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Tag: zelensky

L’imperialismo a guida USA sta obbligando l’Europa a inviare truppe in Ucraina?

La guerra totale dell’imperialismo contro il resto del mondo è in corso e non sarà un po’ di propaganda trumpiana acchiappacitrulli ad arrestarla; il consistente pacchetto di aiuti definitivamente approvato martedì scorso dal senato USA e, probabilmente, già reso esecutivo da Rimbambiden quando vedrete questo video, ha suscitato reazioni di sorpresa e di giubilo che sinceramente sono del tutto infondate. Come abbiamo sempre sostenuto da quando è iniziato questo patetico tira e molla nel congresso di uno dei paesi meno democratici del pianeta, che prima o poi gli aiuti sarebbero arrivati non è mai stato in discussione: quello che era in discussione, molto banalmente, era, al massimo, chi da questo tira e molla ci avrebbe guadagnato di più in termini di consenso in vista delle elezioni presidenziali del prossimo novembre e a cosa sarebbero concretamente serviti gli aiuti di fronte alla situazione concreta che, nel frattempo, si era andata determinando sul campo di battaglia; una situazione che, nelle ultime settimane, stava diventando così catastrofica da venire continuamente denunciata anche dai peggiori propagandisti filo – occidentali, pure troppo: nelle ultime settimane, infatti, è stato tutto un inseguirsi di titoli roboanti su un imminente crollo definitivo del fronte e di una debacle totale ucraina, un’eventualità che, come ha sottolineato Boris Johnson in persona (e, cioè, l’uomo che più di ogni altro si è speso per far naufragare i negoziati che avrebbero potuto congelare il conflitto già ormai due anni fa), rappresenterebbe “una vera e propria catastrofe: la fine dell’egemonia occidentale”.
Non è un’esagerazione: una vittoria totale della Russia nella guerra per procura in Ucraina, infatti, non metterebbe fine alla guerra dell’imperialismo contro il resto del mondo, ma a quel che rimane della speranza dell’Occidente collettivo che questa guerra possa avere come esito finale una sconfitta totale del nuovo ordine multipolare e la restaurazione dell’unipolarismo USA, sicuramente sì; e chi pensa davvero che, grazie alle elezioni cosiddette democratiche, i cittadini USA potrebbero davvero decidere di permettere che questo avvenga, a mio avviso rischia di vivere completamente fuori dalla realtà. E’ un po’ come la polemica che ogni 3 per 2 riemerge sul potenziale default americano perché nel congresso parte il solito tira e molla per approvare l’ennesimo innalzamento del debito: a partire, in particolar modo, dall’inizio della terza grande depressione innescata dalla crisi finanziaria del 2008, con un’economia USA totalmente dipendente dalle politiche espansive finanziate a debito dal governo, immancabilmente – almeno un paio di volte l’anno – va in scena la commedia della faida sull’innalzamento del tetto del debito e, immancabilmente, la propaganda analfoliberale ci bombarda per qualche settimana con sempre i soliti titoli sugli USA a rischio default. La tesi è che Trump è un attore politico completamente irrazionale che è pronto a far esplodere il paese per un pugno di consensi in più; e siccome viviamo nel mito della democrazia come libero arbitrio, avrebbe anche ovviamente tutto il potere di farlo: il più grande impero della storia dell’umanità che potrebbe crollare così, da un minuto all’altro, solo perché quella mattina il matto di turno s’è svegliato male e gli girano i coglioni.
Ovviamente il mondo, a parte che nelle redazioni dei giornalacci mainstream, è leggermente più complicato di così; i grandi cambiamenti difficilmente avvengono così, quasi per caso, e l’ipotesi che un leader qualsiasi non tanto voglia, ma proprio concretamente possa starsene seduto lungo il fiume ad aspettare di vedere passare il cadavere della – per usare le parole di Johnson – egemonia occidentale puzza di becero complottismo d’accatto da mille miglia di distanza, che si presenti sotto forma di default dello Stato o di crollo del fronte. Ciononostante, anche se parlare di crollo definitivo del fronte sicuramente rappresenta un’esagerazione interessata, volta a spingere verso la tanto attesa risoluzione del teatrino che ha bloccato per mesi gli aiuti, la situazione sul campo è drammaticamente chiara: con l’antiaerea ormai alla canna del gas, i russi possono vantare un controllo dello spazio aereo quasi totale che gli permette di colpire le infrastrutture strategiche dove e come vogliono, senza svenarsi per saturare la difesa; a terra gli avanzamenti sono lenti e millimetrici, ma inesorabili e, sostanzialmente, lungo l’intera linea dello sconfinato fronte, cosa che aumenta esponenzialmente il depauperamento di uomini e mezzi avversari. Quanto riuscirà ad arginare questa deriva catastrofica il nuovo pacchetto di aiuti?
Prima di provare a capirlo nei dettagli, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra lunga guerra di logoramento contro la dittatura degli algoritmi e, se non lo avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche; a voi non costa niente, ma per noi è fondamentale e ci aiuta nella nostra missione di fare per accelerare, come dice Johnson, il declino dell’egemonia occidentale.

Jens Stoltenberg

“Gli Stati Uniti” scrive sul suo blog l’ex diplomatico indiano M. K. Bhadrakumar “stanno raddoppiando i loro sforzi per frustrare i piani percepiti dalla Russia per una vittoria militare assoluta in Ucraina entro quest’anno”; prima del pacchetto di aiuti sbloccato martedì dal senato USA, a suonare la carica era stato Jens Stoltonenberg che, nella conferenza stampa al termine della riunione dei ministri della difesa dei protettorati della NATO, aveva annunciato che erano state mappate “le capacità esistenti in tutta l’Alleanza, e ci sono sistemi che possono essere messi a disposizione dell’Ucraina”: Stoltoneberg si era detto colpito favorevolmente dagli “sforzi della Germania, inclusa la recente decisione di fornire un ulteriore sistema Patriot all’Ucraina”. Aveva anche annunciato che “oltre ai Patriot, dovremmo essere in grado di fornire anche altre batterie di Samp-T”: “L’Ucraina” aveva sottolineato “sta usando le armi che le abbiamo fornito per distruggere le capacità di combattimento russe, e questo ci rende tutti più sicuri. Quindi il sostegno all’Ucraina non è beneficenza. E’ un investimento nella nostra sicurezza”. Con tutto questo sostegno si è subito precipitato ad affermare a Zelensky “L’Ucraina avrà una chance di vittoria” e, dalle pagine de La Stampa, un instancabile Alberto Simoni – uno dei tanti giornalisti che, dal febbraio 2022, hanno già invaso la Piazza Rossa al fianco dei battaglioni Azov decine e decine di volte – ci fa sapere che “Con le armi che arriveranno, l’Ucraina potrà pianificare una controffensiva e recuperare oltre metà del territorio perso”.
Ma, probabilmente, è una visione leggerissimamente troppo ottimistica: dei 60 miliardi di aiuti militari sbloccati, infatti, il grosso servirà a riempire gli arsenali degli USA e a pagare le spese di tutto quanto di americano è direttamente coinvolto nell’area del conflitto a vario titolo. Di soldi veri per comprare armi vere da mandare in Ucraina, in realtà, ne rimangono meno di 14 miliardi; una fetta importante andrà in munizioni per le quali, però, ad oggi il problema non è mai stato la mancanza di soldi, ma la mancanza di cose che con quei soldi era possibile comprare concretamente: come ricorda anche Jack Detsch su Foreign Policy (che è altrettanto filoatlantista di Alberto Simoni, ma con un senso del pudore un pochino più accentuato) infatti, “Anche con l’approvazione del pacchetto di aiuti, la maggior parte dell’artiglieria di cui l’Ucraina ha bisogno non arriverà al fronte fino al prossimo anno”. “Il problema” avrebbe ribadito, sempre a Foreign Policy, la parlamentare ucraina Oleksandra Ustinova “è che c’è un’enorme carenza, a livello mondiale, di proiettili di artiglieria. Gli europei” avrebbe affermato “hanno detto che ci avrebbero fornito un milione di proiettili, ma ad oggi siamo a meno del 30%. Gli americani da parte loro invece hanno prosciugato le loro scorte e stanno effettuando consegne anche a Israele”; con l’approvazione del pacchetto di aiuti, commenta Detsch, “l’obiettivo dell’amministrazione Biden è ricostruire le scorte di munizioni del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti di cui gli Stati Uniti potrebbero aver bisogno un giorno per combattere una propria guerra, consentendo così alla Casa Bianca margine di manovra sufficiente per iniziare a inviare artiglieria agli ucraini dai magazzini in Europa senza danneggiare la prontezza militare degli Stati Uniti”. “Ma l’aspettativa” continua Detsch “è che l’amministrazione trascorrerà gran parte dell’anno a ricostruire le scorte statunitensi ai livelli prebellici, mentre l’esercito americano punta ad aumentare la produzione di artiglieria a 100.000 colpi al mese entro la fine del 2025”.
Tutto sommato, secondo Franz-Stefan Gady dell’International Institute for Strategic Studies di Londra, nella migliore delle ipotesi l’Ucraina potrebbe arrivare ad avere a disposizione non più di 2.500 colpi al giorno mentre nel frattempo, sottolinea Detsch, “la Russia è sulla buona strada per produrre 3,5 milioni di proiettili nel 2024 e potrebbe riuscire a produrre 4,5 milioni di proiettili entro la fine dell’anno”; in queste condizioni (al contrario dei sogni bagnati delle bimbe di Bandera come Alberto Simoni) il massimo a cui si può realisticamente ambire, appunto, è non capitolare e, appunto, ridimensionare le ambizioni russe di chiudere la partita da vincitori entro l’anno e, magari, prendersi pure Karkiv e Odessa.
Per fare questo ovviamente, oltre a non finire totalmente i proiettili, quello che serve è fortificare il più possibile e, nel frattempo, ricostruire un minimo di antiaerea che impedisca ai russi di sfruttare il dominio dello spazio aereo per tirare giù tutto quello che ostacola l’avanzata delle sue truppe con le bombe plananti teleguidate; il problema, però, è che per costruire le fortificazioni ti servono o grandi mezzi meccanici o tanti uomini belli carichi: i grandi mezzi meccanici, però, o non ci sono o – anche quando ci sono – ci si va abbastanza coi piedi di piombo, perché se manca l’antiaerea per difendere le centrali elettriche, figurati se c’è per difendere i bulldozer e il rischio che il tutto diventi un micidiale tiro al piccione è piuttosto elevato. E sui tanti uomini è meglio stendere un velo pietoso; che siano addirittura belli carichi e in forze peggio che mai: per far finta di poter ambire alle 500 mila nuove reclute che già Zaluzhny, prima di essere defenestrato, aveva chiaramente dichiarato fossero il minimo indispensabile per tenere botta, Zelensky, dopo tanto tribolare, ha finito con l’abbassare l’età minima per il reclutamento da 27 a 25 anni. Il problema è che, in tutto, di cittadini ucraini in quella fascia d’età in tutto il paese ne sono rimasti circa 300 mila; a mantenere qualche parametro minimo per l’idoneità, la cifra si dimezza rapidamente: ed ecco, quindi, che al fronte ci va letteralmente di tutto – compresi, a quanto pare, i disabili, come dimostrerebbe un video virale dal fronte girato negli scorsi giorni che io, sinceramente, mi voglio augurare sia fake perché, altrimenti, dire che siamo messi male è un eufemismo.
Visto che fortificare per bene le linee difensive potrebbe essere una mission impossible, allora l’unica alternativa è dotarsi di missili terra – terra che possano spingere i russi a mantenere le retrovie il più lontano possibile dal fronte; ed ecco così che, finalmente, si parla dell’arrivo dei tanto agognati ATACMS con i loro circa 300 chilometri di gittata, una decisione che, fino ad oggi, gli USA avevano cercato di rinviare perché darebbe la possibilità agli ucraini di intensificare gli attacchi contro le raffinerie direttamente in territorio russo, una tattica che gli USA non sembrano gradire particolarmente visto che rischia di scatenare una corsa al rialzo del prezzo del petrolio che, alla fine, danneggerebbe più Rimbambiden e la sua corsa per la rielezione che non il bilancio russo. Ma ormai la situazione è troppo compromessa e anche questa piccola escalation è inevitabile, anche perché gli ATACMS – come riportavano le fonti anonime ucraine riportate da Politico un paio di settimane fa nel famoso articolo sull’imminente crollo del fronte ucraino – sarebbero indispensabili per pensare, un domani, di poter utilizzare gli F-16 senza vederli venir giù come mongolfiere bucate: secondo l’articolo, infatti, l’antiaerea russa aveva approfittato del ritardo nella scesa in campo del superjet americano per prendere le misure e l’unica possibilità, ora, era poter prendere di mira le installazioni antiaeree russe con missili a lunga gittata; il problema, però, è che gli ATACMS, nonostante costino una fraccata di soldi, non è che siano poi chissà che portento. Anzi, sono un po’ lentini; e che quindi siano in grado di colpire una postazione antiaerea ben protetta potrebbe essere l’ennesima speranza vana.

