedata nel culo, e ora l’intero capannone te lo porti a casa con un click: “Lo stabilimento” si legge nell’annuncio “si presenta in buone condizioni manutentive a seguito di recenti e rilevanti interventi di ristrutturazione”. Si divertono pure a girare il dito nella piaga. D’altronde, però, quando è crisi è crisi, insomma. “Stellantis, record di utili nel 2022” titolava entusiasta Milano Finanza già nel febbraio scorso, e il banchetto era solo all’inizio: giusto pochi giorni fa sono stati pubblicati i risultati del terzo trimestre e Stellantis registra un altro risultato record: +7% di ricavi netti rispetto all’anno prima. Ottimo! Nella guerra mondiale dell’automotive in corso, per finanziare la transizione all’elettrico e mantenere la quota di mercato, un po’ di quattrini da investire sono proprio quello che ci vuole.
Macché: sapete cosa ci hanno fatto? Ci hanno ricomprato le loro azioni, l’ennesimo caso di buyback selvaggio che non serve ad altro che a continuare a gonfiare la bolla speculativa sui titoli azionari e a far intascare al management premi multimilionari a suon di stock option e altri meccanismi simili; nel 2022, il solo CDA si è messo in tasca oltre 31 milioni, 3 in più dell’anno precedente. Quando la FIAT sfornava milioni di auto e dava da lavorare a 200 mila persone, lo storico amministratore delegato Vittorio Valletta non guadagnava più di 500 mila euro: riusciremo mai a mettere fine a questo saccheggio?
A rimettere in fila due numeri su Il Domani ci pensa Edi Lazzi, segretario generale della Fiom di Torino: “A Mirafiori dal 2007, ultimo anno senza cassa integrazione” ricorda “la produzione è calata dell’89%, e la cassa integrazione ha raggiunto picchi del 70”. Nel 2022 gli occupati complessivi sono arrivati alla quota miserrima di 12 mila; erano 20 mila solo 8 anni prima. Mille in meno l’anno, “come se ogni anno chiudesse una fabbrica di medie dimensioni” sottolinea Depascale su Il Domani. “Nei prossimi anni” rilancia Lazzi “il 70 per cento dei lavoratori va in pensione. Senza nuove assunzioni Mirafiori si fermerà”, e pensare che a Mirafiori sarebbero dovuti finire anche i lavoratori della Maserati di Grugliasco dove, nel frattempo, a ritrovarsi con le pezze al culo ovviamente è anche tutto l’indotto “con tutta la componentistica” sottolinea Depascale “a rischio chiusura”. Un esempio su tutti la Lear Corporation: è una multinazionale americana con oltre 160 mila dipendenti in 37 paesi, la 147esima azienda al mondo per fatturato, stando alla classifica di Fortune 500; è specializzata di sistemi elettrici e di interni per auto – in particolare sedili – e fare i sedili in pelle umana per le auto da 200 mila euro della Maserati era un ottimo business, ma ora che la Ghibli e la Quattroporte nello stabilimento accanto non le producono più, ecco che – dei 420 dipendenti che hanno – la bellezza di 300, a breve, si ritroveranno in mezzo a una strada senza grosse alternative. Stellantis, infatti, tra un buyback e l’altro qualche investimento – in realtà – in giro per il mondo lo fa anche, a partire dalle famose gigafactory, solo che non li fa coi soldi suoi e non in Italia. Negli Stati Uniti, da pochissimo, ha annunciato il secondo impianto: entrambi si troveranno a Kokomo, in Indiana; 6,3 miliardi di investimento per 2.800 posti di lavoro previsti, oltre 2 milioni di dollari l’uno che, in buona parte, ricadranno sulle casse dello Stato sottoforma di credito d’imposta. Esattamente come in Europa, dove Stellantis ha incassato una quantità spropositata di incentivi per completare il suo primo impianto a Douvrin, nel nord della Francia, e ora sta procedendo con il cantiere di Kaiserslautern in Germania. Dopo – e soltanto dopo – arriverà, forse, il contentino anche per l’Italia: anche l’ex FIAT di Termoli, infatti, dovrebbe diventare una gigafactory. Per convincere Tavares a farci la grazia gli abbiamo dovuto promettere la bellezza di 600 milioni del PNRR, ma le condizioni che abbiamo chiesto in cambio non convincono proprio tutti: la fabbrica, infatti, dovrebbe riassorbire i vecchi operai FIAT ma il management ha già fatto sapere – riporta l’Ansa – che “l’azienda avrà la necessità di disporre di professionalità totalmente diverse da quelle tuttora presenti nel vecchio stabilimento”.
Cosa significa? Che a una bella fetta dei vecchi operai che, grazie all’anzianità, hanno raggiunto finalmente stipendi quasi dignitosi, si darà il benservito con qualche ammortizzatore sociale pagato con le nostre tasse e, al loro posto, se ne prenderanno di nuovi con trattamenti salariali e accessori peggiori possibile. D’altronde, dire che la morte dell’automotive italiano era annunciata è un eufemismo, e pensare che anche l’Italia possa avanzare qualche pretesa per le briciole che il protezionismo USA e il ritorno dell’austerity nell’Unione Europea lasceranno cadere dal banchetto della transizione ecologica e dell’elettrificazione potrebbe rivelarsi del tutto velleitario; dentro alla gabbia delle compatibilità con l’agenda geopolitica USA, da un lato, e il culto dell’austerità dell’Unione Europea dall’altro, il nostro destino è segnato. Non deve essere necessariamente così e, per dimostrarvelo, ora vi racconto una bella storiella. L’articolo è ormai un po’ datato; siamo nel 9 agosto scorso e Bloomberg titola : “La chiusura della Ford dopo 100 anni in Brasile cede il territorio degli Stati Uniti alla Cina”. La location è uno dei luoghi più iconici della lunga storia dell’automotive globale: siamo nella cittadina di Camacari, una trentina di chilometri a nord di Salvador, la capitale dello stato di Bahia; qui, in uno spazio sterminato più grande del Central park di New York, sorgeva una delle principali fabbriche della Ford del gigantesco paese sudamericano che, da un paio di anni, è stata totalmente smantellata pezzo per pezzo. Ma nell’aria non c’è segno né di sconfitta, né di rassegnazione: a breve qui si tornerà a lavorare a pieno ritmo. L’ex Ford di Camacari, infatti, è stata acquisita da BYD, il colosso dell’automotive elettrico che vanta tra i suoi principali investitori anche la Bearkshire Hathway di Warren Buffett; qui sorgerà la sua fabbrica più grande fuori dall’Asia.

Lula, Hugo Chavez e Néstor Kirchner

Per Lula, che di fabbriche se ne intende – visto che c’ha passato mezza vita e c’ha perso pure un dito -, è una vittoria di portata storica: convincere gli investitori cinesi a riaprire quella fabbrica è sempre stato un suo pallino. Per questo, quando s’è recato a Pechino appena due mesi dopo l’inizio del suo mandato, ha voluto in tutti i modi incontrare di persona l’amministratore delegato di BYD. Durante il mandato del suo predecessore, i rapporti con la Cina erano precipitati ai minimi storici: puntava a un rapporto privilegiato con l’America di Trump mentre l’America di Trump chiudeva le fabbriche. La Ford, ad esempio, non si è ritirata in fretta e furia solo dallo stato di Bahia, ma tutto il paese – dal giorno alla notte – dopo 100 anni di attività; è l’epilogo di un lungo declino, un po’ come quello italiano. La produzione industriale pesava per quasi metà PIL fino alla fine degli anni ‘80; ora pesa per meno di un quarto.
La deindustrializzazione, in questi anni, ha riguardato anche i paesi del Nord globale; la differenza però è che – grazie alle logiche neo – coloniali – il Nord globale mantiene comunque il controllo delle catene del valore. Il Brasile e l’Italia, no. Lula non è il solo protagonista della rinascita dell’ex sito Ford di Camacari; un ruolo chiave l’ha svolto anche il governatore dello stato di Bahia, il primo – nella storia dello Stato – appartenente alle popolazioni indigene: si chiama Jeronimo Rodrigues e si aspetta che i cinesi portino nella regione almeno 10 mila nuovi posti di lavoro, e non solo quelli. BYD prevede di aprire una nuova miniera nello Stato per estrarre localmente il litio che servirà alla fabbrica, e ha già investito 700 milioni solo per la parte di ricerca e sviluppo per una nuova monorotaia che permetterà di liberare Salvador dal traffico. Se è questa la giungla selvaggia che minaccia il nostro giardino ordinato, forse varrebbe la pena farci un pensierino.
C’è un intero mondo, là fuori, che è alla ricerca di opportunità per tornare a far crescere l’economia reale, e non si chiama Carlos Tavares o John Elkann, che se ancora possono scendere per strada senza essere rincorsi da una folla inferocita è perché i soldi che non reinvestono per rilanciare l’industria automobilistica italiana li spendono per far dire alla propaganda che – tutto sommato – va bene così e che “there is no alternative”, quando invece l’alternativa c’è eccome. Solo che per raccontarla per bene abbiamo bisogno di un media tutto nostro, che dia voce al Sud globale e al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è John Elkann

Il fallimento dell’euro come sostituto del dollaro

@ottolinatv

La nuova Pill8lina – Il fallimento dell’euro come sostituto del dollaro Riguarda la live integrale qui: https://www.youtube.com/watch?v=KY5_3MIOPXE ottolinatv ottovolante economia euro dollaro bache sovranità finanziarizzazione finanza

♬ suono originale – OttolinaTV – OttolinaTV

All’introduzione dell’Euro e nei suoi primi anni, dal 2000 al 2003, c’è stata l’ascesa dell’Euro, ed è stata potentissima.

