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Tag: voto

L’Europa e le elezioni farsa: come l’inutilità delle europee scatena il panico tra i liberali

Finalmente ci siamo: a partire da domani potremmo di nuovo tornare a votare democraticamente per un’istituzione che di democratico non ha assolutamente niente. Per decenni abbiamo sempre denunciato l’ipocrisia delle nostre istituzioni democratiche nazionali che, dopo la breve parentesi dell’epoca d’oro delle democrazie costituzionali del secondo dopoguerra, con una sequela di controriforme hanno sottratto alla politica da sotto i piedi il terreno della lotta per la crescita della democrazia sostanziale, lasciandole agibilità solo all’interno del perimetro angusto della democrazia formale fino a quando le istituzioni europee – e la messa in scena dell’integrazione europea – non ci hanno accontentato: se disprezzate così tanto la democrazia formale, ecco fatto! Vi leviamo pure quella. L’unico organo direttamente elettivo delle istituzioni europee, infatti, conta come il due di picche quando briscola è cuori e tutto il resto è fatto scientificamente a immagine e somiglianza delle oligarchie finanziarie; nonostante la gigantesca macchina propagandistica messa a disposizione della leggenda metropolitana dell’Europa unita e democratica, questa realtà è talmente evidente che, ormai, a scomodarsi per andare a votare alle europee è sostanzialmente una minoranza degli aventi diritto (o almeno, questa è l’impressione che abbiamo noi che facciamo parte della macchina del fango della propaganda putiniana).

Claudio Tito

Ma ai giornalisti veri come Claudio Tito de La Repubblichina non la si fa e, ancora oggi, coraggiosamente denunciava: Voto Ue, guerra ibrida sui social. Mosca alimenta l’astensionismo; “Il bombardamento digitale di fake news” continua Tito “è destinato a intensificarsi nelle prossime ore. Obiettivo: screditare la Ue e allontanare gli elettori”. Tito fa una rivelazione sconvolgente: “Solo nel mese di maggio” rivela “sulle piattaforme di Zuckerberg sono stati individuati almeno” – udite, udite – “275 profili pro-Russia” che hanno prodotto la cifra astronomica di 61 – e, ripeto, 61 – messaggi che hanno raggiunto addirittura la bellezza di 1,5 milioni di account in Italia, circa un decimo di quelli raggiunti da una foto qualsiasi dei Ferragnez ai tempi d’oro (anche se, effettivamente, per un giornale che ormai non leggono più nemmeno quelli che ci scrivono possono sembrare numeri importanti). L’obiettivo di questa campagna – che raccoglie meno risultati della promozione della sagra della polenta di Pizzighettone – sarebbe nientepopodimeno che “far fallire il fronte europeista” che senza questa campagna, invece, riscuoterebbe il sostegno incondizionato ed entusiasta di tutti gli abitanti dei quartieri popolari di tutto il vecchio continente; ma addirittura – anche se questa è una missione ancora più ardua – questa campagna servirebbe “a gettare discredito sui media tradizionali” nonostante gli scoop sulle pale russe e sugli USA che crescono al doppio della velocità della Cina. Uno slogan incredibilmente efficace inventato giusto per l’occasione dalla sofisticata propaganda putiniana, sottolinea Tito, sarebbe l’hashtag “iononvoto”, che prima che il plurimorto dittatore del Cremlino decidesse di conquistare Lisbona non si era mai visto; come d’altronde, continua Tito, vale anche per lo slogan mefitico, come lo definisce lui, “NOEU“.
