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Tag: washington

L’Europa in stand by attende ordini da Washington – ft. Danilo della Valle

Il voto all‘Europarlamento ha riconfermato Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione UE, mentre Kaja Kallas si prepara ad essere nominata Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’Unione a sostituire il già pessimo Joseph Borrell. Il futuro degli organi europei, però, dovrà rispondere al vincolo esterno atlantista più che ai suoi cittadini: determinanti saranno le elezioni presidenziali a Washington il prossimo 5 novembre. Clara Statello e il Marru ne parlano con Danilo della Valle, europarlamentare del Movimento 5 Stelle.

Attacco ai civili: bombe a grappolo USA su una spiaggia di Sebastopoli – ft. Stefano Orsi

Kiev ha attaccato con 5 missili statunitensi ATACMS: quattro sono stati colpiti dalla contraerea, uno è finito su una spiaggia di Sebastopoli, gremita di bagnanti nella prima domenica d’estate. Cinque persone sono rimaste uccise dall’esplosione della testata a grappolo, tra cui due bambini di due e nove anni; altre 150 circa sono rimaste ferite, tra cui quasi una trentina di minori. Mentre si consumava questa strage di civili, il cielo sul mar Nero era attraversato da FORTE10, nominativo di un UAV della flotta di Global Hawke RQ-4N della Northrop Grumman di stanza a Sigonella. Fino a che punto il drone spia ha coordinato l’attacco? Con Stefano Orsi approfondiamo i fatti e cerchiamo di capire quale potrebbe essere la risposta di Mosca, che ha già riconosciuto pubblicamente la responsabilità di Washington.

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Contro Limes; il turbo-atlantismo è nel nostro interesse nazionale?

La rivista di geopolitica Limes ha recentemente ufficializzato una propria proposta strategica per l’Italia: nel numero “Una certa idea d’Italia”, il direttore Lucio Caracciolo e l’analista Federico Petroni, sicuramente mossi solo dal nobile intento di invertire il nostro declino geopolitico e tornare ad essere protagonisti nelle nostre potenziali aree di influenza, scrivono che l’Italia dovrebbe stipulare un nuovo accordo bilaterale con Gli Stati Uniti, dando vita da una sorta di rapporto speciale tra i due paesi che ci legherebbe ancora più saldamente all’agenda strategica e al comparto militare industriale americano in cambio di una loro maggiore copertura militare e al supporto ai nostri interessi nazionali nella regione mediterranea: “Un accordo bilaterale speciale con gli Stati Uniti” si legge nell’editoriale “[…ri]costituente della nostra pressoché nulla deterrenza, onde anticipare guerre da cui saremmo sopraffatti”. Il ragionamento è questo: visto che, volenti o nolenti, siamo provincie del loro impero e da Washington hanno deciso che la Russia e la Cina devono essere trattati come nemici dell’Occidente, l’unica cosa che possiamo fare noi per salvarci è invocare ancora maggiore dipendenza strategica dall’America in cambio di una maggiore copertura e di un po’ più di autonomia tattica nel Mediterraneo, una regione comunque secondaria nel conflitto tra USA, Russia e Cina che potrebbe permetterci di battere la concorrenza di nostri competitor regionali agguerriti come la Francia e la Turchia. L’idea è, insomma, che potremmo sfruttare meglio di quanto non stiamo facendo il nostro comunque inemendabile status di nazione occupata per portare avanti i nostri interessi nazionali nel nostro estero vicino; come vedremo in questa puntata, quella di Limes, per quanto ragionata e argomentata , appare una proposta miope da tanti punti di vista. E su La Fionda è uscito un interessantissimo articolo di Mimmo Porcaro, Il limite di Limes e il nostro, che analizza nel dettaglio la proposta della rivista del gruppo Gedi facendone emergere tutte le contraddizioni e avanzando un’altra possibile proposta strategica che si pone, invece, come chiaro obiettivo non la rassegnazione alla sudditanza – che è anche quanto di più lontano dal nostro interesse nazionale -, ma la lotta per la riconquista di una sovranità popolare e democratica e di una politica estera finalmente all’altezza della nostra storia e di questo compito.

Mimmo Porcaro

Come sottolinea giustamente Porcaro nell’articolo de La Fionda, Limes è un importante riferimento culturale per chi si occupa di geopolitica in Italia e per quanto riguarda gli articoli dedicati al nostro paese dà spesso voce ad interventi assai condivisibili che cercano di comprendere le cause strutturali del nostro declino e di indicare obiettivi politici realistici per invertire la tendenza: dalla ridiscussione dell’euro alla reindustrializzazione del paese, al rafforzamento dell’unità contro la frammentazione regionalistica, alle politiche demografiche, alla politica scolastica, alla gestione dell’immigrazione, ecc. Il pezzo forte dell’ultimo numero dedicato all’Italia, però, riguarda la politica estera e la collocazione del nostro paese nel grande conflitto geopolitico in atto – quella che a Limes piace chiamare La guerra grande – e sia nell’editoriale di Caracciolo che nell’articolo di Federico Petroni leggiamo, in sintesi, questo ragionamento: dato che il problema principale degli Stati Uniti è la Cina e che Washington non può più controllare tutte le aree critiche del pianeta e dato che una difesa comune europea è una prospettiva più mitologica che politica, l’Italia, per non rimanere indifesa, dovrebbe operare in stretta connessione con gli Stati Uniti una particolare funzione di controllo e sedazione delle crisi mediterranee anche grazie ad una integrazione crescente della nostra industria militare in quella nordamericana. Insomma: in questo clima di guerra degli Usa nei confronti di Russia e Cina che vedrà come area di conflitto anche il Mediterraneo (anche se solo come area secondaria), l’Italia deve ribadire con ancora più forza il proprio allineamento e la propria fedeltà al blocco atlantico svolgendo il ruolo di unico vero campione degli interessi americani nel mare nostrum, così da sfruttare questo rapporto privilegiato con il padrone a scapito, magari, delle altre potenze regionali vicine. Come sottolinea giustamente Porcaro, nonostante venga presentata come unica opzione possibile per assicurarci un ruolo di maggiore autonomia e potenza del paese nel nostro estero vicino, questa tesi deve essere respinta con decisione: “Prima di tutto” scrive Porcaro, per “anticipare guerre da cui saremmo sopraffatti ci si getta in quello che è riconosciuto, anche da Limes, come uno spazio altamente conflittuale strettamente connesso alla guerra d’Ucraina. Seconda linea, sì: ma le seconde linee fanno presto a diventare prime o, comunque, a confondersi con esse, soprattutto quando passano da luoghi che, come il Mediterraneo, sono centrali per i flussi militari, energetici e commerciali.”
Uno dei problemi fondamentali di questa proposta, insomma, è che non siamo agli inizi degli anni 2000 e nemmeno a 10 anni fa, quando la pax americana ancora grossomodo reggeva e la guerra grande non era ancora cominciata: “Se gli Stati Uniti allentano la presa diretta sul Mediterraneo” continua Porcaro “non è per rattrappirsi a casa propria, ma per meglio affrontare il conflitto con la Cina, cosa che avrà pesanti contro-effetti nel Mediterraneo stesso”. Auspicare di prendere parte ad un conflitto mondiale potenzialmente devastante schierandosi, senza se e senza ma, con una delle due parti in causa non sembra – a dirla tutta – una strategia granché lungimirante e spacciarla per mero realismo politico e interesse nazionale appare addirittura irrazionale e contraddittorio; come spiega Porcaro, infatti, la tendenza in America a risolvere manu militari lo scontro con la Cina è molto più forte di quello che traspare dagli articoli di analisti statunitensi, quasi sempre moderati e realisti, ospitati dalla rivista. Come diciamo poi spesso ad Ottolina, più che politico-culturale, è una questione strutturale: il capitalismo finanziario americano può sopravvivere in questa forma e con questa costante crescita solo attraverso l’egemonia espansionistica militare degli USA a scapito del resto del mondo; un nuovo ordine multipolare o policentrico implicherebbe, invece, un’inevitabile implosione delle proprie bolle finanziarie, scenario molto più apocalittico per le oligarchie economiche americane rispetto ad una guerra, magari lontana dal proprio territorio, contro le altre superpotenze. “Il nodo essenziale è questo” scrive Porcaro: “per quanto il pensiero realista e moderato sia sempre stato presente, e influente, negli Stati Uniti, esso non è mai stato veramente egemone e a nostro parere ciò è dovuto anche al fatto che negli Stati Uniti mancano quelle condizioni strutturali che potrebbero consentire ad alcuni apparati di stato di esercitare un’autonomia relativa rispetto alle tendenze espansioniste del capitale (e del plesso militare-industriale). E mancano perché il sistema decisionale di Washington non risente semplicemente della pressione esterna delle varie lobby, ma dell’interna presenza di decisori che provengono direttamente, per la gran parte, dal mondo del capitalismo”; indipendentemente da Clinton, Bush od Obama, sono stati questi gli agenti economico/politici che hanno guidato per decenni la strategia nordamericana dell’open door, ossia del libero mercato mondiale inteso come penetrazione economica degli USA nel resto del mondo, in prima istanza grazie agli investimenti, ma sempre sotto la tutela delle armi.
E anche il recente protezionismo di Trump e di Biden, con annessa maggiore aggressività economica e militare nei confronti dei paesi non allineati, non è che un aggiornamento della politica imperialista del capitale alla luce della ormai ingestibile capacità economico-industriale cinese: “Stando così le cose” conclude il ragionamento Porcaro “stabilire una relazione speciale con gli Stati Uniti per evitare la guerra, o quantomeno per condurne una a bassissima intensità, è come affidarsi al diavolo per evitare il peccato. La predominante tendenza alla guerra è insita nella struttura degli apparati decisionali statunitensi ed è tale da spingere (anche grazie a una religiosità che legittima l’idea del popolo eletto) a comportamenti potenzialmente controproducenti”; affidarsi, insomma, completamente al popolo eletto – subordinando, oltretutto, ad esso in maniera quasi irreversibile la nostra industria militare – potrebbe non essere una scelta molto saggia in quanto non se ne ricaverebbe affatto una maggiore autonomia, sovranità e profondità strategica, ma soltanto un collaborazionismo ancora più servile e autolesionistico ad una potenza strutturalmente guerrafondaia pronta a sacrificarci senza troppi problemi qualora questo giovasse al loro interesse nazionale e magari, chissà, come estrema ratio a trascinarci negli inferi insieme a lei. Una proposta quindi paradossale, tanto che anche Petroni, nel suo articolo Per una relazione speciale con gli Stati Uniti, sottolinea come gli italiani non avrebbero alcun interesse a fare la guerra alla Russia e alla Cina e come la nostra idea di Occidente sostanzialmente fatto e finito e quella americana, in costante imperialistica espansione, non coincidano affatto: “A tutto voler concedere” scrive Porcaro “la proposta che qui discutiamo potrebbe essere interpretata anche come punto d’incontro tra un massimo di realismo e un massimo di tutela dell’interesse del paese. Il (prudentemente) sottaciuto ragionamento di Limes potrebbe essere il seguente: siccome in ogni caso un’alleanza particolare con gli Stati Uniti è al momento inevitabile, tanto vale proporla come nostra scelta autonoma, e quindi sottoporla a determinate condizioni, quali una certa libertà di manovra e magari la ridiscussione del pericoloso trattato (segreto) del 1954 sull’utilizzo delle basi americane presenti nel nostro territorio. Ma anche una simile finezza geopolitica sarebbe destituita di fondamento, per gli stessi motivi generali di cui si è detto prima” e cioè che, ripetiamo, è finita l’epoca in cui il massimo pericolo per l’Italia era la concorrenza nel Mediterraneo di altre potenze NATO, come Grecia o Francia e Turchia, e lo strapotere economico tedesco nell’area euro da cercare di bilanciare in qualche modo, ma siamo nell’epoca, come Limes riconosce, della guerra grande e, cioè, in una fase in cui la nostra potenza occupante e l’imperiale di riferimento si è resa conto che per mantenere la propria egemonia non può che fare la guerra ai propri nemici, a loro volta armati di bombe atomiche. La maggiore indipendenza ventilata da questo rapporto speciale sarebbe quindi solo un’illusione anche perché, come scrive Porcaro, “In guerra le pretese dell’egemone si rafforzano, limitando le manovre dell’alleato e rendendo addirittura possibile una riforma in peius degli accordi che si vorrebbero modificare.” Insomma: in questa impossibilità a staccarsi (forse sentimentalmente) dagli Stati Uniti sta tutto il limite della pur notevole impresa culturale di Limes e del suo tentativo di mettere comunque sempre in primo piano l’interesse nazionale.
Pur senza fare i conti in tasca alla rivista e concedendo un’assoluta indipendenza e onestà intellettuale al progetto editoriale, è chiaro che, per qualche motivo, manca il coraggio di porre come prospettiva di medio-lungo periodo una ritrovata sovranità democratica del nostro paese, che pure è l’unica prospettiva che coincide veramente con il nostro interesse nazionale; come raggiungere questo obiettivo? Questa è la domanda che ci dobbiamo fare e su cui Limes dovrebbe maggiormente discutere: rispetto a questo obiettivo strategico di medio-lungo periodo, tutto il resto è tattica e strategia e, magari, anche stipulare dei nuovi accordi di vassallaggio con gli Stati Uniti in determinate circostanze potrebbe avere senso, ma queste circostanze oggi ci dicono l’esatto opposto e, quindi, di questo collaborazionismo implicito (spacciato per disincantato realismo) non abbiamo davvero più bisogno. “Per Limes infatti” scrive Porcaro (e questo è, per quanto qui ci riguarda, il suo limite principale) “l’interesse nazionale italiano coincide con l’alleanza atlantica: la rivista non definisce in maniera indipendente l’interesse del paese per poi mediarlo, inevitabilmente, coi rapporti di forza, ma dice fin da subito che la relazione con Washington è parte integrante di tale interesse. Affermazione mesta, ma tutto sommato relativamente poco nociva in epoca di globalizzazione ascendente, tragica nell’epoca di guerra che anche Limes sa essere stata inaugurata proprio dal paese a cui proponiamo una special partnership che dalla guerra ci salvi”. “Ma noi cosa proponiamo?” si chiede infine Porcaro, intendendo con “noi” tutti coloro che rivendicano il nesso tra sovranità nazionale e democrazia e non si fanno attrarre da qualche snobistica prospettiva pseudo-realista; quando si passa alle proposte alternative concrete, spesso tra questi “noi” ci si limita agli slogan – fuori dalla NATO, fuori dall’euro – e non sappiamo andare oltre la pur giusta visione di un nuovo equilibrio multipolare. Ma quale posto spetterebbe all’Italia in questo nuovo equilibrio? E come fare a raggiungerlo? “Vogliamo essere l’estrema propaggine di un blocco occidentale, oppure di un blocco BRICS?” si domanda Porcaro; “Vogliamo far parte di un autonomo blocco europeo o mediterraneo? Oppure auspichiamo che gli eventi ci consegnino un ruolo di battitore libero consentendoci di lucrare dagli uni e dagli altri? Probabilmente l’incapacità di rispondere a questa domanda è uno dei motivi dell’attuale debolezza politica delle nostre posizioni.”
Tra gli obiettivi di Ottolina Tv c’è senz’altro quello di stimolare un dibattito serio e ragionato che possa superare tanto il collaborazionismo implicito di Limes quanto gli slogan di protesta privi di contenuto e chiarire le possibili prospettive strategiche alternative per il nostro paese. Per prima cosa, ragiona Porcaro, i principi guida dovrebbero essere due: “1) l’Italia non deve essere la periferia di qualche polo, ossia non deve essere sulla linea di confine, che diviene troppo facilmente linea di tiro, ma deve avere una posizione centrale e neutrale; 2) l’Italia deve far parte di un polo che le consenta il massimo di potere decisionale possibile. Dati questi principi, sono da scartare sia l’ipotesi dell’esser parte di un grande blocco atlantico sia quella opposta: in entrambi i casi saremmo sulla linea di tiro, in entrambi i casi il nostro potere di condizionamento delle decisioni del polo sarebbe minimale.” Nelle condizioni attuali, un pur affascinante polo mediterraneo appare irrealizzabile o, quantomeno, non è più perseguibile come strategia principale: “Il Mediterraneo si è fatto assai più affollato (e difficile) e noi ci siamo fatti assai più deboli, economicamente e politicamente (il piano Mattei senza la potenza dell’industria di Stato e senza una pur relativa autonomia da Washington è pura caricatura): un accesso parzialmente influente al Mediterraneo, al momento, ci sarebbe possibile soltanto nelle forme della “relazione speciale” con gli Stati Uniti già criticata sopra”; cosa resta quindi, conclude Porcaro? “Resta la prospettiva di un’alleanza economico-politica fra paesi europei, un’alleanza che nasca sulle ceneri dell’Unione europea o che comunque vada de facto oltre l’Unione e oltre l’euro e si basi sulla neutralità e sul ripudio del liberismo. Un’alleanza a cui l’Italia apporterebbe il proprio peso economico comunque ancora significativo, la propria proiezione mediterranea (che, allora sì, dall’alleanza sarebbe rafforzata e quindi di nuovo possibile al meglio), la valenza politica del proprio smarcarsi dagli Stati Uniti”. Quello che rimane da chiarire in questa condivisibile suggestione strategica di Porcaro è, però, cosa si intende con alleanza europea e soprattutto quali Stati ne dovrebbero fare parte: si intende un un’improbabile nuova alleanza tra i 27 Stati membri dell’Unione europea? Oppure – cosa forse più verosimile e gestibile – un nucleo europeo composto dagli Stati occidentali? Rispetto a questa condivisibile proposta strategica, benché ancora tutta da definire, si pongono allora allora due questioni primarie: “Quanto alla prima questione bisogna evitare equivoci: un blocco europeo come quello che abbiamo ipotizzato è totalmente contrario alla logica geopolitica ed economica che sottostà alla attuale Unione europea. Non nasce per rafforzare l’atlantismo, ma per decretarne la fine. Non riduce la politica a serva dell’economia, ma la rimette al posto di comando. Quel blocco non si realizza quindi come prosecuzione dell’esperienza attuale, come suo approfondimento in direzione dei famosi Stati Uniti d’Europa, ma come inversione di marcia: come rapporto fra stati sovrani fondato su una scelta politica di autonomia strategica. L’idea è che proprio perché abbiamo bisogno di un’alleanza economico-politica orientata alla neutralità, al controllo dei capitali e alle politiche espansive, proprio per questo dobbiamo superare le attuali istituzioni comunitarie invece di renderle più cogenti ed unitarie”. Quanto alla seconda questione, ricorda Porcaro, bisogna sempre ricordare che in politica e, soprattutto, in politica estera, si raggiunge lo scopo prefissato solo attraverso infinite mediazioni e svolte tattiche; pertanto, per quanto riguarda questa nuova alleanza europea, l’idea di questo spazio può essere costretta a fare alcuni passi avanti anche dentro la cornice della NATO e dell’Unione europea “ad esempio costruendo una coalizione anti-escalation all’interno della prima e forzando con decisioni intergovernative ad hoc i peggiori vincoli economici della seconda. Lo stesso superamento dell’euro può conoscere diverse forme, alcune anche momentaneamente interne all’Unione”.
Insomma: la chiarezza negli obiettivi strategici di medio-lungo periodo, fondamentali per la sopravvivenza della Nazione e quindi per il recupero della sovranità democratica, deve essere la premessa fondamentale per orientare la nostra azione politica; i piani e le svolte tattiche che saremo costretti a valutare per raggiungerli sono, in parte, imprevedibili. Quello che è sicuro è che di alcune posizioni servili e, nella sostanza, antinazionali (anche quando fatte con buona fede) sono oggi, per tutto quello che abbiamo detto, francamente irricevibili. E se anche vuoi contribuire a costruire un media veramente libero e indipendente che si occupi di proposte strategiche nazionali e in vista dell’emancipazione del 99 per cento, aderisci alla campagna di sottoscrizioni di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è John Elkann

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Il Regime USA viola i diritti umani – Il rapporto cinese che imbarazza Washington

