Tutta la storia contemporanea, dalla rivoluzione francese in poi, può anche essere letta come storia del conflitto tra nazioni ed imperi, tra comunità nazionali che hanno lottato e lottano per la propria sovranità ed imperi aggressivi e coloniali che cercano di assoggettare altri popoli e nazioni per sottometterli e asservirli ai propri interessi, che si tratti interessi di egemonia e potere o meri interessi economici; in questo periodo di transizione ad un nuovo ordine multipolare, in cui la sovranità e l’autodeterminazione nazionale diventeranno veramente il principio fondante del nuovo equilibrio mondiale, popoli coraggiosi hanno cominciato finalmente ad alzare la testa e le armi contro i propri aggressori e contro l’ordine mondiale costituito, un ordine dove il privilegio della vera sovranità e libertà era ed è riservato a pochissime nazioni del mondo che, per il loro atteggiamento, sarebbe più corretto chiamare veri e propri imperi, le quali, con la guerra armata o anche solo quella economica, non accettano che questo privilegio diventi diritto globale e condiviso. E anche per il nostro Paese e per il nostro continente, ormai da 80 anni militarmente occupato a causa di una guerra persa, la questione della sovranità e dell’indipendenza diventa sempre più una questione dirimente e non più rimandabile, una questione di vita o di morte perché lo spaventoso declino economico, demografico e culturale che stiamo subendo è in gran parte frutto del fatto che non abbiamo la possibilità di portare avanti un’agenda dettata dai nostri interessi e che le nostre classi dirigenti collaborazioniste, sia politiche che economiche e a Palazzo Chigi e come a Bruxelles, sono accuratamente selezionate a monte e supportate dai media dominanti sulla base della loro mediocrità e servilismo nei confronti dell’impero atlantico.
Nuova guerra globale, neoliberismo, tecnocrazia, finanziarizzazione, tutti questi fenomeni di cui sentiamo continuamente parlare e che noi abbiamo deciso di combattere, sono in fondo tutti collegati a questo problema fondamentale: la progressiva perdita di sovranità democratica dei popoli occidentali, una sovranità per la quale avevamo a lungo combattuto e che avevamo in parte anche realizzato dopo la seconda guerra mondiale e che era stata determinante per fenomeni straordinari come la decolonizzazione, uno sviluppo industriale senza precedenti e la formulazione di un diritto internazionale fondato sulla pace e l’autodeterminazione. Ad un certo punto, però, in questo passaggio storico che vi abbiamo raccontato tante volte qualcosa è cambiato: per tutta una serie di motivi che vedremo in questa puntata, i popoli non hanno più avuto le forze per imporre alle oligarchie la strada della libertà e della giustizia che avevano cominciato a tracciare e la sovranità democratica, con la famosa controrivoluzione neoliberista, ha lasciato il posto a qualcos’altro, qualcosa che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi e di cui stiamo pagando severamente le conseguenze
Ma prima di tutto questo, che cosa si intende veramente per sovranità e sovranismo? Chi è che teme l’autodeterminazione delle nostre classi popolari nazionali e la possibilità da parte dell’Europa occidentale di perseguire autonomamente i propri progetti politici, i propri interessi economici, e le proprie espressioni culturali? E, soprattutto, perché queste parole vengono utilizzate in senso dispregiativo e continuamente demonizzate dagli intellettuali, dai politici e dai media mainstream? E persino, in particolare, proprio da quella sinistra che è ormai sinistra solo sulla carta, che dovrebbe farsi portavoce proprio della democrazia e degli interessi popolari? E, infine, quale è stata e quale è la funzione dell’impero americano e dell’Unione europea in questa inesorabile perdita di potere democratico dei popoli e delle nazioni a cui stiamo assistendo? Domande fondamentali, che difficilmente sulla RAI, su Mediaset e su La7 vedrete qualcuno avere l’interesse, o anche solo il coraggio di porsi. Ma qui, per fortuna, siamo su Ottosofia e per questa super puntata dedicata al concetto di sovranità e sovranismo, abbiamo chiesto a 3 dei più importanti intellettuali italiani di spiegarci nel modo più chiaro e semplice possibile tutto ciò che un cittadino europeo politicamente consapevole dovrebbe conoscere su questo tema, in modo da capire quello che sta veramente succedendo nel mondo e, soprattutto, cosa dobbiamo fare per organizzarci e cambiare le cose. Prima però di cominciare e lasciarvi ai momenti fondamentali delle nostre interviste ai professori Carlo Galli, Geminello Preterossi e Vladimiro Giacché, vi invitiamo a iscrivervi a questo canale: a voi richiede meno tempo di quanto impieghi il PD a darci dei fascisti solo perché preferiamo Gramsci ad Elly Schlein; per noi, invece, è fondamentale per portare avanti la nostra battaglia per la democrazia e continuare a proporvi contenuti come questi.