Particolarmente sospetto è che questi temi emergano proprio in questi giorni, a ridosso della scadenza elettorale e non – che so – per la festa della donna o per la giornata mondiale per la tubercolosi; contro questa propaganda straniera però, fortunatamente, “Tutti e 27 i partner” del vecchio continente si sono fatti un esame di coscienza e hanno deciso che dovevano giocare il tutto per tutto per difendere l’informazione oggettiva del Foglio contro la propaganda putiniana e, così, hanno messo in piedi “uffici che monitorano questo tipo di influenza e intervengono per bloccarla” – e cioè, in soldoni, che censurano chiunque non sia così rimbambito da pensarla come Claudio Tito. D’altronde, a mali estremi, estremi rimedi: e qui, sottolinea Tito, è evidente che questo è solo un pezzo “della guerra ibrida perpetrata” contro di noi “dai nemici esterni: Russia e Cina”; Tito, però, sottolinea anche come gli esperti del parlamento europeo gli abbiano garantito che “siamo pronti a reagire, e non abbiamo paura”. Buon per te; io, sinceramente, un pochino di paura all’idea che ancora oggi si possa scrivere impunemente una tale mole di puttanate senza venire travolti dalla vergogna sociale e senza diventare vittime del pubblico ludibrio generalizzato, ogni tanto la provo. Ma prima di addentrarci su cosa c’è, o non c’è, in ballo con queste elezioni europee, vi ricordo di mettere un like a questo video perché, come dice Tito, noi che facciamo propaganda putiniana siamo lautamente finanziati, ma senza il vostro supporto poi l’algoritmo comunque ci snobba e Putin si intristisce. E se non vuoi far piangere Putin, continua a guardare questo video.
Poco più di un anno fa, le istituzioni europee sono state travolte dal cosiddetto QatarGate e la stampa scandalistica, come normale e inevitabile, ci s’è fiondata a pesce morto; come ricorderete, infatti, il caso ha riguardato i massimi vertici istituzionali dell’Unione: la vicepresidente del parlamento europeo Eva Kaili e il compagno Antonio Panzeri che, così, ha coronato simbolicamente la fine di un percorso involutivo che – oltre che politico – è anche proprio antropologico e che l’ha portato dalla segreteria della Camera del lavoro di Milano (che è la più importante d’Italia) fino al libro paga delle oligarchie delle petromonarchie del Golfo. Ma a ben vedere, l’unica cosa che si può davvero imputare ai due faccendieri è di non essere stati sufficientemente bravi e accorti nel loro lavoro e di essersi fatti beccare con le mani nella marmellata; arraffare l’arraffabile infatti, da tanti punti di vista, è sostanzialmente la cosa più produttiva che un parlamentare europeo può fare negli anni in cui è parcheggiato tra Bruxelles e Strasburgo ed infatti è l’attività che li tiene tutti più occupati in assoluto. Come sottolineava Enrico Grazzini ancora nel dicembre del 2022 su Micromega, infatti, “Lo scandalo Qatar va inserito in un contesto di corruzione ambientale favorito dalla concentrazione estrema dei poteri europei in pochi organi burocratici, ristretti e centralizzati, che operano in maniera opaca e in stretta simbiosi con il big business e in assenza di qualsiasi forma di controllo e di partecipazione democratica dal basso”; “A parte i casi di manifesta corruzione dei singoli” continuava Grazzini “il problema centrale è che tra il big business, gli oligopoli multinazionali, le grandi banche d’affari da una parte e le istituzioni della Ue e la Banca Centrale Europea dall’altra esistono legami talmente simbiotici da rendere difficilissima, se non impossibile, la distinzione tra bene pubblico e interesse privato”. E sia chiaro: non c’entrano niente le disfunzionalità occasionali di istituzioni ancora giovani e che si devono fare le ossa per resistere in un mondo di squali. Piuttosto, è esattamente il contrario: più le istituzioni europee si consolidano e più l’unica funzione dei parlamentari che eleggiamo diventa quella di accaparrarsi prebende di ogni genere in cambio di favori alle corporation; è proprio la natura strutturale dell’Unione europea, che è nata proprio come massima espressione del trionfo totale della controrivoluzione neoliberista – e, cioè, quel progetto distopico di trasformazione complessiva del sistema-mondo capitalistico che prevedeva che nessun paese al mondo doveva avere più strumenti per esercitare una qualche forma di sovranità e, quindi, di potere regolatorio nei confronti delle scorribande del capitalismo finanziario speculativo, se non, al limite, gli Stati Uniti d’America. L’Unione Europea è quindi, sin dalle origini, un progetto di carattere sostanzialmente neocoloniale e lo è in un modo talmente plateale che ormai, tranne nelle redazioni de La Repubblichina e del Corriere della Serva (e tra i 4 amici al bar che guidano progetti a cavallo tra politica e cabaret, come – neuroni e + Europa), alla favola dell’Europa democratica sostanzialmente non ci crede più nessuno e quando vanno a votare metà degli aventi diritto è festa grossa.