Il governo degli Stati Uniti sta sistematicamente violando i diritti umani dei propri cittadini: razzismo, condizioni disumane nelle carceri, violazione dei diritti di donne e bambini e discriminazione dei migranti; per questo, Ottolina Tv ha ufficialmente chiesto alla comunità internazionale di imporre severe sanzioni economiche contro il governo di Washington e, qualora queste non portassero nel breve termine a un cambio ai vertici del potere, di valutare un intervento militare diretto volto a far cadere l’attuale regime liberticida e a ristabilire la democrazia e lo stato di diritto nel Paese. E se anche tu vuoi sostenere questo nostro appello rivolto alle democrazie di tutto il mondo, basta iscriversi al nostro canale Youtube e a tutti i nostri canali social. Scherzi a parte, dopo i numerosi rapporti di Amnesty International e Human Rights Watch sulla violazione dei diritti umani universali negli Stati Uniti, anche il Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese ha deciso di fare le pulci alla politica interna del regime dei doppi standard e, in questi giorni, ha pubblicato un rapporto sulle violazioni dei diritti umani negli Usa nel 2023; in questo clima di crescente propaganda anticinese, infatti, che – a forza di menzogne e fake news – sta cercando di convincerci che ci sarà presto bisogno di una nuova crociata in nome della democrazia e della libertà per difenderci contro il malvagio e dittatoriale governo cinese, Pechino, da qualche anno, ha deciso di passare al contrattacco e ormai ogni anno pubblica un rapporto di una trentina di pagine su tutte le violazioni dei diritti che i cittadini americani sono costretti a subire dal proprio regime. In maniera molto intelligente, per prevenire possibili accuse di parzialità rispetto ai dati e ai numeri riportati il rapporto cinese cita solamente risultati di ricerche svolte da università americane e organizzazioni occidentali: quello che emerge è che non solo, come noto a tutti, i diritti sociali universali – come quello all’istruzione, alle cure e alla casa – sono sistematicamente violati dal governo capitalista americano contravvenendo così, nel silenzio generale, agli articoli dal 22 al 27 della Dichiarazione universale dei diritti umani dell’ONU, ma anche per quanto riguarda i diritti civili e politici, di cui (pure nel nostro immaginario di sudditi) gli Stati Uniti sarebbero i massimi difensori quando non i legittimi esportatori, la situazione è drammatica.
Lo Stato leader dell’Occidente e dei valori democratici infatti, a causa della sua struttura economico-politica sempre più oligarchica e imperialista, preferisce spendere centinaia di miliardi di dollari per mantenere la propria egemonia in Europa orientale e in Medio Oriente o per finanziare le proprie basi militari sparse per il pianeta piuttosto che prendersi cura del benessere materiale dei propri cittadini e tutelarne i diritti sociali e civili. Questo fatto elementare, che è chiaro ed evidente a tutto il mondo e da cui tutto il mondo sta traendo le sue conseguenze, qui da noi non è chiaro per nulla: in Italia, ad esempio, dosi da cavallo di propaganda collaborazionista riesce a farlo passare come qualcosa di cui si sa, ma che è sostanzialmente irrilevante, e continuiamo a parlare del regime americano come di un baluardo di libertà e democrazia. Come avrete notato, difficilmente a Ottolina Tv mettiamo becco negli affari interni degli altri Stati; in questa fase di massima aggressività dell’imperialismo – anche culturale – nei confronti di ciò che non è allineato ai nostri canoni, andare in giro con il ditino alzato a giudicare quella o quell’altra comunità per i suoi valori, le sue tradizioni o per come viene regolato il rapporto tra l’individuo e lo Stato, non ci interessa; per quanto ci riguarda, infatti, le nazioni dovrebbero avere tutte pari dignità e sovranità nei consessi internazionali indipendentemente dai loro regimi politici interni e, a meno che non si mettano a bombardare altri popoli o a cercare di esportare il proprio modello con la forza, tutte le collettività devono essere libere di esprimere in base alla propria storia e sensibilità le istituzioni politiche e giuridiche che preferiscono. La regola aurea, insomma, di un rinnovato diritto internazionale e di una rinnovata cultura anti-imperialista, oltre alla solidarietà dovrebbe essere grossomodo quella che ciò che fanno gli altri a casa loro sono, sostanzialmente, fatti loro. Nel caso della violazione dei diritti umani negli Stati Uniti, però, purtroppo la cosa ci riguarda direttamente: in quanto poco più che province del loro impero, infatti, stiamo da tempo importando con le buone o con le cattive la loro mentalità e le loro forme politiche ed economiche; e, infatti, l’ideologia dominante in Italia vuole che, per diventare pienamente moderni, gli italiani e gli europei dovrebbero americanizzarsi il più possibile. Ancora nel 2014, alla Stampa, nientepopodimeno che Walter Veltroni dichiarava che, per progredire e svilupparsi, il sistema politico italiano sarebbe dovuto diventare più anglosassone; a causa di tutto questo, purtroppo, quello che fanno negli USA anche in tema di diritti civili ci riguarda eccome e siamo chiamati a valutarlo e giudicarlo politicamente. Il rapporto del governo cinese è inquietante e se volessimo ripagare gli americani con la loro stessa moneta, invocheremmo guerre umanitarie e bombe democratiche sul paese per ristabilire il pieno rispetto diritti umani e della dignità della persona, ma (per fortuna) noi non siamo come loro, perché a diventare più anglosassoni proprio non ci vogliamo rassegnare.
Come c’era da aspettarsi, dell’ultimo rapporto della Repubblica Popolare Cinese sulla violazione dei diritti umani in America non ha parlato praticamente nessuno con poche meritevoli eccezioni: Centro studi Eurasia- Mediterrano e Marx 21, che hanno ripubblicato anche la versione tradotta in italiano. Quella cinese è un’operazione politica e propagandistica intelligente: utilizza i criteri politici occidentali – tutti incentrati, ormai da decenni, solo sui diritti umani intesi (non si sa perché) solo come diritti civili – proprio per dimostrare come quella che, nel nostro immaginario, è la società occidentale per eccellenza i diritti civili sia la prima violarli; obnubilati dalla vostra propaganda siete convinti che la Cina sia il regno della violazione delle libertà e dei diritti umani? Bene. Allora vi dimostriamo che la vostra nazione leader fa quantomeno altrettanto. Ma non c’è solo questo, perché già l’incipit del rapporto è molto interessante e dimostra come, da una sana prospettiva socialista, anche i cosiddetti diritti civili, per non restare un qualcosa di meramente astratto e sulla carta per la maggior parte delle persone, possono essere realizzati solo in un contesto economico politico giusto e redistributivo. Nelle società a capitalismo avanzato come gli USA, invece, anche i diritti civili – come, naturalmente, quelli sociali – diventano pura retorica e vuote chiacchiere in quanto, nella sostanza delle cose, diventano possesso esclusivo di una cerchia sempre più ristretta di persone (quella più ricca): “La situazione dei diritti umani negli Stati Uniti ha continuato a peggiorare nel 2023” si legge nella prefazione; “Negli Stati Uniti, i diritti umani stanno diventando sempre più polarizzati. Mentre una minoranza al potere detiene il dominio politico, economico e sociale, la maggioranza della gente comune è sempre più emarginata e i suoi diritti e le sue libertà fondamentali vengono ignorati.” E, a questo punto, si parte con gli esempi e con i dati.
La prima piaga sociale menzionata è quella delle vittime delle armi da fuoco: “I dati mostrano che negli Stati Uniti sono in aumento tutti i tipi di violenza armata. Secondo il Gun Violence Archive, nel 2023 negli Stati Uniti si sono verificate almeno 654 sparatorie di massa. La violenza armata è responsabile di quasi 43.000 morti, una media di 117 al giorno”; come sottolinea giustamente il rapporto, la stragrande maggioranza degli americani vorrebbe leggi più severe sul controllo delle armi e, tuttavia, i politici americani ignorano la richiesta della propria popolazione in quanto ostaggi delle lobby delle armi e dei cartelli oligarchici di cui fanno parte. Sempre sul tema delle morti violente, il rapporto cita poi i decessi dovuti alle brutalità della polizia che hanno raggiunto, nel 2023, un livello record: “Secondo Mapping Police Violence, l’anno scorso la polizia negli Stati Uniti ha ucciso almeno 1.247 persone, circa 3 persone al giorno”. Un problema ancora più grave e strutturale riguarda, però, la popolazione carceraria: “Gli Stati Uniti ospitano il 5% della popolazione mondiale, ma ospitano il 25% dei prigionieri del mondo, il che li rende il Paese con il più alto tasso di carcerazione e il maggior numero di individui incarcerati a livello globale”. Per non parlare del razzismo, altro problema strutturale – come sottolinea giustamente il rapporto – mai veramente risolto; ad esempio, uno studio pubblicato dal Fondo delle Nazioni Unite nel 2023 ha rivelato che i tassi di mortalità materna tra gli afroamericani erano più alti rispetto a quelli di tutte le altre etnie a causa del razzismo sistemico nel sistema sanitario: “Secondo i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie, 69,9 donne incinte di origine africana su 100.000 muoiono durante la gravidanza o il parto, quasi tre volte il tasso delle donne bianche, e questa disparità è prevalente tra le donne afroamericane con livelli di istruzione e reddito più bassi”. Anche i neonati afroamericani hanno il tasso di mortalità più alto di qualsiasi altro gruppo etnico, con quasi 11 decessi ogni 1.000, circa il doppio del tasso medio.
E in questo clima di crescente sinofobia, causato dall’atteggiamento sempre più ostile delle oligarchie americane nei confronti di Pechino, anche la discriminazione nei confronti degli asiatici non poteva che intensificarsi: “Un sondaggio pubblicato il 27 aprile 2023 dalla School of Social Work and Committee della Columbia University” scrivono gli autori del rapporto “ha mostrato che quasi tre quarti dei cinesi americani avevano subito discriminazioni razziali nell’ultimo anno e il 55% temeva che i crimini d’odio o le molestie avrebbero potuto mettere a repentaglio la loro sicurezza personale”; alla dogana, afferma il report, gli studenti cinesi che studiano negli Stati Uniti stanno subendo sempre più spesso controlli e pressioni al limite della violenza psicologica. Per quanto riguarda i diritti delle donne e dei bambini, gli Stati Uniti hanno il tasso di mortalità materna più alto tra i paesi industrializzati: “Secondo una ricerca pubblicata sul Journal of American Medical Association nel luglio 2023, il numero di persone che muoiono per cause legate alla gravidanza negli Stati Uniti è più che raddoppiato negli ultimi 20 anni. Il problema è che più di 2,2 milioni di donne statunitensi in età fertile non hanno accesso alle cure ostetriche e altri 4,8 milioni vivono in contee con accesso limitato alle cure di maternità”. Anche la discriminazione di genere, come ad esempio quella sul posto di lavoro, è dilagante: secondo un rapporto del Times dell’8 agosto 2023, riportato nel documento del governo cinese, “Il divario salariale tra uomini e donne continua ad ampliarsi, dal 20,3 % nel 2019 al 22,2 % nel 2022”. Per fortuna, almeno la ricchezza, negli ultimi anni, è stata maggiormente distribuita e la forbice tra ricchi e poveri si è ridotta. Scherzo: “Il divario tra ricchi e poveri si è ulteriormente ampliato” si legge nel rapporto; “Il divario ha raggiunto il livello peggiore dalla Grande Depressione del 1929. Secondo i dati diffusi da Statistics il 3 novembre 2023, il tasso di povertà negli Stati Uniti nel 2022 ha raggiunto l’11,5%”. Nel terzo trimestre del 2023, il 66,6% della ricchezza totale negli Stati Uniti era posseduto dal 10% dei percettori di reddito più ricchi; l’accumulo di ricchezza e la ridotta mobilità sociale nella società americana, conclude il rapporto (a questo proposito con una certa lucidità politica), “sono radicati in un triplice disegno istituzionale: sfruttare i poveri, sovvenzionare i ricchi e segregare le classi”.
Attualmente, mentre decine di miliardi di dollari vengono mandati al governo israeliano per poter compiere una pulizia etnica a Gaza, anche le famiglie a basso reddito americane riescono a malapena a soddisfare i loro bisogni primari: “Poiché i prezzi delle materie prime negli Stati Uniti nel 2023 rimangono elevati, insieme al peso dei continui aumenti dei tassi di interesse, il costo della vita degli americani continua ad aumentare da diversi anni. Secondo l’indice dei prezzi al consumo del Bureau of Labor Statistics, un dollaro nel 2023 può acquistare circa il 70% di ciò che avrebbe potuto acquistare nel 2009”; e secondo un rapporto del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, nel 2022 quasi il 13% delle famiglie americane soffriva di insicurezza alimentare. Anche il numero dei senzatetto è al livello più alto da 16 anni: “Secondo un rapporto pubblicato dal Dipartimento statunitense per l’edilizia abitativa e lo sviluppo urbano il 15 dicembre 2023, il numero di senzatetto negli Stati Uniti in questa fase supera i 650.000, il più alto dall’inizio della segnalazione nel 2007” e, come viene giustamente ricordato nel rapporto, la legislazione USA nei confronti dei senzatetto è tra le più severe al mondo; i loro diritti umani basilari vengono costantemente violati e “Questa violazione dei diritti umani fondamentali dei senzatetto negli Stati Uniti è stata ampiamente criticata. Il Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha esortato gli Stati Uniti ad abolire le leggi e le politiche che criminalizzano i senzatetto a tutti i livelli e ad adottare misure legislative e di altro tipo che ne tutelino i diritti umani”. In un contesto sociale del genere – davvero paradossale se si pensa che l’attuale ricchezza nazionale americana potrebbe garantire sicurezza e benessere sociale a tutti i proprio cittadini per generazioni e generazioni a venire – i tassi di suicidio non potevano che aumentare: “Secondo un rapporto pubblicato il 29 novembre 2023 dal sito web USA Today, il tasso di suicidio tra gli americani è aumentato costantemente negli ultimi decenni. Il tasso di suicidio per 100.000 persone nel 2022 è stato di 14,3, il più alto dal 1941”. E anche la credibilità del governo di fronte ai propri cittadini continua a diminuire: “Secondo i dati dell’indagine del Pew Research Center, la fiducia del pubblico americano nel governo è vicina ai minimi storici e, nel 2023, si è attestata al 16%”.
Che ci sia Trump o Biden, il regime oligarchico e imperialista americano è sostanzialmente disprezzato e delegittimato agli occhi dei propri cittadini che non vivendo, però, in un regime democratico, non sono in grado di cambiare le cose; e per quanto stiano cercando di convincerli che i loro problemi si chiamano Russia, Cina o Maometto, stanno invece cominciando a capire che si chiamano capitalismo finanziario, neoliberismo e imperialismo. Infine, il rapporto si sofferma sulle crisi umanitarie che l’intervento militare americano ha causato alle popolazioni del pianeta: “Un rapporto di ricerca pubblicato nel maggio 2023 dal sito web del progetto Costs of War della Brown University rivela che nei teatri di guerra in cui gli Stati Uniti hanno condotto operazioni di antiterrorismo all’estero in seguito agli attacchi dell’11 settembre, il bilancio totale delle vittime conta almeno 4,5 – 4,7 milioni di persone. Tra questi, si stima che il numero di morti indirettamente causati da sconvolgimenti economici legati alla guerra, danni ambientali, perdita di servizi pubblici e infrastrutture sanitarie sia compreso tra 3,6 e 3,8 milioni di persone”. A tutto ciò ha contribuito anche l’uso prolungato e indiscriminato di sanzioni economiche unilaterali: dal 1950, gli Stati Uniti hanno utilizzato più sanzioni di qualsiasi altro Paese al mondo; lo sanno bene i siriani, i venezuelani, i cubani e gli iraniani, popoli che hanno avuto la colpa di non allinearsi. Insomma: per quanto riguarda la società americana, conclude il report, i diritti umani “si sono trasformati in un privilegio di cui godono solo pochi”. E in politica estera il regime nordamericano sta “seriamente minacciando e ostacolando il sano sviluppo della causa mondiale dei diritti umani. Le azioni parlano più forte delle parole. Riusciranno gli Stati Uniti a superare l’impasse con idee e iniziative in linea con le caratteristiche dei tempi e delle correnti della storia? Il popolo americano sta aspettando, la comunità internazionale sta guardando e il governo degli Stati Uniti deve rispondere”.
Con queste parole si conclude il rapporto, ma se anche tu pensi che il regime autoritario e liberticida americano non risponderà mai e che solo un grande mobilitazione popolare che possa rovesciare il regime e ristabilire la democrazia, la libertà e lo stato di diritto (magari con l’aiuto di qualche potenza estera) potrà veramente cambiare le cose, allora Ottolina Tv è il canale giusto per te: iscriviti a tutti i nostri canali e aiutaci a mantenerci liberi ed economicamente indipendenti aderendo alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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L’estrema destra distruggerà l’Unione europea e la NATO? – ft. Fabio Mini

Il Generale Mini commenta il risultato delle elezioni europee e affronta alcune questioni strategiche e militari fondamentali per l’Italia e per l’Europa. Gli Usa stanno cercando di costruire una NATO globale in modo tale da poter dirigere completamente la politica estera di tutti i propri paesi vassalli nel mondo? O le attuali classi dirigenti europee potrebbero sfruttare la guerra alla Russia per compattarsi al proprio interno e creare un polo europeo maggiormente indipendente da Washington? E infine, paradosso dei paradossi: non sono invece le forze di estrema destra europee oggi a rappresentare l’unica vera alternativa all’autolesionistico status quo in cui ci ha condotto il partito unico neoliberista?

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La Russia reagisce alla minaccia dei missili NATO diventando l’arsenale dell’anti-imperialismo

Se gli occidentali stanno prendendo in considerazione l’idea di “consegnare armi agli ucraini da usare per attaccare direttamente il nostro territorio, perché mai non dovremmo avere anche noi il diritto di fornire sistemi d’arma dello stesso tipo in qualche area del pianeta che potrebbero essere usati per lanciare attacchi su qualche obiettivo sensibile dei paesi che fanno la stessa cosa con la Russia?” (Vladimir Putin): fino ad oggi l’impero ha sempre propagandato l’idea degli USA come arsenale della democrazia, anche quando sterminavano i bambini col napalm in Vietnam o firmavano coi cuoricini le bombe che il regime fasciosionista di Tel Aviv lanciava sui campi profughi; e se ora la Russia invece diventasse l’arsenale dell’anti-imperialismo?

