Stavolta occhio, rega, che l’argomento è scivoloso. Ovviamente solo agli occhi del piddino dabbene che pensa di salvare il mondo leggendo Repubblica, o Micromega, o il Manifesto. Parleremo di cinema a partire dai libri di John Kleeves, alias Stefano Anelli. Un personaggio molto interessante per i suoi scritti e per l’impossibilità di afferrarne bene l’identità. Ma non parleremo di alcune delle sue ossessioni cinematografiche, come Forrest Gump o la sfortunata diva statunitense Jean Seberg, bensì del film di Spielberg 1941 – Allarme a Hollywood, del 1979. 1941 è il suo sesto film, successivo agli enormi successi di Lo squalo e Incontri ravvicinati del terzo tipo, e relativo flop al botteghino per gli standard di Spielberg, tanto che io sono abbastanza sicuro che è proprio dopo questo film che Spielberg ha cambiato rotta ed è diventato gradualmente lo Spielberg retorico e propagandista che tutti conosciamo. Perché diciamocelo: i suoi primi film, Duel, Sugarland Express, Lo squalo e Incontri ravvicinati del terzo tipo sono grande storia del cinema.
Parleremo di 1941 perché racconta del panico civile e militare seguito all’attacco a Pearl Harbor da parte dei giapponesi e quindi racconta molto del popolo statunitense. Popolo statunitense di cui parla a fondo anche Kleeves, che offre una prospettiva particolare sulla storia degli Stati Uniti come Paese imperialista fin dalle sue origini. La prospettiva di John Kleeves, appunto, sulla quale nel suo complesso concordo soprattutto perché se la leggiamo con gli occhi di oggi, a distanza di decenni dai suoi libri, sembra inquietantemente profetica. Kleeves era uno studioso di politica e cultura statunitensi sul quale online si trovano soprattutto link corrotti o morti. E a proposito di morte, la sua scomparsa tragica e bizzarra solleva ancora oggi più di una domanda, cui non è mai stata data una risposta. Per esempio: perché sulla pagina di Wikipedia dedicata a lui non si fa cenno alle circostanze incredibili della sua morte? Suspance eeeee… sigla!
Il cinema è un medium oggi molto sottovalutato e io penso che invece sia uno strumento di propaganda ancora efficacissimo. Gli altri media, TV, giornali, social… egemonizzano l’informazione – o ciò che ne è rimasto visto che quello di Mentana viene ancora considerato un TG invece che un programma di intrattenimento per minorati mentali, e Propaganda Live alta televisione invece che spazzatura da TV regionale anni ’80 tipo Tele Lecco – mentre il cinema egemonizza la narrazione e l’immaginario. E i “movimenti” dei popoli hanno ragioni e origini narrative, immaginifiche, non informative. L’avevano capito Mussolini e Hitler. Non ci sono ragioni dunque per cui non avrebbe dovuto capirlo, e applicarlo, il deep state statunitense, profondamente fascista (quando non contiguo col nazismo, visto che fascismo e nazismo sono ideologie prepolitiche e fortemente economiche nate in chiave anticomunista, come gli Stati Uniti) e continuamente in guerra col resto del mondo fin da prima che gli stessi Stati Uniti nascessero.
Nel suo libro “I divi di Stato – Il controllo politico su Hollywood”, del 1999, John Kleeves inizia con una metafora folgorante. Immaginate di mostrare a un critico d’arte un manifesto pubblicitario e che questi ne analizzi con grande proprietà di linguaggio – spesso criptica e snob se è di sinistra, retorica e confusa se è Giuli – tutti gli aspetti estetici, linguistici, cromatici e semantici; ma non si accorga che tra le mani ha, appunto, una pubblicità della Coca Cola e non una mera opera d’arte. (tralasciamo il fatto che oggi un’opera d’arte nove volte su dieci non aspira a essere altro che un manifesto della Coca Cola, soprattutto il cinema hollywoodiano e sempre più quello italiano).