Prima della sovranità nazionale, di cui tutti oggi parlano nel bene o nel male, vi era o la sovranità dell’imperatore che, a centinaia di migliaia di chilometri di distanza, prendeva le decisioni al posto delle comunità locali, o quella del monarca assoluto, o quella delle aristocrazie, che sfruttavano il lavoro del popolo e imponevano dall’alto le decisioni politiche che volevano in base ai loro interessi – una condizione, quest’ultima, alla quale stanno facendo di tutto per farci tornare. La sovranità nelle costituzioni moderne, come ad esempio la nostra, è il modo in cui un popolo afferma il proprio diritto ad esistere ed autodeterminarsi. Negli ultimi 200 anni, dopo aver sconfitto monarchi assoluti, aristocrazie feudali e anche, in parte, il puro sfruttamento borghese-capitalista che aveva ridotto le masse ad una condizione neo-schiavile, le classi popolari occidentali all’interno della cornice dello Stato costituzionale democratico erano riuscite a far valere in parte i propri interessi e plasmare la vita politica in base a questi: la nostra Costituzione, ad esempio, all’articolo 3 parla espressamente della sovranità nazionale come del pilastro fondamentale della Repubblica. La storia, insomma, ci dimostra come lo Stato-nazione sia stata, ad oggi, forse la sola cornice istituzionale e culturale in cui le persone comuni hanno migliorato le proprie condizioni di vita a scapito delle oligarchie imperiali ed autoctone, costruendo un welfare basato sulle tutele e sulla giustizia redistributiva e dando vita a procedure fondamentali come il suffragio universale e l’allargamento dei diritti sociali.
Fino a poco tempo fa, e su questo torneremo tra pochissimo, la cosiddetta sinistra radicata nella tradizione socialista si era fatta portavoce di queste lotte grazie alla sua organizzazione in partiti di massa e riuscendo a ottenere risultati per molti aspetti straordinari. La sinistra del tempo, insomma, era perfettamente consapevole del conflitto sempre in atto tra oligarchie e popolo e tra nazioni e imperi e decidendo di stare dalla parte della sovranità democratica e del 99 per cento, agiva di conseguenza. Solo per restare in Italia, potremmo citare ad esempio ampi stralci dai discorsi e dagli scritti di figure come Togliatti, Basso e Di Vittorio per mettere in luce la profonda diffidenza, se non aperta avversione, che per tutti questi motivi la sinistra socialista nutriva contro ogni dissolvimento dello Stato italiano in una qualche istituzione sovranazionale senza alcuna garanzia democratica; le loro parole, oltre alla consapevolezza del fatto che l’internazionalismo dei popoli non aveva nulla a che con la globalizzazione finanziaria capitalista, esprimevano con ancora più chiara consapevolezza che, almeno nelle condizioni attuali, la sovranità nazionale rimane il presupposto indispensabile per qualsiasi progetto di benessere generalizzato ed emancipazione degli ultimi. Anche sul piano internazionale, a ben vedere, nonostante l’ignobile propaganda che sentiamo sui media di regime, sovranità ed imperialismo sono fenomeni politici opposti e da sempre in conflitto tra loro; e chi nega la sovranità nazionale di un altro popolo con comportamenti coloniali e predatori, o anche solo li delegittima in nome della propria presunta superiorità morale, non fa che preparare il campo all’aggressione
Ma insomma: che cosa è successo, quindi, negli ultimi 40 anni? In che modo in Occidente la sovranità democratica è stata smantellata e le democrazie di massa si sono trasformate nell’oligarchia dei più ricchi al servizio dell’impero atlantico? Da sempre nelle provincie degli imperi vengono allevate dal potere centrale classi dirigenti e mediatiche collaborazioniste, il cui primo e fondamentale compito è quello di delegittimare le forze politiche che rivendicano l’autodeterminazione e l’ affrancamento dal potere imperiale; anche nell’800 ad esempio, nel corso del Risorgimento, da parte delle classi dirigenti italiane che amministravano il territorio per conto degli austriaci si utilizzava il termine nazionalista con lo stesso identico significato dispregiativo. Lo stesso facevano le classi dirigenti indiane filo-inglesi quando l’India era ancora una colonia. Anche per quanto riguarda l’attuale dibattito pubblico italiano su questo tema non siamo di fronte a niente di particolarmente nuovo, ma solo all’ennesimo capitolo nella storia moderna del conflitto tra nazioni ed imperi; e, all’interno di queste stesse nazioni assoggettate, tra le classi dirigenti collaborazioniste, l’occupante e i movimenti che rivendicano l’indipendenza e la sovranità nazionale. Attenzione: questo non significa naturalmente che le forze politiche italiane che si vendono oggi come sovraniste lo siano veramente; a ben vedere, sembrerebbe esattamente il contrario e questo perché la macchina della propaganda e della manipolazione delle forze collaborazioniste è molto più sottile ed efficace di quanto non si immagini, come dimostra in maniera direi quasi cristallina il nostro governo attuale. Le forze che si spacciano in campagna elettorale come difensori delle classi popolari e degli interessi nazionali contro i burocrati stranieri e le ingerenze esterne, sono forze che utilizzano questa sacrosanta istanza sovranista e democratica che proviene direttamente dal popolo per puro marketing elettorale; una volta vinte le elezioni e giunti al governo, si rivelano per quello che sono: gruppetti di potere economico politico che sono lì sin tanto che rassicurano i veri poteri di questo mondo e svendono altre nazioni alle oligarchie in cima alla piramide mondiale. Insomma: politici che hanno il preciso mandato di conservare con gli artigli lo status quo, uno status quo che implica la nostra prostituzione integrale all’impero e la drenaggio dei nostri soldi.