Com’è arcinoto, il meccanismo in assoluto più delirante è quello che prevede che le politiche fiscali rimangano in capo ai governi dei paesi aderenti, ma quelle monetarie siano appannaggio di un club privato di oligarchi noto come Banca Centrale Europea che, come ricorda Alessandro Somma su La Fionda, priva gli Stati “degli strumenti indispensabili a promuovere la piena occupazione” e quindi, stringi stringi, la democrazia ; è quindi del tutto normale che, come in tutte le postdemocrazie neocoloniali, il mestiere delle classi dirigenti si limiti essenzialmente a una sola cosa: rimuovere gli ostacoli al pieno dispiegamento della ferocia del capitale in cambio di qualche mancetta. Per oliare adeguatamente questo meccanismo, a Bruxelles operano la bellezza di 12400 lobbisti che la commissione cataloga, con spiccato senso dell’ironia, come attori della democrazia rappresentativa: “Il fenomeno delle porte girevoli tra le società private e le istituzioni europee” sottolinea Grazzini “è dilagante: in molti casi i capi delle lobby vengono messi a fare parte degli organi tecnici della Ue e, viceversa, i partecipanti agli organi della Ue vanno poi a presiedere lobby e società che hanno supervisionato”. Celebre è, ad esempio, il caso del compagno Josè Barroso, l’ex leader della celebre Federazione degli Studenti Marxisti-Leninisti portoghese che, dopo essere stato per 10 anni a capo della Commissione Europea, è diventato presidente di Goldman Sachs (scatenando l’invidia del nostro San MarioPio da Goldman Sachs); l’olandese Neelie Kros che, invece, le magnifiche sorti e progressive del capitalismo selvaggio le ha sempre sostenute (e, quindi, almeno è coerente), dopo aver passato 10 anni da Commissario alla concorrenza ora siede in una serie sterminata di CdA di megacorporation che, evidentemente, ha servito al meglio.
Contro la bolla dorata che i faccendieri si costruiscono su misura, le istituzioni europee non prevedono nessun contro-potere democratico: il Parlamento europeo, infatti, non ha il potere di legiferare; come sintetizza Grazzini “è poco più di un forum di discussione”, un talk show. Il Parlamento, che è l’unico organo direttamente elettivo dell’Unione, come è noto, in pratica non fa altro che ratificare le decisione prese dal Consiglio europeo e promosse dalla Commissione; il fatto che l’istituzione europea con meno poteri sia la sede della sovranità popolare per eccellenza, il luogo della rappresenta democratica per antonomasia come il Parlamento, la dice lunga su come nell’Unione europea la democrazia conti come il tofu alla sagra del cinghiale. Già li sento orde di analfoliberali e qualche sinistrato depresso gridare al pippone rossobruno! Il Marucci sovranista e antieuropeista! Grazie mille per la prima; effettivamente a Ottolina siamo pericolosi sovranisti come la nostra Costituzione: o Togliatti o Nenni. Che ci piaccia o no, la sovranità popolare – e le sue forme istituzionali democratiche capaci di favorire il progresso dei diritti sociali, democratici ed economici nel secondo dopoguerra – si è sviluppata all’interno degli Stati nazionali; l’Unione europea poteva essere un progetto sovranazionale caratterizzato dalla cooperazione tra Stati democratici che cooperano al fine di generalizzare a livello europeo gli standard di welfare più elevati, la cooperazione economica e industriale, la sicurezza. Sì, ma col coso lì, come si chiama, il coso… ah già. Col cazzo. Purtroppo – guarda un po’ a volte il caso – l’Unione europea si è configurata presto come un’istituzione sovranazionale basata sulla competizione economica tra Stati nazionali; il contrario di un’Europa unita e solidale. Gli Stati nazione non solo non sono spariti, ma le folli norme di bilancio europee basate sull’austerità hanno distrutto il welfare e l’intervento pubblico in economia, per cui ai governi non è rimasto che farsi