Poi gli hanno fatto la guerra.

Per vedere l’episodio integrale de L’Ottovolante, clicca qui!

[LIVE OTTOVOLANTE] Sarà riuscito Xi Dada a far capire a Sleepy Joe che si stanno suicidando?

Live del 16/11/2023 ore 21 – La visita di Xi a San Francisco, come prevedibile, non ha partorito niente di particolarmente succulento e -allo stesso tempo – è stata epocale. In questa chiacchierata proviamo a spiegare perché con Lorenzo Battisti, Giambattista Cadoppi, Alberto Gabriele e Francesco Maringiò.

Alessandro Volpi – come le banche ci hanno fregato tutto e hanno registrato profitti mai visti

Il punto di partenza è rappresentato dagli straordinari risultati che stanno avendo le banche poi realtà non soltanto le banche. In realtà numerose società sono stanno registrando profitti che sono di natura veramente stellare e per usare questo senso Stella Antiseri è una e una di queste. Ma mi concentrerei sul fenomeno intanto delle banche perché secondo me è rilevante per capire alcuni aspetti della situazione nella quale ci troviamo. I dati sono oggettivamente impressionanti. Partiamo dal caso degli Stati Uniti. Ci sono appunto grosso modo sei banche che in maniera diversa nelle sei principali banche hanno fatto in nove mesi profitti per quasi 100 miliardi di dollari. Tenuto conto del fatto che escono da un anno precedente altrettanto significativo, quindi stiamo parlando veramente di un boom che queste banche hanno avuto in termini di risultato. Le banche Sappiamo quali sono gli episodi, anche la più importanti, la più significativa. Ormai banca di questo pianeta Wells Fargo, Citigroup, Morgan Stanley, Goldman Sachs e Bank of America, quindi queste banche, sia pure ripeto con risultati tra loro un po diversi, ma alla fine hanno partorito in sei per nove mesi profitti per 100 miliardi è una cifra di assoluto rilievo se vogliamo considerare il caso italiano come elemento di confronto, per cui non si tratta di fare i confronti, ma di conferma di questo quadro generale e anche della sostanziale globalizzazione finanziaria che ormai si è venuta a determinare. Nel caso italiano abbiamo profitti per 15 16 a seconda di come si calcolano le banche più importanti del Paese per una quarantina di miliardi 43 miliardi, tra l’altro con un dato anche qui secondo me interessante, che vediamo. Cioè ricordiamoci che alcuni di queste banche avevano perso una decina di miliardi dopo l’annuncio di capitalizzazione dopo l’annuncio dell’imposta sugli extraprofitti.

Beh, quei 10 miliardi sono ampiamente recuperati. Anzi, dalla seduta. Se noi facciamo un confronto fra ieri, l’altro ieri e la seduta successiva al tracollo hanno riguadagnato 7 miliardi. Quindi evidentemente ormai imposero gli extraprofitti, è stata ampiamente digerita. Io resto dell’idea che quell’operazione fosse stata un’operazione di tipo speculativo, di serie trading di tipo speculativo. E però le banche viaggiano con degli dei profitti che sono assolutamente straordinari negli Stati Uniti, come come da noi. Quindi un dato chiaro ora. La prima domanda che si farebbe chiunque, diciamo così, con un minimo di ragionevolezza. Ma le banche crescono così tanto? Ma l’economia reale che tipo di riflesso ha? Perché noi, almeno per quelli che hanno un minimo di conoscenza di storia economica in genere le banche si sono quantomeno correlate. Non dico sempre perché poi sono stati i finanziamenti, soprattutto a partire dagli anni 80. Però una relazione con l’andamento reale dell’economia c’è sempre stato. Ecco noi, per esempio, nel caso italiano sappiamo che abbiamo 43 miliardi di utili nelle banche, con una crescita complessiva del Paese che se ci togliamo l’inflazione è pari allo zero. Quindi è evidente che non esiste un rapporto diretto fra i profitti delle banche e la crescita del Paese. È evidente che le ragioni dei profitti delle banche non sono riconducibili alla crescita del Paese. Ma questo vale anche per gli Stati Uniti, sia pure in maniera diversa. Gli Stati Uniti hanno attraversato una fase decisamente meno sfavorevole di quella europea. Però ugualmente la natura dei profitti delle banche non si giustifica con la crescita dell’economia reale. Quindi sgombriamo il campo dal dire che le banche crescono perché l’economia cresce e che le banche danno un contributo reale alla crescita dell’economia reale. Ecco, questo mi sembra che questi numeri siano tangibilmente e forse mai come oggi chi ha chiaramente espliciti del fatto che non esiste una correlazione diretta fra l’aumento dei profitti e quello che è invece l’andamento dell’economia? E allora vengo al secondo punto, al di là del dato numerico. Ma allora da cosa dipende questa forte crescita dei profitti delle banche negli Stati Uniti? E ripeto, non voglio fare troppe differenze con l’Europa, dove certamente il fenomeno è meno polarizzato, ma è altrettanto altrettanto marcate e di cui l’Italia rappresenta uno dei pochi, uno dei possibili elementi di esemplificazione da cosa dipende, ma intanto dipende certamente dalle politiche delle banche centrali. Questo ormai lo scrivono in tutte le salse i rapporti, lo scriveva con grande chiarezza persino il Giornale di Confindustria, Il Sole 24 Ore di domenica, perché alla fine questo sta diventando un dato eclatante. E cioè gli alti tassi praticati dalla banca centrale determinano appunto il fatto che si genera un divario fra quanto le banche fanno, chiedono di remunerazione, cioè quindi quanto i tassi di interesse chiedono quando fanno un prestito e quale è invece il tasso di interesse che utilizzano per remunerare i loro risparmiatori? C’è il famoso differenziale, quello che avrebbe dovuto essere considerato della famosa imposta profitti. I tassi sono molto alti nel momento in cui faccio un prestito io banca e quando io invece io banca devo remunerare i miei clienti. Il tasso è decisamente molto più basso e quindi c’è un differenziale decisamente decisamente forte e quindi anche questa è una fonte, è una fonte molto, rilevante. Una delle considerazioni che spesso si fa è rappresentata dal fatto che sia aumentata nel momento in cui aumentano i tassi, aumenta certamente il margine. Per quanto riguarda le banche, in termini di prestiti, però, si svalutano i titoli di cui sono in possesso e il prezzo dei titoli di cui sono in possesso, magari in questo caso anche delle loro stesse azioni. Beh, ciò che abbiamo visto nel corso degli ultimi mesi in maniera sempre più crescente. Vedremo nei prossimi mesi, proprio in virtù di questa enorme liquidità determinata dai profitti maturati e che le banche riescono a fare operazioni di buy back, cioè si comprano buona parte dei titoli che rischiavano di essere svalutati in maniera tale che danno immediatamente un segnale agli operatori finanziari che quei titoli sono titoli protetti e quindi con quel tipo di operazione impedisce che, come si può dire, il dato negativo dell’aumento dei tassi? Voglio essere ancora più chiaro aumentano i tassi, hanno dei margini che sono significativi rispetto a quanto pagano ai loro clienti, quindi hanno un utile, come si diceva, di un centinaio di miliardi. Destina una parte di quello utile, quello che non viene destinato direttamente al dividendo lo destinano a ricomprare una parte dei titoli che rischierebbero di perdere valore, a cominciare dai loro. Questo gonfia ulteriormente il valore del titolo e ovviamente fa sì che la forza di quella banca diventi in termini finanziari ancora più marcata. Ma aggiungerei ancora altri due elementi dentro questo ragionamento perché fanno molti, fanno molti, molti soldi. E intanto certamente è evidente, come dicevo prima, che questo tipo di profitti vengono tradotti in dividendi, quindi diventano una remunerazione finanziaria. Non vengono investiti se non in misura molto limitata nelle attività delle imprese e comunque certamente non nella remunerazione dei dipendenti di queste imprese che anzi di queste imprese bancarie. Perché poi a tutti gli effetti stiamo parlando nel caso dei sei big degli Stati Uniti di banche con numero di dipendenti molto significativo le banche italiane sono oggi di strutture Usa questo termine produttive in termini di industria finanziaria che hanno un maggior numero di dipendenti. Cioè qui non è che in Italia noi abbiamo più le grandi industrie manifatturiere con migliaia di dipendenti oggi in Italia. Se andate a vedere che la grande occupazione si lega ad Eni ed Enel e poi si lega appunto ai dipendenti dei colossi bancari, beh che cosa stanno facendo? Stanno licenziando, stanno drasticamente riducendo il numero dei loro dipendenti, stanno utilizzando i prepensionamenti in maniera massiccia, stanno utilizzando tutte le forme di digitalizzazione di informatizzazione e di riduzione dei servizi territoriali.