Guido Crosetto

Nell’inevitabile escalation ucraina, gli ultimi 10 giorni sono stati i giorni dello sdoganamento definitivo dell’utilizzo delle armi fornite dagli alleati occidentali per colpire direttamente il territorio russo; come tutti i passi compiuti a intervalli più o meno regolari dall’inizio della seconda fase della guerra per procura in Ucraina e che portano gradualmente, ma inesorabilmente, verso il conflitto diretto tra potenze nucleari, anche questa escalation ovviamente viene introdotta a piccole dosi, con tanto di finta dialettica interna tra le forze coinvolte giusto per far sembrare che i singoli paesi, in realtà, mantengono una qualche forma di autonomia. Ed ecco, così, che gli USA hanno dato il via libera all’utilizzo delle loro armi in territorio russo, ma solo per colpire obiettivi militari nella zona di Belgorod, da dove partono i raid contro Kharkiv e dintorni: Francia, Olanda, Gran Bretagna e Norvegia hanno detto agli ucraini che, sostanzialmente, possono fare un po’ cosa cazzo gli pare; il Belgio, invece, sembra non volerne sapere. E in Italia Crosetto, ancora venerdì scorso sul Corriere, continuava a sostenere che “chi parla di armi usate per colpire la Russia, sbaglia” e che “su questioni così serie c’è troppa superficialità”: in Italia, infatti, le informazioni sul tipo di armi che mandiamo e come vengono utilizzate, sin dai tempi di San MarioPio da Goldman Sachs sono secretate e Crosetto ci tiene a sottolineare che non sarà certo lui “a infrangere una legge dello Stato”; ciononostante, ribadisce che, come ha già detto “mille volte: le armi italiane non colpiranno il territorio russo”.
Ovviamente, come sottolineava anche il sempre lucidissimo Gianandrea Gaiani in un articolo pubblicato su AnalisiDifesa mercoledì scorso, sono tutti distinguo un po’ farlocchi: “Le diverse posizioni assunte dagli alleati” scrive infatti Gaiani “renderebbero ambigua la gestione delle armi contro obiettivi sul territorio russo. Per esempio, gli ucraini potrebbero impiegare missili Aster 30 forniti dalla Francia per abbattere un aereo nemico nello spazio aereo russo, ma non potrebbero farlo impiegando un esemplare dello stesso missile fornito dall’Italia”; idem con patate per l’impiego di missili da crociera Storm Shadow/SCALP, utilizzabili se arrivano da Francia o Gran Bretagna, vietati se arrivano dall’Italia. Un’ottima idea, effettivamente, potrebbe essere mandare direttamente sul campo a controllare un po’ di membri del nostro governo, così vedrai le ruzze gli passano. Teatrini come questi sono la prassi dall’inizio del conflitto, ma in queste ultime settimane di campagna elettorale per le europee la messinscena è stata particolarmente spregiudicata; d’altronde, di fronte alla crescente insofferenza della stragrande maggioranza dei cittadini europei di fronte a una guerra che piano piano – a parte i giornalai de La Repubblichina e del Giornanale – un po’ tutti hanno capito che è l’ennesima guerra di aggressione USA non solo contro la Russia, ma anche contro i popoli europei, qualche cazzata se la dovevano pur inventare; e che la situazione è così delicata da dover lasciare mano libera ai vari governi zerbini di giocare al meglio le poche carte che gli rimangono per dare un contentino ai rispettivi elettorati a Washington l’hanno capito benissimo e hanno dato mandato a Stoltenberg di chiarire che, per ora, ognuno po’ fa finta di fa un po’ come cazzo je pare: “Alcuni alleati hanno imposto restrizioni sulle armi che hanno consegnato” ha affermato “altri non lo hanno fatto. Non si tratta di decisioni della NATO”.
Chiusa la partita elettorale, il via libera all’uso dei missili di tutti gli alleati NATO anche in territorio russo è solo questione di tempo e non può essere altrimenti: la situazione sul campo di battaglia è quella che è e la sproporzione tra le due basi industriali, nonostante gli annunci roboanti sulla corsa al riarmo e la nuova stagione dell’economia di guerra, invece che diminuire non fa che aumentare, con l’Occidente nel suo insieme che, come conferma una recente ricerca della società di consulenza Bain & Company, nel 2024 riuscirà a produrre al massimo 1,3 milioni proiettili di artiglieria contro i 4,5 milioni della Russia (dove, tra l’altro, ogni pezzo costa circa mille euro, contro i 4 mila dei superproduttivi paesi a capitalismo avanzato) e siccome il blocco imperialista, molto semplicemente (checché ne dicano i pacifisti) non può permettere in nessun modo alla Russia di vincere la guerra, prima di rassegnarsi sarà ovviamente costretto a un’escalation dopo l’altra qualsiasi rischio implichi. Il primo – che ovviamente, legittimamente, è in cima alle nostre preoccupazioni – è quello nucleare e che, nelle ultime settimane, ha subìto un’accelerazione decisamente inquietante che abbiamo già analizzato in lungo e in largo: il riferimento ovviamente, in particolare, è all’attacco sferrato il 23 maggio scorso contro il sito radar di Armavir, a nord della Georgia e a circa 300 chilometri dall’estremità della Crimea; come sicuramente saprete già, in questa località, da quasi una ventina di anni, la Russia ha installato e reso operativo un radar Voronezh, che fa parte dell’infrastruttura complessiva russa di allarme contro gli attacchi missilistici. Si tratta di un asset strategico di primissimo piano che permette alla Russia di monitorare eventuali attacchi missilistici contro il suo territorio provenienti da un settore che copre tutto il Mediterraneo, il Medio Oriente e parte del Mare Arabico, dove sono in grado di operare gli Ship Submersible Ballistic Nuclear statunitensi (SSBN, per gli amici) e, cioè, i sottomarini lanciamissili balistici a propulsione nucleare armati con testate nucleari. Su chi abbia realmente dato il via libera all’attacco – e con quali finalità – ci sono opinioni molto diverse: è infatti possibile, come sottolineava il 28 maggio scorso Ruggero Stanglini sempre su AnalisiDifesa, “che i russi si servissero del radar di Armovir anche per scoprire il lancio da parte dell’Ucraina di missili balistici tattici o da crociera contro obiettivi in Crimea” a partire, in particolare, dall’antiaerea che, come abbiamo sottolineato svariate volte, rappresenta uno dei principali ostacoli all’impiego efficace degli F-16 sul fronte; il punto, però, è che al netto di tutte queste valutazioni, “In base alla dottrina pubblicata dal governo russo nel 2020 circa l’impiego di armi atomiche, questo rientra proprio tra i casi suscettibili di far scattare una rappresaglia nucleare, prevista a fronte di qualsiasi attacco avversario contro infrastrutture governative o militari della Federazione Russa, la cui distruzione comprometta la capacità di risposta delle forze nucleari come appunto, chiaramente, è il caso del radar di Armavir”.
Ma c’è anche un altro risvolto che probabilmente le élite dell’Occidente collettivo non hanno ancora valutato attentamente ed è il rischio che, procedendo ineluttabilmente di escalation in escalation, si costringa la Russia di Putin a trasformarsi definitivamente, appunto – come anticipavamo nell’apertura di questo video – nell’arsenale dell’antimperialismo. La domanda, a questo punto, è proprio quella che l’analista americano di nascita, ma russo di adozione, Andrew Korybko si pone espressamente sul suo profilo Substack e, cioè “Chi potrebbe armare concretamente la Russia come risposta asimmetrica all’Occidente che arma l’Ucraina?” e cioè chi è che, concretamente, potrebbe avere sia la possibilità, sia l’interesse (eventualmente) a colpire direttamente un pezzo del blocco imperialista? Secondo Korybko, “l’unica forza che ha la volontà politica di colpire i siti occidentali sensibili” sarebbe l’Asse della Resistenza: Korybko ricorda come “questi gruppi alleati dell’Iran hanno già attaccato le basi americane in Siria, Iraq e Giordania, le prime delle quali sono state costruite senza l’approvazione di Damasco mentre le altre contribuiscono a questa occupazione illegale”; da qui, l’idea che la Russia “potrebbe prendere seriamente in considerazione l’idea di affidarsi al suo partner strategico iraniano per armare questi gruppi al fine di forzare un umiliante ritiro americano almeno da alcune parti dell’Asia occidentale, in particolare dalla Siria, o coinvolgerlo in un grave conflitto regionale proprio prima le elezioni di novembre”.
Che l’amministrazione Biden non abbia nessuna intenzione di essere coinvolta in un’escalation regionale è stato abbondantemente dimostrato dalla gestione del massiccio attacco iraniano contro Israele che ha costretto gli amici dello sterminio dei bambini palestinesi a spendere una quantità spropositata di quattrini per respingere un attacco costato poche decine di milioni di dollari senza poi, sostanzialmente, ricorrere a nessuna ritorsione concreta, un episodio che ha radicalmente modificato il bilancio di potenza nella regione a favore dell’Iran e che lascia presupporre che armando l’Asse della Resistenza la Russia non avrebbe poi granché da temere; ciononostante, ci sono diverse complicazioni possibili che potrebbero spingere Putin a non inoltrarsi lungo questo cammino. La prima è che “c’è sempre la possibilità che un’escalation regionale rischi di trasformarsi in una spirale fuori controllo a causa del fatto che Netanyahu è una mina vagante”; la seconda è che armare l’Asse della Resistenza significherebbe, inevitabilmente, anche indispettire le petromonarchie del Golfo a partire da emirati e sauditi che, come dimostra anche il Forum economico di San Pietroburgo conclusosi sabato scorso, Mosca continua a considerare interlocutori economici di primissima importanza che è fondamentale continuare a coccolare per evitare che decidano di riallinearsi completamente con l’imperialismo occidentale. Ciononostante, insiste Korybko, “La risposta asimmetrica più probabile all’Occidente che lascia che l’Ucraina usi le sue armi per colpire obiettivi all’interno dei confini universalmente riconosciuti della Russia è che la Russia armi l’Asse della Resistenza con armi migliori attraverso l’Iran in modo che abbiano maggiori possibilità di distruggere le basi degli Stati Uniti nell’Asia occidentale. Detto questo” conclude Korybko “il presidente Putin non ha ancora deciso questa linea d’azione poiché è sempre riluttante a fare mosse importanti per paura di conseguenze indesiderate, ma sembra certamente che ci stia pensando”.
In realtà, però, il Medio Oriente e l’Asse della Resistenza potrebbero non essere esattamente quello che aveva in mente Putin quando, da San Pietroburgo, ha pronunciato quelle parole: Una flottiglia della Marina russa, titolava venerdì nella sua home page The War Zone, si sta dirigendo a Cuba per delle esercitazioni, mentre Putin minaccia di armare i nemici “regionali” degli alleati dell’Ucraina: “Una flottiglia russa” specifica l’articolo “incluso un moderno sottomarino a propulsione nucleare armato di missili da crociera, è diretta a Cuba per un dispiegamento di dimensioni rare” e anche se “funzionari cubani” sottolinea l’articolo “affermano che nessuna delle navi della Marina russa dirette verso i Caraibi trasporterà armi nucleari”, il pensiero non può che correre immediatamente all’ottobre del 1962, quando la scoperta di missili balistici sovietici r-12 e r-14 su suolo cubano scatenò quella che, probabilmente, è stata la più grave e pericolosa crisi dell’intera guerra fredda; da allora Cuba resiste eroicamente al più grave e devastante embargo di tutti i tempi e continua a rappresentare l’avamposto più avanzato della resistenza antimperialista a due bracciate dalle coste statunitensi. Da Washington, continua l’articolo, fanno sapere di non essere “preoccupati dagli schieramenti della Russia, che non rappresentano una minaccia diretta per gli Stati Uniti”, anche perché non è certo la prima volta che la Marina russa fa le sue incursioni nell’area, compreso il luglio scorso quando all’Avana attraccò la nave scuola Perekop per una visita di 4 giorni.
A questo giro, però, lo schieramento messo in campo sembra, sia qualitativamente che quantitativamente, tutta un’altra cosa: tra le imbarcazioni che compongono la flottiglia, infatti, ci sarebbero anche la Kazan e la Admiral Groshkov, entrambe “dotate di silos del sistema di lancio verticale che possono ospitare missili da crociera a lungo raggio Kalibr, che possono essere utilizzati per attacchi antinave e attacchi terrestri, nonché missili da crociera supersonici antinave Oniks”; “Inoltre” continua l’articolo “l’ Admiral Gorshkov è stata la prima nave da guerra della Marina russa a schierare operativamente i nuovi missili da crociera ipersonici Zircon, almeno secondo le dichiarazioni ufficiali russe”. Ma ad alzare l’asticella, in particolare, ci sarebbe proprio il sottomarino nucleare russo classe Yasen-M: “A differenza della generazione precedente” spiega The War Zone, i sottomarini di questa classe “sono molto più versatili delle semplici piattaforme missilistiche da crociera, in grado di operare come imbarcazioni d’attacco per uso generale, nonché raccoglitori di informazioni e potenzialmente come piattaforme per missioni speciali”. Che i sottomarini Yasen, in termini di silenziosità, siano quasi alla pari con i pezzi più pregiati della marina statunitense, lo ha affermato esplicitamente anche il generale dell’aeronautica statunitense Glen Van Herck, che avrebbe “aggiunto che questa crescente classe di sottomarini rappresenterà presto una minaccia persistente per la patria americana come mai prima d’ora”. E Cuba, come avamposto della lotta antimperialista nella regione, potrebbe non essere più isolata: “All’inizio di questa settimana” sottolinea infatti ancora l’articolo “un alto funzionario statunitense ha suggerito che l’attuale dispiegamento della Marina russa potrebbe includere anche uno scalo in Venezuela”; ma quello che ha fatto drizzare ancora di più le antenne sono le recenti parole di Gustavo Petro, il primo presidente della storia recente della Colombia a non essere espressione diretta delle oligarchie nazionali a totale servizio dell’imperialismo USA.
Al contrario delle favolette degli analfoliberali e dell’aperisinistra delle ZTL, il nazifascismo altro non è stato che la fazione più cruenta dell’imperialismo che sperava, attraverso il ricorso indiscriminato alla violenza, di recuperare il gap che la separava dagli imperialismi più consolidati e avanzati; oggi come oggi, quella fazione si incarna perfettamente nelle élite di tutto l’imperialismo unitario, senza grosse distinzioni tra chi tutto sommato se lo rivendica e chi, invece, prova a trasformare anche il 25 aprile e anche il D Day in feste del revisionismo storico e della rinnovata ferocia neocolonialista. Contro i nuovi fascismi più o meno mascherati, siamo tutti chiamati a dare il nostro contributo, dall’Asia all’America Latina, passando per casa nostra; e a casa nostra, il modo più immediato che abbiamo oggi per farlo è lanciare una sfida all’egemonia in declino propagandata dai pennivendoli al servizio della ferocia dell’impero. Per farlo davvero, però, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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La guerra commerciale degli USA contro la Cina è il funerale delle democrazie liberali

“Mentre leggete questo articolo, il sistema commerciale globale si sta disintegrando” titola l’Economist; depositario da sempre dei dogmi religiosi più oltranzisti della globalizzazione neoliberista, almeno ha il merito di dimostrare una certa coerenza. L’annuncio di Rimbambiden, martedì scorso, di un aumento stratosferico dei dazi su una serie infinita di prodotti cinesi segna definitivamente la fine di un’epoca, una vera e propria bomba atomica lanciata contro le colonne portanti dell’ordine economico mondiale che ha regolato le nostre vite negli ultimi 40 anni; i dazi, infatti, rappresentano la negazione per eccellenza del cosiddetto Washington Consensus, l’insieme di 10 regole create a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie euroatlantiche e che Washington ha imposto al resto del mondo anche attraverso colpi di Stato, rivoluzioni colorate e tante tante bombe umanitarie e che, appunto, nella formulazione originale che nel 1989 ne ha fatto l’economista angloamericano John Williamson, prevedono la liberalizzazione del commercio con l’eliminazione di ogni restrizione quantitativa e il crollo, appunto, delle tariffe. Ma per chi trova questi temi un po’ astratti e poco intuitivi, tranquilli: ce n’è anche per voi perché questo terremoto non può che avere anche enormi ripercussioni di carattere politico e istituzionale; al contrario di quanto sostengono gli analfoliberali, infatti, la forma specifica delle nostre istituzioni politiche – le cosiddette democrazie liberali in nome delle quali l’Occidente collettivo si è arrogato il diritto di sanzionare (se non addirittura di bombardare) mezzo pianeta – non si fonda ovviamente su particolari principi o valori (che sono solo fuffa per i poveri di intelletto), ma sul fatto che sono la forma istituzionale più adeguata proprio ai dettami neoliberisti del Washington Consensus.
Con la scusa dell’inviolabilità delle libertà individuali e della divisione dei poteri, infatti, le democrazie liberali, che hanno sostituito gradualmente, senza fare troppo rumore, le democrazie costituzionali moderne – che erano nate dopo due guerre mondiali proprio per eliminare le cause profonde che avevano portato ai conflitti imperialistici e all’affermazione del nazifascismo – impediscono ogni forma di concentrazione del potere alternativa a quella del grande capitale privato trasformando lo Stato in un semplice comitato d’affari al servizio degli interessi egoistici delle oligarchie. Anche la famosa democrazia dell’alternanza, a ben vedere, ha sostanzialmente questa finalità: ridurre le elezioni a un televoto tra due fazioni, divise su temi di facciata, di un partito unico degli affari e della guerra la cui agenda fondamentale è dettata, appunto, da oligarchie inamovibili; con la fine dell’ordine economico neoliberale sancita dal ritorno del protezionismo, quindi, è del tutto inevitabile che anche la sua incarnazione istituzionale sia destinata a subire la stessa sorte (e molto più rapidamente di quanto possiate immaginare).