“Ebbene esattamente questo è l’atteggiamento dei nostri critici cinematografici di fronte ai prodotti di Hollywood”, scrive Kleeves. “[…] Pensano che i film di Hollywood siano il frutto di artisti o artigiani – i registi – liberi di esprimere la loro visione delle cose e il loro talento, solo condizionati dall’esigenza dei loro finanziatori – le case di produzione. Pensano cioè che l’unico vincolo cui deve sottostare Hollywood sia la redditività commerciale”. E fin qui Kleeves non sta dicendo nulla di nuovo, ma lo dice con molta efficacia. Poi continua, confermando in pieno quello che affermiamo qui a Desaparecinema da ormai 36 puntate, quasi ogni maledetta domenica: “Invece”, continua, “mentre ciò è vero per la generalità dei paesi Occidentali non così è per gli Stati Uniti. Qui la produzione filmica oltre che alla redditività commerciale deve sottostare anche ad un’altra esigenza: fare propaganda per il Paese, nei termini e con le modalità stabilite dal governo. In parole povere Hollywood è controllata dal governo centrale di Washington ed esprime ciò che né più né meno si chiama una filmografia di Stato.”
Kleeves mi aiuta a dire per l’ennesima volta ciò che dico ormai fin troppo spesso: esiste una differenza fondamentale tra “regista” (la maggioranza) e “filmmaker” (uno sparuto gruppo): il regista è un mero dipendente della casa di produzione, un esecutore – e lo è oggettivamente e storicamente a Hollywood da sempre; il filmmaker lavora solo per se stesso, cercando disperatamente di portare a casa i suoi film contro tutto e tutti con una squadra rodata e messa in piedi in anni di lavoro. Lo dico meglio: il regista cerca film OVUNQUE per fare soldi, il filmmaker cerca soldi OVUNQUE per fare i suoi film. Infine, scrive Kleeves: “La situazione negli Stati Uniti è del tutto analoga a quella che si verifica nei paesi totalitari classici, con la sola benché notevole differenza che mentre in questi ultimi la filmografia è completamente finanziata dal governo, che si accolla utili e perdite relative, negli Stati Uniti la medesima si deve autofinanziare: i suoi prodotti devono sia avere la desiderata valenza propagandistica che essere commercialmente validi.” Siamo arrivati al punto: gli Stati Uniti sono un Paese totalitario e usano il cinema come strumento di propaganda. Cioè “Gli Stati Uniti non sono davvero un ‘normale paese Occidentale’”. D’altronde Goldman Sachs, una delle più grandi banche d’affari del mondo, per cui hanno lavorato i distruttori dell’Italia: Draghi, Monti e Prodi; che si è beccata 10 miliardi di dollari di salvataggio dopo la crisi dei subprime (come se non ne fosse stata corresponsabile); che nel 1929 rischiò il fallimento perché aveva adottato il famoso, truffaldino, schema Ponzi; Goldman Sachs, dicevo.
Mentre ci addentriamo nelle argomentazioni tenete sempre a mente 1941 – Allarme a Hollywood. Qui Spielberg si diverte ancora a prendere per il culo ferocemente i suoi connazionali. Dal film successivo invece, Indiana Jones, diventa il cantore della sanguinaria retorica nazionalista statunitense. Quella che stiamo per raccontare. Il co-sceneggiatore Bob Gale ha dichiarato che la trama si basa vagamente su quello che è diventato noto come il Grande Raid Aereo di Los Angeles del 1942, nonché sul bombardamento della raffineria di petrolio Ellwood, vicino a Santa Barbara, da parte di un sottomarino giapponese. Molti altri eventi del film sono basati su episodi reali, tra cui un incidente in cui l’esercito americano piazzò un cannone antiaereo nel giardino di un proprietario di casa sulla costa del Maine. Secondo Kleeves il punto di partenza per spiegare Hollywood sarebbe un’esposizione finalmente corretta della realtà americana in toto, nelle sue componenti di storia e attualità e bonificata dei luoghi comuni, delle falsificazioni e degli equivoci portati da mezzo secolo di inquinamento propagandistico statunitense. Vediamola. E la vedremo applicata anche a 1941 – Allarme a Hollywood.
