Presto in arrivo nuove tariffe del 50% sulla Cina, a partire dal 9 aprile, se Pechino non ritirerà l’aumento del 34% annunciato ieri l’altro su centinaia di beni americani. Trump fa sapere che la risposta americana sarà “immediata” e, a suo dire, “proporzionata” e comprenderà anche la sospensione di tutti i colloqui previsti con la Cina; al contrario, verranno avviati immediatamente nuovi negoziati con altri Paesi che hanno avanzato richieste di incontro. L’obiettivo dichiarato: rafforzare la posizione degli Stati Uniti nel commercio globale e interrompere quella che viene definita una “strategia predatoria di lungo periodo” da parte di Pechino.
Il principio di tit-for-tat è un marchio di fabbrica della politica cinese e non deve essere letto come un segnale di ostilità, bensì un meccanismo di equilibrio: a ogni provocazione segue una risposta equivalente, volta a disincentivare l’escalation e promuovere il rispetto reciproco; in questo senso, la Cina ha agito nel segno di una coerenza storica, nonostante tutte le dichiarate minacce. Tuttavia, sembra che questo tipo di risposta, un tempo utilizzata senza troppi problemi, stia ora producendo un’escalation con effetti imprevedibili. Ma le misure del governo USA sono davvero leviataniche per essere ignorate: i settori più colpiti dai dazi, come tecnologia, semiconduttori, acciaio e auto elettriche, hanno visto le tariffe salire fino al 60%, con l’intento dichiarato di riportare la produzione in America.
Il Ministero del Commercio Cinese ha definito le misure come una forma di intimidazione economica e ha promesso di combattere fino alla fine per difendere la propria sovranità economica: così, la Cina ha immediatamente applicato dazi di ritorsione su 120 miliardi di dollari di merci americane e ha imposto nuove restrizioni all’export di terre rare, risorse strategiche utilizzate in settori come l’energia rinnovabile e la microelettronica. La Cina ha inoltre cercato di colpire l’industria bellica americana, aggiungendo 11 aziende statunitensi alla sua “lista delle entità inaffidabili” – tra cui produttori di droni – e ha imposto controlli sulle esportazioni a 16 aziende americane, proibendo l’esportazione di articoli a duplice uso. Il portavoce del Ministero degli Esteri, Lin Jian, ha sottolineato che “la Cina non cerca il conflitto, ma non si farà ricattare”; la posizione di Pechino è chiara: le azioni degli Stati Uniti violano i principi fondamentali dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, danneggiano le catene globali del valore e aumentano l’incertezza sui mercati. E, in effetti, i segnali sono già visibili con il terremoto borsistico di ieri mattina, mentre la Banca Mondiale ha tagliato le previsioni di crescita per il 2025.
Il mondo ha bisogno di stabilità e il solo parlare di trattative è una boccata d’aria per i Paesi: l’indice Nikkei del Giappone è salito del 5,5% rispetto al minimo di un anno e mezzo, dopo che il presidente Trump e il primo ministro giapponese Ishiba hanno concordato di avviare colloqui commerciali durante una telefonata avvenuta questo lunedì sera. Intanto, però, i mercati collassano: Thailandia, Indonesia e Vietnam crollano per il secondo giorno consecutivo.
Voci di corridoio sostengono che, nel fine settimana, Elon Musk abbia cercato personalmente di convincere Donald Trump a revocare i dazi, compresi quelli cinesi: Tesla ha visto le vendite trimestrali in picchiata, con le sue azioni che hanno subito un calo di oltre il 42% da inizio anno. Non si sa a cosa possa condurre questa spaccatura Musk-Trump, ma è certo che chi gioca con il fuoco, prima o poi, è destinato a bruciarsi.