Charles Michel

Lo ha anticipato, in modo cristallino, nientepopodimeno che il presidente del consiglio europeo di persona personalmente, l’universalmente odiatissimo Charles Michel che, nonostante l’appartenenza alla famiglia cosiddetta progressista, ha deciso di buttare alle ortiche un antico tabù: “Nei partiti che vengono definiti di estrema destra” ha dichiarato “vi sono personalità con cui si può collaborare”; l’importante è che siano “pronti a collaborare per sostenere l’Ucraina e a rendere l’Ue più forte”. Che, tradotto, significa che siano schierati dalla parte giusta nella guerra che l’imperialismo ha dichiarato ai paesi sovrani di tutto il mondo e che siano pronti a demolire quel poco di democrazia che è rimasta a livello di Stati nazionali per trasferire tutto il potere in un’istituzione post democratica come l’Unione europea. D’altronde, non è certo una novità: liberali e fascisti sono sempre andati a braccetto, da quando Benedetto Croce e Luigi Einaudi salutavano con entusiasmo l’arrivo di un Duce in grado di reprimere nel sangue le intemperanze delle classi lavoratrici, che rischiavano di importare anche in Italia il morbo della rivolta antimperialista che aveva travolto la Russia; anche se non c’è più l’Unione Sovietica, stringi stringi, la dinamica è esattamente la stessa. Ma prima di provare a capire nel dettaglio perché la svolta protezionista di Rimbambiden comporta la morte dell’ordine economico mondiale e delle democrazie liberali, vi invito a mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro un’altra dittatura (quella degli algoritmi) e, se non l’avete fatto, anche a iscrivervi a tutti i nostri canali social e ad attivare tutte le notifiche: a voi non costa niente, ma per noi può fare la differenza.
Da oltre 30 anni, il culto del mercato e del libero scambio è l’unica vera religione civile rimasta in tutto l’Occidente collettivo e, come ogni religione, ha comportato le sue guerre in nome dell’evangelizzazione di ogni genere: in nome dell’imposizione del binomio liberalizzazione del commercio/istituzioni liberali si sono strozzati paesi nel debito, imposte sanzioni di ogni genere, architettato colpi di Stato e, quando ancora non bastava, pure raso al suolo interi paesi, fino a che qualcosa non è cominciato a cambiare. Una prima avvisaglia è arrivata con la prima amministrazione Trump durante la quale ci fu un primo ricorso al caro vecchio strumento delle barriere tariffarie, proprio nel paese che, più di ogni altro, si era fino ad allora speso per impedirle in tutto il resto del mondo; una contraddizione che venne fortemente denunciata anche dall’opposizione democratica e dallo stesso Rimbambiden, che proprio sulle parole d’ordine del dogma liberoscambista ha incentrato una bella fetta della sua prima campagna elettorale. Una volta salito al potere, però, la retorica ha fatto spazio alla realpolitik: le sanzioni sono rimaste tutte dov’erano e ora, alla vigilia di un’altra campagna elettorale infuocata, si rilancia con proporzioni assolutamente inedite e inaspettate.
Il tema del momento, ovviamente, sono le auto elettriche, per le quali i dazi passeranno dal 25 al 100% – come aveva già minacciato Trump nelle settimane scorse a più riprese; ma è solo la punta dell’iceberg: i dazi su tutti i tipi di batterie, dal 7,5%, saranno innalzati al 25, come per la grafite e le terre rare che, fino ad oggi, pagavano zero. Da zero a 25 anche le gigantesche gru utilizzate nei porti; per le celle solari, che pagavano già il 25, si passerà al 50. Stessa cosa per i semiconduttori; per alluminio e acciaio, invece, l’aumento sarà più contenuto, dal 7,5 al 25. Ovviamente il valore complessivo attuale dell’interscambio delle merci coinvolte, in realtà non è granché (circa 18 miliardi di dollari) e, ovviamente, si tratta di una manovra dal chiaro sapore elettoralistico, tant’è che i cinesi, grossomodo, li stanno perculando: “Un tipico atto di bullismo” l’ha definito il ministro degli esteri cinesi Wang Yi che, sostiene, ha “messo in luce la mancanza di fiducia piuttosto che la forza di Washington” e che, sottolinea, “non fermerà lo sviluppo della Cina, ma al contrario ispirerà 1,4 miliardi di cinesi a lavorare di più”; ma, nonostante gli effetti immediati sull’ascesa cinese e sull’economia americana siano piuttosto limitati, si tratta comunque di una svolta storica che indica chiaramente la strada che è stata irrevocabilmente intrapresa. La domanda è: perché? Perché, nonostante le cifre – tutto sommato contenute – in ballo, si è deciso di minare definitivamente le fondamenta stesse della religione civile sulla quale è stato costruito l’unipolarismo USA che ha dominato negli ultimi 40 anni? Cos’è cambiato?
Per capirlo è necessario fare un piccolo riassuntino delle puntate precedenti e provare a capire perché il mito del libero scambio, negli ultimi decenni, ha rappresentato la pietra miliare del sistema economico mondiale che le oligarchie USA hanno costruito a loro immagine e somiglianza. Secondo i dogmi liberisti, il libero scambio tra due paesi rappresenterebbe uno stimolo incredibile allo sviluppo e alla crescita: da un lato, infatti, permetterebbe a tutti i paesi coinvolti di avere accesso alle merci competitive e, dall’altro, permetterebbe ai singoli paesi di specializzarsi in quei settori nei quali hanno dei vantaggi competitivi; e così, alla fine, a beneficiarne sarebbe il sistema nel suo insieme perché la mano invisibile del mercato farebbe piazza pulita di tutte le inefficienze e di tutto quello che sta in piedi esclusivamente per valutazioni che con la gestione efficiente delle risorse non hanno niente a che vedere. E intendiamoci: questo assunto è tutt’altro che campato in aria, anzi! L’integrazione delle economie ha rappresentato spesso uno straordinario impulso allo sviluppo e alla crescita della quale tutti hanno beneficiato, ma c’è un piccolo problemino: il giochino funziona se e solo se a integrarsi sono economie – tutto sommato – abbastanza simili; non simili nel senso che producono le stesse identiche cose, ovviamente, ma simili nel senso che, complessivamente, hanno un livello comparabile di sviluppo e di diversificazione economica. Quando invece a integrarsi sono due economie a un livello molto diverso di sviluppo, quello che accade è molto semplice: la più forte diventa sempre più forte e la più debole sempre più debole; e a guadagnarci sono solo le oligarchie (che è esattamente quello che è successo con la globalizzazione neoliberista). E non è stato un incidente di percorso: nessuno sa meglio degli USA che, prima di poter trarre vantaggio dal libero scambio, l’unica strada possibile è quella di sviluppare l’industria nazionale con politiche ferocemente protezionistiche; l’hanno fatto per un secolo. Fino alla seconda guerra mondiale, per recuperare il gap che li separava dalle economie del vecchio continente gli USA hanno mantenuto un regime di dazi e tariffe astronomico: attorno al 40%; durante la globalizzazione neoliberista, le tariffe medie su scala globale sono state tenute con la forza sotto al 3.
E quello statunitense non è certo un caso isolato: prima di loro, anche la Gran Bretagna aveva fatto altrettanto, adottando tariffe – di nuovo – nell’ordine del 40% fino a quando non si è garantita un vantaggio competitivo nei confronti del resto del mondo; dopodiché, di punto in bianco, come per magia ecco che le tariffe spariscono – come spariscono manu militari in tutti i paesi dove l’impero britannico era in grado di dettare legge. Quindi, in soldoni, la globalizzazione neoliberista è consistita, appunto, nell’imporre la religione liberoscambista riassunta nei 10 punti del Washington Consensus a tutto il resto del mondo, sicuri che – visto che si partiva da una posizione di vantaggio competitivo – questo non avrebbe fatto altro che aumentare il divario con gli altri paesi; che è, fondamentalmente, anche il motivo per cui erano convintissimi che avrebbero potuto investire quanto volevano in Cina senza che per questo la Cina potesse ambire a diventare un competitor in grado di mettere in discussione la loro egemonia. Avevano fatto i conti senza l’oste: in quanto paese sovrano e (per quanto agli analfoliberali questa sembri una bestemmia) democratico, la Cina non ha mai visto negli investimenti esteri, fondamentalmente, un’opportunità per le sue oligarchie di arricchirsi a dismisura ed entrare così a far parte del club esclusivo del grande capitalismo transnazionale; come molti predicano (ma in pochi fanno davvero), la Cina ha visto questi investimenti come una necessità e un’opportunità non solo, genericamente, per svilupparsi, ma anche per raggiungere una qualche forma di indipendenza tecnologica e finanziaria – e, quindi, sfuggire a quella che viene definita la middle income trap, la trappola in cui cadono i paesi imprigionati dalla logica fondante della globalizzazione neoliberista non appena superano un primo stadio di sviluppo e, da paesi arretrati e sottosviluppati, diventano paesi industrializzati (ma sempre subordinati al centro imperialistico).
La globalizzazione neoliberista, infatti, in realtà fa anche cose buone, perché quando i capitali cominciano ad arrivare in un paese sottosviluppato per approfittare dei salari bassi e della sudditanza dei governi assetati di investimenti, inizialmente – in realtà – producono anche un reale sviluppo: paesi che, fino ad allora, avevano fondato la loro economia in buona parte su un’agricoltura di sussistenza a bassissima produttività, hanno l’opportunità di avviare una prima industrializzazione; ma non solo, perché per produrre in modo efficiente non basta costruire una fabbrica nel mezzo del nulla e riempirla di schiavi semianalfabeti. Bisogna liberare un po’ le forze produttive e, per farlo, servono infrastrutture – dalle strade all’energia – e, tutto sommato, servono anche un po’ di servizi sociali: un minimo di istruzione e anche un minimo di servizio sanitario. Ed ecco così che, anche nell’ambito della globalizzazione neoliberista, anche i paesi del Sud del mondo dove si sono concentrati gli investimenti per le delocalizzazioni, oggettivamente attraversano un periodo di sviluppo; certo, non privo di conseguenze, perché comunque il capitalismo non è molto previdente e, quindi, tutto quello che non è strettamente necessario nell’immediato per ottimizzare le spese non viene cacato, come – ad esempio – la tutela degli ecosistemi. Ma uno sviluppo c’è; il problema, però, è che poi, a un certo punto, inesorabilmente e magicamente si arresta e, cioè, quando si arriva al livello di sviluppo che permette a chi gerarchicamente sta in cima alla piramide di estrarre il massimo di plusvalore possibile. A quel punto, gli interessi di sviluppo del paese entrano in conflitto con quelli del centro imperiale – e delle élite compradore che hanno cooptato – e il coltello dalla parte del manico ce l’ha chi sta in cima alla piramide perché, nel frattempo, il grosso dei dividendi di questa fase di sviluppo, comunque, li ha incassati lui e li ha usati per rafforzare il suo rapporto gerarchico nei confronti dei sottoposti, aumentando sempre di più il divario tecnologico e la concentrazione dei capitali.
La parabola che le oligarchie imperialiste avevano in mente per la Cina era esattamente questa: una parabola che non solo avrebbe impedito alla Cina di diventare un competitor in grado di contendere le posizioni di comando delle catene del valore globale, ma che avrebbe dovuto anche costringere la Cina a diventare un pezzo integrante dell’ordine economico neoliberale guidato da Washington e da Wall Street; l’idea, infatti, era che quell’ordine è anche negli interessi delle oligarchie cinesi, che possono continuare a estrarre valore dalla loro gigantesca economia e poi indirizzare i loro capitali laddove c’è la massima concentrazione di capitali, nella cima della piramide dove, in cambio di una rendita cospicua, sarebbero stati felici di partecipare da subordinati al grande banchetto dello schema Ponzi della speculazione finanziaria a stelle e strisce. Avevano fatto i conti senza l’oste: quello che non avevano messo in conto, infatti, è che per quanto anche la borghesia cinese si sia arricchita a dismisura, il partito non le ha mai consentito di trasformare questa ricchezza in potere politico, che è rimasto sempre saldamente nelle sue mani e l’ha usato proprio per porre le basi per non rimanere impantanato nella middle income trap; sin dal principio la Cina, infatti, ha avuto le idee piuttosto chiare su cosa era necessario fare per non diventare una colonia, nonostante l’impatto enorme dei capitali esteri e il crescente potere delle oligarchie interne.
Il primo punto, ovviamente, è evitare di diventare una colonia tout court e, quindi, attrezzarsi per resistere a qualsiasi tentativo di imporre qualcosa di estraneo ai propri interessi internazionali attraverso il ricorso alla forza bruta (e su questo, sinceramente, credo nessuno – tutto sommato – si sia mai fatto troppe illusioni); il secondo è l’aspetto finanziario: mantenendo il controllo pubblico delle grandi banche – e, quindi, il controllo politico di dove vanno i soldi per fare cosa – la Cina ha impedito di consegnare il controllo della sua economia alle oligarchie che, naturalmente, hanno interesse a indirizzare i soldi dove rendono di più – e, cioè, nelle bolle speculative dirette dalle oligarchie USA e non dove serve al paese per continuare a svilupparsi. Il terzo è utilizzare lo sviluppo per diminuire il gap tecnologico, invece di vederlo aumentare come succede quando ti affidi al cosiddetto libero mercato; per fare questo, sin da subito la Cina ha posto delle condizioni molto chiare a chi voleva andare a investire in Cina: formare delle joint ventures con imprese locali, molto spesso di proprietà pubblica, in modo da garantire un trasferimento di tecnologia costante. E così, con i loro soldi e le loro tecnologie, hanno messo in piedi – giusto per fare l’esempio che oggi preoccupa di più – la filiera dell’auto elettrica, che sono tutte case nazionali che usano tecnologie nazionali e anche capitali nazionali; o quando, come nel caso di BYD (dove, tra gli azionisti, c’è la Berkshire di Warren Buffet), vedono una grossa partecipazione delle oligarchie internazionali, è comunque sempre in posizione subordinata rispetto alle borghesie nazionali che, se entrano in conflitto col partito, rischiano sempre di fare la fine di Jack Ma. E ovviamente, visto che – dopo 30 anni di deindustrializzazione negli USA e di investimenti in Cina – la Cina oggi è l’unica vera superpotenza manifatturiera mondiale che, da sola, produce circa un terzo di tutto quello che viene prodotto nel mondo, va da se che, a parte per alcuni significativi ma limitati settori specifici, i rapporti di forza si sono completamente invertiti; e, quindi, il libero scambio necessariamente favorisce la Cina e penalizza gli USA.
Ed ecco così che, in men che non si dica, le fondamenta della religione civile che ci hanno imposto per decenni magicamente non contano più e possono essere gettate nel cesso e, insieme a loro, si cominciano già a vedere i primi segni della fine anche dell’involucro politico che meglio rappresentava queste profonde dinamiche materiali – e che gli analfoliberali ci spacciavano come una libera scelta dovuta a valori e principi condivisi e fortemente radicati.
Insomma: l’Occidente, per come l’abbiamo conosciuto e per come c’è stato spacciato, è finito e i rapporti materiali che, sotto il velo di Maya dell’ideologia neoliberale, ne hanno sempre determinato il funzionamento, emergono in tutta la loro ferocia in superficie. Basterà per farci capire quanto ci hanno sempre preso profondamente per il culo? In buona parte dipende anche da noi e da quello che sapremo fare concretamente per approfittare di questa vera e propria incursione della verità nel mondo della post verità, a partire da un vero e proprio media che sia in grado di mettere a nudo l’ipocrisia e i doppi standard dell’imperialismo neoliberista e dia finalmente voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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“L’Europa potrebbe morire”: se Macron fomenta la guerra per far arricchire le oligarchie francesi

L’Europa può morire: con questa affermazione, il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron la settimana scorsa aveva cercato di riconquistare il centro del dibattito politico in Europa dopo che l’effetto shock delle dichiarazioni sulle truppe europee in Ucraina del febbraio scorso aveva già abbondantemente perso gran parte del suo hype. Un’operazione riuscita: venerdì scorso, infatti, l’Economist, la bibbia delle oligarchie suprematiste occidentali, dedicava la sua homepage interamente al wannabe novello Napoleone; nella lunga intervista, corredata da svariati commenti e approfondimenti, il sempre pimpantissimo Manuelino spiega che la sua provocazione era una citazione colta e, cioè, quando nientepopodimeno che Paul Valery, dopo la prima guerra mondiale, aveva affermato che “Oggi sappiamo che una civilizzazione può anche morire”. Più prosaicamente, il pimpantissimo Manuelino si accontenta di sottolineare che l’Europa, negli ultimi decenni, ha investito sensibilmente meno nella sua sicurezza di quanto non abbiano fatto Stati Uniti e Cina che poi – in termini di percentuale del PIL e, ancora meno, in termini assoluti – manco è vero, visto che la Cina è probabilmente la superpotenza mondiale che spende meno in armamenti di tutti i tempi (ad esempio meno della metà di Polonia e Grecia, giusto per fare un esempio), ma, comunque, diciamo che è una licenza poetica. Il succo del discorso invece, appunto, è che “L’Europa non è il posto più sicuro del mondo” e questo “significa che l’Europa deve legittimamente porsi la questione della propria protezione militare” e visto che “deve prepararsi a non godere più della stessa protezione da parte degli Stati Uniti d’America”, “Dobbiamo prepararci a proteggerci da soli”.
Non si può certo dire sia un fulmine a ciel sereno: come ricorda il pimpantissimo Manuelino Macaron in persona personalmente, già nel 2019 si era intrattenuto con i ligi funzionari delle oligarchie dell’Economist per denunciare che la NATO stava diventando “cerebralmente morta”, che “L’America sta voltando le spalle al progetto europeo” e che “è arrivato il momento di svegliarci”. Ma la sfera della sicurezza non è l’unica che preoccupa il sempre pimpantissimo Manuelino: “La sfida per l’Europa” sottolinea, è anche, se non soprattutto “economica e tecnologica” perché “Non può esistere una grande potenza senza prosperità economica, né senza sovranità energetica e tecnologica” e, quindi, dobbiamo costruire la nostra autonomia strategica anche “in termini di energia, di materiali e di risorse rare, ma anche in termini di competenze e tecnologie chiave”; il pimpantissimo Manuelino ricorda inoltre che, rispetto alle altre potenze maggiori, non produciamo abbastanza ricchezza pro capite e che la “nostra grande ambizione, in un’era nella quale i fattori produttivi vengono riallocati, sia nel campo delle tecnologie pulite che dell’intelligenza artificiale, deve essere di diventare un continente in grado di attrarre i grandi investimenti in questi settori”.

Emmanuel Macron

Ma c’è anche un terzo aspetto che tormenta il sempre pimpantissimo Manuelino: “L’Europa” denuncia accorato “è colpita da questa crisi delle democrazie”; noi abbiamo inventato la democrazia liberale, ricorda, e “il nostro sistema sociale è fondato su queste regole”, ma ciononostante “siamo stati colpiti dalle vulnerabilità create dai social network e dalla digitalizzazione delle nostre società”, che “alimentano questo impulso illiberale”. Tradotto: con il sistema mediatico e culturale tradizionale avevamo in mano tutti i mezzi di produzione del consenso, grazie ai quali eravamo addirittura riusciti a convincere le masse popolari che la lotta di classe dall’alto contro il basso che abbiamo portato avanti in modo feroce negli ultimi 40 anni fosse cosa buona e giusta; poi quando dai media tradizionali, che sono alla portata esclusivamente delle oligarchie, siamo passati a un sistema ancora più oligarchico come quello delle piattaforme digitali monopolistiche, pensavamo di limitare ancora di più l’espressione democratica di ogni forma di dissenso e, invece, abbiamo lasciato la porta aperta e tutti i mal di pancia; per il sistema brutale e demenziale che avevamo creato hanno trovato il modo di farsi spazio. E, quindi, oggi alle oligarchie serve un bel bagno di realtà e bisogna che capiscano che vale la pena rinunciare a qualche euro di fatturato per salvaguardare la dittatura del pensiero unico; altrimenti, sottolinea il sempre pimpantissimo Manuelino, il combinato disposto di questi tre fattori di destabilizzazione del giardino ordinato – la sicurezza, l’arretratezza tecnologica e la fine dell’egemonia neoliberale – rischia di far andare tutto in pezzi “molto rapidamente”. “Le cose possono accadere molto più rapidamente di quanto pensiamo” ribadisce il pimpantissimo Manuelino “ e possono portare a una morte più brutale di quanto immaginiamo”; per invertire questa deriva, insiste, ci vuole un possente scatto di reni.
Ed ecco così che il pimpantissimo Manuelino rivendica con forza la sua dichiarazione del 26 febbraio scorso quando, appunto, mise a soqquadro il dibattito pubblico di tutto l’Occidente collettivo affermando che i paesi europei non potevamo escludere l’invio di truppe direttamente in Ucraina: “Non escludo nulla” dichiara di nuovo all’Economist “perché siamo di fronte a qualcuno che non esclude nulla. E senza dubbio siamo stati troppo titubanti nel definire i limiti della nostra azione nei confronti di un avversario che non ne ha più e che è l’aggressore!”; d’altronde, sottolinea il sempre autorevolissimo Manuelino, “La nostra credibilità dipende anche dalla capacità di deterrenza”, che significa anche non dare “piena visibilità a ciò che faremo o non faremo. Altrimenti ci indeboliamo, ed è questo il quadro nel quale abbiamo operato finora”. “Il nostro obiettivo strategico deve essere molto chiaro” continua: “La Russia non può vincere in Ucraina”; è lo stesso concetto sottolineato da un altro fenomeno da baraccone delle classi dirigente europee, il dandy Boris Johnson che, con l’orgoglio colonialista che si addice a un erede diretto della casa reale britannica, ha detto fuori dai denti che in ballo c’è “l’egemonia dell’Occidente” e, cioè, il diritto dell’uomo bianco di sottomettere gli altri popoli del pianeta agli interessi della sue ristrettissime oligarchie. Il pimpantissimo Manuelino che, con tutti i limiti rispetto a questa imbarazzante aristocrazia parassitaria, è comunque figlio della rivoluzione francese – e quindi, antropologicamente, un’evoluzione della specie – la mette in termini più digeribili e parla più semplicemente di “sicurezza dell’Europa” e anche di credibilità: “Che credibilità avrebbero gli europei” si chiede “se dopo aver speso miliardi, e affermato che era in gioco la sopravvivenza del continente, non si dotano dei mezzi necessari per fermare la Russia?”.
Ma la differenza non è solo nella forma: per il pimpantissimo Manuelino, che è a capo dell’unico grande paese europeo che, nonostante l’appartenenza senza se e senza ma all’internazionale imperialista, ha mantenuto – nonostante tutto – un qualche residuo di sovranità, la minaccia russa sembra essere più che altro una scusa; Manuelino sottolinea come, dal 1990, “L’Europa ha pensato alla propria sicurezza essenzialmente in termini dello scudo americano e della NATO” e questo ha impedito all’Europa di sviluppare un’idea condivisa di “sicurezza comune, perché ci ha messo nella condizione di pensare alla nostra sicurezza solo attraverso un alleato al quale abbiamo chiesto di pensarci al posto nostro, e di accollarsene anche il peso”. Difficile capire se il pimpantissimo Manuelino è semplicemente mosso da opportunistica piaggeria o se crede davvero alle puttanate che dice: ovviamente gli USA non si sono accollati nessunissimo peso; piuttosto, gli USA, d’amore e d’accordo con le nostre classi dirigenti equamente divise tra svendipatria volontari e semplici ebeti sprovveduti, hanno letteralmente impedito all’Europa di sviluppare una sua difesa autonoma perché temevano che a un’Europa unita e sufficientemente armata – magari dopo un ricambio di classe dirigente che, nonostante tutto, non può mai essere totalmente escluso a priori – sarebbe potuta venire la tentazione di cominciare a ritagliarsi qualche spazio di autonomia e di sovranità. E il bello, ovviamente, è che – alla fine – agli USA questo giochino sostanzialmente costava anche pochino perché grazie all’esorbitante privilegio del dollaro come valuta di riserva globale, una bella fetta del debito crescente USA (necessario proprio a finanziare la sua supremazia bellica) alla fine del giro la pagavamo noi e, cioè, i paesi che – al contrario degli USA – per campare sono costretti a lavorare e quindi accumulano dollari derivanti dal surplus commerciale, che poi non sanno dove mettere se non nell’acquisto di titoli del tesoro a stelle e strisce; un meccanismo che, tra l’altro, i francesi (come il sempre pimpantissimo Manuelino) dovrebbero conoscere piuttosto bene visto che il primo grande dirigente europeo a parlare espressamente di esorbitante privilegio del dollaro fu il più volte ministro delle finanze Valery Giscard d’Estaing. Al di là di questa valutazione, comunque, il punto è che secondo il pimpantissimo Manuelino l’AGGRESSIONEH RUSSAH ha comportato per l’Europa una sorta di risveglio strategico: “Lo vediamo oggi” insiste Manuelino “con la proposta tedesca dello scudo antimissile europeo. O con la Polonia, che si dice pronta a ospitare le armi nucleari della NATO”; ora, continua Manuelino, si tratta di sedersi attorno a un tavolo e concordare per bene quello che è necessario fare per garantire in modo credibile e sostenibile la difesa del nostro spazio vitale. “La NATO” precisa “fornisce già una risposta, e non è il caso di metterla da parte. Ma questo quadro è molto più ampio di quello che viene attualmente fatto all’interno della NATO”.
Ma perché mai gli USA dovrebbero permettere ora quello che hanno sistematicamente impedito in passato? Beh, molto semplice: perché, nel frattempo, l’idea stessa di un’Europa in cerca di un suo spazio di autonomia si è dissolta completamente nel niente; non che sia mai stata particolarmente in auge, ma in passato qualche accenno, anche se probabilmente del tutto velleitario, comunque c’era stato. Basta tornare con la memoria al 2003, quando Francia e Germania ebbero addirittura il coraggio di dire no alla guerra illegale di aggressione fondata sulle fake news di Bush junior contro l’Iraq, con tanto di sterminio feroce e gratuito di decine e decine di migliaia di bambini iracheni: oggi, ai tempi della Germania che si fa bombardare (dopo essere stata abbondantemente avvisata) un’infrastruttura strategica come il Nord Stream 2 senza battere ciglio e dell’Europa tutta che accetta passivamente una recessione senza fine per permettere a Washington di pompare la sua economia sulla nostra pelle, sembra fantascienza. Il fatto è che, nel frattempo, la gerarchia all’interno del blocco suprematista e imperialista tra il centro USA e le periferie dell’Atlantico e del Pacifico (che prima, per essere mantenuta, aveva bisogno di fondarsi sul monopolio della forza e, quindi, su una supremazia militare USA indiscutibile), a ormai oltre 15 anni dall’inizio della terza grande depressione inaugurata con la crisi finanziaria del 2008, si fonda saldamente su ben altri presupposti molto più strutturali e, cioè, sul dominio incontrastato dei grandi monopoli finanziari privati USA – a partire dai colossi dell’asset management come BlackRock e Vanguard – dove le borghesie nazionali europee, nel frattempo, sono corse a far affluire tutti i soldi estratti dall’economia europea e che oggi hanno un potere quasi assoluto all’interno dell’Occidente collettivo di decidere dove vanno i soldi e per fare cosa: grazie a questo rapporto gerarchico strutturale, gli alleati vassalli degli USA, dall’Europa al Giappone, oggi sostanzialmente non possono nemmeno essere più considerati veri e propri Stati nazione, ma molto semplicemente – appunto – appendici di un sistema imperiale che ha il suo unico centro decisionale a Washington e a Wall Street.
E’ il Wall Street Consensus, come lo chiama Daniela Gabor: in questo contesto, il riarmo dell’Europa invocato da Macron non rappresenta più il rischio di favorire la costruzione di una qualche forma di autonomia strategica, ma è semplicemente il rafforzamento di uno dei bracci armati dell’imperialismo, sempre più necessario mano a mano che procede la guerra totale dell’imperialismo contro il resto del mondo; e il comparto militare – industriale USA che, fino a ieri, gli ha garantito il dominio non è più in grado di garantire da solo all’imperialismo un vantaggio sostanziale sull’asse che si sta formando tra i paesi che si sono ribellati al dominio imperialista, a partire, in particolare, da Cina, Russia, Iran e Corea del nord. Ciononostante, Macron sembra sforzarsi, anche con un po’ di piaggeria (come, ad esempio, quando sottolinea il fardello del quale si sarebbero fatti carico i poveri americani per garantire la sicurezza a noi sfaticati europei) per rassicurare gli USA: il punto è che il riarmo dell’Europa è un’esigenza vitale dell’imperialismo e, quindi, è fuori discussione; quello che, invece, è ancora in discussione è chi lo guiderà e come: quando, ad esempio, la Germania, subito dopo l’inizio della seconda fase della guerra per procura contro la Russia in Ucraina, aveva annunciato un megapacchetto da 100 miliardi per riarmarsi, il grosso era destinato all’acquisto di sistemi d’arma made in USA; oggi anche la Germania, proprio per il discorso che facevamo prima sulla necessità dell’imperialismo di estendere anche alla periferia la crescita esponenziale del suo comparto militare – industriale, rivendica un ruolo per la sua industria bellica, ma – appunto – si tratta della Germania che è, sotto molti punti di vista, un vero e proprio protettorato USA quanto, se non più, dell’Italia. E per garantire che i suoi piani di rilancio industriale nel settore bellico non hanno niente a che vedere con la rivendicazione di maggiori spazi di autonomia, ha scelto il portavoce che, agli occhi di Washington, è in assoluto il più affidabile di tutti: San MarioPio da Goldman Sachs, a tutti gli effetti un funzionario delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce.
La Francia del sempre pimpantissimo Manuelino Macaron invece, appunto, sembra più che altro impegnata a percorrere tutte le strade percorribili per provare a trasformare la nuova realtà della guerra totale dell’imperialismo unitario contro il resto del mondo nell’ultima opportunità per riproporsi come l’unica guida possibile di un’Europa subalterna sì agli USA, ma – ciononostante – con un piccolo margine di autonomia strategica rispetto a Washington (che, astrattamente, non suona nemmeno poi malissimo). Sostanzialmente, si tratterebbe di approfittare del vincolo esterno imposto dalla nuova guerra mondiale ibrida per accelerare un processo di trasformazione politica che in tempo di pace è stato ostacolato dall’inerzia del sistema vigente, sulla falsariga di quanto già fatto dalle grandi potenze mondiali: Putin ha sfruttato la guerra per fare i conti con le oligarchie, centralizzare il potere riducendo l’influenza dei vari feudi che hanno sempre parassitato il sistema di potere del Cremlino e impossessarsi, così, degli strumenti necessari per portare avanti il suo ambizioso new deal; Rimbambiden ha sfruttato la guerra per provare a rimettere al loro posto alcune oligarchie parassitarie che continuano a estrarre valore dall’economia statunitense sottoforma di rendita parassitaria (a partire da Big Pharma) e ostacolano così il tentativo di reindustrializzazione del Paese. Xi Jinping, da parte sua, sta cercando di sfruttare una guerra commerciale di cui farebbe volentieri a meno per cercare di sostituire i vecchi motori della crescita economica – dalla speculazione immobiliare alle esportazioni di prodotti a medio – basso valore aggiunto – a un nuovo motore fondato sulle nuove forze produttive e il raggiungimento dell’indipendenza tecnologica; ora il sempre pimpantissimo Manuelino sembra voler approfittare della guerra per raggiungere quell’unità politica (ostacolata fino ad oggi dall’architettura stessa delle istituzioni ordoliberiste dell’Unione europea) facendo leva sull’inderogabile necessità, appunto, di dotarsi di una difesa comune e di creare un mercato unico sufficientemente ampio ed omogeneo da riuscire ad attrarre investimenti in grado di farci recuperare il gap tecnologico.
Ma il sempre pimpantissimo Manuelino potrebbe fare i conti senza l’oste: a differenza delle altre potenze, infatti, il problema di fondo è che questa Unione europea è stata creata proprio dalle fondamenta in modo e maniera da impedire ogni forma di vera sovranità, a partire da una moneta monca e da una Banca Centrale che non può fare il mestiere di una vera banca centrale, e che sono state pensate per fare da satelliti al sistema fondato sul dollaro; tant’è vero che, proprio mentre le altre potenze non pongono limiti al ricorso al debito pubblico per finanziare gli obiettivi politici che vogliono imporre ai loro sistemi economici, l’Unione europea si ritrova a reintrodurre un patto di stabilità che, per quanto riformato, reintroduce l’austerity e i vincoli esterni e ci porta nella direzione esattamente opposta e, cioè, proprio a rinunciare a priori a imporre obiettivi politici al cosiddetto mercato (che poi, ovviamente, non sono altro che le oligarchie e quindi, in ultima istanza, stringi stringi, Wall Street).