Per esempio secondo Kleeves la storiella dei 102 padri pellegrini fondatori della prima colonia nordamericana in fuga dalla persecuzione religiosa, nel 1620, sarebbe appunto una storiella per gonzi piddini e non risponde ad alcun metodo storico, che si fonda sulla capacità di valutare i fatti all’interno del contesto più ampio. Non a caso sul viaggio della Mayflower sono stati fatti diversi film, tutti intitolati La lettera scarlatta, e tratti quindi dal romanzo omonimo di Nathaniel Hawthorne: The Scarlet Letter di Sidney Olcott (1908), La lettera scarlatta (The Scarlet Letter) di Victor Sjöström (1926) prodotto dalla MGM di Louis B. Mayer, La lettera scarlatta (Der Scharlachrote Buchstabe) di Wim Wenders (1973), La lettera scarlatta (The Scarlet Letter) di Roland Joffé (1995), il regista di Urla del silenzio e Mission.
In realtà la colonizzazione del Massachussets avvenne poco più tardi da parte di 20.000 Puritani, ala destra del peggiore calvinismo europeo, fedele solo al Vecchio Testamento (che io considero un manuale di strategia e controllo militare in chiave protocolonialista, ma di questo parleremo semmai un’altra volta). E qui Kleeves precisa una cosa che basterebbe e avanzerebbe, e spiegherebbe i successivi quattro secoli di storia statunitense: “Il Vecchio Testamento trasmette un peculiare e fatidico concetto: che la ricchezza materiale è il segno della predilezione divina. Quindi si presta a fare da sovrastruttura religiosa per chi vede la vita in termini di competizione per arricchire, in termini di individualismo materialista. E ciò erano i Puritani: non erano poveri ma tutti ricchi, emigrati nel Nuovo Mondo solo per arricchire ancora di più, e non cercavano la libertà di religione ma adoperavano la religione come schermo per la loro singolare avidità”. E se tenete presente che Kleeves scriveva questa cose prima del 2000, vi sorprenderà coglierne tutta l’attualità. E cioè che questi calvinisti “furono mandati dalla Corona inglese a colonizzare l’America settentrionale per via del Mercato dell’Oriente. Il Mercato dell’Oriente (detto allora delle Indie) sostanzialmente era, ed è, la Cina”. Perciò gli Stati Uniti sarebbero nati perché, per appropriarsi di territori che pullulavano di animali da pelliccia (la zona dei grandi laghi), la merce di scambio più ambita dai cinesi, la Corona inglese inviò i propri uomini al soldo di una vera e propria multinazionale dell’epoca, la Massachusetts Bay Co..
Ovviamente si dimentica sempre un piccolo dettaglio: e cioè che fu necessario commettere un genocidio. Il genocidio degli indiani d’America. Ce lo racconta bene David Stannard nel libro “Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo”. “Dal momento che ai coloni britannici, e successivamente agli americani, non serviva la schiavitù indiana, ma volevano solo la loro terra, fecero appello ad altre fonti di saggezza cristiane ed europee per giustificare il genocidio: gli indiani erano assistenti di Satana, erano selvaggi della foresta, lascivi e assassini, erano orsi, lupi, insetti dannosi. Poiché gli indiani avevano mostrato, secondo quanto si afferma, di rifiutare la conversione al cristianesimo o alla vita civile – e si erano rivelati poco utili come schiavi – sterminarli era considerata l’unica soluzione possibile.”