la guerra economica ampliando le diseguaglianze tra stati membri. Ma non solo: se in un Consiglio comunale, regionale, perfino in un Parlamento, non puoi più parlare di welfare perché non hai soldi, ma devi tagliare; non puoi parlare di gestione pubblica dell’economia perché spetta al mercato; non puoi parlare di politiche industriali perché spetta al mercato; non puoi regolare i prezzi delle case perché spetta al mercato. Alla politica non resta che amministrare i danni del mercato e invocare politiche identitarie, per cui c’è sempre qualche emergenza sicurezza perché che cazzo ne fai di tutti questi morti di fame espulsi dalla società? Mettiamoli in galera!
L’Unione europea è l’involucro istituzionale che distrugge la democrazia europea: lascia, per ora, intatte le elezioni, ma le svuota, favorisce la guerra economica e culturale ed è, in definitiva, il singolo ostacolo più grande in assoluto ad un progetto democratico e sovrano di Europa unita; che senso ha, allora, andare alle urne? Pochino, in tutta sincerità, e gli appelli moralisteggianti a non dare la democrazia per scontata e vivere il voto come un dovere civile, ormai, suonano decisamente patetici. Io non do la democrazia per scontata; do per scontato che qui, di democratico, c’è rimasta solo la libertà di fare ancora questi discorsi a cippadicazzo (e lo dice uno che, alla fine, a votare ci andrà) perché, nonostante il panico espresso dai vari menestrelli delle oligarchie alla Claudio Tito, alla fine se nessuno va a votare non gliene frega un cazzo a nessuno. Per distruggere un sistema di potere, ne devi costruire un altro che lo rade al suolo; non è che te lo regalano perché gli vengono i sensi di colpa. Andare a votare allora in questo contesto è, molto banalmente, come partecipare a un sondaggio; e se a me domani mi chiama l’IPSOS, che in guerra per difendere i loro interessi di sicuro io non ci vado glielo dico volentieri, come gli dico volentieri che se la sinistra ZTL spera di avere il mio voto con la minaccia della destra autoritaria – che, in realtà, ai loro occhi ha il solo difetto di essere diventata la cocca prediletta di zio Biden – forse casca malino. La conseguenza immediata di questo ragionamento (se lo condividete) è che, a questo giro, la trappola del voto utile – che a volte è ragionevole e ha un suo valore – conta meno di zero; questo è un voto inutile per definizione e, quindi, datelo un po’ a chi vi pare, senza troppi tatticismi. Ma soprattutto, dopo aver speso un quarto d’ora per votare, se vi sta un po’ a cuore il vostro destino, le vostre energie, più che a disquisire e a dividervi su queste vaccate provate a spenderlo per costruire insieme una vera alternativa a partire da un vero media che, invece che alle vaccate dei Tito e degli euroinomani, dia voce al 99% e che, per nascere, ha bisogno di tutto il tuo sostegno. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Emma Bonino

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Perché il CAPITALISMO è incompatibile con la DEMOCRAZIA

I greci pensavano che il mondo fosse stato creato da un uovo che aveva generato un essere dall’aspetto sia femminile che maschile, con le ali d’oro, le teste di toro sui fianchi e un enorme serpente sul capo; gli antichi Maya, invece, pensavano che l’umanità fosse germogliata dal suolo da un impasto di terra e mais. Nell’Occidente industrializzato, intere generazioni educate alla scienza e ai lumi della ragione hanno a lungo creduto che il capitalismo e la democrazia fossero perfettamente compatibili l’uno con l’altro; anzi, che fossero proprio fatti della stessa pasta. Bene, si dirà: in fondo ogni civiltà ha bisogno di costruire i propri miti per sopravvivere; ma giunti nel 21esimo secolo e con le crisi epocali che stiamo attraversando, tante persone stanno finalmente aprendo gli occhi e a questa favoletta non ci credono più.