Maria Zakharova

Non sorprendono, quindi, le parole un po’ sprezzanti e altezzose spese dalla portavoce del ministero degli esteri russo Maria Zakharova alla vigilia dell’approvazione del pacchetto: “Non abbiamo alcun interesse per le voci che provengono dalla Camera dei Rappresentanti sull’approvazione degli aiuti all’Ucraina” avrebbe affermato; “È interessante notare che, in mezzo a questi litigi interni” continua la Zakharova “la Casa Bianca non punta più su una vittoria effimera del regime di Kiev sotto il suo controllo. Tutto ciò che vuole è che le forze armate ucraine resistano almeno fino al voto di novembre senza danneggiare l’immagine di Biden”. “Il motivo per cui l’agonia di Zelensky e della sua cerchia ristretta si prolunga, non è altro che questo, e gli ucraini comuni vengono costretti con la forza al massacro come carne da cannone”; “In ogni caso” ha concluso “i tentativi frenetici di salvare il regime neonazista di Zelensky sono destinati a fallire. Gli scopi e gli obiettivi dell’operazione militare speciale saranno raggiunti pienamente”. Oltre alla solita propaganda trionfalistica, la Zakharova ha però sottolineato anche un paio di questioni piuttosto spinose: la prima è che ha sottolineato come la convergenza dei repubblicani su questo pacchetto, alla fine, era scontata, perché “I repubblicani difendono gli interessi dell’industria della difesa americana, che riceverà la maggior parte degli stanziamenti per l’Ucraina”.
Sul ruolo specifico della lobby dell’industria militare, Jacobin USA ha recentemente pubblicato un’inchiesta decisamente interessante: rivela come, dal 1995 al 2021, nell’ambito di un programma denominato SDEF (che sta per Secretary of Defense Executive Fellows) “Più di 315 ufficiali militari con gradi d’élite fino a colonnello e contrammiraglio sono stati distaccati direttamente presso i principali produttori di armi come Boeing, Raytheon e Lockheed Martin. E l’accordo ha coinciso con un drammatico aumento della spesa del Dipartimento della Difesa per appaltatori privati valutata in trilioni di dollari”; secondo Jacobin si tratta di un potente strumento di lobbying, dal momento che “Oltre il 40% dei borsisti ad un certo punto della loro carriera post militare sono tornati a lavorare per gli appaltatori governativi”, mentre “Per decenni le raccomandazioni dello SDEF si sono costantemente concentrate su riforme che avvantaggerebbero le aziende e rafforzerebbero la loro influenza sul [Dipartimento della Difesa]”: quindi il dipartimento della difesa ti manda a lavorare per un anno in un’azienda privata, poi torni al dipartimento della difesa e, se sei abbastanza bravo da convincerli a fare qualcosa in favore di quell’azienda, quando hai finito il tuo incarico ecco che ti ritrovi un contratto dorato con quell’azienda. Cosa mai potrebbe andare storto?
Beh, che alla fine ci decidiamo davvero a mandarci i nostri uomini, in Ucraina; anche qui siamo di fronte alla solita tattica della rana bollita: i nostri uomini in Ucraina ci sono già e, mano a mano che i pochi ucraini addestrati decentemente che sono rimasti vengono fatti fuori, toccherà mandarne sempre di più (soprattutto mano a mano che mandiamo sistemi d’arma sempre più complicati che gli ucraini non hanno mai visto) anche se, come sottolinea sempre giustamente il nostro dall’Aglio, se pensiamo di andare lì a insegnarli a fare la guerra perché tanto, stringi stringi, pure loro sono slavi come i russi e cosa voi che ne sappiano, rischiamo di fare anche qualche figuretta, dal momento che noi abbiamo qualche competenza nello sterminare qualche esercito più o meno disarmato, ma di come si fa la guerra non dico a un pari o più che pari tecnologico, ma anche a un quasi pari, molto banalmente non abbiamo la più pallida idea. Comunque, la questione è semplicemente quanti ne mandiamo, a fare cosa: come rivelava ancora Politico, sabato scorso, infatti “Gli Stati Uniti stanno valutando la possibilità di inviare ulteriori consiglieri militari all’ambasciata a Kiev”; “I consiglieri, secondo quanto affermato dal portavoce del Pentagono, Pat Ryder, non avrebbero un ruolo di combattimento, ma piuttosto consiglierebbero e sosterrebbero il governo e l’esercito ucraino”.
Ma oltre ai consiglieri, ormai, si sta gradualmente sdoganando il tabù di mandare anche delle truppe, solo che – come sottolinea Foreign Affairs – non è la NATO, ma l’Europa che “dovrebbe inviare truppe in Ucraina”: la rivista del principale think tank neocon statunitense ricorda come, da quando il 26 febbraio Macron ha osato dire ad alta voce quello che tutti pensavano, piano piano gli si sono accodati in diversi, “dal ministro degli esteri finlandese, a quello polacco” per non parlare del sostegno scontato dei paesi baltici; “Minacciando di inviare truppe” sostiene l’articolo, gli europei stanno cercando di convincere Putin a tirare il freno a mano nella sua avanzata, ma “Per cambiare davvero la situazione in Ucraina, tuttavia, i paesi europei devono fare di più che limitarsi a minacciare”. D’altronde, sottolineano, “L’invio di truppe europee sarebbe una risposta normale a un conflitto di questo tipo. L’invasione della Russia ha sconvolto l’equilibrio di potere regionale, e l’Europa ha un interesse vitale nel vedere corretto lo squilibrio”. Gli europei, insiste “Devono prendere seriamente in considerazione lo schieramento di truppe in Ucraina per fornire supporto logistico e addestramento, per proteggere i confini e le infrastrutture critiche dell’Ucraina, o anche per difendere le città ucraine. Devono chiarire alla Russia che l’Europa è disposta a proteggere la sovranità territoriale dell’Ucraina”. Come commenta il nostro amato Billmon su Moon of Alabama “Ciò che vogliono veramente gli americani è che l’Europa combatta la Russia per conto loro, permettendogli di tenersi fuori dai guai”, che è esattamente quello che, come Ottolina, sosteniamo dal 23 febbraio.
Il fatto che, dopo oltre due anni, la situazione determinata dal campo sia molto ma molto peggiore di quanto avessero previsto quelli che sostenevano che le armi russe fossero dei ferrivecchi, che l’esercito russo fosse un’ammucchiata disfunzionale di ubriaconi privi di ogni disciplina e senso tattico e che la Russia di Putin in quanto stazione di benzina con la bomba atomica fosse economicamente già sull’orlo della bancarotta, non cambia le fondamenta della strategia dell’imperialismo USA che ha dichiarato guerra al resto del mondo e cerca di farla combattere, in gran parte, ai suoi vassalli; ha solo reso gli strumenti, ai quali è necessario ricorrere per poter sperare che tutto questo sia sufficiente per non implodere definitivamente, molto più pericolosi e distruttivi, a partire dalla difesa sistematica del primo genocidio in diretta streaming della storia dell’umanità.
Contro la guerra totale architettata dall’impero in declino e contro la succube complicità dell’Europa degli svendipatria, abbiamo bisogno di un media che smonti le puttanate seriali della propaganda e dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Rimbambiden

















L’incredibile confessione dei militari ucraini: aiuti o meno, la guerra è persa

“Luglio 2024. L’esercito russo è alle porte d Kiev”; pochi mesi prima, “Mentre la primavera si trasformava in estate, e gli Stati Uniti dopo mesi di litigio avevano da poco approvato il pacchetto di aiuti da 60 miliardi, le truppe di Putin avevano costretto alla ritirata gli ucraini, e avevano sfondato le linee nel sud e nell’est. E quando alla fine avevano accerchiato la capitale, una nuova ondata di rifugiati era fuggita dall’Ucraina in cerca di sicurezza dai bombardamenti incessanti”. Non è il sogno bagnato di qualche z blogger in cerca di like; è l’incipit dell’inquietante editoriale di qualche giorno fa dell’ultrà filoucraino Iain Martin, firma di riferimento del britannico Times: “Uno scenario da incubo” che però, sottolinea Martin, “è quello che attualmente fuori dai riflettori stanno contemplando tutti i politici occidentali”. E c’è chi si spinge oltre: “Come finirà la guerra russo-ucraina?” si chiede su The American Spectator il fondatore dell’International Political Risk Analytics Samir Tata; “Con una grande sorpresa ad ottobre” è la risposta. “L’Ucraina verrà sciolta e nascerà una Nuova Ucraina in virtù di una dichiarazione unilaterale dell’attuale governo ucraino, con il sostegno dell’alto comando militare. E i confini della Nuova Ucraina coincideranno con il territorio attualmente sotto il controllo amministrativo dell’attuale governo”.
A sdoganare definitivamente – anche tra i propagandisti ultra-atlantisti – l’idea che tutto il fronte ucraino possa definitivamente crollare da un momento all’altro c’ha pensato Politico che ha raccolto le testimonianze anonime di alcuni ufficiali militari ucraini di alto rango: il “quadro militare” che ne è emerso è, per usare eufemismo, “cupo”, con “le forze armate russe che potrebbero avere successo ovunque decidano di concentrare la loro prossima offensiva”. Ora, non è certo la prima volta che la propaganda accetta di riconoscere la gravità della situazione, ma fino ad oggi era sempre stato per fare pressione sugli alleati e spingere per l’approvazione di nuovi aiuti: se solo non esistessero i trumpiani e gli USA approvassero quei benedetti 60 miliardi di nuovi aiuti militari… era un po’ il retropensiero. Ora, però, la musica è cambiata: “Non c’è nulla adesso che possa aiutare l’Ucraina” avrebbe affermato una delle fonti anonime interrogate da Politico, “perché non esistono tecnologie in grado di compensare l’Ucraina per la grande massa di truppe che la Russia probabilmente scaglierà contro di noi. Noi non disponiamo di queste tecnologie e anche l’Occidente non le possiede in numero sufficiente”; “L’Ucraina” commenta Simplicius “non ha più letteralmente alcuna possibilità di fare qualcosa militarmente in questa guerra. L’unica possibilità di sopravvivenza dell’Ucraina e di Zelensky è quella di spingere la Russia ad uno scontro con la NATO”.