Arriviamo alla Dichiarazione di Indipendenza del 1776. Anche qui: neppure le tredici colonie americane, quante ne erano diventate nel frattempo, non si rivoltarono per un desiderio astratto di libertà come racconta il Manuale delle Giovani Marmotte di Calenda. La rivolta fu dovuta sempre alle mire commerciali sul Mercato dell’Oriente e non agli interessi del popolo. A quell’epoca infatti era chiaro che l’unico modo per aggredire il Mercato della Cina era arrivare via terra a dei porti sul Pacifico. Si poteva fare solo attraverso il cosiddetto Territorio dell’Ohio, che la Francia aveva girato all’Inghilterra. Ma la Corona, per lasciare il monopolio del commercio con la Cina alla Compagnia delle Indie Orientali, aveva stabilito che quel territorio non era disponibile. Per questo iniziò la ribellione che avrebbe portato alla rivolta. Spiega Kleeves: “Ciò fu possibile perché le colonie, coi loro Parlamenti locali, non erano altro che delle oligarchie dominate dai residenti ricchi. Non fu quindi una rivolta ‘popolare’. La maggioranza dei coloni vi era anzi contraria, ma gli oligarchi locali – i ricchissimi mercanti del Nord come Robert Morris e John Hancock e i grandi latifondisti negrieri del Sud come Thomas Jefferson e George Washington – dirigevano i media ed assoldavano interi eserciti mercenari, e riuscirono a forzare la situazione.” Fu allora che nacque quella che fu artatamente mitizzata anche attraverso il cinema come La Conquista del West e che invece era solo espansione coloniale sanguinaria per raggiungere le cose del Pacifico.
Anche sulla Dichiarazione d’Indipendenza Kleeves ha qualcosa da dire: si trattava un documento di propaganda che serviva a camuffare i reali motivi della ribellione. E perché, sulla Costituzione americana? Diciamo che la sua visione è molto molto verosimile, perché finalmente smaschera un mito universale: che i diritti calati dall’alto siano dovuti a grande magnanimità democratica oppure sempre conquistati dal basso. Non è vero. Per esempio prendiamo la sanità pubblica e gratuita. Storicamente NON È un’invenzione della sinistra sociale ma dei conservatori, e non per il bene disinteressato del popolo. Vi leggo un passaggio preso da Wikipedia, così se sentite aria di gombloddoh potete prendervela con l’enciclopedia del Pentagono: “Il primo sistema sanitario fondato sull’esistenza di assicurazioni sociali finanziate dai contributi dei lavoratori venne istituito da Otto von Bismarck nel 1883 in Germania, ispirato a principi di sussidiarietà, solidarietà e corporativismo, ed ebbe un impatto positivo sulla salute dei cittadini sin dai primi anni. Il sistema si diffuse in Europa sino al 1946, quando il Regno Unito introdusse il modello Beveridge, basato sul finanziamento e sull’erogazione delle cure da parte dello Stato. Dall’introduzione di tale modello alcuni Stati compirono una completa transizione verso di esso, come l’Italia, mentre altri introdussero un sistema misto come la Francia. Tuttavia col crollo dell’URSS e la conseguente apertura all’Occidente del Blocco orientale alcuni Stati, come la Repubblica ceca, rinunciarono al sistema di tipo sovietico per tornare al preesistente modello bismarckiano”. A parte il fatto che “dal crollo dell’URSS” l’intero blocco del welfare occidentale è semplicemente, progressivamente, morto ovunque. Ma non so se sapete chi sono Bismarck e Beveridge. E non so se sapete perché hanno spinto per l’assistenza sanitaria solidale. Per mere ragioni utilitaristiche del capitale. In sintesi: per evitare, il primo, che in epoca di forte industrializzazione i lavoratori morissero troppo presto e non fosse possibile sfruttarli oltre i venti anni. Per ottenere una coesione sociale, il secondo (per conto di Churchill, che il nome “socialismo” non sapeva neppure pronunciarlo), subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. E il nostro Servizio Sanitario Nazionale? Basta sapere che il primo ministro della sanità, nel 1979, appena nato, era Altissimo, del Partito Liberale Italiano (la futura Emma Bonino), unico partito ad aver votato contro la nascita della sanità pubblica, universale e gratuita per tutti. Cioè: “Ok ok, alle lotte della sinistra degli anni ’70 tocca riconoscere qualcosa nonostante noi DC siamo al soldo degli Stati Uniti che la sanità pubblica non sanno neppure cos’è, però almeno sto Servizio Sanitario Nazionale diamoglielo già monco, non sia mai che se funziona dimostra che il socialismo è una buona idea”. E infatti nei decenni successivi invece che implementato è stato progressivamente smantellato. Soprattutto dalla sinistra atlantista che da D’Alema e Prodi passa per Enrico Letta e il compare Renzi e arriva a Draghi e Schlein.