Quindi alla fine, sul piano dei costi hanno un contenimento radicale dei costi che passa attraverso quello che ormai viene dato anche per scontato e forse persino dai sindacati, cioè di una riduzione di un dimagrimento del numero del personale e degli occupati del settore del settore bancario, del settore bancario, come poi abbiamo visto nel caso anche di altri, di altri settori dove appunto l’aumento dei profitti non significa più un tentativo di mantenere in vita la manodopera o di remunerare maggiormente. Per cui si può dire paradossale. Io ho provato anche a scriverlo che i salari sono diventati una variabile indipendente al contrario. Cioè una volta c’era la grande battaglia per dire che il salario va difeso, anche perché ha a che fare con il potere d’acquisto dei lavoratori, anche in condizioni di criticità. Qui si penserà ai dipendenti. Perché anche quando le cose vanno benissimo, i salari si riducono e sono indipendenti dall’andamento complessivo dei profitti dell’azienda e si determina un forte, direi fortissimo, processo di dimagrimento organico di questi grandi gruppi vari. Negli Stati Uniti vale per le banche, vale per le big tech, vale nell’automotive. Vale per i caso, per caso europeo e italiano. Poi c’è un altro aspetto ancora che è di cui abbiamo accennato anche nei nostri colloqui, che è rappresentato dal fatto che una parte significativa, se andate a vedere i bilanci di queste banche, una parte significativa di questi, diciamo profitti, deriva da attività che non sono l’attività di prestito in senso stretto, ma sono l’attività di gestione del risparmio che viene indirizzato alle banche attraverso società di cui le banche sono sostanzialmente proprietarie e che è il risparmio di coloro che si affidano alla previdenza complementare e alla sanità complementare.

È cresciuto in maniera esponenziale nel corso degli ultimi cinque anni, il volume di risorse destinate alle società che si occupano di risparmio gestito. Le società di risparmio gestito sono per il 90% dei casi in Italia, ma con percentuali analoghe in giro per il mondo un pochino più basse, legate o di proprietà delle banche. Le banche ricevono quindi la liquidità che sono i risparmi di coloro che ovviamente non riescono più ad avere una pensione soddisfacente o si immaginano di non avere più una pensione soddisfacente. Sanno che il sistema contributivo è certamente molto punitivo, sanno che il sistema sanitario si sta progressivamente riducendo e quindi destina una parte del loro salario, della loro retribuzione a forme di risparmio gestito. Le forme di risparmio gestito finiscono inevitabilmente attraverso queste società, appunto, che sono di risparmio gestito nelle mani delle banche, le quali utilizzano questa enorme liquidità per fare scelte di natura finanziaria. Comprano titoli, vendono titoli, comprano se serve titoli di Stato con questa liquidità e beneficiano del fatto che il rendimento sui titoli di Stato è più alto di quanto non lo fosse qualche anno fa. Per chi poi alla fine è la quota parte di debito, nel caso italiano, per esempio, nelle mani delle banche è ancora altissimo. Quindi è evidente che se le banche hanno comprato il debito e ora non lo comprano più con le risorse della Bce ma con il risparmio gestito degli italiani, maturano comunque interessi significativi su cui vengono riscosse commissioni. Quindi, alla fine della fiera questa trasformazione profonda che sta subendo il sistema bancario per cui non è più un erogatore di credito per il sistema produttivo o lo è sempre meno o se lo è lo è, ha costi che sono significativamente alti e quindi che escludono parti importantissime del sistema micro produttivi, cioè delle imprese più piccole e per certi versi anche delle famiglie che non hanno garanzie di tipo immobiliare sufficientemente adeguate. Qui le banche, invece che fare questo mestiere che storicamente hanno svolto, diventano soggetti che si ricordano i propri titoli che operano sul margine dei tassi di interesse e che si affidano, affidano molti dei loro destini. In questo caso direi decisamente positivo all’attività di bancassicurazione, quella che si chiama la bancassicurazione, cioè io mi Lego con grandi assicurazioni che raccolgono risparmio gestito e risparmio gestito, è cresciuto perché è tutta una serie di servizi non sono più garantiti dallo Stato, quindi bisogna auto prodursi e per autoprodursi e bisogna affidare i propri magri o grandi risparmi a soggetti finanziari che appunto poi hanno come terminale le banche, le quali su questi di questo tipo di con questo tipo di liquidità fanno dei margini che sono dei margini significativi. Quindi, paradossalmente, la banca si sgancia dal sistema produttivo e quindi perde il rapporto con l’andamento del Paese, diventa una sorta di sostituzione di uno stato sociale che è però estremamente oneroso per i risparmiatori, perché ovviamente se lo devono pagare e contestualmente favorisce dei margini per le banche stesse che prima le banche non avevano, Dal momento che quel tipo di attività, dalla sanità alla previdenza erano affidate, erano affidati allo Stato.

Questo negli Stati Uniti è un fenomeno colossale, è un fenomeno gigantesco nel nostro Paese sta progressivamente rapidamente crescendo con dei numeri che ormai riguardano più di una decina di milioni di italiani. Vorrei aggiungere poi due ulteriori considerazioni. La prima mettiamo insieme gli Stati Uniti con l’Europa. C’è sicuramente il fenomeno della crescita dei tassi di interesse praticati dalla Federal Reserve negli Stati Uniti, la Banca centrale europea, sono all’origine della crescita del sistema dei sistema bancario e dei profitti del sistema bancario. C’è però una differenza importante e che serve a spiegare anche perché i numeri sono chiari alla fine l’economia americana cresca anche in queste condizioni. Se è vero, come dicevo prima, che la mole dei profitti è talmente grande che non può essere giustificata dalla crescita dell’economia americana. Però è altrettanto vero che l’economia americana non ha un andamento stagnante come l’economia europea. Ma allora perché Qui ecco, qui c’è un altro elemento che secondo me vale la pena di fare, su cui vale la pena riflettere e ragionare. Il che è sostanziale. Questo negli Stati Uniti, appunto. Gli alti tassi di interesse praticati dalla Banca centrale americana producono, come del resto in Europa, e spero di essere chiaro in questa esplicitazione producono un aumento dei tassi di interesse a cui viene con cui viene retribuito il debito pubblico. Cioè la Federal riserva aumenta il tasso di interesse e lo porta sostanzialmente intorno al 5%. È evidente che i titoli di Stato americani si devono allineare al tasso, come avviene in economia. Si devono allineare al tasso di interesse tradotto e determinato dalla banca centrale, cioè se la banca centrale applica un tasso di interesse che è appunto vicino al 5%, bisogna che anche i tassi del debito pubblico americano, cioè quanto il governo degli Stati Uniti, il governo federale li paga per in indebitarsi sia in linea con il tasso di interesse praticato dalla banca centrale. Ora per gli Stati Uniti, però, questo problema non esiste. Nel senso che lo sappiamo ormai dalla regola mix che questo maggiore quantitativo di interessi che sono pagati sul debito non sono pagati come in Europa attraverso l’aumento del carico fiscale attraverso la spending review sono pagati producendo nuovi dollari, cioè sono sostanzialmente quindi si alzano i tassi di interesse. Questo determinerebbe una criticità per gli Stati Uniti, che sarebbe quella di dover pagare i tassi di interesse più alti sul proprio debito.