Wolfgang Streeck

Wolfgang Streeck, il più importante sociologo tedesco contemporaneo, e Micheal Hudson, probabilmente uno dei più grandi economisti viventi, gli occhi li hanno aperti da tempo e nel loro decennale lavoro di ricerca hanno ormai in lungo e in largo dimostrato l’assoluta impossibilità che capitalismo e democrazia possano convivere in una stessa società. La democrazia è quella forma di governo che poggia sull’idea della partecipazione al potere dei cittadini, della redistribuzione della ricchezza e del primato dell’interesse comune sull’interesse privato; prodotto del pensiero democratico sono stati i sindacati, la sanità e la scuola pubblica, i diritti dei lavoratori e il suffragio universale. Il capitalismo, invece, è un sistema economico e sociale oligarchico che tende naturalmente alla concentrazione di ricchezza in mano a un gruppo di persone sempre più ristretto e che trasforma questa concentrazione di potere economico anche in potere politico, privando così la maggioranza delle persone sia della possibilità di partecipare al governo della cosa pubblica, sia di quella di autodeterminare la propria esistenza; prodotti del capitalismo sono l’individualismo consumistico, la privatizzazione dei servizi e degli spazi pubblici e la crescita senza limiti delle diseguaglianze sociali. “Questi due disegni di società, a cui si contrappongono anche visioni antropologiche e filosofiche differenti” afferma perentorio Streeck nel suo Come finirà farà il capitalismo? Anatomia di un sistema in crisi “non possono chiaramente coincidere. O l’uno, o l’altro.” “Le economie occidentali” sottolinea invece Hudson in The Destiny of civilization “si trovano di fronte a una scelta: ridursi all’austerità finanziarizzata e distruggere definitivamente ogni spazio democratico o fare il passo di ricominciare a distribuire la ricchezza e porre fine al domino delle oligarchie neofeudali”. E quelle di Hudson e Streeck non sono più voci isolate, e da tutte le scienze sociali arrivano studi e ricerche che dimostrano l’incompatibilità scientifica ed empirica di questi due opposti metodi di governo e visioni del mondo. “Ma come mai nonostante sia ormai diventato così palese” si chiede Streeck “è così difficile per tante persone accettare che le nostre ex democrazie si siano trasformate ormai da tempo in tecnocrazie di mercato che non rispondono più al controllo popolare?” “Troppi, credo” si risponde Streeck “sono ancora abituati alla tipica immagine del colpo di stato che abolisce in un sol colpo la democrazia: elezioni annullate, leader dell’opposizione e dissidenti in prigione, stazioni televisive consegnate a truppe d’assalto sul modello argentino o cileno.” Ma non è certo questo l’unico modo per porre fine a una democrazia e dar vita a regimi oligarchici e autoritari: in Occidente ad esempio, è avvenuto in modo molto diverso e cioè, semplicemente, quando con la svolta neoliberista si è deciso di lasciare il capitalismo libero di svilupparsi senza più freni e vincoli comunitari. In ogni caso, questo non è più certo il tempo di piangersi addosso e Hudson e Streeck ci indicano anche le possibili strade per sconfiggere questo cancro politico, economico e culturale.