Torniamo alla Costituzione americana. Perché riunirsi in una federazione (e così fondare gli Stati Uniti d’America?)? Per difendere i diritti del popolo? Ancora per il Mercato dell’Oriente. Un obiettivo che – vista la concorrenza (Gran Bretagna, Francia, Spagna) – non poteva essere raggiunto singolarmente dai tredici staterelli. La famosa Costituzione americana stabilisce appunto tale federazione. “Gli americani dicono che il documento – che inizia con le parole WE THE PEOPLE così in maiuscolo – getta le basi di una incomparabile democrazia. Non è vero. I tredici Stati avevano già le loro Costituzioni, che erano chiaramente oligarchiche (potevano votare solo i ricchi, che corrispondevano mediamente, all’epoca, al 20% dei maschi bianchi e adulti), e la Costituzione federale non fa altro che garantire il perpetuamento di tale stato di cose, e riportarlo al livello delle elezioni federali per il Congresso di Washington e per il Presidente. Furono poi aggiunti 24 Emendamenti, dei quali i primi dieci tutti assieme nel 1791 (sono il Bill of Rights – che ha una sola preoccupazione: la libertà di manovra del ceto mercantile, in particolare di quello inter statale, il più ricco; e la Carta dei Diritti) e l’ultimo nel 1971, che non cambiano nulla.”
Kleeves basa le sue considerazioni anche sugli studi di Charles Austin Beard. Douglas Hofstadter, premio Nobel per la fisica e autore di uno dei più bei libri letti nella mia adolescenza, “Gödel, Escher, Bach”, definì Beard come “il più importante tra gli storici americani della sua o di qualsiasi generazione nella ricerca di un passato utilizzabile”. Beard scrisse nel 1913 il libro An Economic Interpretation of the Constitution of the United States. Nonostante la fama internazionale ciò non gli fu perdonato e nel 1917 dovette dimettersi dalla Columbia University per accettare un impiego presso il Municipio di New York. Le traduzioni dei libri di Beard all’estero sono ostacolate anche adesso.
E che c’entra con tutto questo il film di Spielberg 1941 – Allarme a Hollywood? C’entra perché ci regala uno spaccato di come è davvero il popolo americano, prima che l’autore decidesse di iniziare a raccontarlo come non è. Ma soprattutto ci fa capire cosa sarebbe potuto diventare Spielberg se non avesse deciso di diventare anche ideatore di manifesti pubblicitari della Coca Cola invece che un filmmaker puro e indipendente. Sarà un caso che John Wayne, di cui abbiamo parlato a lungo nell’episodio su come la CIA abbia influenzato il cinema hollywoodiano, e Charlton Heston (all’epoca già passato al conservatorismo al punto che Bush gli conferì nel 2003 la Medaglia Presidenziale della Libertà?) abbiano cercato di convincere Spielberg a non girare il film perché lo consideravano antipatriottico? E che dopo il flop di 1941 Spielberg abbia iniziato a fare film ultrapatriottici, esattamente come quelli interpretati da John Wayne? E che Spielberg dentro ce l’aveva già quel’istanza nazionalista, se è vero che, come ha confessato a Stanley Kubrick, in origine il film doveva essere drammatico e non satirico? Direi che per l’ultima volta con 1941 Spielberg ha lavorato kubrickianamente, cioè si è lasciato andare esclusivamente alle proprie straordinarie inclinazioni creative capendo che quella storia – il panico seguito a Pearl Harbor – non poteva che essere raccontata evidedenziando il ridicolo della risposta del popolo statunitense. Esattamente cioè come ha fatto Kubrick quando scriveva Il dottor Stranamore, sull’ipotesi di una guerra atomica coi russi, decidendo a un certo punto che il materiale narrativo era satirico e non seriosamente drammatico. Insomma potremmo dire che Spielberg, da buon americano imperialista, era destinato inevitabilmente a essere un regista nonostante nei primi film abbia disperatamente cercato di essere un filmmaker. Solo un filmmaker infatti è capace di prendersi per il culo come ha fatto Spielberg nella scena d’apertura di 1941, in cui la stessa attrice della scena di apertura de Lo squalo, interpreta la parodia di se stessa. Solo un filmmaker infatti decide di ingaggiare John Belushi pur sapendo che i suoi problemi con l’alcool avrebbero messo in seria difficoltà il piano di lavorazione del film.