Gli Stati Uniti che cosa fanno? Gli Stati Uniti producono una maggiore quantità di dollari per pagare quei tassi di interesse e questo alla fine ha due benefici. Il primo beneficio è che appunto non sentono l’effetto dell’aumento dei tassi, perché coprono quell’aumento dei tassi. Non ripeto con maggiori pressioni fiscali per avere le risorse per pagare il debito o con contrazioni e tagli di spesa, ma sostanzialmente stampando. Quindi non c’è un effetto recessivo e non solo e garantiscono tassi di interesse più alti a cui gli altri Paesi del mondo si devono adeguare. Perché è chiaro che se i tassi di interesse americani pagano i Treasury bond, pagano il 5%, il quattro e 90%, bisogna che anche gli altri Paesi, anche i titoli di Stato dei paesi europei, si adeguino. Allora è evidente che torno a dire che gli alti tassi di interesse sono lo strumento attraverso cui le banche traggono un chiaro beneficio nelle loro operatività e quindi hanno profitti significativi. Sono uno degli elementi. È chiaro che quegli alti tassi di interesse negli Stati Uniti praticati dalla Federal Reserve vengono coperti con i dollari e quindi non partoriscono l’effetto negativo della necessità di finanziare quella maggior spesa per gli interessi che nel caso di Stati Uniti sono quasi 1 miliardi di dollari, con tagli di spesa o con tasse e in più con quei tassi di interesse attraggono il capitale estero. Ora tutto questo in Europa non succede. Tutto questo in Europa non succede perché noi abbiamo una banca centrale che quando alza i tassi di interesse e quindi di fatto impone ai Paesi come nel caso italiano, di pagare interessi più alti sul proprio debito. Beh, quegli interessi che lo Stato italiano deve pagare, che sono 100 miliardi ormai già nel 2023 noi non li non li produciamo con nuovo euro ma producendo nuovi euro. Ma li paghiamo sostanzialmente facendo manovre finanziarie che taglino la spesa perché li dobbiamo pagare noi. Nel nostro bilancio dello Stato italiano ci scriviamo come voce di spesa, cioè di spesa corrente, 100 miliardi di euro. Quei 100 miliardi vanno coperti come la spesa sanitaria, come la spesa per le pensioni. Non possiamo ricorrere alla solarizzazione, appunto all’autorizzazione alla monetizzazione del debito. Cioè questo mi sembra un dato che dobbiamo avere chiaro nel confronto con il contesto. Il contesto americano è qui. Vengo all’ultimo punto perché l’ultimo punto, la famosa appunto differenza fra Stati Uniti ed Europa, la polarizzazione che consente agli Stati Uniti la monetizza del debito, quindi la copertura dei debito attraverso la produzione di cartamoneta di dollari americani. Ecco, è possibile negli Stati Uniti perché si è realizzata. E qui, lo abbiamo detto più volte, è la più formidabile concentrazione di ricchezza e di reddito finanziario. Mai conosciuta nella storia contemporanea. Perché se ancora una volta andiamo a vedere ma chi sono i proprietari delle sei banche che hanno fatto il botto di cui si parlava prima che hanno partorito 100 miliardi di profitti nel giro di nove mesi e che quindi i benefici erano in larga misura dei dividendi partoriti da questi 100 miliardi. La risposta è molto semplice noi troviamo in queste sei banche che la presidenza di tre fondi che sono i soliti mangia BlackRock ed è mediamente oscilla fra il 15 e il 20%. Cioè sono gli azionisti di riferimento. Per intenderci c’è un microchip per quanto riguarda Morgan Stanley. Perché Morgan Stanley per avere questo blocco dei soliti tre Big Three appunto, ha anche una presenza di Mitsubishi, che è intorno al 20%, e Bank of America che aggiunge ai tre principali fondi il fondo Berkshire Hathaway di Warren Buffett. Quindi alla fine noi abbiamo che queste grandi banche sono di proprietà di un numero limitatissimo di fondi, i quali fondi sono, come abbiamo detto più volte, i destinatari del risparmio di milioni di americani e sempre più diventeranno destinatarie di risparmi anche di milioni di europei e di altre parti del mondo, che peraltro sono gli stessi fondi che sono proprietari di gran parte del sistema produttivo e comunque, soprattutto del sistema societario delle principali società del mondo. Quindi questi signori hanno una infinita liquidità. Ora questa infinita liquidità, questi signori lo vorrei dire con chiarezza. Questi tre fondi hanno deciso che la tengono in dollari e la polarizzazione in sta nella misura in cui i fondi che hanno in mano qualcosa come 22 23.000 miliardi di dollari di liquidità che stanno cominciando in maniera sempre più pervasiva a comprare titoli di Stato americani che sono i soggetti che sono presenti in tutte le multiutility del nostro Paese, francesi e inglesi, che sono azioni bene, quindi hanno deciso che le transazioni del mondo si fanno in dollari e non ce ne sono le leggi internazionali che hanno deciso che la liquidità finanziaria va veicolata in dollari. Emettono titoli in dollari di derivati, fanno scommesse in dollari. Cioè questo vuol dire una montagna complessiva che peraltro è molto superiore all’economia reale. Cioè è dieci 23. Non sappiamo più neanche quale sia l’apporto reale, quindi una montagna di carta che può essere accresciuta a dismisura con l’effetto delle speculazioni che però ha un fine. Ha il fine che tutta questa roba continua a girare in dollari. Ma se gira in dollari vale il ragionamento di cui si parlava prima Vale il fatto che la Banca centrale europea, la Federal Reserve, a differenza della Banca centrale europea, può alzare i tassi di interesse. Il debito pubblico americano costa di più, ma alla fine se lo pagano stampando dollari perché essi lo possono pagare stampando dollari. Perché evidentemente i grandi player che ormai hanno nelle mani che è così, Perché se andate a vedere di chi sono le principali assicurazioni che fanno la raccolta del risparmio gestito, beh andate a vedere. Ci trovate dietro che ci sono i tre grandi fondi mondiali, le banche, così le imprese. Così Quindi questi signori hanno deciso che la liquidità è il dollaro. A questo punto, al pari di alti tassi e in qualche modo, appunto, un debito che costa di più negli Stati Uniti ma finanziato con il appunto con l’utilizzo di nuova produzione di dollari, è un volano formidabile di cui il resto del mondo non dispone.

E questo è il punto per cui gli Stati Uniti alla fine si possono permettere delle manovre monetarie, come dire studiando la storia. Noi siamo passati dal mondo di Bretton Woods, dove le grandi potenze si mettono intorno a un tavolo e prova a definire qual è lo strumento monetario col quale fare i pagamenti internazionali. Avendo piena consapevolezza di quanto fosse rilevante. Basti pensare alle posizioni che aveva maturato John Maynard Keynes in quella. In quella circostanza a un mondo nel quale oggi e Bretton Woods non serve, oggi serve che in qualche stanza di qualche mega lussuosissimo albergo degli Stati Uniti si riuniscano i come i difficili e difficilmente identificabili proprietari di questi. Di questi fondi, che sappiamo essere legati da partecipazioni incrociate e per partorire le strategie che sono le strategie, diciamo di natura, Prima di tutto torna a dire valutaria e di definizione delle transazioni per capire dove va, dove va, dove va il mondo.