C’è una buona notizia dentro una cattiva notizia esordisce Streeck in uno dei saggi di Come Finirà il capitalismo?. A un’intera generazione di occidentali la Guerra Fredda è stata raccontata come uno scontro fra democrazia e tirannia finita con la netta vittoria del capitalismo e, quindi, della democrazia: la cattiva notizia è che oggi la crisi delle democrazie occidentali si è talmente acuita che questo racconto mitologico si sta rivelando una menzogna; la buona notizia, invece, è che finalmente se ne ricomincia a parlare. Alle origini, riflettono Streeck e Hudson, il capitalismo portò effettivamente a una fase di maggiore partecipazione politica e di primordiale espansione dei diritti e questo perché la più numerosa classe borghese del tempo lottava contro i privilegi feudali della ristrettissima classe aristocratica; in quel breve attimo della storia, dunque, la sconfitta degli ereditieri feudali ad opera degli imprenditori capitalisti segna realmente un progresso generale non solo economico, ma anche civile e politico e questo sicuramente è il grande merito storico del capitalismo. Questa fase, però, è finita da un pezzo e – come ha insistito più volte Hudson nell’intervista che ci ha recentemente rilasciato – la società contemporanea somiglia molto di più proprio alla vecchia società feudale che non allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini: durante tutto il ‘900, infatti, nonostante nel senso comune capitalismo e democrazia siano usati quasi come sinonimi, i capitalisti si sono sempre opposti a riforme democratiche e di ampliamento dei diritti sociali e senza le battaglie socialiste sarebbero entrambi rimasti pura utopia; per fare un esempio, i socialisti europei dovettero lottare contro i regimi capitalisti autoritari in Germania, Francia, Italia e ovunque nel mondo anche solo per ottenere il suffragio universale maschile e poi quello femminile, e la stessa cosa si potrebbe dire per le battaglie per l’introduzione di servizi pubblici universali come l’istruzione, la sanità, la cura dell’infanzia e le pensioni per gli anziani. Il Manifesto di Marx ed Engels, giusto per citare nomi a caso, si conclude con un fervido appello ai lavoratori affinché vincano la battaglia per la democrazia contro le oligarchie economiche; anche Il trentennio d’oro del secondo dopoguerra, durante il quale le nazioni europee diedero veramente vita a delle socialdemocrazie, non fu il frutto di un capitalismo buono e moderato, ma il prodotto di una classe lavoratrice particolarmente organizzata e consapevole e di una classe capitalista sulla difensiva sia dal punto di vista politica che economico. Purtroppo, come non smetteremo mai di ripetere, con la controrivoluzione neoliberista avviata nella seconda metà degli anni ‘70 i rapporti di forza sono radicalmente cambiati, con tutte le conseguenze che stiamo vivendo; Milton Friedman, guru degli economisti neoliberali, diceva “Una società che ponga l’uguaglianza prima della libertà non otterrà nessuna delle due. Invece, una società che antepone la libertà all’uguaglianza è in grado di raggiungere un livello superiore di entrambe”.