Valerij Zalužnyj

Al netto di tutte le millemila differenze, almeno da questo punto di vista sembra la fotocopia della situazione in Medio Oriente, dove Israele sta facendo di tutto per provocare l’Iran e l’intero asse della resistenza nella speranza di trasformare l’inutile e arbitrario sterminio della popolazione palestinese in una guerra regionale dalla quale Washington non possa tirarsi indietro; gli USA speravano di poter gestire comodamente i due fronti attraverso i loro proxy per dedicarsi a tempo pieno alla Grande Guerra contro il vero nemico principale nel Pacifico. Non sembra aver funzionato proprio benissimo, diciamo: oggi entrambi i fronti, senza l’intervento diretto degli USA, rischiano di consegnare una vittoria di portata epocale ai sostenitori del Nuovo Ordine Multipolare. Per l’Impero è un vero e proprio incubo strategico: comunque scelgano di procedere, nella migliore delle ipotesi dovrà fare i conti con una sconfitta epocale in almeno uno dei tre fronti; se decide di tornare a concentrarsi sul Pacifico prima che sia troppo tardi, dovrà accettare la sconfitta strategica sui fronti ucraino e mediorientale. Se decide, invece, di assecondare il tentativo di coinvolgerlo direttamente nei fronti ucraino e mediorientale, dovrà accettare la definitiva ascesa cinese oltre il livello che rende ancora pensabile un intervento USA nell’area; d’altronde quando, per rinviare il tuo declino, decidi di dichiarare guerra al resto del mondo senza aver fatto i conti col fatto che gli strumenti per combattere contro tutti allo stesso tempo non ce li hai più, è così che necessariamente va a finire. Ma prima di addentrarci nei meandri di questa scioccante presa di coscienza da parte della propaganda atlantista, ricordatevi di mettere un like a questo video per permetterci di combattere la nostra piccola guerra contro la dittatura degli algoritmi e, già che ci siete, ricordatevi anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare le notifiche; anche noi, nel nostro piccolo, combattiamo la nostra guerra contro il resto del mondo: il mondo dell’informazione al servizio dell’impero e delle sue oligarchie. E l’unica arma che abbiamo siete voi.
A dare il via all’ultimo valzer di necrologi, mercoledì scorso ci aveva pensato l’Economist: “L’arrivo della primavera in Ucraina” scrivevano “porta due tipi di tregua. Il clima più caldo significa che i frenetici attacchi di missili e droni russi alle infrastrutture elettriche e del gas non saranno così insopportabili. E con il calore arriva anche il fango, e circa un mese durante il quale i movimenti sul campo diventano difficili. Questo dovrebbe ostacolare l’ondata di attacchi russi lungo la linea del fronte che si estende attraverso l’Ucraina orientale e meridionale”. Ma la calma “non durerà” avverte l’Economist: “Mano a mano che la primavera volgerà verso l’estate, il timore è che la Russia lanci una nuova grande offensiva, come ha fatto l’anno scorso. Solo che questa volta la capacità dell’Ucraina di tenerla a bada sarà molto inferiore di quanto lo sia stata allora”; parte della responsabilità è degli ucraini stessi che, alla fine, si sono ritrovati a credere un po’ troppo alla loro stessa propaganda e a quella dei finti amici della propaganda ultra-atlantista, troppo impegnati a inseguire il sogno di spezzare le reni al plurimorto dittatore del Cremlino per potersi occupare anche degli interessi concreti degli ucraini. Infarcito di pensiero magico, “il governo” sottolinea l’Economist, ha continuato a sognare anche fuori tempo massimo “una nuova controffensiva” che evitasse di dover considerare “l’attuale linea del fronte, che taglia un quinto del paese e lo priva della maggior parte del suo accesso al mare, la base per un futuro negoziato di pace”; ed ecco, così, che l’Ucraina ha perso mesi preziosi per concentrare le forze nella fortificazione di una linea difensiva decente: “Nelle ultime settimane” finalmente “gli scavatori hanno cominciato a muoversi e si stanno seminando i denti di drago”.
Potrebbe essere decisamente troppo tardi: “Un anno fa” ha scritto su X Elon Musk “ la mia raccomandazione era che l’Ucraina si rafforzasse e utilizzasse tutte le risorse per la difesa”; adesso, continua, “più a lungo va avanti la guerra, più territori guadagnerà la Russia, fino almeno a raggiungere il Dnepr, che è difficile da superare. Tuttavia, se la guerra dovesse durare abbastanza a lungo, anche Odessa cadrebbe. L’unica vera questione rimasta aperta, a mio avviso” conclude Musk “è se l’Ucraina perderà o meno l’accesso al Mar Nero. Raccomanderei una soluzione negoziata prima che ciò accada”. Grazie all’assenza di fortificazioni, l’esercito russo può ricorrere alla strategia che il quotidiano francese Le Figaro ha definito dei morsi o delle punte e, cioè, una lunga serie di piccoli attacchi su più segmenti del fronte contemporaneamente; non avendo, gli ucraini, uomini e mezzi sufficienti per coprire l’intero fronte, i russi “sono in grado di tormentare l’avversario sul campo, e ottenere così contemporaneamente piccoli avanzamenti, il dissanguamento degli ucraini e l’indebolimento delle loro riserve”, una strategia piuttosto efficace che porta anche siti apertamente schierati come Militaryland a pubblicare annunci disperati come questo: “La 153esima brigata meccanizzata non è più meccanizzata”. “La mancanza di veicoli” riporta il sito “ha costretto il comando ucraino a fare marcia indietro rispetto ai piani originali. La leadership delle forze armate ucraine ha riorganizzato la 153a brigata meccanizzata in una brigata di fanteria” e “potrebbe non essere un evento isolato”; “Secondo le nostre fonti” continua l’articolo “nel prossimo futuro è prevista anche la trasformazione della 152a brigata meccanizzata in una brigata di fanteria”: molto banalmente, “I partner occidentali non forniscono più una quantità adeguata di attrezzature per ricostituire le brigate meccanizzate esistenti” e i russi hanno spesso campo libero. Ad esempio a ovest di Bakhmut, dove i russi, secondo Simplicius, “si preparano a lanciare l’assalto a Chasov Yar”, che “è un importante snodo ferroviario, e soprattutto si trova su una collina che domina l’intero agglomerato difensivo delle forze armate ucraine della regione”, mentre si intensificano “le voci su un’eventuale evacuazione totale della città di Kharkiv, e non solo a causa dei problemi elettrici dopo gli attacchi russi alle centrali, ma soprattutto in previsione dell’apertura di un nuovo potenziale fronte da nord”.
Dalle pagine del Washington Post ( ) Zelensky stesso ha sottolineato la gravità della situazione: “Se hai bisogno di 8.000 colpi al giorno per difendere la linea del fronte, ma ne hai soltanto 2.000” ha affermato “non puoi che arretrare e accorciare la prima linea. E se si rompesse anche questa, i russi potrebbero entrare nelle grandi città”; e i colpi di artiglieria sono solo una parte del problema. Ancora più preoccupante, ammette, è la situazione della difesa antiaerea e, per convincere gli alleati a sbloccare gli aiuti, rinnova una minaccia: se non ci mandate i missili che ci servono, intensificheremo gli attacchi contro aeroporti, strutture energetiche e altri obiettivi strategici in territorio russo. “Mentre i droni, i missili e le bombe di precisione russi sfondano le difese ucraine per attaccare le strutture energetiche e altre infrastrutture essenziali” scrive Il Post, “Zelensky ritiene di non avere altra scelta se non quella di attaccare oltre confine, nella speranza di stabilire una deterrenza”; “Se non esiste una difesa aerea per proteggere il nostro sistema energetico, e i russi lo attaccano” avrebbe affermato Zelensky “la mia domanda è: perché non possiamo rispondere? La loro società deve imparare a vivere senza benzina, senza diesel, senza elettricità”.
L’articolo di Politico di ieri, però, ci regala un’altra prospettiva: “Zelensky” si legge “fa di tutto per sbloccare gli aiuti, ma la triste verità è che, anche se il pacchetto venisse approvato dal Congresso degli Stati Uniti, un massiccio rifornimento potrebbe non essere sufficiente per evitare un grave sconvolgimento del campo di battaglia”. Intanto perché, come avrebbero sottolineato le fonti anonime a Politico, ci sarebbe bisogno di “molti, molti più uomini”: prima di ricevere il benservito, verso la fine dell’anno scorso, il generale Zaluzhny aveva parlato di circa 500 mila uomini, che può sembrare anche una cifra astronomica, ma – in realtà – è poco più degli uomini che dall’inizio del conflitto, tra morti e feriti, l’Ucraina ha perso sul campo di battaglia, senza contare quelli esausti perché, da mesi, sono al fronte senza una minima programmazione della rotazione. Nei mesi successivi, però, abbiamo visto tutti le gigantesche difficoltà incontrate nel reclutamento, con gente che rincorreva i reclutatori a cavallo con l’accetta in mano o li sovrastava con un cespuglio di schiaffi nei centri delle città: ed ecco, così, che alla fine la propaganda di Kiev ha fatto di necessità virtù, con Syrski (che è il sostituto più docile di Zaluzhny) che la settimana scorsa ha avuto la faccia tosta di dichiarare che l’”Ucraina ha bisogno di molte meno truppe di quelle preventivate”; “Il piano” sostitutivo, scrive Politico, “sarebbe quello di spostare in prima linea il maggior numero possibile di personale in uniforme che ora sta dietro una scrivania o comunque non ricopre ruoli da combattenti, dopo un addestramento intensivo di 3, 4 mesi”, ma gli alti funzionari interpellati da Politico hanno affermato che il piano di Sirsky non è realistico e che “sta semplicemente seguendo la narrazione dei politici”.

Oleksandr Syrs’kyj

E poi, ovviamente, c’è il problema degli aiuti che, però, in molti ritengono – molto semplicemente – irrisolvibile perché i soldi si potrebbero anche trovare, a partire dai 60 miliardi USA bloccati dal Congresso; il problema, però, è cosa riesci a comprarci una volta che li hai ottenuti, da una parte perché, come ricorda Simplicius “Gli Stati Uniti hanno già svuotato quasi tutto il loro stock di armi principali in eccedenza utilizzabili per l’Ucraina, dai carri armati, all’artiglieria, per non parlare delle munizioni”, dall’altra perché vale la famosa teoria dell’unica possibilità di Zaluzhny e, cioè, “I sistemi d’arma diventano superflui molto rapidamente, perché i russi sviluppano continuamente nuove modalità per contrastarli”. “Ad esempio” avrebbero dichiarato le fonti militari a Politico, “abbiamo utilizzato con successo i missili da crociera Storm Shadow e SCALP, ma solo per un breve periodo”; una volta entrati in gioco, i russi si sono messi a studiare e hanno capito come contrastarli: “I russi studiano sempre. Non ci danno una seconda possibilità” e noi “semplicemente non riceviamo i sistemi d’arma nel momento in cui ne abbiamo bisogno: e quando arrivano non sono più rilevanti”. Potrebbe essere, ad esempio, il caso degli F-16: si prevede che, entro l’estate, si dovrebbe riuscire a renderne operativi una dozzina, ma – sottolineano le fonti di Politico – “ogni arma ha il suo momento giusto. Gli F-16 erano necessari nel 2023; nel 2024 non saranno più adatti” e questo, appunto, perché la Russia, nel frattempo, si è attrezzata per contrastarli. “Negli ultimi mesi” avrebbero dichiarato le fonti a Politico “abbiamo iniziato a notare missili senza testate esplosive lanciati dai russi dal nord della Crimea. Non riuscivamo a capire cosa stessero facendo, e poi lo abbiamo capito: stavano prendendo le misure”; “La Russia” continua l’articolo “ha studiato dove è meglio schierare i suoi sistemi missilistici e radar S-400, al fine di massimizzare l’area che possono coprire per colpire gli F-16, tenendoli così lontani dalle linee del fronte e dagli hub logistici principali”.
Ma se anche sbloccando gli aiuti le sorti della guerra, ormai, non possono essere in nessun modo ribaltate, perché allora Zelensky continua a minacciare sempre più interventi in territorio russo per convincere gli alleati a sbloccarli? Secondo Simplicius, appunto (come abbiamo già anticipato), Zelensky avrebbe adottato una strategia simile a quella adottata da Netanyahu: provocare il nemico per costringerlo a una reazione tale da costringere gli USA a scendere direttamente in campo; “Mentre la Russia sta schiacciando il potenziale di combattimento delle forze armate ucraine sul campo di battaglia” scrive Simplicius “Zelensky si rivolge all’ISIS per massacrare i civili russi, attacca i grattacieli di Belgorod con droni e artiglieria, e carica i Cessna di bombe per farli precipitare su edifici dove risiedono studenti africani che partecipano a programmi di scambio culturale”. “Prima l’Occidente si renderà conto che la guerra in Ucraina è perduta” ha commentato Belpietro su La Verità “e prima sarà meglio per tutti, in particolare per gli ucraini che, come si può leggere quando la censura imposta da Zelensky non riesce a tappargli la bocca, pensano esattamente ciò che pensiamo noi, e cioè che la situazione sta irrimediabilmente precipitando. Non ci sono armi” continua Belpietro “perché dopo due anni di aiuti all’Ucraina, l’America, l’Europa e gli altri alleati hanno svuotato gli arsenali. E non c’è neppure tempo per produrre missili e aerei, perché dopo 80 anni di pace, i cosiddetti Paesi democratici hanno tenuto in vita l’industria degli armamenti solo per fornire ai dittatori la dose giusta di cannoni e carri armati per reprimere le rivolte. O al massimo per combattere qualche guerra lampo in giro per il mondo contro avversari infinitamente più deboli”.
Per fortuna però che, quando la realtà si fa particolarmente complicata, c’è sempre una via di fuga: fare finta di niente e guardare altrove, che è esattamente quello che hanno deciso di fare i nostri più importanti organi di manipolazione del consenso e dell’opinione pubblica sui quali, della bomba sganciata da Politico, non c’è traccia; al suo posto, la fuffa di Stoltenberg che, di fronte ai ministri degli esteri riuniti a Bruxelles in attesa delle celebrazioni per il 75esimo anniversario della NATO, ha proposto un pacchetto da 100 miliardi in 5 anni per assicurare all’Ucraina tutto il sostegno di cui ha bisogno, anche nell’ipotesi che a novembre alla Casa Bianca arrivi The Donald. Il Foglio l’ha definita enfaticamente “Rivoluzione NATO”, ma il problema di cosa ci si possa realmente comprare con quei quattrini e che impatto possa avere su un fronte prossimo al collasso viene, semplicemente, rimosso; qualcuno sostiene che gli USA non vedano troppo di buon occhio la proposta di Stoltenberg, che segnerebbe un cambiamento importante: invece che non ricevere più aiuti sufficienti dai singoli Paesi, l’Ucraina non li riceverebbe più dalla NATO nel suo insieme.
Peccato, però, che i ministri non siano riusciti a farsi spiegare le titubanze direttamente da Blinken: è arrivato 3 ore in ritardo; il suo aereo ha avuto un guasto ed ha dovuto raggiungere Bruxelles, da Parigi, in auto. Forse, più che mandare fuori tempo massimo inutili aerei in Ucraina, sarebbe il caso di investire per tornare a far funzionare quelli che usiamo noi; la strategia dell’impero, negli ultimi 2 anni, ha rivelato tutte le sue insormontabili criticità: l’unica arma che gli rimane è quella della propaganda che, quando non può completamente distorcere i fatti, si limita a ignorarli, ma la distanza dalla realtà ormai è talmente palese che nascondere le crepe diventa impossibile. Serve solo dargli il colpo finale per far crollare tutto l’edificio: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media in grado di fornire un’informazione completamente diversa, indipendente, ma di parte, quella del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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LA DISFATTA – Gaza, Ucraina, Vietnam: per l’Imperialismo USA la débâcle è MONDIALE