STERMINIO DEI GIORNALISTI: come Israele impone la sua visione eliminando fisicamente i giornalisti

Diecimila mila uomini armati di tutto punto che avanzano senza problemi; la bandiera israeliana esposta in bella mostra in un selfie celebrativo di gruppo dentro il parlamento di Gaza city; il quartier generale di Hamas circondato e assediato e i vicini arabi costretti a fare spallucce – asse della resistenza compreso – che, al di là delle minacce, sarebbe sostanzialmente del tutto impotente: il trionfo militare di Israele, da tutti i punti di vista, non potrebbe essere più schiacciante e plateale, o almeno così ci viene raccontata. E graziarcazzo: se la cantano e se la suonano.
Sia chiaro: per quanto ne sappiamo, potrebbero anche avere ragione eh? Il problema, però, appunto è: quanto ne sappiamo? Ogni fonte di informazioni indipendente – semplicemente – è stata abbattuta, proprio fisicamente intendo: secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, infatti, dall’inizio del conflitto si contano 9 giornalisti feriti, 13 arrestati, 3 scomparsi e la bellezza di 42 brutalmente assassinati, alcuni insieme anche a tutta la loro famiglia, che non si sa mai. Sostanzialmente tutti erano palestinesi e non erano proprio convintissimi dell’affidabilità delle fonti israeliane; per capire l’entità, in quasi due anni di conflitto in Ucraina i giornalisti morti risulterebbero in tutto 12. E così tutto quello che sappiamo oggi, sostanzialmente, è propaganda israeliana, spesso un po’ cringe: dalla copia magica del Mein kampf incredibilmente intonsa, nonostante sia stata ritrovata in mezzo alle macerie, alla famosa lista dei terroristi carcerieri trovata dentro all’ospedale di al Shifa e ostentata in pompa magna da tutti i media internazionali, a partire da quei geniacci della CNN. Peccato che quelli che indicavano come nomi dei carcerieri, in realtà, fossero i giorni della settimana; il documento scottante era un calendario. S’arrampicano sugli specchi: devono, in tutti i modi, giustificare il fatto di assistere entusiasti a un plateale crimine di guerra e – visto che di prove concrete che l’ospedale nascondesse nei suoi sotterranei nientepopodimeno che il quartier generale di Hamas al momento, stranamente, non ne hanno – s’attaccano a tutto. D’altronde non è la prima volta; è la modalità standard con la quale il giornalismo del mondo libero ha raccontato tutti gli stermini dell’asse del male negli ultimi 20 anni, da quando l’unico giornalismo tollerato è diventato solo ed esclusivamente quello embedded, totalmente controllato dalle forze di occupazione. Tutti i giornalisti occidentali che ora sono a Gaza, infatti, sono al seguito delle forza armate israeliane e hanno come unico mandato quello di fare da megafono alle loro vaccate, e sono l’unica fonte di informazioni che abbiamo. Una bella overdose di post – verità.
In questo video cercheremo di portarvi il punto di vista della parte opposta; ovviamente non è che sia necessariamente più affidabile di una Repubblichina o di una Radio genocidio radicale qualsiasi. In guerra, nessuna delle parti in causa, ovviamente, è molto affidabile: per questo esistono gli osservatori indipendenti. O meglio esistevano, prima che le bombe democratiche e liberali di Israele li sterminassero; l’obiettivo, appunto, era impedire all’altra campana di esistere tout court, e che la propaganda del genocidio diventasse magicamente LA REALTA’. Riusciremo a impedirlo?
Oltre ai pochi giornalisti che non sono a libro paga dell’apparato egemonico israeliano e dei suoi collaboratori, a minacciare di riuscire a portare al grande pubblico informazioni diverse da quelle sciorinate dalla propaganda genocida sionista ci sono le fonti aperte e cioè quell’infinita selva di dati che, nella guerra per procura della Nato contro la Russia in Ucraina, hanno permesso – giorno dopo giorno – di smontare sistematicamente la ridicola propaganda suprematista occidentale, e che in Israele sono stati scientificamente eliminati; lo riporta in un lungo articolo il sito libanese Al-Akhbar: “Sabotaggio GPS sulla Palestina occupata” titola; “i satelliti rivelano la sconfitta di Israele”. L’articolo ricorda come “dopo l’operazione diluvio di al-aqsa del 7 ottobre, Israele ha cercato di impedire agli account di open source intelligence di ottenere informazioni sabotando la tecnologia che fornisce i dati”. Come riportava lo stesso Bloomberg pochi giorni prima l’inizio dell’operazione di terra da parte di Israele, infatti, su richiesta del regime genocida di Tel Aviv Google aveva “interrotto il traffico di dati di Google Maps” su tutta l’area interessata; poco dopo è stato il turno anche dell’applicazione di mappe di Apple. Il Big Tech USA è al servizio del genocidio, senza se e senza ma. Nel caso non bastasse, come riportava Politico il 23 ottobre scorso, l’esercito di occupazione – comunque – aveva provveduto anche a sabotare i satelliti del sistema GPS sopra il confine che separa Israele dal Libano “nel tentativo di impedire ai missili di precisione o ai droni della resistenza libanese di raggiungere i loro obiettivi” (Al-Akhbar).