Enrico Letta con Rowan Atkinson

Un limite strutturale invalicabile che, tutto sommato, conosce benissimo anche il pimpantissimo Manuelino che, infatt,i sta lavorando a un piano B: è il famoso rapporto sul mercato unico di Enrico Mitraglietta, che sta alle oligarchie finanziarie francesi esattamente come San MarioPio da Goldman Sachs sta a quelle d’oltreoceano. La formula di Mitraglietta e delle oligarchie finanziarie che lo sostengono – a partire da Credit Agricole e, quindi, Amundi, che è il più grande fondo di gestione patrimoniale d’Europa e l’unico a fare capolino nella top 10 mondiale interamente occupata, appunto, dagli americani – è quella, appunto, di copiare il modello di finanziarizzazione USA e creare intorno ad Amundi un monopolio finanziario privato europeo in tutto e per tutto simile ai vari BlackRock, Vanguard o State Street che però, a differenza di Amundi, fondano il loro dominio sulla collaborazione con le istituzioni che gestiscono la valuta di riserva globale. Amundi si dovrebbe accontentare di lavorare in tandem con una Banca Centrale che non solo non emette una moneta che gode dell’esorbitante privilegio di essere la valuta di riserva globale, ma che non può nemmeno essere considerata una valuta sovrana a tutti gli effetti; questo, in soldoni, significa una cosa sola: Amundi, o chi per lei, non potranno mai essere la BlackRock o la Vanguard europei, ma soltanto un altro fondo, magari anche più intimamente legato ai risparmi e alle corporation europee, ma che – alla fine – non è altro che un pezzettino di un unico mercato finanziario dell’Occidente collettivo diretto da Washington e da Wall Street.
La ricetta Mitraglietta, quindi, strutturalmente non è minimamente in grado di garantire alla nuova Unione europea (sognata dal pimpantissimo Manuelino) maggiori margini di autonomia strategica nell’ambito dell’impero, anzi! Nel frattempo, però, per costruire questo polo finanziario che, più che alternativo, è aggiuntivo e perfettamente organico a quelli già esistenti, ecco che torna in auge l’austerity e, con lei, i tagli al welfare che costringeranno i lavoratori europei a destinare una quota sempre maggiore dei loro redditi a investimenti nei vari fondi integrativi per garantirsi quei diritti essenziali – dalla sanità alla pensione – che fino ad oggi, anche se sempre meno, erano considerati ancora in buona parte diritti universali essenziali. La Francia, quindi, e le altisonanti boutade del pimpantissimo Manuelino non ambiscono ad altro che a ritagliare per le oligarchie nazionali un posto, se non proprio al sole, almeno – diciamo – alla penombra, in questa nuova stagione dell’ormai trentennale rapina dall’altro contro il basso; ed in questo contesto, quindi, è del tutto comprensibile e razionale che il pimpantissimo Manuelino ponga il tema della concentrazione del potere politico in seno alle istituzioni antidemocratiche comunitarie, in modo da sopprimere sul nascere i già limitatissimi spazi di democrazia residui a livello di stati nazionali che, nonostante tutto, ancora a tratti permettono ai popoli – se non altro – di testimoniare la loro opposizione al partito unico della guerra e degli affari che la propaganda suprematista, finanziata dalle oligarchie, definisce fake news e disinformazione russa.
La buona notizia è che anche se – per ora – solo a livello molto superficiale e decisamente confuso, che questo meccanismo non stia più in piedi ormai lo cominciano a pensare in parecchi: lo stiamo toccando con mano anche noi in prima persona da quando abbiamo messo in piedi MULTIPOPOLARE e, in tutti i posti dove siamo andati, abbiamo riscontrato sistematicamente una consapevolezza e anche una combattività che va ben oltre ogni nostra aspettativa; e, da questo punto di vista, non possiamo che dare ragione al pimpantissimo Manuelino quando ricorda, appunto, che “Le cose possono accadere molto più rapidamente di quanto pensiamo, e possono portare a una morte più brutale di quanto immaginiamo”. Carissimo Manuelino, stai pur certo che faremo tutto quello che è in nostro potere affinché la tua profezia si avveri, a partire dalla costruzione di un vero e proprio media in grado di squarciare il velo di Maya della propaganda del partito unico della guerra e degli affari e che ci aiuti a vedere il mondo dal punto di vista degli interessi concreti del 99%. Per farlo, ovviamente, non possiamo sperare nel sostegno delle oligarchie che vogliamo abbattere e, quindi, dobbiamo contare su di te: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Enrico Letta

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Cina, Iran, Russia e Corea del Nord: per la NATO globale è guerra mondiale

“Quello che c’è di veramente eccessivo non è la capacità produttiva cinese, ma l’ansia degli Stati Uniti”: sono queste le parole che il direttore generale del Dipartimento per gli affari nordamericani del ministero degli esteri cinese ha selezionato con cura per riassumere i contenuti della tanto attesa visita di Blinken a Pechino, a poche settimane di distanza da quella del segretario del tesoro Janet Yellen. “Il vero problema” sottolinea Warwick Powell dell’Università del Queensland su Global Times “non è la sovracapacità cinese, ma la sottocapacità occidentale”; Warwick ricorda come i numeri oggettivi facciano un po’ a cazzotti con la narrazione sulla quale l’Occidente collettivo e la sua macchina propagandistica hanno deciso di investire tutte le loro energie: ad esempio, Warwick ricorda come le esportazioni rappresentino il 13% della produzione cinese, poco superiore all’11% che rappresentavano nel 1995 (6 anni prima che la Cina entrasse nel WTO) e di gran lunga inferiori al picco del 18% raggiunto nel 2004. “Questo significa” sottolinea Warwick “che il mercato interno ha assorbito la stragrande maggioranza della crescita della produzione”; “in confronto” insiste Warwick “i settori manifatturiero tedesco e giapponese sono significativamente più dipendenti dalle esportazioni”: nel caso dell’automotive, ad esempio, che è uno dei settori più chiacchierati del momento, Warwick ricorda come la Cina, nel 2023, abbia prodotto la bellezza di oltre 30 milioni di veicoli e ne abbia esportati in tutto meno di 5 milioni, cioè circa il 16%. Il Giappone, invece, è sì sceso al secondo gradino del podio degli esportatori in numeri assoluti, ma i 4,4 milioni di veicoli che ha esportato rappresentano il 63% della sua produzione totale; in Germania l’export pesa addirittura per il 75%.

Warwick Powell

Warwick ricorda anche come l’accusa di sovracapacità è poi regolarmente accompagnata dall’accusa sulla domanda interna cinese tenuta bassa; in realtà però, sottolinea Warwick, nel 2023 “Il reddito disponibile pro capite cinese è aumentato del 6,1% in termini reali rispetto all’anno precedente, ma nello stesso periodo i consumi sono aumentati del 9%”: quindi, a differenza del Giappone e della Germania, i redditi reali crescono rapidamente e la quota dedicata ai consumi ancora di più. Insomma: le potenze industriali ferocemente mercantiliste, il cui modello di sviluppo è incompatibile con uno sviluppo equilibrato (perché mantengono artificialmente bassi redditi e mercato interno per aggredire i mercati esteri) sono altre; eppure, sottolinea Warwick sarcasticamente, “Inspiegabilmente gli USA non si sono mai lamentati della sovracapacità tedesca o giapponese”. In questo caso, poi, la gigantesca fake news sulla sovracapacità cinese è doppiamente infame perché ha come obiettivo difendere i monopoli e le oligarchie delle ex potenze coloniali sulla pelle del Sud globale: gli sherpa dell’imperialismo, infatti, accusano i cinesi di praticare prezzi troppo bassi; ora, effettivamente, i prezzi cinesi sono decisamente competitivi. E graziarcazzo: la politica industriale cinese consiste in uno sforzo gigantesco per aumentare la produttività; la non politica industriale del giardino ordinato invece, al contrario, fino ad oggi è sempre consistita nella protezione dei monopoli privati e nella loro capacità di continuare a fare profitti e scappare col malloppo senza mai investire mezzo dollaro, un lasciapassare nei confronti dell’avidità delle big corporation che ha avuto un peso particolarmente rilevante proprio nella sviluppo delle tecnologie necessarie alla transizione ecologica, anche perché – nel frattempo – evitando di investire si continuavano a riempire le casseforti degli amici petrolieri che continuano ad essere, ancora oggi, la lobby industriale di gran lunga più potente dell’Occidente.
I primi che hanno solo da guadagnare dalla capacità cinese di produrre tutto quello che serve per la transizione ecologica sono invece i paesi, appunto, del Sud globale, che avrebbero così la possibilità di emanciparsi gradualmente dalla dipendenza dalle fonti fossili a costi ragionevoli: come sottolinea Warwick “Le lamentele occidentali sono in effetti un tentativo di ostacolare l’opportunità per i paesi in via di sviluppo di accedere alle tecnologie di trasformazione a basso costo”; d’altronde, l’emancipazione dalle fonti fossili dei paesi del Sud globale per gli USA sarebbe un vero e proprio disastro. La trappola del debito nella quale l’imperialismo ha costretto il grosso dei paesi in via di sviluppo, infatti, è in gran parte dovuta proprio alla necessità di indebitarsi in dollari per importare fonti fossili e rappresenta uno degli strumenti strutturali di dominio neocoloniale più efficaci e inaggirabili: quindi, conclude Warwick, è abbastanza evidente che “Il problema non è la sovracapacità cinese, ma le potenze dominanti che vogliono mantenere il controllo su chi può svilupparsi e quando farlo”.
Di fronte a rivendicazioni così platealmente infondate da parte dell’impero, la Cina, ovviamente, non poteva che rispondere picche a Blinken (come aveva già risposto alla Yellen), mentre, nel frattempo, stendeva tappeti rossi alle big corporation che che vogliono continuare ad avere accesso a un mercato interno che, evidentemente, tanto depresso non deve essere; ma allora perché i massimi funzionari USA continuano a incaponirsi così tanto e fanno la fila per andare a raccogliere l’ennesimo inevitabile due di picche a Pechino? Il primo obiettivo è provare, in qualche modo, a disincentivare l’integrazione economica e la cooperazione militare e politica con gli altri paesi che si oppongono esplicitamente al vecchio ordine unipolare: Blinken, infatti, è andato a Pechino fondamentalmente per supplicarli di non correre più in aiuto di Mosca e lo spauracchio delle accuse infondate su fantomatiche pratiche commerciali scorrette è il deterrente che hanno messo sul piatto. La progressiva integrazione economica e politica dei paesi che vengono definiti revisionisti e che, cioè, mettono in discussione l’esorbitante privilegio del dollaro e il meccanismo globale di sfruttamento su cui si fonda l’imperialismo, negli USA è diventata una vera e propria ossessione, anche perché si sono cominciati ad accorgere, negli ultimi due anni, di averla favorita.
Le nuove alleanze autocratiche era il titolo di un lungo articolo del mese scorso di Foreign Affairs. L’articolo ricordava come il sistema di alleanze messo insieme dagli USA non ha precedenti: “Nessuna rete di alleanze in tempo di pace è mai stata così ampia, duratura ed efficace come quella guidata da Washington dalla seconda guerra mondiale”; in mezzo a mille affermazioni apologetiche, l’articolo fa intravedere un barlume di veridicità quando ricorda come “Le alleanze statunitensi sono asimmetriche”, con Washington che “si è fatta carico a lungo di una quota ineguale del carico militare, per evitare uno scenario in cui paesi come la Germania o il Giappone potrebbero destabilizzare le loro regioni costruendo proprie capacità di difesa a tutto spettro”, che è un modo carino e sofisticato di dire che gli USA hanno imposto ai loro alleati asimmetrici – e, cioè, subordinati – di non riarmarsi, in modo da garantire a Washington il monopolio della forza all’interno dell’alleanza e, quindi, la capacità di piegarla ai suoi obiettivi strategici – tra l’altro, facendo pagare il tutto direttamente agli alleati grazie, appunto, all’esorbitante privilegio del dollaro che impone agli altri paesi di finanziare il debito USA col quale, a loro volta, finanziano la macchina bellica.
Ora, sottolinea giustamente l’articolo, l’alleanza che si sta affermando tra gli Stati canaglia dell’ordine internazionale neocoloniale creato a immagine e somiglianza degli interessi imperiali di Washington, giustamente non ha niente a che vedere con quella che l’articolo definisce la rete di alleanze degli USA e che noi, invece, definiamo l’internazionale imperialista: nel loro caso, infatti, non c’è un unico centro di dominio imperiale con i vassalli attorno, ma ci sono Stati nazione sovrani, ognuno con la sua agenda, ma anche se “I legami tra i revisionisti eurasiatici” e cioè, nello specifico, Cina, Russia, Iran e Corea del Nord “potrebbero non sembrare alleanze nel modo in cui gli americani le intendono solitamente, hanno comunque effetti simili”. La prima di queste funzioni che – letteralmente – terrorizza l’impero è che “Le alleanze revisioniste stanno rendendo le aggressioni meno costose, mitigando l’isolamento strategico che gli aggressori potrebbero altrimenti dover affrontare” che, scremato dalla neolingua della propaganda suprematista, in soldoni significa che gli stati sovrani possono oggi pensare di reagire ai soprusi dell’imperialismo senza crollare il giorno dopo perché l’impero ha imposto a tutto il resto del mondo di isolarli: “Nonostante le sanzioni occidentali e le orribili perdite militari” specifica l’articolo ad esempio “la Russia ha sostenuto la sua guerra in Ucraina grazie ai droni, ai proiettili e ai missili forniti da Teheran e Pyongyang. E l’economia del presidente russo Vladimir Putin è rimasta a galla perché la Cina ha assorbito le esportazioni russe e ha fornito a Mosca microchip e altri beni a duplice uso”. Queste capacità di sfuggire alle armi di distruzione di massa dell’imperialismo finanziario USA sono anche dovute a un elemento prettamente geopolitico: questi paesi sono un pezzo rilevante del supercontinente eurasiatico, il che significa che il monopolio della forza per il controllo dei mari (che l’imperialismo USA ha ereditato dalle sue fondamenta talassocratiche), ammesso e non concesso che sia ancora valido, può essere facilmente aggirato.
D’altronde non è un caso se, da sempre, il primo obiettivo geostrategico USA è stato esattamente quello di impedire l’integrazione del supercontinente eurasiatico: provocando la guerra per procura contro la Russia in Ucraina è riuscito a staccare, scaricando i costi sulle nostre spalle, la propaggine più occidentale, ma per il grosso del supercontinente – invece – non ha fatto che accelerare un processo di integrazione che, molto semplicemente, non ha gli strumenti concreti per ostacolare; e che l’accelerazione di questa integrazione sia dovuta, in buona parte, a una strategia fallimentare degli USA ormai lo denunciano in parecchi. Ne parla un altro articolo, sempre su Foreign Affairs: “Solo dieci anni fa” sottolinea “la maggior parte dei funzionari statunitensi ed europei erano sprezzanti riguardo alla durabilità del partenariato emergente tra Cina e Russia. Nelle capitali occidentali si pensava che l’ostentato riavvicinamento del Cremlino alla Cina dal 2014 fosse destinato a fallire e che non importava quanto intensamente il presidente russo Vladimir Putin tentasse di corteggiare la leadership cinese, la Cina avrebbe sempre privilegiato i suoi legami con gli Stati Uniti e i suoi alleati piuttosto rispetto alle sue relazioni simboliche con la Russia, mentre Mosca a sua volta si pensava temesse una Pechino in ascesa e avrebbe continuato a cercare un contrappeso in Occidente”, tutte riflessioni che, anche se con sfumature diverse, abbiamo fatto noi stessi più volte su questo canale; ma tutto “questo scetticismo non riesce a fare i conti con una realtà importante e triste: Cina e Russia sono oggi più saldamente allineate di quanto non lo siano mai state dagli anni ’50”. L’articolo ricorda come, nel 2022, il commercio bilaterale tra i due paesi è cresciuto del 36% raggiungendo i 190 miliardi di dollari, più dell’interscambio commerciale tra Italia e Germania; e nel 2023 è cresciuto di un altro 25% abbondante, sfondando quota 240 miliardi. Secondo Foreign Affairs, addirittura “Il consolidamento di questo allineamento tra Russia e Cina è uno dei risultati geopolitici più importanti della guerra di Putin contro l’Ucraina.”; “Certamente” sottolinea l’articolo “le relazioni sino-russe non sono prive di tensioni, e le tensioni esistenti potrebbero essere esacerbate man mano che la Cina diventa più fiduciosa ed è tentata di iniziare a comandare i russi in modo più pesante, qualcosa che nessun governante di Mosca prenderebbe alla leggera. Per ora, tuttavia, Pechino e Mosca hanno dimostrato una notevole capacità di gestire le proprie differenze”, che è il motivo per cui ogni tanto ci viene voglia di tifare Trump e le sue groupies di casa nostra.
Secondo questi raffinati scienziati politici, infatti, ancora oggi la strategia USA dovrebbe essere appunto quella di Kissinger al contrario: riportare la Russia di Putin nella sfera di influenza dell’impero per poi convincerlo ad affrontare tutti insieme appassionatamente la Cina di Xi. A ringalluzzire questa prospettiva strategica piuttosto delirante c’è un approccio ultraideologico che tiene insieme l’alt right d’accatto e la sinistra delle ZTL: Putin è un fascista e quindi è pronto a tornare in Occidente se solo l’Occidente, invece che da Rimbambiden e dalla democratica illuminata Ursula von der Leyen, sarà guidato da the Donald e da Giorgia Meloni. Su La Verità c’è un articolo che più o meno ripropone questa illuminata strategia un giorno sì e l’altro pure e io, che ho una grande fiducia nell’umanità, continuo a credere che non sia un errore palese, ma una raffinata strategia dei nostri compagni di fare per accelerare il declino; purtroppo, però, gli amici della Verità sono un po’ dei fenomeni da baraccone e i think tank che contano, come il Council on foreign relations (che è l’editore di Foreign Affairs) non hanno più nessun dubbio: “Qualsiasi speranza di staccare Mosca da Pechino non è altro che un pio desiderio” sentenziano.