Negli ultimi 40 anni di controrivoluzione neoliberista si è creduto che la storia fosse finita per sempre, ci dice Galli: che la globalizzazione americana avrebbe dominato incontrastata e che l’economia capitalista, lasciata libera di svilupparsi senza ostacoli, avrebbe preso il posto della politica. Naturalmente, erano tutte favole propagandistiche che avevano il preciso compito di congelare i rapporti di forza all’interno dell’impero americano e nel resto del mondo e di legittimare quell’attacco alla sovranità democratica di cui stiamo parlando: è questo il senso profondo del cosiddetto giudizio quasi teologico dei cosiddetti mercati, dei governi tecnici e della politica intesa come pura implementazione di scelte che vengono prese da tecnici e competenti, che, di solito, sono solamente esecutori degli interessi oligarchici e imperiali spacciati per massimi guru delle rispettive discipline. Insomma: in questi anni il mainstream ha tentato di venderci il dominio dei propri padroni e padroncini davvero in tutti i modi possibili e gli unici che avrebbero il diritto di dire cosa fare, cioè il popolo e cittadini, sono anche i soli a dover invece tacere e ingoiare un rospo dietro l’altro.
Ma parliamo adesso più nello specifico del nostro Paese (no, Rampini, non gli Stati Uniti. L’Italia): più di altri Paesi, le classi medio colte italiane hanno dimostrato un amore quasi religioso per tutte le organizzazioni internazionali che promettevano di svuotare il nostro Paese di un altro pezzettino ancora di sovranità. Con l’Unione europea, ad esempio, è stato amore a prima a vista (anche comprensibile, ci verrebbe da dire), ma è un amore continuato anche quando ormai le istituzioni comunitarie si sono rivelate per quello che erano. Perché, nonostante la stragrande maggioranza dell’impresa italiana sia stata e sia tutt’ora colpita – certo, in vari modi e con vari gradi – dalle politiche di austerità e dalla desertificazione industriale vissuta dal nostro Paese, e solo piccole cerchie del grande capitale hanno beneficiato e continuano a beneficiarne, parte del Paese persevera senza sosta a dimostrare questa fede europeista senza se e senza ma? È chiaro che le ragioni economiche non bastano e che siamo di fronte ad una forte resistenza ideologica e culturale che impedisce di guardare in maniera seria e pragmatica alla questione; e per capire più in profondità cosa ha significato e significa l’euro e l’Unione europea nel nostro inconscio collettivo, bisogna fare un po’ di storia. La firma del trattato di Maastricht avvenne nel 1992: l’anno di Tangentopoli, della speculazione contro la lira, delle stragi di mafia; l’anno prima c’era stata la caduta dell’Unione Sovietica, con le sue catastrofiche conseguenze sul pensiero di sinistra occidentale. In quegli anni, insomma, l’Italia, con la fine della DC e del PCI, si ritrova in piena crisi istituzionale e sprovvista delle due grandi ideologie politiche che avevano dato un senso alla sua vita politica fino a quel momento. “Un intero sistema era collassato” riflette Gabriele Guzzi in un articolo scritto su Limes “e le élite italiane valutarono il nostro Paese come sprovvisto di quelle energie sufficienti per affrontare in sicurezza i nuovi scenari globali”; è allora qui che troviamo le radici dell’adesione pseudoreligiosa dell’Italia alla moneta unica e al progetto comunitario che, per noi, non sono mai stati solo un utile strumento per mantenere la pace e portare avanti gli interessi nazionali, ma sono diventati la nuova grande utopia politica a cui fare riferimento, un’ideologia politica con caratteri quasi millenaristici che continua a permeare tutta la nostra cultura politica del secondo millennio. L’unificazione europea era diventata la nuova narrazione sostitutiva, il sol dell’avvenire verso cui convogliare tutte le attese millenaristiche: “Un marchingegno teologico-politico” come lo definisce Gabriele Guzzi in un articolo su Limes “per risolvere la propria crisi d’identità senza interrogarsi troppo sul passato”; “Anche l’euro” continua “fu interpretato come la soluzione della crisi sistemica e generale dei partiti, dell’economia, della cultura e delle istituzioni italiane. Esso non è mai stato per noi solo uno strumento economico. È stato il modo con cui le élite impostarono la nuova identità strategico-culturale del Paese”.