Dopo il settecentesimo voto all’ONU di praticamente tutto il resto del mondo contro l’asse del male USA – Israele – Ucraina più qualche isola della Micronesia, Zio Biden finalmente è stato costretto a far finta di fare la predica a Netanyahu. L’obiettivo? Convincerlo ad accontentarsi di questi 10 mila bambini trucidati e tornare a cancellare la Palestina dalla storia, come era buona usanza prima del 7 ottobre: in silenzio, senza fare troppo rumore, un insediamento illegale e una nuova legge segregazionista alla volta. Nel frattempo, anche per la retorica bellicista in Ucraina è arrivato il momento di fare un passo indietro; d’altronde basta chiedere ai mezzi di produzione del consenso di cambiare, dal giorno alla notte, il senso della parola vittoria: fino a ieri significava riconquistare tutti i territori persi dopo il 24 febbraio (e pure la Crimea). Oggi, come ha affermato il capo del consiglio di sicurezza ucraino Danilov alla BBC, “Già aver continuato a combattere per due anni può essere considerato una vittoria”; e senza l’approvazione di un bel pacchetto di aiuti sostanzioso, il rischio immediato – nei prossimi mesi – è ritrovarsi con un’Ucraina in bancarotta e senza manco più l’accesso al mare.
Anche in Asia le cose vanno peggio del previsto; il Vietnam, ad esempio, veniva annoverato tra le punte di diamante di quella che veniva definita l’Alt Asia, e cioè i paesi in via di sviluppo asiatici che potevano diventare la nuova Cina: altrettanto convenienti, ma molto più docili nei confronti dell’Occidente. Evidentemente, a Washington di cominciare a capire che il mondo è cambiato continuano a non averne molta voglia; l’era delle repubbliche delle banane nel Sud del mondo, infatti – temo – è tramontata per sempre e i paesi sovrani di essere arruolati in qualche schieramento non ne vogliono sapere. Ed ecco così che martedì, ad Hanoi, veniva accolto in pompa magna Xi Dada per inaugurare una nuova stagione di partnership strategica ai massimi livelli tra i due paesi. Attenzione, però: questo non significa che il Vietnam abbia deciso di schierarsi con la Cina; ha deciso piuttosto, appunto, di fare i suoi interessi. Il punto, però, è che un mondo di stati sovrani che fanno i loro interessi e dialogano alla pari con tutti è proprio il mondo che vorrebbe la Cina. E l’incubo degli USA che ormai, ogni giorno che passa, sembrano sempre più intrappolati tra l’incudine e il martello: da un lato vorrebbero continuare a imporre al mondo l’ordine unipolare creato dalla globalizzazione neoliberista dove, al centro, c’è il loro impero finanziario e tutt’attorno gli altri, che possono accompagnare solo; dall’altro, però, dopo aver toccato con mano il fatto che dopo 40 anni di finanziarizzazione non hanno più un’industria in grado di sostenere una guerra contro un’altra grande potenza, vorrebbero “make america great again”.
Il rischio serio è che non abbiano più gli strumenti per perseguire né l’uno né l’altro obiettivo; per l’Occidente collettivo, abituato a dominare incontrastato con la forza il pianeta da ormai 5 secoli, sembra quasi essere una prospettiva inverosimile: ed eccoli, così, che si rifugiano nel mondo incantato della post verità. Lunedì, al senato, Fratelli d’Italia ha organizzato un seminario: “I vantaggi di un mondo post Russia”, era il titolo. E se fosse arrivato il momento giusto per mandarli tutti a casa?
Martedì scorso è tornata in scena l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, chiamata a riunirsi di nuovo in via straordinaria dopo poco più di un mese dal voto del 26 ottobre: sul piatto, ovviamente, c’era – di nuovo – la risoluzione per la richiesta di un cessate il fuoco immediato a Gaza. Venerdì scorso, infatti, per la quinta volta dall’inizio del conflitto il veto USA a sostegno della guerra di Israele contro i bambini di Gaza aveva impedito al consiglio di sicurezza di prendere una decisione; e così la palla torna all’assemblea generale, dove gli USA e l’asse del male dei paesi che appoggiano lo sterminio della popolazione civile di Gaza avevano basse aspettative. Già il 26 ottobre, infatti, erano stati messi in minoranza e l’assemblea aveva approvato la risoluzione per un soffio: 120 favorevoli contro 14 contrari e 45 astenuti. Per approvare una risoluzione relativa a conflitti in corso, l’assemblea generale dell’ONU – infatti – deve superare la maggioranza qualificata dei due terzi che, a quel giro, era stata superata di appena un voto e, da allora, per il Nord globale e per i sostenitori dello sterminio unilaterale come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali le cose non hanno fatto che peggiorare. Il 7 novembre scorso, infatti, si era riunito il terzo comitato dell’Assemblea Generale dell’ONU, responsabile delle questioni relative agli affari sociali e ai diritti umani; l’Occidente collettivo aveva votato compatto per impedire l’adozione di una risoluzione che condannava l’“uso di mercenari come mezzo per violare i diritti umani e impedire l’esercizio del diritto dei popoli all’autodeterminazione”, contro una delibera che prevedeva la “promozione di un’equa distribuzione geografica dei membri degli organi previsti dal Trattato sui diritti umani” (e cioè che a decidere sulle questioni inerenti i diritti umani non fossero sempre e solo i rappresentanti di una piccola minoranza di paesi privilegiati), contro una risoluzione che mirava a promuovere “diritti umani e diversità culturale” – che non sia mai che qualcuno si metta in testa che esistono altre culture legittime, oltre a quella delle ex potenze coloniali – e pure contro un’altra per la “promozione di un ordine internazionale democratico ed equo”. Ma tutte e 4 le volte, fortunatamente, era stato preso a pesci in faccia, ma di brutto proprio: 123 a 54, 126 a 52, 128 a 52 e 130 a 54, che per gli standard USA all’ONU – ormai – comunque è già un mezzo successo, diciamo.
Quattro giorni prima, ad esempio, aveva perso 187 a 2: in ballo c’era la vecchia questione della fine del bloqueo, l’embargo criminale degli USA contro la popolazione cubana che va avanti da oltre 60 anni e che permette agli USA di affamare manu militari un intero popolo e poi dare la colpa al socialismo; a votare contro insieme agli USA – giustamente e coerentemente – il regime fondato sull’apartheid dello stato di Israele. Unico astenuto – l’ultimo bastione della difesa dei valori occidentali contro l’avanzata dei regimi totalitari asiatici – l’Ucraina di Zelensky.
Ma Cuba non è l’unico tema che comincia a presentare delle fratture anche all’interno stesso dell’asse del male dei paesi del Nord globale: spinti da una gigantesca mobilitazione popolare fatta di centinaia di migliaia di persone che, da due mesi, invadono piazze e strade di tutto il pianeta per esprimere la loro indignazione nei confronti del sostegno incondizionato dei loro governi allo sterminio dei bambini di Gaza, anche i paesi dell’Occidente collettivo hanno cominciato a manifestare qualche segno di insofferenza. Tutto sommato, come avevamo annunciato, era abbastanza prevedibile: mano a mano che il tempo passa, infatti, diventa sempre più difficile giustificare la carneficina con il miraggio irrealistico dell’annichilimento di Hamas; in due mesi di sterminio indiscriminato, Israele non sembra essere stato in grado di raggiungere un obiettivo militare che sia uno, ed è sempre più difficile dissimulare la natura meramente genocida dell’operazione militare. Il sostegno dell’Occidente collettivo ad Israele non ha fatto altro che compattare il Sud globale e avvicinare tutto il mondo islamico alle grandi potenze emergenti, accelerando il processo di isolamento delle ex potenze coloniali dal resto del mondo; come abbiamo raccontato in un altro video giusto 3 giorni fa, Putin è stato accolto negli Emirati e in Arabia Saudita come un vero imperatore, e delegazioni di paesi arabi e islamici continuano a recarsi a Pechino, riconoscendole il ruolo di unica grande superpotenza mondiale in grado, oggi, di operare attivamente per la pace e il ritorno della diplomazia, mentre USA e Unione Europea continuano a sfidare ogni senso del pudore continuando ad accusarla di islamofobia per violazioni – più o meno immaginarie – dei diritti umani nello Xinjiang.
Ed ecco, così, che quando martedì sera all’ONU è arrivato il momento della conta, gli USA si sono ritrovati letteralmente accerchiati; prima i due emendamenti presentati dagli USA stessi e dall’Austria sono stati brutalmente rimandati al mittente: insistevano affinché la risoluzione condannasse esplicitamente Hamas. Una sfumatura che nasconde tanta sostanza: accusare Hamas, infatti, è funzionale a descrivere l’operazione in corso invece che come uno sterminio deliberato con finalità genocide da parte delle forze di occupazione, al limite come un semplice eccesso nell’esercizio del diritto alla difesa. Ma la batosta più grande è arrivata al momento del voto della risoluzione: i 120 voti a favore di un mese e mezzo fa, sono diventati 153; in buona parte, sono defezioni che pesano, eccome. Gli USA perdono per strada il sostegno di paesi fondamentali per la loro strategia neocoloniale in Europa, dalla Polonia, ai paesi Baltici; perdono inoltre gli alleati fondamentali per la grande guerra dell’Asia – Pacifico: Australia, Giappone e Corea del Sud, e perdono pure l’unico presunto alleato vero che gli era rimasto nel Sud globale, e cioè l’India di Modi. Gli unici che continuano a vedere con simpatia lo sterminio sono l’Italia e la Germania.
Una batosta epocale che, finalmente, costringe Biden a cambiare un po’ passo: “Duro scontro Biden Netanyahu sulla guerra a Gaza” titola La Repubblichina; “Biden sconfessa Netanyahu” rilancia con un titolone a 4 colonne il Corriere della serva. Rilanciando la sua celebre massima secondo la quale “se non ci fosse stato Israele, ce lo saremmo dovuti inventare”, Biden ha invitato di nuovo l’alleato a non commettere “gli errori che abbiamo commesso noi dopo gli eventi dell’11 settembre” e lo ha messo in guardia: “Israele” ha sottolineato “può contare sul nostro sostegno e su quello dell’Europa e del mondo, ma ha cominciato a perderlo a causa di bombardamenti indiscriminati”. Per riconquistare il sostegno incondizionato dell’Occidente globale nei confronti dell’occupazione e della pulizia etnica, Biden ha annunciato di aver esortato il primo ministro israeliano a procedere con un rimpasto di governo: “L’attuale governo” sottolinea Biden “è il governo più conservatore della storia di Israele” e appoggiandolo incondizionatamente, continua, “ci sono paure reali in varie parti del mondo che l’America potrebbe vedere intaccata la sua autorità morale”; questo è bastato a scatenare da un lato le reazioni furibonde delle componenti più smaccatamente clericofasciste del governo Netanyahu e, dall’altro, l’entusiasmo nelle redazioni dei più moderati tra i sostenitori occidentali del genocidio, ma in realtà potrebbe essere più fuffa che altro. Il piano, infatti, sembra essere piuttosto chiaro: continuare la pulizia etnica – ma con un po’ più di tatto e di savoir faire -, nominare un governo di unità nazionale che “unisca di nuovo gli Israeliani” e rimettere sul tavolo la questione dei due stati ma, proprio come avveniva prima del 7 ottobre, semplicemente come arma di distrazione di massa per tenersi buoni gli alleati arabi che sono stati costretti a dimostrare un po’ di solidarietà nei confronti dei palestinesi per non farsi impalare dalle piazze ma che, in realtà, della causa palestinese – ovviamente – se ne strasbattono i coglioni.
Una svolta, quindi, più cosmetica che altro, ma anche le svolte cosmetiche segnalano sempre qualcosa di più profondo; e, in questo caso, segnalerebbero – appunto – le difficoltà degli USA, che sono per lo meno costretti ad ammorbidire i toni per cercare di mettere un argine all’emorragia di consensi che la loro leadership globale continua a subire, da Gaza all’Ucraina. La seconda notizia del momento, infatti, è il ritorno di Zelensky a Washington: come scrive SIMPLICIUS The Thinker sul suo profilo su Substack “Il Circo Zelensky arriva in città per un ultimo bis”, e anche qui siamo di fronte a un altro arretramento e a un altro tentativo di cambiare la narrativa. Il capo del consiglio per la sicurezza nazionale dell’Ucraina Alexey Danilov, intervistato dalla BBC, lo ammette piuttosto chiaramente: se fino a pochi mesi fa vittoria significava nientepopodimeno che riprendersi tutti i territori e pure la Crimea, oggi il semplice “fatto che abbiamo continuato a difendere il nostro paese per due anni è già una grossa vittoria”; insomma, chi s’accontenta gode. D’altronde oggi le priorità sono cambiate: oggi la priorità è evitare, da un lato, la bancarotta e dall’altro che Putin in primavera si possa riprendere Kharkiv e poi pure Odessa, ricongiungendosi così alla Transnistria e escludendo l’Ucraina dall’accesso al mare; sostanzialmente significherebbe costringere l’Ucraina a costruire e mantenere rapporti di buon vicinato con la Russia, dalla quale dipenderebbe per accedere al mare e, quindi, ai mercati internazionali, entrambe ipotesi che senza un sostanzioso nuovo pacchetto di aiuti da parte degli USA potrebbero rivelarsi drammaticamente realistiche. Per gli interessi strategici USA sarebbe un’altra sberla di dimensioni veramente epiche, motivo per cui, tendenzialmente, sono abbastanza convinto che – alla fine – una qualche soluzione la troveranno, ma al momento è tutt’altro che scontato. Dopo che il congresso, la settimana scorsa, ha negato l’approvazione del nuovo pacchetto da 60 miliardi di aiuti, Zelensky è corso a Washington per provare a convincere i repubblicani: come riporta sempre SIMPLICIUS, “Zelensky avrebbe garantito la volontà di mobilitare altri 500 mila cittadini ucraini. In sostanza gli sta dicendo che se gli danno altri soldi, si impegna a mandare nuova carne da macello al fronte per indebolire la Russia”, ma tra i trumpiani la promessa non sembra avere fatto molta breccia. “Zelensky è qui a Washington oggi per elemosinare i vostri soldi” scrive su Twitter la turbotrumpiana Marjorie Taylor Green “ e Washington guerrafondaia vuole dargli dollari americani illimitati. Quanti soldi spenderà Washington per massacrare un’intera generazione di giovani ucraini mentre Washington combatte la sua guerra per procura contro la Russia?”