Andrea Kendall-Taylor

E presa coscienza di questo processo irreversibile e, in buona parte – appunto – accelerato dall’arroganza dell’imperialismo, ecco l’ultimo compendio, sempre su Foreign Affairs, delle conseguenza che questa alleanza rafforzata tra gli Stati canaglia avrà sulle magnifiche sorti e progressive dell’imperialismo. L’asse dello sconvolgimento è il titolo: “Come gli avversari dell’America si stanno unendo per ribaltare l’ordine globale” ; a firmarlo, Andrea Kendall-Taylor che, dal 2015 al 2018, è stato nientepopodimeno che vice segretario del Dipartimento per la Russia e l’Eurasia del Consiglio Nazionale dell’Intelligence USA. L’articolo ricorda come la Russia abbia fatto abbondante ricorso ai droni iraniani, alle munizioni nord coreane e ai rapporti commerciali con la Cina: “Troppi osservatori occidentali” sottolinea Kendall-Taylor “si sono affrettati a ignorare le implicazioni del coordinamento tra Cina, Iran, Corea del Nord e Russia. I quattro paesi hanno le loro differenze, certo, e una storia di sfiducia e di spaccature contemporanee potrebbero limitare la crescita delle loro relazioni. Tuttavia, il loro obiettivo condiviso di indebolire gli Stati Uniti e il suo ruolo di leadership costituisce un forte collante. In molti luoghi dell’Asia, dell’Europa e del Medio Oriente, le ambizioni dei membri dell’asse si sono già rivelate destabilizzanti. Gestire gli effetti dirompenti del loro ulteriore coordinamento e impedire che l’asse sconvolga il sistema globale devono ora essere obiettivi centrali della politica estera degli Stati Uniti”; “Gli ordini globali” spiega Kendall-Taylor “amplificano la forza degli stati che li guidano. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno investito nell’ordine internazionale liberale perché questo ordine riflette le preferenze americane ed estende l’influenza statunitense. E finché un ordine rimane sufficientemente vantaggioso per la maggior parte dei membri, ci sarà un gruppo ristretto di Stati lo difenderà. E anche i paesi dissenzienti, nel frattempo, saranno vincolati da un problema di azione collettiva: senza un nucleo centrale di Stati potenti attorno al quale coalizzarsi, il vantaggio rimane a favore dell’ordine esistente. Ma se dovessero disertare in massa, potrebbero riuscire a creare un ordine alternativo più di loro gradimento”. La guerra per procura in Ucraina ha accelerato proprio questa diserzione di massa e così oggi “L’asse dello sconvolgimento rappresenta un nuovo centro di gravità: un gruppo a cui possono rivolgersi altri paesi insoddisfatti dell’ordine esistente” e cioè, a vario titolo, tutti i paesi sovrani.
E agli USA gli rimangono solo i cani da compagnia che però, in quanto cani da compagnia, ovviamente hanno problemi enormi di legittimità e stabilità al loro interno e anche se 40 anni di controrivoluzione neoliberista ne hanno rincoglionito le popolazioni, il rischio che prima o poi la difesa dei propri interessi concreti torni a prendere il sopravvento sulle puttanate – dai deliri sulla superiorità delle democrazie delle sinistre ZTL alle armi di distrazione di massa dell’alt right – si fa ogni giorno più consistente. Prima che sia troppo tardi allora, suggerisce Kendall-Taylor, è arrivata l’ora che l’imperialismo smetta di considerare “ogni minaccia come un fenomeno isolato”: “Washington, per esempio, non dovrebbe ignorare l’aggressione russa in Europa per concentrarsi sulla crescente potenza cinese in Asia. È già chiaro che il successo della Russia in Ucraina avvantaggia la Cina revisionista, dimostrando che è possibile, anche se costoso, contrastare uno sforzo occidentale unito. Anche se Washington considera giustamente la Cina come la sua massima priorità, per affrontare la sfida di Pechino sarà necessario competere con altri membri dell’asse in altre parti del mondo”. Tradotto: la guerra è già mondiale, i vari avversari vanno considerati un unico nemico e l’imperialismo deve diventare una forza unica diffusa su tutto il globo che, sotto l’egemonia USA, combatte contemporaneamente su tutti i fronti una guerra esistenziale; “Affrontare l’asse sarà costoso” sottolinea Kendall-Taylor: “Una nuova strategia richiederà agli Stati Uniti di rafforzare la spesa per la difesa, gli aiuti esteri, la diplomazia e le comunicazioni strategiche”, ma non sarà nemmeno lontanamente sufficiente. “Washington” sottolinea Kendall-Taylor “dovrà fare pressione sugli alleati affinché investano in capacità che gli Stati Uniti non potrebbero fornire se fossero già impegnati in un altro teatro militare”.
Il timore per le potenziali conseguenze del riarmo degli alleati vassalli, che ha caratterizzato la lunga era della pax americana fino ad oggi, deve essere messo da parte; d’altronde la subordinazione finanziaria che gli USA hanno imposto agli alleati in particolare in questi ultimi 15 anni – a partire dall’inizio della terza grande depressione inaugurata con la crisi finanziaria del 2008 – servono proprio a questo: gli alleati hanno cessato di esistere come Stati nazione sovrani e la totale integrazione delle loro oligarchie con quelle USA li hanno trasformati stabilmente in emanazioni dirette del centro imperiale. Possiamo anche lasciare che si armino; tanto, fino a che non scoppia una rivoluzione, le loro élite fanno gli interessi dell’imperialismo basato su Washington, mica quelli dei loro paesi, motivo per cui parlare di pace oggi rischia di non servire assolutamente a una cippa e, per quanto abbiano provato a convincerci si trattasse di una parola desueta, da vetero nostalgici, rovesciare il potere costituito con ogni mezzo necessario potrebbe risultare, in realtà, oggi l’unica cosa sensata da fare.
Insomma: il tempo della resistenza e della resilienza potrebbe essere finito e, proprio per puro istinto di sopravvivenza, potrebbe essere arrivato il tempo della riscossa, che non può che essere MULTIPOPOLARE. Per sostenerla ci serve un vero e proprio media che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari

L’Europa lascia cadere l’ultimo tabù e dichiara apertamente guerra alla Russia

“E’ tempo di adottare misure radicali e mettere l’Unione Europea sul piede di guerra”; la lettera di invito di Charles Michel ai leader del vecchio continente per il Consiglio Europeo iniziato ieri a Bruxelles non poteva essere più esplicita: “A due anni dall’inizio della guerra” aveva anticipato con un editoriale pubblicato dalla crème de la crème della propaganda guerrafondaia europea “è ormai chiaro che la Russia non si fermerà in Ucraina. Dobbiamo quindi essere pronti a difenderci e passare a una modalità di economia di guerra”.

Pierre Schill

Dalle dichiarazioni sull’invio di truppe NATO in Ucraina di Macron in poi, l’escalation verbale non ha fatto che procedere inesorabile e i vecchi tabù stanno rapidamente crollando uno dopo l’altro; giovedì Le Monde ha pubblicato un editoriale del capo delle forze armate francesi Pierre Schill (che non si capisce bene se c’è o ci fa): “La Francia” ha annunciato “ha la capacità di impegnare una divisione, ovvero circa 20.000 uomini, nell’arco di 30 giorni” e potrebbe “comandare un corpo fino a 60 mila uomini in coalizione, combinando una divisione francese e capacità nazionali all’estremità superiore dello spettro militare con una o più divisioni alleate”. Due ore dopo, su TF1 il colonello Vincent Arabaratier era già intento a spiegare nei dettagli dove andrebbero impiegate; le opzioni, sostiene, sarebbero sostanzialmente due: la prima che, con ogni probabilità, a breve ci verrà presentata come il male minore, prevede di posizionarle al confine con la Bielorussia per liberare truppe ucraine che potrebbero, così, raggiungere la linea di contatto sul fronte. La seconda, invece, più spregiudicata, prevede di posizionarle direttamente sulla sponda occidentale del fiume Dnepr: “Ma colonnello” gli chiede la giornalista, “il solo fatto di ammassare delle truppe lungo il Dnepr, anche se chiariamo che non spareremo mai per primi, non potrebbe essere considerata dalla Russia come una provocazione?”; “Assolutamente no” risponde il colonnello. Eh già, quando mai… “Si tratta solo di forzare la Russia a discutere, garantendo però l’equilibrio sul campo”; “I nostri soldati” ribadisce poi il colonnello a sostegno delle dichiarazioni del suo superiore a Le Monde “possono essere impiegati rapidamente, ed è uno dei vantaggi principali delle nostre forze armate rispetto ad altre, a partire dalla Germania. E non è solo una questione di qualità dei nostri soldati, ma anche perché il presidente ha i potere di dispiegare le forze immediatamente, cosa che invece non può fare il cancelliere Scholz, che deve riferire al parlamento e raccogliere il consenso del parlamento”, particolare non da poco – direi – dal momento che, ovviamente, in entrambi i casi l’invio di truppe rappresenterebbe un vero attentato alla volontà popolare: secondo un sondaggio di Elab, infatti, il 79% dei francesi si sarebbe detto contrario all’invio di truppe da combattimento in Ucraina e il 57% riterrebbe che il presidente Emmanuel Macron abbia fatto un errore madornale anche solo a esternare questa ipotesi.
Discorso diverso, invece, per le élite di svendipatria al governo in tutti i vari protettorati di Washington del vecchio continente: in soccorso a Macron, ad esempio, è arrivato subito Ben Wallace, l’ex ministro della difesa britannico del governo Johnson, quello responsabile del naufragio dei primi negoziati subito nella primavera del 2022; imitando la formula di Macron, ha affermato che l’invio di truppe britanniche in Ucraina “non può essere escluso” e, nel frattempo, ha invitato i leader di tutte le forze politiche a unirsi al suo appello per far crescere la spesa militare oltre il 3% del PIL, e di farlo subito. “Non si investe quando mancano 5 minuti a mezzanotte” ha affermato; “devi cominciare a farlo subito”. “Putin” ha sottolineato “si deve rendere conto subito che questa volta facciamo sul serio” perché, ha concluso, “credo sia la persona più vicina ad Adolf Hitler che abbiamo avuto in questa generazione”. Gli ha fatto eco l’ex capo dell’MI6, un novello dottor Stranamore di fatto e di nome: si chiama Richard Dearlove, Riccardo Stranamore, e su Politico ha tuonato “Se fermassi qualcuno per strada qui nel Regno Unito e gli chiedessi se pensa che la Gran Bretagna sia in guerra, ti guarderebbero come se fossi pazzo. Ma noi siamo in guerra, siamo impegnati in una guerra grigia con la Russia, e io non faccio altro che provare a ricordarlo alla gente”.
Per gli altri leader, invece, stringi stringi il problema è esclusivamente di public relation; in soldoni, si tratta solo di capire modi e tempi per comunicare a una popolazione che, di questo suicidio, non ne vuole più sapere, quello che ormai in molti ritengono sostanzialmente inevitabile: la grande guerra dell’Occidente collettivo contro il resto del mondo per impedire che si metta finalmente termine a 5 secoli di dominio dell’uomo bianco sul resto del pianeta è appena all’inizio. Nella complicata gestione contemporaneamente di 3 fronti, per liberare energie da impiegare per il fronte principale del Pacifico gli USA hanno delegato ai servitori obbedienti del vecchio continente il fronte occidentale della Russia e, da bravi cagnolini obbedienti, non c’è valutazione razionale possibile che possa condurli a desistere dal portare avanti la loro missione: un tempo era fino all’ultimo ucraino; ora, però, gli ucraini sono finiti e tocca a noi. Siamo davvero disposti a far trucidare i nostri figli per permettere a questi svendipatria di assolvere ai loro doveri? Prima di continuare questo racconto, però, come sempre vi invito a mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro la dittatura degli algoritmi e anche ad attivare le notifiche ed iscrivervi a tutti i nostri canali, compreso quello in lingua inglese.
“È questa primavera, quest’estate, prima dell’autunno che si deciderà la guerra in Ucraina”: a sottolineare l’urgenza della situazione, la settimana scorsa, era stato il compagno Josep Borrell; “I prossimi mesi saranno decisivi” aveva affermato, e “qualunque cosa debba essere fatta, deve essere fatta rapidamente”. E’ il mandato che ha ricevuto dal suo superiore diretto, il segretario di stato USA Antony Blinken, che era andato a omaggiare mercoledì scorso: ormai, in piena campagna elettorale, è ormai palese che – almeno da qua a novembre – gli USA non saranno più in grado di assistere l’Ucraina non dico tanto per invertire le sorti del conflitto (che è sempre stata, e continua ad essere, una chimera buona solo per gli allocchi analfoliberali), ma manco per evitare il collasso definitivo e la vittoria a tutto campo di Mosca.
A metterci una toppa dovranno essere le nostre élite contro il volere dei loro cittadini, una missione particolarmente ardua: decenni di dipendenza dall’apparato militare industriale USA non si invertono in pochi mesi, soprattutto dopo due anni di guerra economica a tutto campo degli USA contro l’Europa che hanno polverizzato tutte le risorse; e, infatti, il nocciolo principale ora sembra essere proprio quello. Michel parla di “economia di guerra”, ma chi sarà a finanziarla – e come – rimane un mistero; finanziarla a debito, dopo 30 anni che non fai altro che dire che ogni forma di debito, qualsiasi sia la finalità, è un peccato mortale, potrebbe non essere così banale: se ripeti continuamente una formuletta magica per decenni, inevitabilmente va a finire che poi la gente ci crede e quando, di punto in bianco, devi confessare che era tutta una messinscena per permettere alle oligarchie di fottere la gente comune, potresti incontrare qualche resistenza – soprattutto se, di lì a poco, devi pure tornare a chiedere di votarti. E’ esattamente il nodo che potrebbe impantanare le farneticazioni di Michel sull’economia di guerra ancora prima di partire: l’idea di Michel, infatti, è di emettere debito comune europeo per finanziare il riarmo, ma i frugali che, da decenni, basano il loro consenso sulla religione dell’austerity, di perdere voti per fare un favore a Washington non sembrano avercene particolarmente voglia.
In cima all’agenda, allora, torna l’idea della supertassa sui profitti che derivano dagli asset russi congelati per le sanzioni: peccato che, nella più ottimistica delle stime, potrebbe fruttare al massimo 10 miliardi l’anno, lo 0,05% del PIL; ne servirebbero almeno 10 volte tanti. L’unica soluzione allora, come sempre, rimane provare a richiamare all’ordine i capitali privati che in cambio, ovviamente, chiedono una cosa molto semplice: una garanzia a lungo termine che gli ordini continueranno ad arrivare copiosi per molti anni a venire. E l’unico modo per garantire davvero che gli ordini continueranno a venire a lungo è convincerli che, d’ora in poi, l’Europa sarà in guerra a tutto campo; dichiarare apertamente che l’Europa si sta attrezzando per mandarci tutti al macello, però, dal punto di vista dell’opinione pubblica non è esattamente una carta vincente e, quindi, riecco la favola della deterrenza: “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra” cita Michel nel suo editoriale, ma ovviamente è una vaccata, sia perché non è che puoi accumulare arsenali all’infinito (a un certo punto, qualcosa con le armi che compri ce lo dovrai fare, e le armi non è che abbiano tanti utilizzi alternativi, diciamo), sia anche perché, se ti armi fino ai denti, quello che ti sta a un tiro di schioppo magari non è che si senta esattamente rassicurato. Soprattutto se, per giustificare proprio il fatto che ti stai armando fino ai denti, sei costretto a dire ai 4 venti che quello ti sta per invadere e che per te è una minaccia esistenziale e, allora, magari va a finire che la tua diventa una delle classiche profezie che si autoavverano (soprattutto se il tuo nemico, in quel momento, ha un vantaggio che – mano a mano che ti riarmi – potrebbe diminuire): ora, è anche vero che le nostre classi dirigenti sono formate da scappati di casa inadeguati a qualsiasi altra attività, ma – sinceramente – che siano così dementi da non capire questa banale sequenza logica mi sembra un po’ improbabile; cioè, Lia Squartapalle o Maurizio Gasparri magari sì, ma che siano messi tutti così non ci credo. E quindi non ne possiamo che dedurre che quando Michel parla di un’Europa sul piede di guerra non sia solo uno scivolone: l’Occidente collettivo sta premendo volontariamente e consapevolmente l’acceleratore verso la terza guerra mondiale e a noi tocca occuparci della Russia, tanto che sarà mai… “Putin porta avanti una narrazione fondata sulla paura” ha sottolineato il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron, ma noi “Non dobbiamo lasciarci intimidire” perché, in realtà, “di fronte, non abbiamo una grande potenza”: “La Russia” sottolinea infatti “è una potenza media il cui PIL è molto inferiore a quello degli europei”; il problema quindi, molto banalmente, è superare le divisioni politiche che rimangono al nostro interno e, soprattutto, smetterla di fare i paciocconi e la Russia non avrà scampo, anche senza il supporto degli USA. Anzi: per noi è un’opportunità da cogliere al balzo, un incentivo a costruire finalmente l’unità politica del continente troppo a lungo rimandata.
E’ esattamente questa incrollabile fiducia sul proprio potenziale inespresso che permea tutto l’editoriale del capo delle forze armate francesi Pierre Schill su Le Monde: per Schill, infatti, il nostro problema è che veniamo da diversi anni di pace “punteggiati qua e là da limitati dispiegamenti di forze di spedizione in missioni di gestione delle crisi”; è il sogno che abbiamo coltivato dalla fine della guerra fredda, sottolinea Schill, “marginalizzare la guerra fino a metterla fuori legge, concentrare gli eserciti sulla gestione della crisi e mettere da parte della violenza” perché – si sa – fino a che a morire sono i popoli delle colonie, le guerre si chiamano gestione di crisi, e gli stermini sono umanitari e non violenti. Ora però, sottolinea Schill, “Contrariamente alle aspirazioni pacifiche dei paesi europei” dove per pace, ovviamente, si intende l’incapacità dei popoli inferiori aggrediti di opporre troppa resistenza, “i conflitti che si stanno diffondendo ai margini del nostro continente testimoniano il ritorno alla guerra come modalità di risoluzione dei conflitti”; il più grande rammarico di Schill è che “La fantasia di una guerra moderna combattuta interamente a distanza” – dove l’uomo bianco sta comodamente seduto al sicuro da una stanza di controllo e comando e, con la semplice pressione di un ditino, stermina interi villaggi – “si è dissipata” e “sono finiti i giorni in cui si poteva cambiare il corso con 300 soldati”.
Poco male, però: alla fine, si tratta – appunto – solo di cambiare atteggiamento; in particolare, la Francia “ha una serie di importanti vantaggi per quanto riguarda l’equilibrio di potere e le nuove forme di guerra. A causa della sua geografia e prosperità all’interno dell’Unione Europea” sottolinea “nessun avversario minaccia i suoi confini continentali” e “al di fuori della Francia continentale, le sfide alla sovranità dei territori francesi rimangono marginali”. Ciononostante, “La Francia ha la capacità di impiegare nell’arco di 30 giorni” nientepopodimeno che un’intera divisione, “ovvero circa 20 mila uomini” e senza contare che, poi, c’è sempre “la deterrenza nucleare” che “salvaguarda gli interessi vitali della Francia”; l’unica cosa che le manca, sostiene Schill, è un po’ di spavalderia in più: “Per difendersi dalle aggressioni e difendere i propri interessi” sottolinea Schill “l’esercito francese” non solo si deve preparare “agli scontri più duri”, ma lo deve dimostrare e far sapere al mondo intero. Non per rompere le uova nel paniere al simpatico Schill, ma ho come l’impressione che le caratteristiche elencate, per incutere timore sulla Russia potrebbero non essere esattamente sufficienti: i suoi 20 mila uomini non sembrano poter troppo intimorire gli oltre 600 mila che Putin ha dichiarato di aver mandato in Ucraina e le sue 290 testate nucleari potrebbero non essere esattamente sufficienti a disincentivare la Russia, che ne ha oltre 6000.
Anche sul fronte della potenza economica, la storiella trita e ritrita della Russia stazione di servizio con la bomba nucleare si è abbondantemente rivelata essere poco più di una leggenda metropolitana – e la spettacolare resilienza di fronte a due anni del più vasto regime di sanzioni di sempre dovrebbe avercelo abbondantemente dimostrato; d’altronde, in qualche misura, era prevedibile: a parità di potere d’acquisto, la Russia – come ha ricordato recentemente lo stesso Putin – è la quinta economia mondiale. Ora, su quanto pesi il calcolo del prodotto interno lordo a parità di potere d’acquisto ci sono molte scuole di pensiero diverse (e tutte hanno una parte di ragione, anche quelle che lo considerano un parametro poco significativo), a meno che un paese non abbia un surplus commerciale significativo: nel caso un paese esporti, nel complesso, molto più di quello che importa, il prodotto interno nominale in dollari significa poco o niente e, guarda caso, è esattamente il caso della Russia; una prova su tutte? Quando, nel 2014, scoppiò la guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, nell’arco di pochi mesi il rublo precipitò: se prima, per comprare un dollaro, bastavano 37 rubli, ora ne servivano oltre 70; risultato? il PIL nominale in dollari passò dagli oltre 2.000 miliardi del 2014 a meno di 1.400 nel 2015, per poi diminuire ancora sotto soglia 1.300 nel 2016, dimezzato. Ora, immaginatevi se domani, dal giorno alla notte, si dimezzasse il PIL italiano: sarebbe una catastrofe; eppure, in Russia, praticamente manco se ne accorsero. Il loro PIL, a parità di potere d’acquisto, era rimasto inalterato e se sei un paese che esporta più di quello che importa, alla fine – tagliando tutto con l’accetta – è quello che misura la tua potenza economica: l’idea, quindi, che sul fronte europeo sia solo questione di superare le divisioni politiche e di riaggiustare un po’ il tiro dopo decenni di fantomatica utopia pacifista – ammesso e non concesso che sia così semplice – potrebbe rivelarsi un po’ troppo ottimistica.