Grazie all’economista Vladimiro Giacché abbiamo abbozzato alcuni tratti fondamentali di quella che è stata definita, non senza vergogna, sovranità europea. Liberato dalla patina propagandistica neoliberale, che continua a dipingerlo come calderone dei peggiori istinti xenofobi e conservatori, lo Stato nazionale è un campo nel quale i cittadini possono, in modo più o meno diretto, modificare le regole comuni avendo ben chiaro, ovviamente, chi esercita il mandato dei cittadini e per fare cosa: la sovranità è quindi un esercizio collettivo fatto di scontri anche aspri, polemiche e dialettica politica, che plasma l’economia, le politiche migratorie, la collocazione nel sistema mondo; nulla di più lontano, sottolinea Giacché, dal processo di centralizzazione oligarchica europea, in cui le elezioni forgiano un parlamento disarticolato in due sedi e del tutto ininfluente sulle politiche comuni. La Commissione Europea continua ad essere guidata dai governi dei singoli Paesi, certamente non votati dal parlamento europeo e a volte nemmeno dai cittadini dello Stato – come nel caso dei meravigliosi governi tecnici che tanto abbiamo avuto modo di apprezzare dalle nostre parti – oppure dei governi frutto di accordicchi e inciuci per contenere i risultati elettorali e rimetterli sui binari della fantomatica stabilità. Tecnici o meno, però, tutti i membri della Commissione hanno una cosa in comune: per elemosinare un minimo di autonomia devono sempre recarsi col cappello in mano dalla BCE. Ma se la leva monetaria contribuisce in prima istanza a disarticolare la sovranità democratica per sottometterla a un’oligarchia finanziaria di banchieri fuori controllo, anche in politica estera e nella gestione dei fenomeni migratori i tentativi di svuotare gli Stati dalle loro prerogative non mancano, come nel caso della regolamentazione delle frontiere: formalmente, lo sappiamo, vigono le regole di Schengen, ma, nella pratica, gli Stati abbastanza grossi da poterselo permettere, come Germania e Francia, queste regole le sospendono a piacimento. Anche qui, come per la politica monetaria, il dibattito non dovrebbe riguardare il risultato di scelte astratte discusse nei salotti televisivi (Immigrazione sì/no, Euro sì/no), ma piuttosto il processo con cui certe regole vengono decise e implementate: per l’immigrazione, evidenzia Giacché, il punto non è leggere l’apertura o la chiusura delle frontiere nazionali con la lente distorta della xenofobia, croce e delizia della destra conservatrice e finto-sovranista. L’obiettivo di una politica sovrana e popolare è quindi evidente: impedire che la gestione migratoria, al pari della moneta o della collocazione internazionale, diventi una leva sottratta allo Stato e affidata a consessi oligarchici più o meno noti, dei quali l’architettura istituzionale europea, seppur eretta in buona fede, non può che ridursi a strumento per demolire qualsiasi forma di opposizione e resistenza.