Al posto di 60 miliardi, per ora Zelensky si è dovuto accontentare di 200 milioni; un po’ pochino: come ricorda Simplicius, il Kyev Indipendent nel settembre scorso titolava “La guerra contro la Russia costa all’Ucraina 100 milioni al giorno”.
Ma per gli USA c’è anche un terzo fronte che inizia vistosamente a scricchiolare: è quello delle alleanze dell’Asia – Pacifico per contenere la Cina; ne avevamo parlato un paio di settimane fa, quando i titoli dei giornali erano tutti concentrati sul bilaterale tra Xi e Biden nella location dove avevano girato Dynasty a San Francisco, e si erano dimenticati di raccontare cosa stava succedendo attorno. Quello che stava succedendo era la riunione annuale dell’APEC, durante la quale i partner asiatici degli USA si aspettavano di portare a casa la firma definitiva dell’IPEF – l’Indo Pacific Economic Framework – l’accordo commerciale che avrebbe dovuto garantire un bel flusso di investimenti in dollari nell’area e che, però, è malamente naufragato: a opporsi all’IPEF, infatti, erano stati la sinistra democratica e i sindacati – che uno dice: e da quando mai i sindacati e la sinistra democratica contano qualcosa negli USA? Beh, semplice: da quando Biden, mentre veniva preso a sberle dai russi in Ucraina, ha realizzato che quel poco di industria che era rimasta ancora negli USA non era sufficiente per fare la guerra contro una grande potenza. Soluzione? Make america great again: una quantità spropositata di incentivi pubblici per reindustrializzare gli Stati Uniti che, però, potrebbe essere più semplice da dire che da fare, e non solo perché significa aumentare deficit e debito pubblico a dismisura proprio mentre sempre più paesi in giro per il mondo – dopo che hanno visto che fine fanno le riserve in dollari non appena fai qualcosa che non piace a Washington – di comprarsi tutto sto debito non è ce n’abbiano poi tantissima voglia; c’è un problema ancora più profondo. Quando gli USA, infatti, tra delocalizzazioni e finanziarizzazione hanno deciso di devastare la loro capacità produttiva, non l’hanno fatto per capriccio; sono stati costretti. Dopo decenni di stato sviluppista e di politiche keynesiane, infatti, i lavoratori avevano accumulato così tanto potere da mettere seriamente a rischio la gerarchia sociale su cui si fonda il capitalismo, dove io che c’ho il capitale so io, e te non sei un cazzo.
Come scriveva Huntigton nella celebre relazione commissionata nel 1973 dalla commissione trilaterale – e che poi in Italia venne tradotta con tanto di introduzione del compagno Gianni Agnelli – negli USA ormai c’era un eccesso di democrazia che metteva a repentaglio il dominio dei capitalisti; bisognava dare una bella sforbiciata alla democrazia e, per farlo, la cosa migliore era massacrare il mondo del lavoro, che è dove la democrazia nasce e acquista potere: le delocalizzazioni e la finanziarizzazione sono stati gli strumenti che hanno permesso, appunto, di massacrare il mondo del lavoro – e quindi l’eccesso di democrazia che stava turbando i sonni degli onesti multimiliardari. E per 50 anni ha funzionato benissimo: i capitalisti hanno fatto una montagna di quattrini spropositata e gli USA, da una vivace democrazia, si sono trasformati in un’oligarchia; peccato, però, che a guadagnarci non siano stati solo i capitalisti occidentali, ma anche gli stati sovrani del Sud del mondo che si sono sviluppati e ora minacciano il dominio USA.
Ecco quindi che gli USA tornano a investire nella loro industria, ma il problema che 50 anni fa li ha spinti a devastare il tessuto produttivo mica è stato risolto: è sempre lì, ed è bastato tornare a investire nell’economia reale che s’è già fatto sentire, eccome. I lavoratori dell’automotive, negli ultimi mesi, hanno condotto una battaglia epocale che li ha portati a strappare aumenti salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro senza precedenti, e potrebbe essere soltanto l’inizio: “L’inaspettata rinascita dei sindacati americani” titolava ieri un allarmatissimo Financial Times; “Secondo un’analisi di Bloomberg” riporta l’articolo “più di 485.000 lavoratori statunitensi hanno partecipato a 317 scioperi nel 2023, più di qualsiasi altro momento negli ultimi due decenni”. Sono gli stessi sindacati che all’APEC hanno impedito agli USA di rafforzare la loro egemonia nel Sudest asiatico sulla pelle dei lavoratori americani a suon di investimenti per continuare i processo di delocalizzazione e un bel mercato per le loro merci a basso prezzo. Il risultato? Questo: Xi Jinping che viene accolto in pompa magna in Vietnam, appena due settimane dopo l’APEC di San Francisco, per annunciare – come riporta Global Times – “una nuova fase di maggiore fiducia politica reciproca, cooperazione in materia di sicurezza più solida, cooperazione più profonda e reciprocamente vantaggiosa, sostegno popolare più forte, coordinamento multilaterale più stretto e migliore gestione delle differenze”.
Giorno dopo giorno, con una rapidità impensabile fino anche solo a un paio di anni fa, ogni evento di una certa rilevanza sullo scacchiere globale sta lì a certificare che gli USA – al di là di sostenere qualche genocidio in Medio Oriente o lo sterminio di qualche decina di migliaia di soldati in qualche stato fantoccio utilizzato per guerre per procura di ogni genere – oggettivamente non sembrano avere più gli strumenti materiali per continuare a sostenere il dominio sul mondo delle proprie oligarchie; l’unica fortuna che gli rimane è che negli stati vassalli continua a sopravvivere una classe dirigente di scappati di casa che sembrano completamente incapaci anche solo di comprendere cosa gli sta succedendo attorno. Di fronte ai millemila eventi epocali degli ultimi giorni, le prime pagine dei giornali filo – governativi ieri sembravano una parodia: “Case occupate, è svolta” titolava Il Giornale; “Meloni antifascista” rispondeva Libero; “La Meloni in Aula fa a pezzi sinistra e Conte” rilanciava La Verità: da nessuna parte né un titolo sull’impasse israeliana, né uno sulla débâcle di Zelensky, né uno sul Vietnam. Niente. Solo ed esclusivamente armi di distrazione di massa per un popolo di bottegai che si crogiola beato nel suo declino, mentre al senato il principale partito di governo organizza un convegno che sembra una messinscena di Borat: “I vantaggi di un mondo post – Russia” si intitolava.

Giuliomaria Terzi di Sant’Agata

A organizzarlo, l’ex ambasciatore italiano in Israele e Stati Uniti, nonché ministro degli esteri di uno dei peggiori governi in assoluto della storia repubblicana: Giuliomaria Terzi di Sant’Agata, erede del nobile casato lombardo dei Terzi, simbolo eccellente di un paese precipitato di nuovo nell’oscurantismo feudale dove la classe dirigente è così scollegata dalla realtà da impiegare il suo tempo per chiedersi “Cosa succederà quando la Russia non sarà più una federazione ma sarà spaccata in 25 piccoli stati autonomi?
Mai come oggi lo possiamo dire con chiarezza: altro che there is no alternative, altro che il grande disegno del capitale che ha sconfitto i lavoratori ed è destinato a dominare incontrastato in eterno: qui siamo di fronte a degli scappati di casa alla canna del gas. E’ arrivata l’ora di rialzare la testa e di mandarli a casa, dal primo all’ultimo: per farlo, abbiamo bisogno di prima di tutto di un vero e proprio media che sia in grado, giorno dopo giorno, di smascherare le buffonate che ci vorrebbero spacciare al posto dell’informazione. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giuliomaria Terzi di Sant’Agata

La Solitudine di Zelensky: perché l’occidente globale sta voltando le spalle al suo ultimo crociato

Magari mi sono distratto io, ma ultimamente mi sembra che i titoli “copia incolla” sull’occidente unito come un sol uomo che si appresta a concludere trionfante la sua crociata contro la giungla selvaggia che ci assedia vadano un po’ meno di moda; eppure, per mesi e mesi sulle prime pagine di tutti i principali giornali italiani non c’è stato letteralmente altro.

Viene quasi il sospetto che qualcosa sia andato storto e che ora non sia esattamente chiarissimo come salvare la faccia se non, appunto, attraverso l’oblio.

La controffensiva ormai è relegata alle pagine di cultura e società: invece che militare, sembra la controffensiva dei selfie, o dei killfie, come si dice in gergo. Il termine indica il fenomeno delle persone disposte a tutto pur di catturare lo scatto perfetto e che alla fine ci lasciano le penne, e nella guerra ucraina ha raggiunto una dimensione tutta nuova: 13 morti, in una botta sola.

Tanti sarebbero gli uomini dei servizi segreti militari di Kyev, caduti mercoledì scorso nel tentativo di sbarcare in Crimea per realizzare un video che ritrae incursori che sventolano la bandiera ucraina e dicono felici che “la Crimea sarà ucraina o disabitata”, scrive il Messaggero.

In tutto, ricostruisce il Messaggero, “una trentina di marinai ucraini che alle 2 di notte hanno puntato verso la Crimea su un’imbarcazione veloce e 3 moto d’acqua”, che sono state “prima intercettate da un pattugliatore della marina russa, poi attaccate dagli aerei e costrette al ritiro. Il video però”, sottolinea non ho capito quanto sarcasticamente il Messaggero, “è stato girato e postato”.

E io che mi lamento che per fare un video mi devo leggere qualche articolo di giornale. Che ingrato.

D’altronde, a breve, gli smartphone con le camere di ultima generazione potrebbero essere l’unica arma che l’occidente è ancora disposto a fornire per questa guerra per procura, che rischia di rimanere senza procuratori; nonostante le tonnellate di inchiostro sprecato per tentare di convincerci che l’iperinflazione, i tassi di interesse alle stelle e la recessione incombente non fossero altro che leggende metropolitane spacciate dai gufi e dagli utili idioti della propaganda putiniana, sembra quasi che per la realtà sia arrivato il momento di presentare il conto. Non poteva andare altrimenti.

Nonostante negli ultimi 50 anni le élite politiche del nord globale non abbiano fatto altro che restringere ogni spazio di democrazia, fortunatamente qualcosina in eredità ci è rimasto

e, mano a mano che per le élite che negli ultimi 18 mesi hanno sacrificato gli interessi della stragrande maggioranza dei loro cittadini si avvicina lo spettro delle urne, il mondo fatato immaginario dipinto dalla propaganda del partito unico della guerra e degli affari comincia a scricchiolare.