Ma era solo l’inizio; nei giorni successivi, infatti, Associated Press prima e New York Times dopo erano entrate in possesso di alcune immagini satellitari ad alta definizione che svelavano i movimenti delle forze armate israeliane. A fornirle, due aziende americane: Planet Labs e Maxar Tecnologies, che sono state prese immediatamente per le orecchie; come rivelato dal sito Semafor, il 6 novembre infatti – dopo la pubblicazione di quelle immagini – le due aziende “hanno iniziato a limitare le immagini di Gaza, e Planet Labs ha persino rimosso alcune immagini della Striscia di Gaza dalla galleria scaricabile su abbonamento dal sito web”. Da allora, le poche immagini che le due aziende forniscono esclusivamente ai media di fiducia arrivano comunque con giorni di ritardo: “non è chiaro” scrive Al-Akhbar “il motivo per cui queste aziende hanno interrotto e ritardato i loro servizi e chi ha esercitato pressioni a questo riguardo. Quello che è chiaro, però, è che è nell’interesse dell’entità occupante e del suo esercito”. E allora, giusto per controbilanciare un po’ la propaganda filo – genocidio, vi riportiamo un po’ di informazioni non verificate (e, al momento attuale, non verificabili) della propaganda avversa, e cioè quella dell’asse della resistenza che a tutta questa gloriosa avanzata senza ostacoli delle forze armate israeliane non sembra credere molto: “Da questa mattina” ha dichiarato ad esempio ieri sera in un comunicato ufficiale Abu Ubaida, portavoce delle Brigate al-Qassan, “i nostri mujaheddin sono stati in grado di uccidere 9 soldati sionisti e distruggere completamente o parzialmente 22 veicoli”. Con “questo tributo, che potrebbe essere il più grande sul campo dall’inizio della battaglia” commenta Al-Akhbar “il numero di carri armati e veicoli presi di mira sale a circa 200. Quello che è emerso negli ultimi due giorni” continua Al-Akhbar “è che le brigate Al-Qassam si sono prese il tempo necessario per preparare piani e tattiche, il cui impatto aumenterà nei prossimi giorni”.
“Stiamo combattendo contro i fantasmi” si lamentano gli analisti israeliani: il riferimento, appunto, è alla modalità di combattimento che – come prevedibile – hanno adottato i guerriglieri, in particolare delle brigate Al-Qassam, ma non solo. “Pertanto” sottolinea Al-Akhbar “anche l’obiettivo dell’umiliazione e della sottomissione attraverso il combattimento è impossibile” e, a parte i selfie nel parlamento e l’assedio degli ospedali, la lista degli obiettivi militari che al momento mancano all’appello, secondo la resistenza, sarebbe piuttosto lunghina: nessun pezzo grosso di Hamas, infatti, è stato tratto in arresto; nessuna sala di comando è stata individuata e neutralizzata; non ci sono scese di resa di guerriglieri a favore di telecamere; non c’è un caso di uno qualsiasi dei famosi tunnel liberato e portato sotto il controllo delle forze armate israeliane. “Per questo motivo” commenta Al-Akhbar “Israele non si accontenta dell’azione militare, ma ricorre all’uso di crimini palesi come la distruzione totale di ogni struttura civile e il tentativo di far morire di fame e di malattie il maggior numero di persone”; per trasmettere un’”immagine vittoriosa” un po’ pochino. Per fare qualche passo avanti, continua Al-Akhbar, “l’esercito di occupazione dovrebbe scendere dai mezzi blindati, sgomberare edifici, vicoli e quartieri e confrontarsi direttamente con i combattenti, di strada in strada, cosa che le forze avanzate nel settore occidentale della città non hanno ancora fatto, mentre procedono molto lentamente, dando la massima priorità alla protezione dei soldati dagli attacchi”. “In conclusione” scrive sempre Al-Akhbar “ciò che sinora si può comprendere è che l’operazione di terra non raggiungerà in alcun modo direttamente i suoi obiettivi operativi, e che la ricerca dell’“ago” della vittoria nel “pagliaio” di Gaza si scontrerà, col tempo, con il muro della frustrazione e della futilità, mentre la resistenza avrà riconquistato quasi interamente la posizione e l’iniziativa”.
Nel frattempo, dopo giorni di silenzio da parte dei soliti famigerati razzi provenienti dalla Striscia, negli ultimi due giorni si sono tornate a registrare raffiche significative: “Alcuni video” riporta sempre Al-Akhbar “hanno mostrato migliaia di persone determinate nel nord della Striscia che accompagnavano l’intenso lancio di razzi con applausi e invocazioni ad Allah”. Poche ore prima, Netanyahu aveva cercato di flexare importanti successi militari invitando gli insediamenti produttivi intorno a Gaza a ricominciare il business as usual, dal momento che l’avanzamento dell’iniziativa di terra sarebbe riuscita a smantellare le postazioni da cui venivano lanciati i razzi.
Il ritorno agli attacchi dei razzi da Gaza, oltre alle difficoltà dell’operazione via terra, dipenderebbero anche da un altro fattore: gradualmente, ma inesorabilmente, si starebbero intensificando gli attacchi da nord da parte di Hezbollah, tanto da costringere il ministro della difesa Gollant a spostare una bella fetta delle capacità antiaeree verso nord, e potrebbe essere solo l’inizio. Nel lungo discorso di sabato scorso, Nasrallah infatti ha detto una cosa importante: “Le parole restano sul campo” ha affermato. “La nostra politica attuale è che è il campo a parlare, e poi arriviamo noi a spiegare l’azione”; in soldoni, significa che a valutare quello che dal punto di vista militare è fattibile, da lì in poi saranno direttamente quelli che combattono in prima linea. La direzione politica è quella di sostenere la resistenza palestinese e di obbligare Israele ad essere occupato su più fronti: con che tempi e quali modalità saranno i militari a deciderlo. Poche ore dopo, le azioni sul confine settentrionale di Israele subivano un’accelerazione significativa e “ciò spiega la decisione della leadership sionista di mobilitare un terzo del suo esercito, circa la metà dei suoi sistemi di intercettazione e gran parte della sua aviazione sul confine con il Libano” (Al-Akhbar).
Ma il confine con il Libano non è certo l’unica zona che si sta incendiando: negli ultimi giorni ad essere presa particolarmente di mira, ad esempio, è stata la località turistica di Eilat, la Miami d’Israele; in questo caso, a tenere alta la tensione sarebbero le forze yemenite, che hanno sferrato numerosi attacchi ricorrendo all’utilizzo, come ricorda al Mayadeen, di “droni a lungo raggio, missili da crociera e missili balistici”. A prendere di mira Eilat, poi, ci si sono messe pure le milizie sciite di stanza in Iraq che non si sono limitate ad Eilat; ad essere prese di mira negli ultimi giorni, infatti, sarebbero state alcune basi USA. Solo giovedì scorso, la base di Ain Al Assad in Iraq sarebbe stata raggiunta da 3 diversi attacchi che hanno visto l’impiego sia di missili che di droni.
Per carità, niente di ché. Ma sono gli stessi che quando a compierli sono gli ucraini in Russia, per tre giorni poi i giornali parlano delle falle nella sicurezza del Cremlino e di allargamento della controffensiva in territorio russo. Noi vorremmo evitare di essere così cringe, ecco, però anche far finta di niente con la complicità della propaganda forse non è la strategia migliore, sopratutto se all’Iraq aggiungiamo anche la Siria. In tutto – confermano anche dal Pentagono – si arriva a poco meno di una cinquantina di attacchi. E’ vero: non causano migliaia di vittime civili e non radono al suolo scuole, asili e ospedali, ma se dal gusto per la vendetta e per la carneficina passiamo ai veri obiettivi militari, così a occhio anche Israele non è che abbia ottenuto poi tantissimo di più e se c’è una cosa che negli scorsi 20 anni di stermini indiscriminati in nome della war on terror abbiamo imparato, è che tendenzialmente questi focolai è abbastanza difficile che, a un certo punto, si spengano come per magia. Gli eserciti regolari – che costano una vagonata di soldi e sono composti, in buona parte, da gente che non aspetta altro che tornare a fare qualche rave sulle spiagge della Florida o di Tel Aviv – tendono a perdere piuttosto rapidamente il loro slancio iniziale; i popoli sottoposti alla furia colonialista e all’occupazione, un po’ meno. Anche a 20 anni di distanza, anche quando – con la complicità dei media che chiudevano un occhio – hai fatto finta di scordarteli, ecco che rispuntano sempre fuori, più incazzosi che mai. Che è esattamente quello che, secondo numerosi analisti, era il succo del messaggio di Nasrallah: non ci facciamo illusioni; per la resistenza il tributo di sangue da versare è ancora gigantesco, ma Israele s’è infilato in un vicolo cieco.
Per ora, bisogna ammetterlo, a non averlo capito non è solo Tel Aviv: anche in gran parte dei paesi arabi si fa un po’ finta di niente. La prova è arrivata dalla riunione di sabato della Lega araba; sul tavolo c’era una proposta di risoluzione piuttosto ambiziosa, vista l’assise: si chiedeva di impedire l’utilizzo delle basi della regione agli USA, di congelare il dialogo con Israele e anche di cominciare a mettere un freno alle relazioni economiche. Gli alleati storici degli USA della regione non ne hanno voluto sapere e la resistenza palestinese, comprensibilmente, ha gridato al tradimento.
Per chi sperava in un’alzata di scudi del mondo arabo – almeno di fronte a un genocidio di queste dimensioni e sotto la pressione delle opinioni pubbliche locali – sicuramente si è trattato di una battuta d’arresto significativa. Tra le classi dirigenti reazionarie delle petromonarchie, evidentemente, nonostante i recenti sviluppi – a partire dal ritorno al dialogo tra sauditi e iraniani mediato dalla Cina – sull’indignazione per lo sterminio dei bambini arabi continua a prevalere la diffidenza nei confronti della minaccia che l’Iran e l’asse antimperialista della resistenza rappresenta per la tenuta dei loro regimi feudali e antipopolari. Sono tentennamenti che ovviamente gridano vendetta perché, nel frattempo, lo sterminio procede sostanzialmente indisturbato, ma chi nel nord globale canta vittoria – magari perché, a suon di leggere i reportage embedded della propaganda, s’è fatto un’idea un po’ idilliaca a trionfalistica dei risultati dell’avanzata di terra – potrebbe tutto sommato rimanere deluso (soddisfazione per lo sterminio gratuito di bambini a parte, si intende). Sebbene la Lega araba non abbia adottato la risoluzione di cui sopra, infatti, ne ha comunque adottata un’altra più blanda ma che comunque, in modo unitario, condanna senza se e senza ma il genocidio e chiede un immediato cessate il fuoco, e la partita per spostarla su posizioni più radicali è appena iniziata; per quanto si tratti spesso di regimi dispotici, un certo peso le opinioni pubbliche lo svolgono comunque, sia a livello interno che, più in generale, a livello regional, e nell’insieme della Umma Islamica, la comunità dei fedeli che va oltre ogni confine. E le opinioni pubbliche sono, in maniera schiacciante, solidali con la martoriata popolazione palestinese, e per non consegnarle interamente all’egemonia dell’Iran – che è il vero incubo delle petromonarchie del Golfo e che, come ha sottolineato maliziosamente Nasrallah stesso, è la potenza regionale che rende possibile l’azione dell’asse della resistenza – continueranno ad essere costretti perlomeno a far finta di contrapporsi al piano genocida di Israele.