Charles Michel

Questa deriva drammatica, comunque, potrebbe avere anche un paio di conseguenze positive: la prima è che, finalmente, i leader europei, per dare una parvenza di sovranismo alla scelta del riarmo per mandato e in conto di Washington, ammettono candidamente che – fino ad oggi – si sono fatti dettare la politica estera; prima è stato il turno di Michel che ha ammesso candidamente che, fino ad oggi, siamo sempre stati “in balia dei cicli elettorali negli Stati Uniti” e poi l’ha ribadito pure la nostra Giorgiona la madrecristiana. “Occorre smettere di essere ipocriti” ha dichiarato di fronte al senato: “Se chiedi a qualcuno di occuparsi della tua sicurezza, devi prendere in considerazione che quel qualcuno avrà grande voce in capitolo quando si tratterà di discutere di dinamiche internazionali”. La seconda, invece, è che ormai si fa avanti la consapevolezza che se vuoi fare contemporaneamente la guerra alla Cina e alla Russia, per lo meno in Medio Oriente una qualche soluzione la devi trovare; ed ecco, così, che anche la Giorgiona, dopo aver chiaramente ricordato che la colpa del genocidio in corso a Gaza è tutta di Hamas, che “Non possiamo dimenticare chi ha scatenato questo conflitto” e che i civili a Gaza sono prima di tutto “vittime di Hamas, che le utilizza come scudi umani”, “nell’interesse di Israele” ci ha tenuto a ribadire la contrarietà del nostro governo “a un’azione militare di terra a Rafah”: d’altronde, a parte le considerazioni geopolitiche, Giorgia è prima di tutto una madrecristiana e alle piccole creature ci tiene. Ed è per questo che ribadisce che l’Italia, su indicazione di Israele, non riprenderà a finanziare l’UNRWA, il che, però, “non vuol dire non occuparsi dei civili di Gaza, perché i medici dei nostri ospedali pediatrici hanno curato finora almeno 40 bambini palestinesi”, cioè uno ogni 400 bimbi trucidati.
E se, alla fine, si scoprisse che il motivo di tutte queste incomprensioni e valutazioni sballate è, semplicemente, che quei casi umani che guidano il nostro paese e l’Europa tutta hanno dei problemi irrisolvibili con la matematica più elementare? Viviamo nella peggiore delle distopie, con l’armageddon che si avvicina e le classi dirigenti – e la propaganda che le sostiene – che sembrano vivere in un universo parallelo; organizzare la resistenza non è più semplicemente un dovere morale: è puro spirito di sopravvivenza. Per farlo, abbiamo bisogno prima di subito di un vero e proprio media che smonti i deliri della propaganda suprematista pezzo dopo pezzo e dia voce alla pace e al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Lia Squartapalle

Come la propaganda sta cercando di uccidere Aaron Bushnell per la seconda volta

Sarà che mi sto facendo un po’ anzianotto, ma questa volta mi gira il cazzo sul serio e, secondo me, ti dovrebbe girare anche a te – e anche parecchio; ieri, infatti, i nostri giornali hanno letteralmente ammazzato Aaron Bushnell una seconda volta: Aaron Bushnell è l’aviatore statunitense che martedì è morto dopo essersi dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana di Washington mentre gridava a squarciagola free Palestine. Prima del gesto drammatico aveva pubblicato un breve messaggio sulla sua pagina Facebook, che non usava praticamente mai: “Molti di noi amano chiedersi Cosa farei se fossi vissuto durante la schiavitù? O quando sono state introdotte le leggi Jim Crow negli Stati del Sud (e cioè le leggi che ufficializzavano la segregazione razziale)? O durante l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio? La risposta è proprio quello che stai facendo. Proprio adesso.” E questo è l’inizio del video straziante che riprende l’episodio, pubblicato in diretta da Aaron stesso: ” non sarò più complice di questo genocidio. Sono un membro delle forze aeree statunitensi in servizio attivo e sto mettendo in scena un atto di protesta estremo, ma che rispetto a cosa stanno subendo in Palestina per mano dei colonizzatori, non dovrebbe essere visto per niente come estremo. E’ solo quello che le nostre classi dirigenti hanno deciso dovesse diventare la normalità”.
Ovviamente il gesto eclatante di Aaron è diventato immediatamente virale: dopo poche ore, negli Stati Uniti, ad esempio, su X era di gran lunga in testa ai trending topics con la bellezza di 814 mila post; in un mondo normale, la mattina dopo avrebbe riempito le prime pagine di tutti i giornali – e quando dico un mondo normale non intendo il mio mondo ideale, ma proprio quello che ci spacciano per il mondo reale dove, a guidare tutto, sarebbe questa fantomatica mano invisibile del mercato e l’informazione sarebbe una merce come le altre (che poi, intendiamoci, quando in ballo ci sono i Ferragnez o la Champions league, è davvero così). Ma – si vede – non vale sempre: quando ieri mattina, infatti, mi sono messo a spulciare i giornali, c’era qualcosa che non mi tornava. Come sempre sono partito dai giornali filogovernativi, che sono il vero mainstream italiano di oggi; prima Il Giornale, ma niente: in tutto il pdf il nome di Aaron Bushnell non viene citato manco una volta. Libero idem. Vabbe’, almeno su La Verità qualcosa ci sarà scritto: non è il giornale contro i poteri forti? Macché: anche qui nada. Stai a vedere che ha ragione la sinistra ZTL quando dice che questi sono pericolosi e che bisogna affidarsi a Carletto libro cuore Calenda e al PD per arrestare l’ondata nera; i giornali dell’opposizione, allora, approfitteranno della ghiotta occasione! Macché: Corriere niente, Stampa idem, Repubblica uguale e pure Il Domani; credo sia la prima volta nella storia del giornalismo ai tempi dei social media che la notizia di gran lunga più virale della giornata, il giorno dopo non è nemmeno citata in nessuno dei principali giornali italiani.
D’altronde, per tentare di far dimenticare il sostegno incondizionato dell’Occidente collettivo al primo genocidio trasmesso in diretta streaming, il livello di censura e disinformazione unitaria del partito unico della guerra e degli affari deve necessariamente toccare vette inesplorate e, così facendo, i nostri media hanno ammazzato Aaron Bushnell per la seconda volta: non solo di fronte alla cappa della propaganda ti senti così disperato da ricorrere al più drammatico dei gesti possibili immaginabili, ma – anche in quel caso – la cappa è talmente fitta e impenetrabile che faremo di tutto perché il gesto sia completamente vano. Sarebbe il caso di provare a impedirglielo e, magari, fare in modo che gli si ritorca pure contro: facciamo in modo che questa immagine diventi il peggiore dei loro incubi; postiamola, ripostiamola, condividiamola, mandiamola ovunque ora dopo ora, giorno dopo giorno, fino a che non rompiamo questa cappa per non permettere che il suo sacrificio estremo sia vano. Con questo video, come Ottolina Tv cerchiamo di dare i nostri cinquanta centesimi.

Aaron Bushnell

Prima di sparire completamente in tempo record dai radar dei grandi media, la tragica vicenda di Aaron Bushnell una breve apparizione nei titoli delle principali testate globali era riuscita a strapparla, in un modo che grida vendetta: Uomo muore dopo essersi dato fuoco fuori dall’ambasciata israeliana di Washington, secondo la polizia titolava il New York Times; idem con patate il Washington Post: Aviatore muore dopo essersi dato fuoco fuori dall’ambasciata israeliana a Washington. La BBC invece: Aviatore USA muore dopo essersi dato fuoco di fronte all’ambasciata di Israele, cioè identico: avete notato niente? Esatto: nessun riferimento alle cause, manco per sbaglio; in nessun titolo, nemmeno per caso, viene mai citata Gaza, o la Palestina, o il massacro in corso. Black out totale. Evidentemente aveva freddo e la situazione gli è sfuggita di mano e poi, sicuramente, si sarà trattato di uno svitato: quando uno è guidato da qualcosa che non rientra nella linea editoriale del New York Times e del Washington Post è sempre uno svitato, quasi per definizione; eppure auto – immolarsi non è sempre stato considerato un gesto da svitati.
Facciamo un passo indietro. 2 ottobre 2020: la giornalista russa Irina Slavina, attivista sociale e politica e direttrice del giornale online Koza Press muore dopo essersi auto – immolata di fronte alla direzione principale del ministero degli affari interni russo di Novgorod, e questo è il titolo del New York Times: Giornalista russa si dà fuoco e muore, INCOLPANDO IL GOVERNO. Questo, quello della BBC: La protesta finale della giornalista russa che si è data fuoco; in questo caso non era un gesto folle e non c’era manco bisogno di riscaldarsi: era una protesta politica drammatica carica di dignità e di pathos. D’altronde, non vorrai mica mettere l’urgenza di opporsi al regime di Putin rispetto all’urgenza di opporsi al più grande massacro di civili del XXI secolo e, quindi, qui la motivazione nei titoli non poteva mancare. D’altronde, come ricorda Ben Norton, tempo fa uno studio dell’American Press Institute aveva sottolineato come solo 4 lettori su dieci, oltre al titolo, leggono pure almeno una parte dell’articolo; due anni dopo, ricorda sempre Norton, due ricercatori della Columbia University avevano dimostrato che nel 59% dei casi, quando qualcuno condivide un link su qualche social, non ha nemmeno aperto l’articolo e si è fermato al titolo: la stragrande maggioranza di chi va oltre il titolo si ferma, comunque, ai primi paragrafi. Ed ecco allora il capolavoro: nell’articolo del Washington Post, ad esempio, nei primi 4 paragrafi si continua a non fare nessunissimo accenno alle cause che hanno portato Aaron Bushnell a compiere il suo gesto disperato e quando finalmente, al quinto paragrafo (dopo un bel banner pubblicitario gigantesco) si riportano le motivazioni, si fa esclusivamente citando le parole di Bushnell, della serie pensate a ‘sto povero matto: s’è inventato un genocidio e poi, per protestare contro un genocidio immaginario, s’è dato pure fuoco.
La carta dell’infermità mentale ovviamente, in questi casi, è sempre la preferita: assistere allo sterminio di 15 mila bambini parlando del diritto alla difesa di Israele è da sani di mente; sacrificarsi per impedirlo è da psicopatici. Non fa una piega. Non faccio fatica a credere che ogni giornalista a libro paga del mainstream lo creda davvero: antropologicamente, sono esattamente questa roba qui, c’è poco da girarci attorno. Qui, per supportare la carta dell’infermità mentale, si è fatto riferimento al rapporto della polizia redatto all’arrivo di Aaron in ospedale; a lanciare il carico c’ha pensato Newsweek: “Un rapporto della polizia” scrivono “afferma che Aaron Bushnell stava mostrando segni di disagio mentale”. Mado’ che infami, proprio. Il rapporto infatti è questo: i segni di disagio mentale mostrati da Aaron, molto semplicemente, consisterebbero nel fatto che, prima di darsi fuoco, ha urlato free Palestine. Come testimonia il video che ha registrato, infatti, prima di quel momento Aaron è incredibilmente tranquillo e parla in modo molto composto nella camera mentre cammina; poi si ferma davanti all’ambasciata, si rovescia il liquido infiammabile addosso e urla a squarciagola free Palestine un paio di volte prima di darsi fuoco: il disagio mentale è questo e nei media è diventato l’indizio della sua follia. La stronzata, però, era talmente grossa che almeno i media principali l’hanno lasciata da parte, e siccome non si poteva più dire che era uno squilibrato, semplicemente se lo sono scordati. Il punto infatti è che, per quello che sappiamo ad oggi, Aaron non era squilibrato manco per niente; anzi, nelle ore successive – soprattutto grazie al lavoro di una giornalista indipendente di quelle cocciute come un mulo, Talia Jane, forte solo del suo piccolo account Twitter – sono cominciate ad emergere un po’ di cose interessanti: la prima è che da quando Aaron si era trasferito a San Antonio per proseguire la sua carriera militare, aveva subito cominciato a fare volontariato in un’associazione che dà sostegno ai senzatetto e che chi c’ha lavorato accanto nell’associazione ne parla come di “uno dei compagni con più principi che abbia mai conosciuto“; uno che “cerca sempre di pensare a come possiamo effettivamente raggiungere la liberazione per tutti, con un sorriso sempre sul volto” ribadisce un altro amico. E pare proprio che ‘sta cosa qua di aiutare gli ultimissimi ce l’avesse proprio di vizio: poco dopo, infatti, a esprimere cordoglio ci si mette questa strana associazione che si chiama Serve the People, servire il popolo. Più matti di così… Sono di Akron, la cittadina dell’Ohio dove Aaron si era trasferito da poco, e ricordano come non appena era arrivato in una città che “era ancora nuova per lui”, si era “subito attivato per aiutare i senza alloggio e in qualsiasi altro progetto dell’associazione”: “Gli saremo per sempre grati per lo sforzo che ha fatto per rendere Akron un posto migliore”. E ti credo che i pennivendoli in carriera del Post e del Time lo prendono per matto: cosa ci può mai avere nella testa uno che, quando arriva in una città, invece di impegnarsi per capire a chi può fare le scarpe per qualche scatto di carriera, si mette ad aiutare i più sfigati? Ma la prova provata che siamo di fronte a un autentico squilibrato la tira fuori, ancora una volta, Newsweek; spulciando il suo profilo Facebook – che conta, in tutto, 5 post e 100 amici – Newsweek, infatti, ha trovato la pistola fumante. Tra le pagine a cui Aaron ha messo mi piace ci sono, infatti, addirittura due pagine legate a dei gruppi anarchici: il Burning River Anarchist Collective che, addirittura, pubblica e distribuisce libri sull’anarchia e l’anticapitalismo, e la Mutual Aid Street Solidarity che addirittura, pensate un po’, si occupa di riduzione del danno nei quartieri più malfamati fornendo siringhe pulite e altra assistenza per evitare la morte certa ai tossici. Ma la cosa più inquietante è che mentre Aaron coltivava questi interessi veramente inconfessabili, riusciva pure a costruirsi una carriera di un qualche successo: da 3 anni infatti, come riporta il suo profilo Linkedin, lavorava per l’aeronautica militare come ingegnere nel settore cosiddetto DevOpsm, cioè in quel settore che tiene insieme sviluppatori di software e tecnici delle telecomunicazioni; un impiego che, riporta iNews, gli avrebbe garantito un salario superiore ai 100 mila dollari l’anno. Ed era solo l’inizio: Aaron, infatti, aveva intenzione di abbandonare l’aeronautica, ma prima di farlo si stava prendendo una nuova laurea triennale in ingegneria software presso la Western Governor University; la sua malattia, insomma, era riuscire a fare quello che un giornalista medio del Times non è in grado di fare nemmeno se rinasce, ma senza per questo essere diventato un’insopportabile faccia di merda. Ovvove! Visto che Aaron lo squilibrato sembrava gestirsela piuttosto benino, allora ecco che sono andati a cercare il trauma infantile che covava sotto l’apparente tranquillità; a trovarlo è stato il Post, che come idea di equilibrio e sanità mentale ha come riferimento il suo editore Jeff Bezos e che ha scovato dei particolari inquietanti nell’infanzia di Aaron. Aaron, infatti, proveniva da un piccolo paesino del Massachussets e la sua famiglia era addirittura religiosa, di una specie di setta sostiene il Post: si chiama La Comunità di Gesù, talmente setta che un ex membro avrebbe confessato al Post che “molti di quelli tra noi che sono usciti, sono molto interessati alla giustizia sociale” e infatti, riporta scandalizzato il Post, alcuni amici di Aaron avrebbero ammesso che stava cercando di trovare un nuovo lavoro non troppo impegnativo che gli avrebbe permesso di guadagnare il minimo indispensabile per sopravvivere, lasciandogli – addirittura! – il tempo di dedicarsi all’attivismo e alla politica che, per i sociopatici in carriera, è sostanzialmente la definizione stessa di squilibrio mentale, diciamo. Questo passato bacchettone in questa setta segreta, sostanzialmente, avrebbe covato sotto le ceneri fino ad esplodere in questo gesto eclatante privo di senso. O forse no; prima di procedere verso il sacrificio finale, infatti, Aaron non sembra aver agito con chissà quale impulsività: “Ha fatto tutti i passi necessari per assicurarsi che tutto ciò che aveva venisse curato adeguatamente” ha affermato un’amica a iNews, “come il suo gatto, che ha lasciato a un vicino. Quindi sì, è stato razionale e sapeva esattamente cosa stava facendo”. Ma com’è possibile che uno razionalmente si immoli per una causa quando noi, per due lire, siamo disposti a scrivere ogni sorta di vaccata sbattendocene completamente il cazzo delle conseguenze? Non c’è verso: Aaron Bushnell per la merda suprematista rimarrà per sempre un mistero.
Eppure Bushnell non è il primo che ricorre all’auto – immolazione: il precedente più celebre sono i famosi monaci buddhisti durante la carneficina in Vietnam che, tra l’altro, anche allora vennero emulati da alcuni cittadini americani; in particolare, un paio di ferventi quaccheri che in quel caso, però, nessuno accusò di essere degli psicopatici. Altri tempi. A cercare di spiegare l’etica che sta dietro un gesto del genere a quegli individualisti incorreggibili degli occidentali allora ci pensò Thich Nhat Hanh, il celebre monaco che Martin Luther King voleva candidare al premio Nobel per la pace: “La stampa” scriveva Thich Nhat Hanh “parla di suicidio. Ma non lo è. Non è nemmeno propriamente una protesta. Quello che i monaci affermano nelle lettere che lasciano prima di auto – immolarsi è che il gesto mira a creare un allarme, a muovere i cuori degli oppressori e a richiamare l’attenzione del mondo sulle sofferenze patite dai vietnamiti. Bruciarsi vivo serve a dimostrare che quello che una persona sta dicendo è della massima importanza. Non c’è niente di più doloroso che bruciarsi vivo. Affermare qualcosa mentre stai provando una tale sofferenza prova che la stai dicendo con il massimo del coraggio, della franchezza, della determinazione e della sincerità”. “Il monaco che si auto – immola” continua Thich Nhat Hanh “non ha perso né il coraggio né la speranza; e non ha nessun desiderio di non esistenza. Al contrario, è molto coraggioso e speranzoso e aspira a qualcosa di positivo per il futuro. Non ambisce ad autodistruggersi, ma semplicemente crede che i suoi simili potranno beneficiare del suo sacrificio”.

