In un’Europa sempre più sconquassata, eternamente sospesa tra il servilismo verso la NATO e i timidi tentativi di liberarsi dal cappio di Washington guardando a Oriente, la Germania ha sempre rappresentato la cartina al tornasole dei cicli storici del vecchio Continente; dopo la caduta del Muro e un processo di unificazione travagliato segnato da enormi disparità economiche e sociali, Berlino era diventata la locomotiva d’Europa, una posizione – va da sé – che le ha più volte consentito di cavalcare i vortici economici in una posizione di forza: le élite e grandi aziende tedesche, specie dopo la crisi finanziaria globale del 2007, hanno sempre saputo trarre i massimi profitti dalle politiche di austerity lacrime e sangue imposte insieme agli alleati nordici al resto delle cancellerie europee, un ciclo di espansione (o, comunque, di resistenza alle crisi) consolidato dal commercio di gas con la Russia e guidato da una politica conciliante con Putin, quando quest’ultimo era ancora considerato uno dei migliori amici dell’Europa.
Dal 24 febbraio 2022, però, la situazione si è totalmente rovesciata: le sanzioni contro l’orso asiatico e l’esplosione del Nord Stream orchestrata dai servizi segreti ucraini col benestare di Washington hanno gettato una pietra tombale sul ricco commercio tedesco, mentre l’élite politica a Berlino, riunita intorno alla debole figura di Olaf Scholtz, veniva squassata da tensioni sempre più frequenti; e il totale allineamento della Commissione Von Der Leyen agli interessi americani e guerrafondai legava sempre più le mani alla politica nazionale per una ricerca di alternative praticabili sul piano energetico, economico e sociale. Un’alternativa, a ben vedere, è emersa, ma non era proprio quella auspicata dal governo Scholtz: la crescita costante di consensi per la formazione xenofoba e di estrema destra Alternative fur Deutschland, con la quale il governo ha dovuto recentemente scendere a patti, nientemeno, per approvare un nuovo giro di vite anti-migranti. Fortunatamente, AfD non è stata l’unica novità del panorama politico tedesco, visto che anche dalle macerie della sinistra Linke è nato qualcosa di innovativo: si tratta della formazione di Sahra Wagenknecht, in costante crescita di consensi strappati a quella che un tempo era una robusta formazione socialista e si è recentemente rivelata una classica variazione della sinistra ZTL.
E’ proprio questa degenerazione della politica neoliberale che la Wagenchnekt analizza nel suo libro, oggetto dell’intervista al sempre ottimo Vladimiro Giacché, occasione più unica che rara per osservare da vicino un esperimento politico di successo che alle classiche accuse della stampa mainstream di populismo, putinismo, rossobrunismo contrappone una bussola di concetti essenziali per rinnovare una politica nazionale che sia davvero dalla parte del 99%. La tesi, tanto semplice quanto rivoluzionaria per i tempi che corrono, è che non può esserci politica senza sovranità nazionale, ovvero che è essenziale per i governi riprendere in mano tutte le leve per imprimere un’inversione di rotta e opporsi non solo al sistema economico neoliberista, ma anche mozzare i tentacoli politici e istituzionali, come la stessa Unione europea, di cui il capitale finanziario mondiale ha sempre più bisogno per accelerare la corsa ai profitti sulla pelle della maggioranza dei Paesi e dei cittadini: sovranità nazionale sui processi produttivi e sul controllo dei profitti e sui confini, non solo per la gestione dei flussi migratori, ma anche per la regolazione del flusso di merci e capitali; sovranità che, a differenza della fregnaccia del sovranismo, significa davvero puntare i piedi e restituire alla maggioranza dei cittadini una leva indispensabile per incidere sul proprio futuro.