Justin Trudeau e Emmanuel Macron

Una tensione che ha cominciato a far scricchiolare anche l’asse dei vassalli di Washington – da Macron a Trudeau – che sono stati costretti a dire parole abbastanza chiare sulla totale sproporzione della reazione israeliana, mentre la breaking news che leggo in un’agenzia mentre chiudo questo pippone è che il consiglio di sicurezza dell’ONU (dopo 4 tentativi naufragati) con 12 voti favorevoli e soli tre astenuti avrebbe adottato una risoluzione che imporrebbe una “pausa umanitaria urgente ed estesa e corridori umanitari che attraversino la striscia di Gaza”.
Lo sconvolgimento messo in moto dal diluvio di al-aqsa il 7 ottobre ha portata epocale, un evento storico dentro un mondo che cambia a una rapidità a cui non eravamo più abituati da 70 anni, e tutti i segnali ci continuano a dire che non vada esattamente nella direzione auspicata dall’egemone USA e dai suoi innumerevoli proxy regionali. E se il mondo nuovo avanza, farselo raccontare dai vecchi media suprematisti e dai giornalisti embedded al seguito dell’asse del male potrebbe non avere tantissimo senso.
Forse è arrivato il momento di spegnerli e di accendere Ottolina Tv: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Benyamin Netanyahu

LO SCIOPERO NEGATO: chi vuole vietare lo Sciopero Generale e come fargliela pagare

“CGIL FUORILEGGE” (Il Giornale); “Sindacati selvaggi. Sciopero illegale. La CGIL blocca l’Italia” (Libero); “I sindacati si mettono fuorilegge. La sinistra appoggia la rivolta” (La Verità).
La propaganda filo – governativa ieri, finalmente, si è potuta dedicare con tutta l’enfasi possibile immaginabile alla sua vera grande missione fondativa: la guerra senza quartiere a ogni tentativo del mondo del lavoro di tornare a organizzarsi e tentare di strappare qualche briciola dal banchetto che il governo degli svendi – patria ha imbastito per i ceti parassitari che lo sostengono. Prima ancora che una questione concreta e materiale, per la destra stracciona dei finto – sovranisti è una questione ideologica e di identità, da sempre; è il cuore della retorica squadrista che sola giustifica il sostegno a questo governo di pagliacci inconcludenti della sua base sociale: l’Italietta dei wanna be Briatore che si sono comprati il SUV con i soldi evasi al fisco e sottratti alle buste paga di lavoratori precarizzati e senza diritti o assunti in nero.

Lama, Carniti e Benvenuto con Sandro Pertini

Per incendiare questa foga retorica a favore delle telecamere basta pochissimo: in questo caso, è bastato un primo timidissimo accenno da parte di CGIL e UIL di tornare finalmente a parlare dei salari dei lavoratori italiani, di gran lunga i più vessati e tartassati di tutto l’occidente globale da 30 anni e, con una buona dose di responsabilità proprio da parte dei sindacati stessi, tra i più docili e refrattari a ogni forma di conflitto del vecchio continente. Dopo aver incassato una mazzata dietro l’altra senza muovere foglia, finalmente per venerdì prossimo hanno convocato uno sciopero generale. Lo hanno fatto, ancora una volta, in punta di piedi, come per obbligo e senza troppa convinzione, quasi timorosi di fare davvero quello che uno sciopero generale dovrebbe fare: bloccare il paese, creare disagi enormi a tutti e costringere tutti a rimettere il lavoro in testa alle priorità. Uno sciopero generale monco, senza settori fondamentali come l’acqua, i carburanti, l’elettricità, le telecomunicazioni, le pulizie, i multiservizi e molti altri ancora, eppure più che sufficiente per far scendere sul piede di guerra le istituzioni post democratiche dell’Italia ai tempi della svolta neo – autoritaria: è la famigerata Commissione Garanzia Sciopero, istituita con il consenso e la complicità dei sindacati confederali stessi ormai oltre 30 anni fa e che è il vero e proprio braccio armato del governo contro l’esercizio del diritto alla libertà di sciopero. Di nomina governativa, la commissione si può avvalere di una quantità infinita di regole e regolette create ad hoc per limitare la libertà di sciopero, fino – appunto – a rendere lo sciopero generale sostanzialmente impossibile, una barzelletta. Quando ci sono governi amici, a prescindere dalle mazzate che vengono date ai lavoratori, a non scioperare sono i sindacati e quando – finalmente – al governo c’è una maggioranza politica avversa, e quindi i sindacati provano timidamente a rialzare la testa, ecco che interviene la commissione che lo sciopero lo vieta, o, nella migliore delle ipotesi – ricorrendo alla retorica dei servizi essenziali da garantire sempre e comunque – gli impedisce di creare proprio quei disagi per cui è nato e, quando c’era ancora la democrazia, è sempre stato ritenuto sacro. Per smontare lo sciopero generale di venerdì, a questo giro, addirittura è bastata la vicinanza temporale con tre scioperi indetti in precedenza per il 24 novembre da altre 3 sigle sindacali che niente hanno a che vedere con CGIL e UIL nei settori del trasporto aereo, dell’igiene ambientale e dei vigili del fuoco. Non è una battuta: dopo anni di pace sociale, nonostante ci abbiano rubato tutto, il primo timido sussulto di dignità venerdì prossimo va impedito perché, per la settimana successiva, 3 sindacati minori avevano già dichiarato lo sciopero dell’handling del trasporto aereo, dei lavoratori dell’igiene ambientale e dei pompieri.
Una debacle totale, a meno che non saremo in grado di dimostrargli che, a questo giro, hanno pestato una bella merda: hanno voluto trasformare uno sciopero generale monco di due sindacati confederali in una prova di forza tra l’1% e il 99%. Facciamogli vedere che hanno sbagliato; per un giorno, mettiamo da parte tutte le nostre perplessità – che a noi per primi di sicuro non mancano – e facciamoli pentire di aver anche soltanto pensato di poter impedire con la forza al popolo di rivendicare i suoi diritti. Venerdì invadiamo le piazze e le strade di tutta Italia, con la bandiera del lavoro in una mano e quella palestinese nell’altra. LAVORO E PACE! PACE E LAVORO! A oltranza, fino a che non li abbiamo mandati tutti a casa.
“Il golpe di CGIL e UIL”. Così lo ribattezza a 6 colonne Il Giornale: il golpe. La campagna per il ribaltamento della realtà della destra reazionaria e stracciona del bel paese prosegue a passo spedito; la decisione della commissione di garanzia per gli scioperi di ostacolare con ogni mezzo necessario la mobilitazione indetta per venerdì prossimo è, palesemente, una decisione tutta politica. Non potrebbe essere altrimenti: i vertici della commissione, infatti, sono di nomina politica e hanno il mandato di ostacolare ogni forma di dissenso nei confronti del governo in carica e, per farlo, hanno a disposizione una selva di regole e regolette che si sono andate moltiplicando negli anni – con la connivenza del sindacato confederale stesso – e che hanno il solo obiettivo di rendere lo sciopero un’arma spuntata, sempre più incapace di creare al paese quel disagio necessario per imporre le proprie rivendicazioni nell’agenda politica.
Che quella della destra sia una campagna a tutto tondo contro il diritto di sciopero in sé non viene neanche tanto dissimulato; sotto l’accusa di golpismo ai sindacati per voler esercitare il diritto di sciopero, infatti, c’è una brillante analisi di Felice Manti, caporedattore centrale della testata fondata da Indro Montanelli e con alle spalle un en plein di tutto rispetto nel gotha del giornalismo antipopolare italiano, dal Foglio a Libero: “in ventiquattr’ore” sottolinea “si brucia lo 0,5 per cento del PIL. E’ arrivato il momento di rivederne la regolamentazione”. Magari per abolirne il diritto tout court.
Un posto d’onore nella rubrica “cose che dice la destra che sarebbero una figata se solo fossero vere” spetta anche a Libero: “I sindacati calpestano leggi e Costituzione” titola a sei colonne. Bellissimo: sono 70 anni che infamano la Costituzione socialista e contraria alle libertà individuali per come le possono concepire questi australopitechi pre – umani ma oggi, però, la vogliono difendere contro i lavoratori. “La loro strategia” continua l’articolo “è cercare di paralizzare l’Italia per un mese” e La Verità rilancia “La sinistra appoggia la rivolta”. Mammagari! In realtà, paralizzare tutto fino a che non si ottiene qualcosa di concreto dovrebbe essere esattamente la logica degli scioperi generali, e non solo: nel mondo anglosassone, tra personale sanitario nel Regno Unito e lavoratori dell’automotive americano e autotrasportatori negli USA, ultimamente ne abbiamo avuto qualche bella dimostrazione che si è conclusa con rinnovi contrattuali da capogiro. E in Germania, segnala sempre la commissione, “a marzo e aprile 2023, alcuni dei sindacati maggiormente rappresentativi hanno proclamato numerosi scioperi nei trasporti pubblici al fine di rivendicare un aumento dei salari del 10%, causando una paralisi pressoché totale della circolazione”. Nell’Italia della concertazione, è fantascienza; lo dice candidamente la commissione stessa: “nei servizi pubblici essenziali” si legge “va rivelato come le confederazioni ricorrano allo sciopero raramente”. E sempre meno: contro i “1617 scioperi effettuati nel 2017” ricorda sempre la commissione, nel 2022 siamo scesi a quota 1.129, e si vede. In tutto l’Occidente collettivo, in termini di perdita del potere d’acquisto dei salari l’Italia non teme confronti; una quantità gigantesca di ricchezza che, dalle tasche dei lavoratori, si è spostata nei conti cifrati nei paradisi fiscali dei prenditori, perché il punto sta proprio anche qui. Tornare a far sentire la voce del lavoro è una priorità non solo – ovviamente – per i diretti interessati ma per tutto il paese, che è ormai in pieno declino economico.
E graziarcazzo: se i lavoratori – con i soldi che hanno in tasca – fanno ripartire l’economia nazionale, i prenditori – con i soldi che gli hanno fottuto – l’unica cosa che fanno ripartire sono i mercati speculativi d’oltreoceano, ma non raccontatelo a Libero che, pur di prendere a mazzate il lavoro salariato per sottolineare a quel manipolo di padroncini evasori che lo leggono da che parte sta, è ben contento di contribuire a devastare l’economia dello stivale.