Pat Ryder

Insomma: un modello un po’ diverso da quello dei pennivendoli spregiudicati che, se devono pensare a un modello di equilibrio, piuttosto pensano a Pat Ryder, il portavoce del Pentagono; durante la conferenza stampa rilasciata in seguito all’episodio, gli è stato chiesto se non è preoccupato che un gesto come questo sveli un disagio più profondo nelle forze armate per come stiamo garantendo il nostro sostegno alle azioni di Israele. “Dal punto di vista del dipartimento della difesa” ha risposto impassibile Ryder “dall’attacco brutale di Hamas del 7 ottobre ci siamo concentrati in particolare su 4 questioni chiave: proteggere le forze armate e i cittadini USA nella regione, supportare il diritto di Israele alla difesa, lavorare fianco a fianco con Israele per il rilascio degli ostaggi e assicurarsi che la situazione non degeneri in un conflitto regionale allargato. Questi sono gli obiettivi che continueranno a indirizzare la nostra azione in Medio Oriente, e il nostro supporto a Israele continua ad essere corazzato”.
30 mila civili uccisi, 15 mila bambini, la più grande crisi umanitaria di sempre manco je so venuti in mente: ecco, lui è quello normale; davvero abbiamo intenzione di stare a guardare mentre passa l’idea che la normalità è sostenere attivamente un genocidio? Noi non ci stiamo e non permetteremo che il sacrificio di Aaron sia vano: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che si batta quotidianamente contro il capovolgimento della realtà. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

L’Europa si sta preparando alla GUERRA TOTALE contro la Russia?

“Allarme a Washington”; “Una nuova arma russa minaccia gli Stati Uniti”: dopo la provocazione di Trump sul via libera alla Russia ad attaccare liberamente qualunque paese europeo si ostini a non raggiungere la quota del 2% del PIL di spesa militare e con lo stallo che va avanti, ormai, da oltre due mesi sull’approvazione del pacchetto di aiuti USA per l’Ucraina, alla vigilia del Summit di Monaco – noto anche come la Davos della Difesa – la propaganda del partito unico degli affari e della guerra, per cercare di scatenare un po’ di panico, le ha provate letteralmente tutte. La storia della novella alabarda spaziale termonucleare con la quale il dittatore pazzo ci sta minacciando tutti quanti di estinzione è una delle tante ed è piuttosto indicativa; il caso scoppia mercoledì scorso, quando il presidente della Commissione Intelligence della Camera, il repubblicano Mike Turner, volto pacioccoso del bellicismo neocon old school e grande supporter della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, in attesa del via libera per le bombe vere ne lancia una virtuale sul suo account X: “Oggi” scrive “il comitato permanente del Congresso per l’Intelligence ha informato i membri del congresso relativamente a una grave minaccia alla sicurezza nazionale” così, di botto, senza senso. Esattamente quello che la propaganda guerrafondaia stava aspettando per scatenare il finimondo: “Mosca supera un’altra linea rossa e punta a militarizzare lo spazio” rilancia gasatissima La Stampa; le prove sono schiaccianti e le elenca il nostro generale Tricarico, informatissimo. “Non è inverosimile” afferma “che la Russia possa attrezzarsi e sviluppare un’arma nucleare da lanciare nello spazio e farla esplodere con la potenza di megatoni”; non è inverosimile: quando si dice una pistola fumante. Il livello di fuffa ha raggiunto livelli tali che anche lo stesso Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale, avrebbe dichiarato di essere “rimasto basito”, mentre un altro rappresentante della Commissione Intelligence prendeva anche per il culo e invitava alla calma -quando si dice lanciare il sasso e nascondere la mano. A 5 giorni di distanza, tutto quello che sappiamo è che, appunto, ci sarebbe una non meglio precisata minaccia russa che riguarda lo spazio e ha qualcosa a che fare con l’energia nucleare e con la disattivazione dei satelliti e che comunque, in nessun modo – parole della stessa Casa Bianca – rappresenta un pericolo immediato, ma qualcosa che “nel medio lungo termine” “può” condizionare la difesa degli States.

Aleksej Naval’nyj

A parte ai pennivendoli della propaganda guerrafondaia, è apparso evidente subito a tutti si trattasse di un’enorme vaccata buttata nella mischia a caso per creare un po’ di panico ad hoc, e i trumpiani hanno avuto gioco facile a perculare il tutto; i commenti al tweet di Turner sono emblematici: “Ci è appena stato detto” scrive il blogger cospirazionista Jeff Carlson “che la Russia… [riempi lo spazio vuoto]. E’ una minaccia molto reale di cui non possiamo dirti nulla. È molto seria. Dico sul serio. Quindi devi finanziare l’Ucraina per i prossimi dieci anni” – firmato Mike Turner. Manco più a montare le psyop sono buoni; fortunatamente per loro, poche ore dopo è arrivata la tragica notizia della morte in carcere di Navalny e la campagna russofoba per la corsa al riarmo si è potuta fondare su qualcosa di un attimino più solido: Torniamo a bomba, come ha titolato emblematicamente Il Manifesto, con tanto di foto di gruppo da Monaco. “Il mondo si riarma a passi forzati: Stoltenberg preme sull’acceleratore, l’Europa è in piena corsa in difesa dell’Ucraina, e la Germania si avvia verso l’economia di guerra e riapre il dibattito sull’atomica”. Il giorno dopo, Sirsky annunciava il ritiro definitivo delle truppe ucraine da Adveevka; cosa mai potrebbe andare storto?
“Dirò a Putin di attaccare i paesi europei che non spendono per la loro difesa”: con un colpo di scena degno del Berlusconi dei migliori tempi, dal palco di un’anonima cittadina della Carolina del Sud The Donald torna a imporre l’agenda del dibattito elettorale e a offrire un assist perfetto alle cancellerie più guerrafondaie del vecchio continente e alle industrie di armi, che si sfregano le mani all’idea di altri anni di succulenti extraprofitti; la necessità di armare fino ai denti tutto il continente in vista di una possibile ritirata USA dall’Europa nel caso, sempre più probabile, di una vittoria di Trump, è stato il tema per eccellenza del Summit di Monaco dove, riporta il New York Times, aleggiava un umore piuttosto asprino “in netto contrasto con quello di appena un anno fa, quando molti dei partecipanti pensavano che la Russia potesse essere sull’orlo della sconfitta”. Allora, ricorda sempre il Times, “si parlava di quanti mesi sarebbero potuti essere necessari per ricacciare i russi verso i confini che esistevano prima del 24 febbraio 2022. Ora” conclude amaramente l’articolo “quell’ottimismo appare prematuro nella migliore delle ipotesi, leggermente delirante nella peggiore” .
Finita la botta del delirio precedente, eccone uno tutto nuovo per l’occasione: l’assunto di base, a questo giro, è che Putin ora sarebbe in procinto di attaccare direttamente un paese NATO così, a cazzodicane; effettivamente, come per l’Ucraina, potrebbe essere un caso paradigmatico di profezia che si autoavvera. Ovviamente, a Putin di attaccare un paese NATO non gliene può fregare di meno, ma a forza di dirlo – e di comportarsi come se fosse un destino ineluttabile, armandosi fino ai denti e sfidando continuamente le linee rosse di Mosca – la fantasia potrebbe diventare davvero realtà; di sicuro ci stanno provando con ogni mezzo necessario: in Ucraina, ad esempio, mentre sul fronte terrestre la debacle è ormai totale, tutti gli sforzi della NATO sono concentrati a colpire la flotta russa, che secondo alcune stime, avrebbe registrato perdite vicino addirittura a un terzo del totale “che equivale”, sintetizza Andrew Korybko sul suo blog, “a 25 navi e un sottomarino”. La propaganda russofoba l’ha spacciata come una vittoria degli Ucraini, ma – in realtà – qui l’Ucraina non c’entra sostanzialmente niente: l’Ucraina manco ce l’ha una flotta; fa solo da prestanome. Si tratta, a tutti gli effetti, di una guerra della NATO contro la marina russa nel tentativo, come dice sempre Korybko, “di imporre costi militari asimmetrici alla Russia, andando a colpire obiettivi di alto profilo relativamente facili da colpire” e senza che la Russia possa in qualche modo reagire in modo simmetrico, dal momento – appunto – che l’Ucraina una marina, molto banalmente, non ce l’ha; e il tutto mentre, nel frattempo, nei mari del Nord la NATO sta svolgendo la più grande esercitazione dai tempi della Guerra Fredda: si chiama SteadFast Defender 2024 e coinvolge, in tutto, qualcosa come oltre 50 navi, un’ottantina tra jet, elicotteri e droni, oltre 1000 veicoli da combattimento e la bellezza di oltre 90 mila soldati. E dai mari del Nord si estende a tutto il continente: in coordinamento con SteadFast Defender, infatti, i tedeschi impiegheranno 12 mila uomini della decima divisione Panzer nell’esercitazione denominata Quadriga 2024, dove sperimenteranno la logistica necessaria per raggiungere Svezia, Lituania e Romania nella “prima esercitazione in cui la difesa del fianco orientale della NATO si coniuga con il ruolo della Germania come perno della difesa dell’Europa” (Carsten Breuer, capo delle forze armate tedesche). Nel frattempo, le forze armate polacche testeranno la capacità di movimento di 3.500 veicoli, compresi 100 carri armati statunitensi, nell’operazione denominata Dragon-24; insomma: prove di guerra totale alla Russia. Dopo aver decantato le lodi di questo sforzo ciclopico, per rispondere alla boutade di Trump Stoltenberg ha ricordato che, in realtà, “i paesi NATO non hanno mai speso così tanto”: come ricorda Tommaso di Francesco sul Manifesto, infatti, “In 9 anni, dal 2014, gli Stati europei più il Canada hanno aumentato di ben 600 miliardi i loro bilanci militari”; allora, i paesi NATO che rispettavano l’obiettivo del 2% erano appena 3. Quest’anno saranno 18, con alcune encomiabili eccellenze: i paesi baltici superano il 2,5%, la Grecia il 3, la Polonia addirittura il 4; “un caso istruttivo” come sottolinea l’Economist, perché oltre metà dei soldi polacchi andranno in acquisto di attrezzature – dai carri armati agli elicotteri, dagli obici ai razzi Himars – il tutto, continua l’Economist, “con una pianificazione poco coerente e con totale negligenza su come equipaggiare e sostenere tali attrezzature. I lanciatori Himars” ad esempio “possono sparare fino a 300 km, ma gli strumenti che hanno per l’intelligence non sono in grado di localizzare gli obiettivi a quella distanza e dovranno fare interamente affidamento sugli USA”.

Jens Stoltenberg

Altri paesi europei sono intenzionati a seguire le stesse orme: “Gli europei” ha affermato il ministro della difesa Pistorius a Monaco “devono fare molto di più per la nostra sicurezza”; l’obiettivo del 2% è solo l’inizio, e nel prossimo futuro “potremmo raggiungere il 3, o forse anche il 3,5%”. Più che sulla volontà di aumentare la spesa, quindi, i distinguo all’interno dell’imperialismo guerrafondaio dell’Occidente collettivo potrebbero giocarsi su dove vanno a finire questi quattrini: se la Polonia, infatti, è ben felice di riempire le tasche degli alleati d’oltreoceano, la Germania, infatti, potrebbe puntare piuttosto a sfruttare l’occasione per ridare un po’ di ossigeno al suo manifatturiero, che – nel frattempo – è stato raso al suolo; ed è solo l’antipasto. Come ricorda il Financial Times, infatti, “Le aziende tedesche si riversano negli Stati Uniti con impegni record di investimenti di capitale”; “Gli Stati Uniti” si legge nell’articolo “stanno attirando una quantità record di investimenti di capitale da parte di aziende tedesche attratte dalla loro forte economia e dai lucrosi incentivi fiscali, mentre Berlino è preoccupata per la deindustrializzazione”: in un solo anno, infatti, gli investimenti diretti tedeschi negli USA sono passati da 8,2 miliardi a 15,7 miliardi, distribuiti in 185 progetti, 73 dei quali nel settore manifatturiero – e potrebbe essere solo un primo assaggino. “Secondo un sondaggio condotto su 224 filiali di aziende tedesche negli Stati Uniti, pubblicato l’8 febbraio dalle Camere di commercio tedesco – americane” continua, infatti, l’articolo “il 96% prevede di espandere i propri investimenti entro il 2026”.
Il rilancio dell’industria bellica nostrana potrebbe essere la medicina giusta; le differenze tra Biden e Trump andrebbero forse analizzate anche da questo punto di vista: congelando la guerra per procura in Ucraina, infatti, Trump si troverebbe col fiato sul collo della sua industria bellica a corto di commesse e sarebbe portato a fare pressioni sull’Europa per alzare la spesa sì, ma solo per sostenere l’industria USA. Per tenere il fronte acceso, invece, Biden avrebbe bisogno dello sforzo industriale sia statunitense che europeo; da questo punto di vista, quindi, la scelta starebbe un po’ a noi: vogliamo morire di fame e di miseria o di guerra? E poi dicono che non c’è democrazia… Questo dilemma potrebbe caratterizzare anche l’agenda elettorale della Von Der Leyen, alla disperata ricerca di un secondo mandato alla guida del protettorato europeo: “La proposta di Von der Leyen per il secondo mandato” titola, ad esempio, Politico “più potenza militare e meno discorsi sul clima”; “Il mondo di oggi è completamente diverso rispetto al 2019” ha affermato, “e anche Bruxelles lo è” sottolinea Politico, “o lo sarà presto”. “L’attuale gruppo di deputati del Parlamento europeo” continua Politico “è stato eletto al culmine delle marce giovanili ispirate a Greta Thunberg che hanno catapultato il cambiamento climatico nel mainstream politico” e hanno influenzato la retorica del primo mandato di Ursulona. Nonostante la leggenda metropolitana sulle ecofollie di Bruxelles spacciata dall’alt right, però, al di là della retorica i risultati sono stati pochini e, per la gioia dei negazionisti climatici che hanno scambiato la lobby del fossile per il nuovo fronte di liberazione popolare, ora anche la retorica sembra essere arrivata al capolinea, e così “nella conferenza stampa di lunedì” riporta sempre Politico “il clima è stato appena menzionato e l’accento si è spostato tutto sulla difesa”; ma nella peggiore delle ipotesi, rilancia l’Economist, se davvero “l’America abbandonasse l’Europa” la nuova situazione “richiederebbe di fare molto di più che semplicemente aumentare la spesa”. “Quasi tutti gli eserciti europei” sottolinea l’Economist “fanno fatica per raggiungere i loro obiettivi di reclutamento”: a dicembre, Pistorius ha affermato che, col senno di poi, aver interrotto la leva obbligatoria in Germania nel 2011 è stato un tragico errore, mentre il generale britannico Patrick Sanders, capo dell’esercito britannico, ha usato l’esempio dell’Ucraina per ribadire che “Gli eserciti regolari iniziano le guerre; gli eserciti di cittadini le vincono”. Ma anche nei rari casi in cui gli obiettivi del reclutamento vengono raggiunti, mancano comunque “capacità di comando e controllo, come ufficiali di stato maggiore addestrati a gestire grandi quartier generali”.
L’altro nervo scoperto – fondamentale – è la questione nucleare: “L’America” sottolinea l’Economist “è impegnata a usare le sue armi nucleari per difendere gli alleati europei” e sarebbero quelle armi ad averci fornito una garanzia contro l’invasione russa; ora, però, chi può pensare che “un presidente americano che non è più disposto a rischiare le sue truppe per difendere un alleato europeo, sarebbe invece disposto a mettere a repentaglio le città americane in un conflitto nucleare?”. Francia e Gran Bretagna l’atomica ce l’hanno, ma si parla di 500 testate in totale contro le 5 mila degli USA e le 6 mila russe e, in buona parte, non sappiamo come gestirle: le armi nucleari britanniche, infatti, sono assegnate alla NATO; la Gran Bretagna può decidere di usarle come vuole “ma è totalmente dipendente dagli USA per la progettazione delle testate, per le quali attinge ad un pool comune di missili, conservato in Georgia”. “Se l’America dovesse interrompere ogni cooperazione” sottolinea l’Economist “le forze nucleari britanniche probabilmente avrebbero un’aspettativa di vita misurata in mesi anziché in anni”; e il problema della catena di comando va ben oltre il nucleare: la NATO, infatti, gestisce una complessa rete di quartieri generali – un quartier generale in Belgio, tre comandi in America, Paesi Bassi e Italia, e una serie di comandi più piccoli sotto. “Questi” sottolinea l’Economist “sono i cervelli che gestirebbero qualsiasi guerra con la Russia. E se Trump si ritirasse dalla NATO da un giorno all’altro, gli europei dovrebbero decidere come riempire questo vuoto” e in molti dubitano che gli Stati Membri dell’UE possano mettersi d’accordo nell’individuare l’equivalente di un comandante supremo tra di loro, in grado di sostituire il padrone di Washington.

The Donald

Insomma: l’obiettivo dell’Economist è chiaro: fare un po’ di terrorismo psicologico contro la possibilità di una nuova amministrazione Trump; l’Europa è sotto attacco russo, ovviamente deve spendere un sacco di quattrini per riarmarsi, ma che non gli venga in mente di vedere nelle minacce di Trump un opportunità per ritagliarsi uno spazio di autonomia strategica, perché senza la Pax Americana l’Europa è destinata a soccombere e, magari, anche a tornare a farsi la guerra vera al suo interno. Nel frattempo, in Italia – per tagliare la testa al toro – abbiamo approfittato del clima bellicista per fare un altro bel favore all’industria delle armi: la famosa legge 185 – che, anche se è stata spesso aggirata, permetteva al Parlamento di avere un controllo su dove autorizzavamo ad esportare le nostre armi – è sotto attacco; “L’obiettivo” titola Il Manifesto “è escludere il Parlamento dai controlli”. “Il senso dell’operazione che la maggioranza si appresta a varare” conclude l’articolo “è di ridare al governo il potere di decidere il da farsi in autonomia, togliendo alle Camere ogni potere di discussione”.
Forse di fronte all’offensiva propagandistica delle due correnti del partito unico degli affari e della guerra, il potere di discussione – invece – sarebbe il caso di riprendercelo per sul serio; per farlo, ci serve un vero e proprio media che che non si faccia infinocchiare dalla propaganda bellicista e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Rimbambiden

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