Il primo clamoroso esempio è stata la Polonia, che sul sostegno all’Ucraina senza se e senza ma ha tentato, con il supporto incondizionato di Washington, di riconfigurare completamente il suo status all’interno dell’Unione Europea; sotto stretta osservazione per le sue palesi violazioni dei requisiti minimi di uno stato di diritto, nell’arco di poche ore si era magicamente trasformata nella paladina più intransigente del mondo democratico contro i totalitarismi.

Evidentemente, però, l’operazione di maquillage ideologico ha convinto più i rubastipendi che stanno in villeggiatura a Bruxelles che non i contadini polacchi, che inspiegabilmente sono così maleducati da preoccuparsi più di non finire in miseria che non di immolarsi in nome della retorica democratica.

La storia la conoscete: da quando è naufragato l’accordo sul grano tra Russia e Ucraina mediato dalla Turchia, l’Ucraina ha cominciato a esportare il suo grano via terra, approfittando della sospensione di quote e tariffe da parte della UE nei confronti dei prodotti alimentari ucraini a partire dal febbraio del 2022. Da allora il grano ucraino ha letteralmente invaso paesi come la Bulgaria, la Romania e appunto la Polonia, rischiando di gettare sul lastrico gli agricoltori locali: ammassato a milioni di tonnellate nei silos, pur di sbarazzarsene il grano ucraino aveva raggiunto prezzi troppo bassi per permettere a qualunque produttore di reggere la concorrenza. Di fronte alle proteste delle popolazioni locali, nel maggio scorso, l’Unione Europea aveva introdotto un divieto temporaneo alla vendita del grano ucraino in questi stessi paesi, divieto che però a settembre è scaduto.

Una tempistica perfetta: il 15 ottobre infatti la Polonia torna al voto, e il voto degli agricoltori è determinante, in particolare per il partito di governo di estrema destra Diritto e Giustizia, che ha proprio tra la popolazione rurale il suo bacino di voti principale e che, come 18 mesi prima, da essere considerato la peggio feccia reazionaria era diventato, nell’arco di mezza giornata, il punto di riferimento dei sinceri democratici, ora si apprestava altrettanto rapidamente a fare il percorso inverso.

Il compagno Morawieczki infatti ha si è rifiutato di ritirare il divieto e Zelensky ha reagito presentando un ricorso ufficiale presso il WTO e accusando la Polonia di essere solidale solo a parole.

E Morawieczki non l’ha presa proprio benissimo, diciamo. “Non trasferiremo più armi all’Ucraina”, ha annunciato laconico a fine settembre in diretta televisiva. Ma non solo: “Se vogliamo che il conflitto si intensifichi in questo modo, aggiungeremo altri prodotti al divieto di importazione in Polonia. Le autorità ucraine non capiscono fino a che punto l’industria agricola polacca sia stata destabilizzata“.

Maledetti populisti! La stragrande maggioranza dei loro elettori avanza una rivendicazione, e per paura di perdere le elezioni questi gliela concedono pure, magari addirittura senza aver prima ottenuto il via libera da Washington o da Bruxelles.

Se ce lo dicevano prima che funzionava così la democrazia, ci inventavamo un altro sistema.

E la Polonia non è certo un caso isolato. Tra gli stati canaglia dell’internazionale nera di Visegrad che più hanno cercato di sfruttare la guerra per procura in Ucraina per tornare a piacere alla gente che piace, senza manco bisogno di rinunciare a un briciolo della loro vocazione clericofascista, spicca infatti anche la piccola ma agguerritissima Slovacchia, che salta anche più agli occhi; fino al 2018 infatti al governo c’era stato un tale Robert Fico, che invece il muro contro muro con la Russia e il suicidio delle sanzioni economiche li vedeva di pessimo occhio già da tempi non sospetti.

Cresciuto tra le fila del Partito Comunista subito prima dello smembramento della Repubblica Ceca, Fico aveva fondato una formazione politica tutta sua, che si chiama SMER, ed è un esempio piuttosto eclettico di partito socialdemocratico che ha incredibilmente sempre nutrito più di qualche perplessità per quel che riguarda le controriforme di carattere neoliberista e l’adesione religiosa ai vincoli esterni.

Nel 2018 però al governo guidato da Fico ne subentra un altro, altrettanto populista, ma a questo giro in senso prettamente reazionario, che fa sue battaglie di civiltà come ad esempio trasformare l’aborto in un reato penale, e come tutti i veri fintosovranisti ma veri reazionari, quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO in Ucraina ecco che la Slovacchia si trova a gareggiare per il primo gradino del podio dei governi più svendipatria del continente.

Come ricorda People Dispatch, “in termini di percentuale del suo prodotto interno lordo, la Slovacchia è attualmente uno dei maggiori donatori europei all’Ucraina. Ha fornito all’Ucraina obici, veicoli corazzati e la sua intera flotta di aerei da combattimento MiG-29 dell’era sovietica”.

Purtroppo però, continua l’articolo, la Slovacchia “è anche uno dei paesi più poveri d’Europa, e il grosso dell’elettorato è convinto che il denaro dovrebbe servire per migliorare i servizi interni, non per la guerra”.

Totalmente dipendente dal gas russo a prezzi di sconto, la Slovacchia negli ultimi 18 mesi ha registrato uno dei tassi d’inflazione più alti dell’intero continente, superando durante la scorsa primavera addirittura quota 15%; la crisi economica ha scatenato una crisi politica e la maggioranza filo NATO si è sfaldata, ma invece di sciogliere il parlamento e tornare alle urne la presidenta fintoprogressista Zuzana Caputova ha deciso di consegnare il paese nelle mani dell’ennesimo caso di governo tecnico farsa guidato dal vice governatore della banca nazionale.

Come tutti i governi tecnici che si rispettano, i mesi successivi sono stati mesi di sospensione della democrazia e di politiche antipopolari in nome dei vincoli esterni nei confronti dell’Unione Europea e della NATO, fino a quando anche qui è arrivata la scadenza naturale della legislazione ed è tornata quella gran rottura di coglioni che sono le elezioni politiche che – ormai – ai paladini della democrazia piacciono sempre meno.

Ovviamente a quel punto, come sempre accade al termine di un governo tecnocratico antidemocratico, il grosso dell’elettorato non poteva che prediligere la forza politica che meno si era compromessa, ed ecco così che il nostro Robert Fico ha avuto gioco facile.

Durante la campagna elettorale gli è bastato ricordare che le conseguenze delle sanzioni alla Russia lui le denuncia da sempre e promettere espressamente che in caso di vittoria “non invieremo un solo colpo all’Ucraina”, ed ecco fatto: una cosa lineare, prevedibile, semplice.

Per tutti, tranne che per la sinistra suprematista imperiale delle ZTL e la sua bibbia, internazionale, che affida l’ennesima analisi psichedelica all’immancabile Pierre Haski.

Un vero punto di riferimento: quando avete un dubbio, andate a vedere cosa ne pensa Haski. e fate, o pensate, l’esatto opposto.

Secondo Haski in questo caso, la vittoria di Fico sarebbe attribuibile “al ruolo della disinformazione di massa, dalle fake news ai video truccati, che ha imperversato durante la campagna elettorale slovacca”.

Ma la potenza di fuoco dell’inarrestabile macchina propagandistica di Putin – il primo presidente nella storia a riuscire a pilotare l’opinione pubblica globale nonostante sia già morto da mesi per uno dei suoi 17 incurabili tumori e nonostante la bancarotta della Russia annunciata dalla Tocci da due anni ma tenuta ancora nascosta – va ben oltre la Slovacchia: anche il nostro paese, nonostante la RAI, Mediaset, La7, il gruppo GEDI, e gli analfoliberali sul web, è a rischio.

Facciamo un passetto indietro: lunedì scorso Tajani è andato a Kyev e durante la visita avrebbe ufficialmente annunciato nuovi invii di armi.“E’ soltanto una dichiarazione d’intenti” l’ha redarguito Crosetto.

Di questo fantomatico ottavo pacchetto di aiuti, sottolinea infatti Crosetto, “C’è tantissima gente che ne parla non avendone competenza”, anche perché, ricorda sommessamente, “è secretato. C’è una continua richiesta da parte ucraina di aiuti, però bisogna verificare ciò che noi siamo in grado di dare rispetto a ciò che a loro servirebbe”.

l’italia ha fatto molto”, ha continuato Crosetto, ma non abbiamo “risorse illimitate”, e abbiamo già fatto “quasi tutto ciò che potevamo fare; non esiste molto ulteriore spazio”.

Non è un cambio di linea eh, ci mancherebbe. “Continueremo a sostenere l’Ucraina”, ha infatti ribadito, “privilegiando la via del dialogo per riaffermare il diritto a raggiungere una pace giusta”, ma solo come se fosse antani, tarapiotapioca con scappellamento a destra.

O a centrodestra, se siete più moderati.

Ma gli arsenali vuoti non sono l’unica cosa a spingere l’Italia verso una parziale marcia indietro: come ha sottolineato Giorgiona stessa, a preoccupare comincia anche ad essere, anche qui, l’opinione pubblica. Un sostegno incondizionato, avrebbe dichiarato Giorgiona “genera una resistenza e rischia di generare stanchezza nell’opinione pubblica”, ma a colpire ancora di più è la reazione dello stesso Zelensky, che fino a qualche mese fa si incazzava decisamente per molto meno, e oggi invece si riscopre comprensivo.

So che l’Italia ha le proprie sfide”, avrebbe affermato, “e so anche che l’Italia subisce una forte campagna di disinformazione della federazione russa, che spende milioni per distruggere le relazioni tra le nazioni dell’Europa e del mondo”.

E a noi, manco un centesimo, popo’ di ingrati.

Di fronte a questa inarrestabile campagna propagandistica russa che, senza che ve ne accorgeste, si è impossessata di tutti i media e tutti i mezzi di produzione del consenso italiani, Zelensky non può che apprezzare comunque lo sforzo: “Vorrei ringraziarvi perché voi avete un primo ministro molto forte”, avrebbe affermato.

Ma com’è che tutti questi Paesi, che abbiamo sempre additato come umili servitori degli USA, anche contro i loro stessi interessi più immediati, ora cominciano di punto in bianco un po’ a scalpitare? Semplice: i primi a scalpitare ormai, infatti, sono proprio gli USA.
Come sapete, per rinviare per l’ennesima volta il rischio shutdown pochi giorni fa Biden e la maggioranza repubblicana alla camera, hanno siglato un patto che permette nei prossimi quarantacinque giorni di effettuare tutta una lunga serie di spese. Che è lunga si, ma non abbastanza da contenere ulteriori aiuti all’Ucraina. Biden voleva altri 6 miliardi. ne ha ottenuti zero.

Ed è solo l’inizio. Perchè comunque quell’intesa tra leader repubblicani alla camera e amministrazione democratica, a qualcuno proprio non è andata giù. Risultato: un piccolo gruppo di 8 repubblicani che secondo i media mainstream sarebbero l’estrema destra dell’estrema destra trumpiana, hanno chiesto il voto di sfiducia per lo spekaer della camera Kevin McCarthy, lo hanno ottenuto, e poi lo hanno pure vinto. È la prima volta che succede da quando esistono gli Stati Uniti d’America per come li conosciamo oggi. Senza lo speaker, l’attività legislativa della camera è bloccata e l’ucraina teme che per lei sarà bloccata anche quando di speaker ne eleggeranno uno nuovo. “Difficile eleggere uno speaker che sostenga gli aiuti all’ucraina”, così avrebbe dichiarato un parlamentare repubblicano interrogato da La Stampa. Non si tratta di uno dei parlamentari della fronda, ma di Pete Sessions, storico rappresentante neocon del texas, e filoucraino sfegatato. A spingere i repubblicani verso un deciso cambio di rotta, i sondaggi che continuano a dimostrare come la maggioranza assoluta dei cittadini USA non ne possa più. Come quello pubbicato l’altro giorno dalla cnn che affermava che il 55% degli americani ritiene che siano stati dati tutti gli aiuti necessari e che “è stato fatto abbastanza”. I soldi che ci sono, devono essere spesi in qualcosa che potrebbe permettere ai repubblicani di vincere le prossime elezioni: in particolare, rafforzare il controllo del confine con il Messico, e ridurre il debito.
“Prima bisogna garantire i finanziamenti per la sicurezza alle frontiere e poi occuparci di Ucraina”, avrebbe dichiarato Garrett Graves, della ristretta cerchia di McCarthy. Ed ecco così che spunta la candidatura di Jim Jordan, potentissimo capo della commissione giustizia, tra gli artefici della procedura di impeachment contro Biden e uno degli oppositori più vocali all’invio di aiuti a Kyev.