Ma di quale forma di libertà parlavano Friedman, Thatcher, Reagan e, in generale, tutte le bimbe del neoliberismo di destra e di sinistra? Fondamentalmente, della libertà delle oligarchie di muovere i capitali un po’ ovunque in giro per il mondo e di speculare sui mercati senza più alcun ostacolo comunitario o di interesse nazionale; peccato, però, che questa libertà implichi una riduzione di tutte le altre libertà e diritti della maggioranza delle persone: “Ci sono essenzialmente due tipi di società” scrive Micheal Hudson in The Destiny of civilizazion: “le economie miste con pesi e contrappesi pubblici, e le oligarchie che smantellano e privatizzano lo Stato, prendendo il controllo del suo sistema monetario e creditizio e delle infrastrutture di base per arricchirsi, soffocando l’economia. Un’economia mista in cui i governi mirano a combinare il progresso economico con la stabilità sociale può sopravvivere solo resistendo al tentativo delle famiglie più ricche di ottenere il controllo del potere pubblico.” La svolta neoliberista, insomma, è il momento in cui le oligarchie sono state abbastanza forti da imporre il secondo modello – quello a loro più congeniale – e con l’inesorabile avanzare della finanziarizzazione, fatta di privatizzazioni dei servizi pubblici essenziali, attacco indiscriminato allo stato sociale, guerra senza frontiere a tutti i corpi intermedi e aumento senza limiti delle diseguaglianze sociali, anche la democrazia non poteva che perdere qualsiasi sostanza e significato; in fondo, se ci pensiamo, non c’è cittadino comune dei paesi cosiddetti democratici che non provi un senso di rassegnazione e abbia l’impressione di vivere un mondo in cui, qualunque cosa faccia o voti, ha perso comunque il potere di cambiare le cose. “Ma stando così le cose” si chiede giustamente Streeck “come mai non si è ancora diffusa in Occidente un’ideologia apertamente antidemocratica e le oligarchie si ostinano a tenere in vita queste complesse procedure democratiche?”
A dire il vero, negli ambienti cosiddetti progressisti e liberali qualche voce di protesta nei confronti del suffragio universale l’abbiamo già cominciata a sentire: ad esempio nel 2016, con l’accoppiata BrexitTrump che tanto fece gridare allo scandolo i salotti chic, oppure in Italia ogni volta che una qualche forza cosiddetta populista ottiene buoni risultati alle elezioni, ma – in linea di massima – dobbiamo riconoscere che ha ragione Streeck e la ragione è che la forma e le procedure democratiche sono, in verità, assolutamente utili e funzionali al potere oligarchico: è anzi proprio grazie al feticcio delle elezioni, riflette il pensatore tedesco, che questo sistema viene apparentemente legittimato a livello popolare; il compito delle attuali procedure democratiche è proprio quello di far apparire una società di mercato capitalista come una scelta del popolo e questo nonostante i suoi meccanismi siano chiaramente sottratti al vaglio popolare e nonostante sia una chiara scelta oligarchica di cui il popolo subisce le conseguenze. “Il capitalismo in Occidente” scrive “è oggi compatibile con la democrazia, nel senso che anche con le elezioni riesce tranquillamente a sterilizzare il potenziale redistributivo della politica democratica e allo stesso tempo fa affidamento sulla competizione elettorale per dare legittimità a questo stato di cose.”

Michael Hudson

La pensa così anche Michael Hudson: “Il modo apparentemente più ovvio per determinare se una società è democratica” scrive l’economista americano “è chiedersi se gli elettori sono in grado di attuare le politiche che desiderano. Recenti sondaggi d’opinione negli Stati Uniti mostrano una forte preferenza per l’assistenza sanitaria pubblica e la remissione del debito studentesco, ma nessun partito politico sostiene queste politiche. È ovvio” conclude amaramente “che queste vadano oltre la gamma consentita di opzioni aperte alla scelta democratica.” Insomma, a chi dice che finché ci sono libere elezioni il nostro mondo che ci circonda è quello che noi ci scegliamo, Hudson e Streeck rispondono che questo è semplicemente un mito, una leggenda metropolitana; e che nella dura realtà, oggi viviamo in una società regolata formalmente da procedure democratiche che nascondono una sostanza sociale capitalista e autoritaria, e rimossa dall’immaginario ogni politica redistributiva – aggiunge ironico Streeck – i cittadini democratici sono finalmente liberi di interessarsi degli spettacoli pubblici offerti dai loro leader e star più in voga. Dalla contrapposizione destra – sinistra al politicamente corretto, alle discussioni sul bon ton di quello o quell’altro politico nazionale, la post democrazia ci offre un catalogo praticamente infinito di pseudo dibattiti, non consentendo mai alla noia di avere il sopravvento; come ripete sempre il nostro Tommaso Nencioni, siamo di fronte alla politicizzazione delle puttanate e alla depoliticizzazione di tutto quello che ha un vero impatto sulle nostre vite.