Il compagno Luigi Sbarra (CISL)

O, se proprio – comprensibilmente – con quelli di Libero vi rifiutate di parlare, ditelo almeno al compagno Luigi Sbarra, il segretario di quella gigantesca azienda macina – prebende che è la CISL. “Vedo tante polemiche” ha dichiarato a Rai Radio 1 “e nessuno che dice che in Italia le regole sullo sciopero sono molto chiare, a garanzia sia dei cittadini, che del sindacato”. Sì, certo: del tuo. E questo, comunque, è un altro motivo più che valido per mettersi alle spalle – per un momento – tutte le polemiche e venerdì scendere in piazza senza se e senza ma al fianco di CGIL e UIL, nonostante tutti i distinguo. La partita tra le sigle sindacali, infatti, è piuttosto chiara: un fallimento della mobilitazione – con l’aiutino delle forze repressive dello stato neo – autoritario – sarebbe una grande vittoria per la linea collaborazionista del peggior sindacato italiano. Ma non solo: sarebbe anche una vittoria per tutti quei burocrati piddini della CGIL e della UIL che sulla necessità di tornare al conflitto tirano il freno a mano, o, ben che vada, sostengono l’agenda Draghi esattamente quanto la Meloni e gli svendi – patria al governo, ma vorrebbero gestirla direttamente loro.
Ora, dopo questo pippone, è inutile che ci sommergete di commenti su quanto anche CGIL e UIL siano impresentabili – più o meno – tanto quanto gli altri; non ce n’è bisogno: ne siamo perfettamente consapevoli. Qualche settimana fa, a presa in culo, avevamo pubblicato questo meme:

Apriti cielo: lesa maestà! “Va beh” ha commentato uno storico leader sindacale “un po’ mi dispiace, ma metterò Ottolina Tv fra i leoni del web”. “Vi vedo peggiorati” ha commentato un’altra utente di Facebook, “la satira dovrebbe colpire il potere, no? Prima di commentare, fatevi un esame di coscienza”. A parte la permalosità un po’ fuori luogo per una battuta, però, tutto sommato non erano del tutto critiche infondate: che i confederali non siano nemmeno lontanamente il sindacato di cui avremmo bisogno, credo non ci possano essere grossi dubbi. Qualche dubbio in più, però, è sull’alternativa concreta, ma non solo: se molti dei commenti a quel meme ci criticavano, infatti, una bella fetta andava oltre le nostre intenzioni e rivelava, se mai ce ne fosse stato bisogno, un problema grosso come una casa. Se c’è una fetta consistente di lavoratori incazzati come bisce che vorrebbero più sindacato e più conflitto, infatti, il senso comune – spesso anche tra quelli che possono essere interessati a un canale di controinformazione come il nostro e, ancora di più, altri canali simili al nostro ma con le idee, se possibile, ancora più confuse – purtroppo va in tutt’altra direzione. Non è tanto la politica della CGIL ad essere messa – e ci mancherebbe altro – in discussione e neanche la CGIL in quanto tale, ma proprio – addirittura – il ruolo stesso del sindacato e dei sindacalisti: è in assoluto la più grande vittoria dell’involuzione antropologica imposta da 30 anni di controrivoluzione neoliberista, una forma di primitivismo anarco – individualista che rappresenta il più gradito dei regali possibili per le oligarchie finanziarie e le élite politiche al loro servizio e che i grandi sindacati, per primi, hanno contribuito a realizzare. Il punto è che i grandi sindacati confederali sono diventati, prima di tutto, gigantesche strutture burocratiche che hanno come primo obiettivo la loro sopravvivenza; distributori di prebende, piccoli privilegi e opportunità di carriera varie, i grandi sindacati sono stati presi in ostaggio da una classe di burocrati che con i conflitti che attraversano il mondo del lavoro hanno – ben che vada – rapporti sporadici e occasionali, e organizzare il conflitto è diventata spesso una parte del tutto secondaria del loro lavoro (e per una bella fetta di loro una vera e propria scocciatura). La degenerazione burocratese delle grandi strutture è un fenomeno quasi naturale al quale nessuno ha trovato una soluzione davvero convincente, ma fino a che esisteva la democrazia moderna e lo Stato era il luogo del compromesso tra gli interessi di classi sociali diverse, questa degenerazione rimaneva tutto sommato tollerabile; il grande sindacato confederale, come pezzo dell’ecosistema istituzionale, non faceva le barricate, ma manco era al servizio della controparte. Ma dopo 30 anni di controrivoluzione neoliberista, che hanno trasformato lo Stato nello strumento per eccellenza a disposizione delle oligarchie per imporre i loro interessi egoistici su tutto il resto della società, la degenerazione burocratese è diventata insostenibile; le istanze del mondo del lavoro sono state espulse dal governo del paese e i lavoratori hanno bisogno come il pane di un sindacato che non sia un pezzo dello Stato che li opprime, ma un pezzo dell’anti – Stato che lotta al loro fianco. Da questo punto di vista, tutta l’indignazione che sale dal basso non è solo giustificata: è sacrosanta, almeno fino a quando non degenera in qualcosa di completamente diverso e ancora più reazionario di quello che vorrebbe criticare. A differenza dei giornalisti, infatti, che la controrivoluzione neoliberista ha avuto gioco facile a trasformare nelle più spregiudicate squadracce a difesa dell’ordine costituito e che oggi sono elevate a proprie e vere star del sistema mediatico, per la società post – democratica dove viviamo l’unico sindacalista buono è il sindacalista morto. Pur con tutte le loro degenerazioni, i sindacati – infatti – continuano ad essere essenzialmente un’eresia in mezzo a un mare di ortodossia neoliberista: sono il luogo dove, almeno formalmente, si riconosce il lavoratore come portatore di interessi suoi specifici e dove – a tutela di quegli interessi specifici – si cerca di dotarsi di un’organizzazione e di una struttura.

Orazio Ruscica, segretario del sindacato nazionale autonomo degli insegnanti di religione

Il peggiore dei sindacati è sempre e comunque meglio di nessun sindacato: per questo, quando le condizioni concrete lo permettono, non scendere al fianco della sigla che fino al giorno prima hai infamato e denigrato – e a ragion veduta – non riesco a etichettarlo in altro modo che come settarismo e fuga dalla realtà. Ecco perché venerdì 17 noi come Ottolina saremo in tutte le piazze dove riusciremo ad essere al fianco di CGIL e UIL senza se e senza ma, e per farlo nel migliore dei modi abbiamo bisogno del tuo aiuto: chiunque aderirà a una delle tante manifestazioni di venerdì e volesse diventare inviato di Ottolina per un giorno, ce lo faccia sapere scrivendoci a ottolinatv@gmail.com. Insieme cercheremo di organizzare una maratona per dare a questa fondamentale giornata di mobilitazione il risalto che merita e, magari, anche per provare a spostarne la piattaforma politica in un senso davvero compiutamente progressivo e a favore del 99%, a partire dal nesso inestricabile con la politica internazionale. La mobilitazione globale contro la guerra di Israele contro i bambini arabi, infatti, continua a crescere, e per venerdì 17 il network di shutitdown4palestine ha convocato un’altra giornata di lotta da Portland a Copenhagen. Anche in Italia, un po’ in ordine sparso, sono già state indette innumerevoli iniziative: dalla Sapienza di Roma all’università della Calabria, passando per Napoli. Noi, come Ottolina, faremo tutto quel poco che è in nostro potere per continuare a sottolineare come queste due mobilitazioni – alla fine – sono una cosa sola: dai salari, alle pensioni, alla pace, è arrivato il momento di tenere tutto insieme senza sconti, ma anche senza settarismi, per rilanciare finalmente davvero la lotta senza quartiere del 99% contro l’1%.
Aiutaci a dargli una voce: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Matteo Salvini