Una “SUPERPOTENZA DISFUNZIONALE”, come l’ha definita in un lungo articolo su “foreign affairs” Robert Gates, già direttore della CIA all’inizio degli anni ‘90, e poi caso più unico che raro di segretario della difesa bipartisan, prima con George W. Bush, e poi con Barack Obama. La domanda che si fa Robert Gates è più attuale che mai: Può un’America divisa scoraggiare Cina e Russia?

“Gli Stati Uniti”, sottolinea Gates, “si trovano ora ad affrontare minacce alla propria sicurezza più gravi di quanto non fossero mai state negli ultimi decenni, forse mai. Il problema, tuttavia è che nel momento stesso in cui gli eventi richiedono una risposta forte e coerente da parte degli Stati Uniti, il Paese non è in grado di fornirne una”. Secondo gates gli USA si trovano ancora oggi in una posizione di relativa forza rispetto a Cina e Russia. “Purtroppo, però”, riflette Gates, “le disfunzioni politiche e i fallimenti politici dell’America ne stanno minando il successo”. Per tornare ad avere il potere di dissuadere gli avversari da compiere ulteriori gesti inconsulti, suggerisce Gates, gli Stati Uniti devono assolutamente ritrovare quell’”accordo bipartisan decennale rispetto al ruolo degli Stati Uniti nel mondo”, ed essere in grado di spiegare insieme a tutti gli elettori che “la leadership globale degli USA, nonostante i suoi costi, è indispensabile per preservare la pace e la prosperità”. Per fare questo non bastano gli appelli alla nazione dallo studio ovale. “Piuttosto”, sottolinea Gates, “è necessario che tutti ripetano all’infinito questo messaggio affinché venga recepito”. Insomma, l’esercizio di quel poco di democrazia che è rimasto nel nord globale rischia di far sbandare dalla strada maestra, che non è quella che si scelgono i popoli in base ai loro interessi, ma quella che decidono a tavolino i Gates e gli oligarchi che lo sostengono. Per tornare sulla retta via, c’è bisogno di richiamare tutti all’ordine, e lanciare una campagna di lavaggio del cervello di massa che ci faccia riconoscere come nemici senza se e senza ma quelli che loro hanno individuato come nemici in base ai loro interessi. E siccome poi alla gente li puoi raccontare tutte le cazzate che vuoi, ma se gli levi il pane da sotto i denti, poi a un certo punto comunque si incazza, se non basterà il soft power della persuasione, vorrà dire che si passerà all’hard power delle mazzate. L’occidente globale è in via di disfacimento. prima che si rassegnino a mollare l’osso, ci sarà da vederne delle belle.

Contro il piano orwelliano dei gates, nel frattempo, quello che possiamo fare è continuare a insinuare i dubbi e a segnalare le contraddizioni. e per farlo, abbiamo bisogno di costruire il primo media che invece che dalla parte della loro propaganda, stia dalla parte degli interessi del 99%

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…e chi non aderisce è Robert Gates.

Italianieuropei alla prova dei BRICS

Quello che ci siamo trovati di fronte, non sono fanatiche prese di posizione vetero comuniste e terzomondiste, ma pacate riflessioni che cercano di comprendere le più importanti trasformazioni del contesto geopolitico

D’Alema dichiara guerra agli Usa”, “la Repubblica”.

D’Alema fa l’antiamericano sull’Ucraina, si crede Bufalo Bill, ma ricorda Scialpi” “Linkiesta”.

D’Alema si riscopre comunista ed esalta Cina e Russia” “Il giornale”.

Ma cosa ha mai fatto Massimo D’Alema per meritarsi tutti gli strali e le maledizioni della stampa italiana?

Il casus belli sono gli articoli contenuti in “Brics, l’alba di un nuovo ordine internazionale”, l’ultimo numero della rivista Italianieuropei da lui diretta che ha commesso il più grave dei delitti possibili: lesa miestatis nei confronti della narrazione suprematista occidentale e degli interessi geopolitici americani.

Ingolositi dalla gravità del delitto e dalla ferocia del linciaggio, ci siamo dunque avventurati nella lettura della rivista, e confermiamo che l’ira dei giornali è ben giustificata: gli articoli in questione infatti, sono un insieme di serie e pragmatiche analisi geopolitiche fatta da autorevoli ex diplomatici e scienziati della politica.

Insomma, un concentrato di tutto ciò oggi l’informazione non può proprio sopportare.

Quello che ci siamo trovati di fronte, non sono fanatiche prese di posizione vetero comuniste e terzomondiste, ma pacate riflessioni che cercano di comprendere le più importanti trasformazioni del contesto geopolitico e questo sia aldilà della dicotomia hollywoodiana buoni contro malvagi, sia sottolineando le numerosissime contraddizioni dei BRICS e in generale di tutti quei paesi che stanno mettendo in discussione il vecchio ordine mondiale unipolare.

Per fare un esempio, nell’articolo di Paolo Guerrieri, insegnante alla “Paris School of International Affairs”, si legge:“Per aumentare il loro peso a livello internazionale, i BRICS dovranno innanzi tutto risolvere una serie di contraddizioni. L’eterogeneità politica ed economica al loro interno, il disaccordo sull’allargamento e su temi politici fondamentali quali la riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’aspra disputa territoriale tuttora non sanata tra Cina e India, rappresentano altrettanti seri ostacoli alla continua cooperazione e rafforzamento dei BRICS”.

Insomma, non proprio un’invettiva di un fanatico anti-atlantista. Ma andiamo con ordine. La rivista è composta da due parti, la prima dedicata all’allargamento e al rafforzarsi dei Brics, e la seconda, che oggi lasciamo volentieri da parte, dedicata alla figura di Silvio Berlusconi.

Nell’introduzione, firmata Redazione e con tutta probabilità scritta dallo stesso D’Alema, si fa un riassunto generale e sostanzialmente diplomatico dei temi trattati da questo numero: si parla dell’allargamento dei Brics, si evidenzia come in Italia e in Europa non esista alcun dibattito strategico su questi temi, si condanna fermamente l’invasione russa in Ucraina e si ricorda come agli occhi del resto mondo il tentativo occidentale di imbrigliare questi fenomeni nella retorica da guerra fredda democrazie vs tirannie, è destinato a fallire.

La maggior parte dell’umanità” recita l’Introduzione “rifiuta di allinearsi alla posizione americana e dell’Occidente […] vi è una amplissima e non infondata convinzione che nella difesa dei diritti umani, della democrazia e dei principi del diritto internazionale il mondo occidentale sia tutt’altro che coerente e applichi standard molto diversi a seconda degli interessi che ha in diverse aree del mondo. Non è facile smentire la fondatezza di queste convinzioni, cui si aggiunge l’idea che oggi né l’Europa né gli Stati Uniti facciano nulla per cercare di fermare il conflitto e creare le condizioni per una pace sostenibile tra Ucraina e Russia.”

La parte più importante di questa introduzione è forse la parte finale, in cui si auspica come nel nuovo mondo multipolare che si sta prefigurando, l’Europa in forza della sua cultura e tradizione rappresenti un ponte tra i diversi poli, capace di creare un equilibrio internazionale più giusto e ragionevole. Questa considerazione è cruciale, perché ci ricorda come noi, da Italiani ed europei, dovremmo approcciarci a queste analisi e in generale a questi cambiamenti geopolitici: non ci deve infatti interessare un’astratta ridefinizione di chi sono i buoni o i cattivi della comunità internazionale, né capire se essere filo americani o anti americani, filo russi o filo cinesi, ma solo comprendere il contesto in cui viviamo, guardare agli interessi delle nostre comunità nazionali ed europee, e agire con lo scopo di riconquistare tutta la libertà, il benessere, e il potere che abbiamo perso.

Le analisi geopolitiche disincantate sono preziose proprio per questo, ci aiutano a scrollarci di dosso la mentalità da tifoserie di provincia e capire come perseguire meglio i nostri interessi in un dato contesto internazionale. Ed è esattamente per questo che un’informazione di propaganda come la nostra continuerà a delegittimarle e a fare loro la guerra. Andando avanti, troviamo articoli di approfondimento su India, Brasile, Africa e il loro ruolo nei Brics, mentre le analisi di più ampio respiro sono quelle Marco Carnelos ex ambasciatore in Iraq e inviato speciale per la Siria e il processo di pace israelo-palestinese, e Alberto Bradanini, ex-diplomatico e presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

Nell’articolo Il mondo della contrapposizione tra Global Rest e Global West, Carnelos scrive che le interminabili guerre statunitensi in Medio Oriente e la crisi finanziaria del 2008 hanno inflitto un duro colpo alla credibilità globale degli Stati Uniti, e che il conflitto in Ucraina ha svolto in questo senso un ruolo di spartiacque nella storia avendo avuto implicazioni che sono andate ben oltre le storiche recriminazioni tra Mosca e Kiev. Quella che si profila, è una disarticolazione tra quella parte di umanità, il Global West che per cinquecento anni ha dominato il sistema internazionale, e il resto del mondo, il Global Rest, che si sta oggi organizzando in istituzioni separate come i Brics, i quali contano già diciannove membri e molti altri aderiranno, la Shanghai Cooperation Organization (SCO), e l’EurAsian Economic Union (EAEU). Ridurre questa competizione alle semplicistiche dicotomie democrazia/autocrazia, libertà/tirannia, bene/male, sarebbe, scrive l’ex ambasciatore “un evocativo strumento retorico fondato sul consueto e ben collaudato metodo di governare attraverso la paura, e un’abile scorciatoia.” . A questo proposito, basti ricordare che Brasile e India sono la prima e terza democrazia del mondo e che oggi le principali minacce alle democrazie occidentali vengono tutte dall’interno e non dall’esterno. Prima di tutto dalle politiche neoliberiste, che stanno trasformando le nostre socialdemocrazie in oligarchie finanziarie mascherate, e poi da problemi di ordine sociale e culturale: negli Stati Uniti ad esempio “il maggior numero di americani uccisi ogni anno in conflitti a fuoco avviene per mano di altri americani ossessionati dal possesso di armi da fuoco, e che, con il 5% della popolazione mondiale, il paese consuma l’80% degli oppiacei prodotti in tutto il pianeta. Il semplice buon senso leggerebbe questi due dati – ma se ne potrebbero citare molti altri – come un irreversibile segnale di decadenza, ma i poderosi apparati mediatici occidentali sono concentrati altrove.”.

Infine, l’articolo di Albero Bradanini Multilateralismo, de-occidentalizzazione e bi-globalizzazioneè quello forse più deciso nel prendere posizione contro il vecchio ordine unipolare. “Il paradiso dei ricchi” scrive Bradanini citando Victor Hugo “è fatto dell’inferno dei poveri”.

Quella a cui stiamo assistendo sarebbe “una campagna storica per la riconquista di sovranità e indipendenza d’azione, presupposto strutturale affinché anche i popoli oppressi possano generare benessere e contenere la bulimia d’arricchimento infinito delle oligarchie globaliste. È dunque intuibile la ragione per la quale tale disegno è avversato dal corporativismo militarizzato dell’impero atlantico”.

E per una buona volta, scrive Bardanini, i nord americani dovranno “accettare di tornare ad essere un paese normale, non la sola nazione indispensabile al mondo”.

Per concludere, voglio precisare che nessuno di OttolinaTv si sognerebbe mai di fare l’apologia di D’Alema nè della sua carriera politica, infarcita di ipocrisie e ambiguità e macchiata per sempre dall’appoggio da presidente del consiglio ai bombardamenti NATO in Serbia.

Ma visto che la verità ha la testa più dura della menzogna e che c’è bisogno di tutte le forze e intelligenze possibili, la speranza è che Italianieuropei possa davvero continuare su questa linea editoriale.

E chi non aderisce è Vittorio Parsi

Nazioni Unite: l’umiliazione di Biden e Zelensky e l’inarrestabile ascesa del Sud Globale

La sintesi dei primi due giorni dell’annuale assemblea generale delle Nazioni Unite, sta tutta qui. Come sottolineava giustamente il Global Times alla vigilia dell’incontro: “Questo è l’anno dove finalmente a dettare l’agenda saranno i paesi del Sud Globale”. Un esito scontato.

Dall’ampliamento della Shanghai Cooperation Organization, al più che raddoppio dei BRICS, per finire con il G77 della scorsa settimana all’Havana, il sud del mondo ha deciso di spingere sull’acceleratore.

Ne ha dovuto prendere atto anche Joe Biden, unico leader dei membri permanenti del consiglio di sicurezza ad aver deciso di partecipare in prima persona all’evento ma che, a quanto pare, ha commesso qualche errore.

Di fronte a una platea che chiedeva impegni chiari per rilanciare il raggiungimento dei diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile adottati dall’assemblea ormai otto anni fa, Biden ha provato a fare il gioco delle tre carte.

Ha rivendicato la fine della morsa della fame per centinaia di milioni di disgraziati in tutto il mondo, pensando forse di avere di fronte un popolo di semianalfabeti come quelli che sta provando a convincere a rieleggerlo in patria fra qualche mese.