Il fantomatico superamento, per non dire abbattimento, degli Stati nazionali, come ogni battaglia ideologica, ha sempre avuto bisogno di alleati e li ha trovati (secondo alcuni in modo inaspettato) proprio in quella sinistra snob blairiana che tanto seguito ha avuto in Europa dalla caduta del muro: è quel movimento politico che la filosofa Nancy Fraser chiama neoliberismo progressista e che qui a Ottolina definiamo, più prosaicamente, Sinistra ZTL, una formazione politica moderata, svuotata di qualunque progetto politico sovrano e di ogni afflato critico verso il capitalismo finanziario globale, degradata come uno yogurt scaduto da due anni e fondata sulla stessa pappetta ideologica; è la sinistra dei filo-NATO, degli europeisti a ogni costo, degli estimatori di Tony Blair ma anche della Merkel, dei vari Enrico Letta e Matteo Renzi. In pratica è la sinistra che trova come punto programmatico comune alla destra neoliberale l’abbattimento della sovranità nazionale e dei sistemi di controllo democratico. E anche l’allargamento ad est dell’Unione europea, a ben guardare, ha contribuito a rendere nei fatti impossibile una vera federazione; ma, a questo punto, solo gli sciocchi potranno pensare che una vera federazione sia mai stato il vero obiettivo. Per riportarvi anche qualche numero e dato, è uscito in questi giorni il nuovo rapporto del Censis sui fenomeni socio-economici più significativi del Paese, dove, in conseguenza di tutto ciò che abbiamo detto fino ad adesso, si constata:
- il ritrarsi dalla vita pubblica, con un tasso di astensione che alle ultime elezioni europee del 2024 ha toccato un livello mai raggiunto prima nella storia repubblicana, pari al 51,7% (alle prime elezioni dirette del Parlamento europeo, nel 1979, l’astensionismo si fermò al 14,3%), e una diffusa indifferenza verso quegli strumenti della mobilitazione collettiva che un tempo erano ampiamente utilizzati, visto che il 55,7% degli italiani oggi considera inutili le manifestazioni di piazza e i cortei di protesta;
- la sfiducia crescente nei sistemi democratici, dal momento che l’84,4% degli italiani è convinto che ormai i politici pensino solo a se stessi e il 68,5% ritiene che le democrazie liberali occidentali non funzionino più;
- l’opinione che l’Unione europea sia una sorta di guscio vuoto, inutile o dannoso, se il 71,4% degli italiani è convinto che, in assenza di riforme radicali e di cambiamenti sostanziali, sia destinata a sfasciarsi definitivamente;
- il non riconoscersi più nelle grandi matrici valoriali unificanti del passato, poiché il 70,8% degli italiani esprime oggi un più o meno viscerale antioccidentalismo ed è pronto a imputare le colpe dei mali del mondo ai Paesi dell’Occidente, accusati di essere stati arroganti per via del presunto universalismo dei propri valori, per cui si è voluto imporre il nostro modello economico e politico agli altri; più precisamente, il 66,3% degli italiani attribuisce all’Occidente – Usa in testa – la responsabilità delle guerre in corso in Ucraina e in Medio Oriente (non a caso, solo il 31,6% si dice d’accordo con il richiamo della Nato sull’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil).
Sarà tutta colpa della propaganda del Cremlino? Delle fake news? Oppure le notizie false ce le danno tutti i giorni proprio gli organi del governo, l’oligarchia al potere, quasi tutti i mezzi di comunicazione dominanti, le grandi TV e i “grandi” giornali? Insomma: ci siamo capiti, e non rimane che chiedersi cosa bisogna fare, arrivati a questo punto, per recuperare una vera sovranità democratica e invertire questa tendenza. Alcune cose le abbiamo già dette, e sono tutte cose di semplice e assoluto buon senso ben chiare alla maggioranza delle persone, come abbiamo visto dal rapporto del Censis, così come ben chiare ai partiti quando sono in campagna elettorale. Insomma: riconquista della sovranità nazionale democratica e internazionalismo sono oggi la stessa cosa; solo popoli sovrani, liberi dagli imperi che li assoggettano e dal capitale transnazionale che mira a depredarli, possono ricostruire un nuovo ordine internazionale fondato sulla solidarietà e pari dignità di tutte le nazioni. Pensare, invece, che questo possa avvenire semplicemente cedendo altre competenze dello Stato nazionale a organismi internazionali interamente comandati dalle oligarchie e dalle logiche imperiali, è un errore fatale che in tanti purtroppo, nonostante tutto ciò che sta accadendo, continuano a commettere scambiando la propaganda per informazione o anche solo applicando vecchie ricette politiche al nuovo ed inedito contesto storico. Quindi sì, internazionalismo, ma bisogna capire cosa si intende.
E se anche tu ti auguri la nascita di questo nuovo ordine multipolare in cui l’internazionalismo dei popoli potrebbe finalmente diventare realtà, allora aiutaci costruire un media e un intellettuale collettivo che aggiorni continuamente le categorie politiche e vi aiuti ad individuare i nostri veri nemici. Aderisci alla campagna di donazioni di Ottosofia su PayPal e GoFundMe.
E chi non aderisce è David Parenzo