Uno dei più importanti critici cinematografici statunitensi, che pare scrivesse anche sull’Unità, visto che quasi non ne azzeccava una, Roger Ebert, ha dato al film una stella e mezza su quattro, scrivendo che il film “sembra forzato e caotico e alla fine non fa molto ridere”. Mentre anni dopo il film sarebbe stato rivalutato da critici come Richard Brody del New Yorker, che affermò che era “il film in cui Spielberg si è avvicinato di più alla libertà” e “l’unico film in cui ha cercato di andare oltre quello che sapeva di poter fare… ma il suo fallimento, combinato con il suo bisogno di successo, lo ha inibito forse definitivamente”.
Come volevasi dimostrare.
Sul sito Petalidiloto.com, si legge che l’avvocato Monica Anelli, nipote di Stefano Anelli, alias John Kleeves, “viene assassinata nel 2010 dallo zio con un colpo di balestra. Kleeves poi si suiciderà (sempre con la balestra) in auto. Stefano Anelli si occupava da anni dell’ingerenza della CIA in Italia, toccando quindi temi molto scomodi. Il suo è un caso classico di duplice omicidio fatto passare per omicidio-suicidio al fine di liquidare il caso senza troppo clamore e senza alcuna indagine”. Certo, il sito che proporne questa tesi non è esattamente una rivista affidabile (anche se lo è di più de La Stampa, a ci vuole pochissimo), ma le domande che pone restano valide. Perché nessuna indagine? Perché suicidarsi in auto con una balestra? Perché, se non aveva alcun motivo di suicidarsi né di uccidere la nipote? Forse perché in questo convegno pubblicato dal sito Arcoiris TV, si chiedeva, già nel 2005, se l’Italia fosse una nazione sovrana? Presto continueremo a riflettere sulle intuizioni che ci offre John Kleeves su Hollywood. Nel suo libro ce ne sono di affascinanti.
Grazie per il concetto regista vs film maker. Userò queste categorie di seguito. Se il film maker è contro tutti allora Guido Chiesa è sicuramente un film maker. Ti segnalo il suo film “io sono con te”. Parla di Gesù e della sua straordinarietà come conseguente ad un imprinting non disturbato. Credo ci sia un nesso causale forte tra imprinting non disturbato e il prevalere del 99%. Nel caso di Echer, Godel e Bach, se si vuol comprendere i loro paradossi, bisogna concepirli come sistemi formali e, uscendone, comprendere che rappresentano la realtà, non sono la realtà. Allo stesso modo focalizzandosi sulla palese ingiustizia nella distribuzione iniqua di risorse tra il 99% e l1% si rischia di alimentare l’ingiustizia stessa. Infatti, lasciando le cause dell’egoismo (nella versione avida per quanto riguarda l’1% e divisiva/ competitiva tra chi fa parte del 99%), fuori dalle nostre analisi, quindi immutate ed efficaci, queste continueranno ad agire aumentando il divario tra 99% e 1%. Se poi si considera la forte connotazione adultocentrica della nostra comunità mettersi dalla parte dei bambini (il che è implicito nel tutelare la fase dell’imprinting) e roba da super film makers
Mi fanno giustamente notare che ho detto una cazzata. L’Hofstadter che cito non è Douglas, l’autore di “Godel, Escher, Bach”, ma lo storico Richard Hofstadter, due volte premio Pulitzer. Scusate, cercherò di stare più attento. Per fortuna il senso non cambia: Beard era in ogni caso un personaggio autorevole.