Purtroppo per lui, però, la platea sapeva benissimo di cosa stava parlando: se oggi nel mondo ci sono meno affamati di dieci anni fa, lo si deve solo ed esclusivamente alla Cina, che Biden vorrebbe cancellare dal pianeta.

Ma Biden non si è accontentato di questa ennesima figuretta.

Come fa sistematicamente da due anni a questa parte, ha cercato di trasformare l’ennesima occasione per affrontare i problemi che affliggono la stragrande maggioranza della popolazione mondiale nell’ennesimo palcoscenico per il solita vecchio remake hollywoodiano della guerra in Ucraina come scontro tra il bene e il male.

Ma come sottolinea giustamente sempre il Global Times: “Le infinite chiacchiere sulla guerra e le minacce palesi e nascoste rivolte ad altri paesi, costringendoli a schierarsi, sono l’ultima cosa che questi paesi vogliono sentire”.

Per averne la prova è bastato aspettare l’intervento in aula di Zelensky; più si affannava, e più la sala si svuotava. Ma com’è possibile che l’unica superpotenza del pianeta sia stata umiliata pure a casa sua?

25 settembre 2015

Dopo nove mesi di negoziati, tutti i centonovantatré membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottano all’unanimità la risoluzione intitolata “Trasformare il nostro mondo: l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile”; un programma estremamente ambizioso, e iperdettagliato: 91 paragrafi, 17 obiettivi, 169 target.

Una roadmap per una redistribuzione della ricchezza su scala globale in senso radicalmente più egualitario, e per affrontare tutti insieme felicemente le principali sfide che affliggono l’umanità tutta, e che a otto anni di distanza si è dimostrata essere esattamente quello che i più scettici sostenevano sin dall’inizio: fuffa allo stato puro.

Una foglia di fico per continuare a coprire il sempre più drastico furto che un manipolo di paesi sviluppati, e le loro ristrettissime oligarchie, opera a danno del resto del pianeta.

Come ha sottolineato Lula: “I dieci miliardari più ricchi del pianeta detengono più ricchezza del 40% più povero dell’umanità”. Sette di loro, per capirci, hanno passaporto a stelle e strisce. “L’azione collettiva più ampia e ambiziosa delle Nazioni Unite mirata allo sviluppo – l’Agenda 2030 –”, ha tuonato Lula dal palco, “potrebbe trasformarsi nel suo più grande fallimento”. “Abbiamo raggiunto la metà del periodo di attuazione e siamo ancora lontani dagli obiettivi definiti”.

Ma questa è solo una parte della storia: due anni prima, infatti, durante una visita in Kazakistan, nella più totale disattenzione da parte del circo mediatico occidentale, Xi Jinping annunciava l’intenzione di avviare un gigantesco progetto per la costruzione di infrastrutture di trasporto e di comunicazione nel cuore del supercontinente eurasiatico; come ricorda l’Economist: “Un annuncio che venne recepito in occidente con ‘indifferenza e perplessità'”.

Il mese dopo Xi ci ribadisce, e se dal Kazakistan aveva parlato fondamentalmente di strade e ferrovie, dall’Indonesia a questo giro si concentra su porti e corridoi marittimi, ma anche a questo giro, nel centro dell’impero, politici e propagandisti continuano a fare orecchie da mercanti.

Dieci anni dopo, quel progetto accolto con indifferenza e perplessità ha portato a casa la bellezza di 3.100 progetti in 150 paesi diversi per una cifra complessiva che si aggira attorno ai mille miliardi di dollari. Tutti messi nell’economia reale.

Come dichiarò il presidente dell’Asian Infrastructure Investment Bank nel 2016 durante la cerimonia di inaugurazione del suo istituto: “L’esperienza cinese dimostra che gli investimenti nelle infrastrutture aprono la strada a uno sviluppo economico-sociale su vasta scala e che la riduzione della povertà è una conseguenza naturale di ciò”.

Infatti, secondo le stime cinesi, la Belt and Road ad oggi non solo avrebbe creato direttamente quasi mezzo milioni di posti di lavoro, ma soprattutto avrebbe generato una ricchezza che ha permesso di elevare sopra la soglia della povertà assoluta la bellezza di quaranta milioni di esseri umani. Ed è solo l’inizio.

Dopo un relativo rallentamento delle cifre impiegate a partire dalla fine del decennio scorso e durante tutta l’emergenza pandemica, nella prima metà di quest’anno abbiamo assistito a una vistosa ripresa: oltre 43 miliardi di investimenti, contro i 35 dello stesso periodo l’anno scorso.

Ma non solo: l’approccio cinese sta cambiando alla radice l’approccio anche del resto del pianeta al tema degli aiuti allo sviluppo. Prima dell’arrivo dei cinesi, infatti, gli unici aiuti allo sviluppo che dal Nord Globale raggiungevano il sud del mondo erano una presa in giro.

In sostanza: si riempivano di quattrini le élite corrotte e conniventi di questi paesi in cambio di riforme di chiaro stampo neoliberale, che ovviamente non facevano che aumentare la dipendenza economica nei confronti dei paesi sviluppati, e impedivano così ogni alla radice ogni reale miglioramento della propria capacità produttiva.

Man mano che gli effetti benefici delle infrastrutture lungo la nuova Via della Seta cominciavano a svelarsi, i popoli del sud del mondo hanno cominciato a realizzare che un’alternativa c’è, hanno cominciato a chiedere a gran voce di perseguirla, e quando le élite non si sono adeguate perché una bella villa di sottobanco a Londra è meno impegnativa che ricostruire le precondizioni per lo sviluppo, hanno cominciato a cacciarle a suon di golpe patriottici come quelli a cui abbiamo assistito nel Sahel negli ultimi tempi.

Così, oggi, i tromboni del Nord Globale, se non vogliono perdere completamente ogni possibilità di influenza su questi paesi, sono costretti ad offrire qualcosa di simile a quello che offrono i cinesi. Di conseguenza, laddove si è imposta in un modo o nell’altro una classe dirigente minimamente autonoma, oggi può fare leva sulla competizione tra cinesi e resto del mondo per strappare l’offerta migliore. Si può, dunque, probabilmente per la prima volta nella storia, permettere di dire anche dei bei “no.

Ove mai le élite continuino a dire solo dei “” che magari gli garantirebbero di arricchirsi, o anche solo di rimanere al potere, ma senza migliorare minimamente le condizioni di vita della popolazione, rischierebbero grosso, perché da questo punto di vista il famoso adagio thatcheriano secondo il quale “there is no alternative”, non vale più. Oggi l’alternativa c’è e come, già solo questa è una svolta epocale.

Ovviamente l’Occidente collettivo fa fatica ad adeguarsi, e continua a sperare di rimpiazzare aiuti concreti allo sviluppo con un po’ di fuffa, facendo leva sulla potenza di fuoco della sua macchina propagandistica; un po’ come è successo al G20 con l’IMEC, l’India-Middle East-Europe Economic Corridor, che si è conquistato i titoloni di stampa e tg in tutto il Nord Globale come l’alternativa occidentale e democratica alla Via della Seta cinese, ma che l’occidente non è assolutamente in grado di portare a termine.

Come scrive, giustamente, l’ex ambasciatore indiano in Turchia Bhadrakumar, infatti: “L’unico modo per trasformare il sogno dell’IMEC in realtà è renderlo al contrario un progetto di connettività regionale inclusivo, e permettere che la Cina ne faccia parte. Questo però”, conclude sarcasticamente Bhadrakumar, “comporterebbe assumere che l’IMEC sia qualcosa di diverso da una semplice operazione propagandistica USA il cui unico obiettivo è permettere a Biden di presentarsi alle prossime elezioni con almeno una storia di successo nella sua altrimenti catastrofica politica estera”.

Ma il contributo che la Cina e la Via della Seta hanno già dato alla faticosa costruzione di un nuovo ordine multipolare non si limita alla rivoluzione nell’approccio agli aiuti allo sviluppo: la Via della Seta, in dieci anni, ha anche accelerato e di tanto lo spostamento di qualche migliaio di chilometri del baricentro del potere economico mondiale. “Mentre l’influenza americana diminuisce”, ammette infatti addirittura anche l’Economist, “le economie asiatiche si stanno integrando”.
Il lungo articolo ricorda come “settecento anni fa, le rotte commerciali marittime che si estendevano dalla costa del Giappone al Mar Rosso erano costellate di dau arabi, giunche cinesi e djong giavanesi, che trasportavano ceramiche, metalli preziosi e tessuti in tutta la regione” e di come questa “enorme rete commerciale intra-asiatica fu interrotta solo dall’arrivo di marinai dagli imperi europei in ascesa”. L’Economist puntualmente si dimentica di citare anche le armi e la ferocia del colonialismo dell’uomo bianco.

Il punto è che, riconosce sempre l’Economist, quella fitta rete commerciale intra-asiatica è tornata ad essere il centro del mondo. “Nel 1990, solo il 46% del commercio asiatico si svolgeva all’interno del continente”. Oggi siamo vicini al 60%. che è anche più o meno la percentuale degli investimenti esteri diretti nella regione detenuti da altri asiatici. Anche i prestiti bancari sono sempre più asiatici, a partire dalla spettacolare crescita della Commercial Bank of China, che “è più che raddoppiata dal 2012 ad oggi, raggiungendo quota 203 miliardi”.

“Nel 2011 i paesi più ricchi e più antichi dell’Asia avevano circa 329 miliardi di dollari investiti nelle economie più giovani e più povere di Bangladesh, Cambogia, India, Indonesia, Malesia, Filippine e Tailandia. Un decennio più tardi quella cifra era salita a 698 miliardi di dollari”.
“Secondo un recente sondaggio”, continua l’Economist, “solo l’11% degli operatori economici asiatici considera ancora gli USA il potere economico più influente dell’Asia” e “uno studio pubblicato l’anno scorso suggerisce che il trattato siglato nel 2020 e denominato Regional Comprehensive Economic Partnership, comporterà un aumento consistente degli investimenti transfrontalieri nella regione”.

“Al contrario”, sottolinea sempre l’Economist, “a seguito dell’abbandono da parte dell’America dell’accordo commerciale di partenariato transpacifico nel 2017, ci sono poche possibilità che gli esportatori asiatici ottengano un maggiore accesso al mercato americano”. Questa integrazione lega profondamente la Cina e i paesi che guardano con favore al suo piano per un nuovo ordine multipolare, ai più fedeli alleati di Washington.

“Uno studio condotto dalla Banca asiatica di sviluppo nel 2021 ha concluso che le economie asiatiche sono ora più esposte alle ricadute degli shock economici dalla Cina piuttosto che dall’America”; tradotto: gli alleati USA subiscono più danni se va male l’economia cinese che non se va male quella USA.
Questo fenomeno, nonostante la retorica sul decoupling, mano a mano che la Cina crescerà economicamente, non farà che aumentare e nonostante l’imponente propaganda degli ultimi mesi, la potenza economica cinese continuerà a crescere, mentre quella occidentale continuerà a stagnare, nonostante la guerra tecnologica.

Come ha sottolineato l’ottimo Kishore Mahbubani su Foreign Policy, infatti: “Gli USA non possono arrestare la crescita cinese”. “La decisione dell’America di tentare di rallentare lo sviluppo tecnologico della Cina”, scrive Mahbubani, “non è che il solito vecchio tentativo di chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati. La Cina moderna ha dimostrato molte volte che lo sviluppo tecnologico del Paese non può essere fermato”. Mahbubani ricorda come nel 1993 l’amministrazione Clinton cercò di restringere l’accesso dei cinesi alla tecnologia per i sistemi satellitari. Oggi la Cina ha 540 satelliti in orbita, ed è una vera superpotenza del settore.

Mahbubani ricorda anche di quando gli USA nel 1999 decisero di restringere l’accesso dei cinesi ai dati geospaziali del sistema GPS. Oggi il sistema BeiDou Global Navigation che la Cina è stata costretta a svilupparsi da sola è più avanzato di quello occidentale. Ora si gioca la partita dei microchip, ma paradossalmente potrebbe fare più male agli USA che alla Cina. La Cina, infatti, rappresenta oltre un terzo del mercato globale dei chip e senza il suo mercato le aziende USA saranno a corto di profitti da reinvestire in ricerca e sviluppo.

Che le élite che fondano la loro spropositata ricchezza siano pronte a tutto pur di non accettare il loro declino è comprensibile, ma che noi persone comuni continuiamo a farci corbellare da una manciata di analfoliberali che ci vogliono spacciare la loro feccia propagandistica per oro, invece, grida vendetta. E per vendicarci la cosa migliore che possiamo fare è costruirci un media tutto nostro che ci faccia uscire da questa bolla asfittica e anacronistica del suprematismo occidentale; per farlo, abbiamo bisogno del tuo sostegno!

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