A queste severe analisi di Hudson e Streeck si potrebbe però ribattere che la globalizzazione capitalistica stia alimentando anche diverse istanze di emancipazione, dalle nuove lotte femministe contro le discriminazioni sessuali alle rivendicazioni degli immigrati e, in generale, di tutte le minoranze; una spiegazione interessante di questi fenomeni emancipatori ce la offre l’economista Emiliano Brancaccio in un’intervista rilasciata a Jacobin Italia: “Il punto da comprendere è che la centralizzazione capitalistica, inesorabilmente, tanto tende a concentrare il potere di sfruttamento in poche mani quanto tende a livellare le differenze tra gli sfruttati.” Che si tratti di donne o di uomini, di nativi o di immigrati, man mano che si sviluppa il capitale tratterà questi soggetti in modo sempre più indifferenziato, come pura forza lavoro universale; questo processo di omologazione mette in crisi le vecchie tradizioni e valori, disintegra gli antichi legami di famiglia basati sulla soggezione della donna all’uomo e allenta sempre di più i confini nazionali e le rispettive identità culturali: “Col tempo” scrive Brancaccio “il capitale ci rende tutti uguali, e questo è il suo aspetto progressivo e universalistico. Ma ci rende tutti uguali nello sfruttamento, e questo è il suo aspetto retrivo e divisivo.” Si tratta, insomma, di un movimento contraddittorio a cui guardare – come a ogni fenomeno culturale capitalista – con sguardo critico, senza bigottismi nostalgici né infantili entusiasmi progressisti: “Il fatto che il capitale ci renda tutti sudditi, ma senza differenze” conclude Brancaccio “non è negativo in sé come ci dicono i sovranisti reazionari, ma non è nemmeno positivo in sé come ci dicono i globalisti liberali: è positivo se quella tendenza progressiva a rendere tutti i lavoratori egualmente sfruttati si trasforma in un rinnovato antagonismo di classe.”, e quindi se non si trasforma, detta in soldoni, in una guerra individualistica contro il passato in nome di un futuro ipercapitalista.
Ma insomma, dobbiamo chiederci, si può davvero ancora sperare in una rinascita democratica? Di quanta politica seria sono disposti ad occuparsi oggi le masse postdemocratiche? E quante persone credono ancora che esistano beni collettivi per i quali valga la pena lottare? Negli ultimi anni, scrive Hudson “gli sfruttatori hanno quasi sempre mostrato una volontà molto maggiore di difendere i loro guadagni con la violenza di quanto le vittime siano disposte a combattere per proteggersi o ottenere riforme sostanziali.” Ma la nostra risposta non è disfattista: ce ne sono, e ce ne saranno sempre di più e il punto di partenza è che sempre più persone metteranno a fuoco questa assoluta incompatibilità strutturale tra capitalismo e democrazia. Sul piano della sfida politica, la possibilità di restituire senso al concetto di democrazia non può fare a meno di un processo di riforme che restituiscano ossigeno alla maggioranza della società, emancipandola dal ricatto materiale dentro e fuori i luoghi di lavoro, un percorso che rimetta al centro le grandi e mai tramontate questioni del diritto alla casa, alla sanità, alla democrazia nei luoghi di lavoro, all’istruzione; una battaglia quotidiana da accompagnare a due ingredienti fondamentali: controllo dei movimenti dei capitali sul piano nazionale ed europeo e una forte pianificazione economica. “Come contrapporre ad esempio il diritto all’abitare a quello della speculazione e della rendita” riflette Streeck “se non imponendo in maniera trasversale e sistematica limiti alla proprietà immobiliare e alla speculazione sui prezzi degli affitti?”; tutte le evidenze empiriche ormai ci dicono che la libertà di movimento dei capitali da un lato favorisce i profitti a danno dei salari e, dall’altro, alimenta l’instabilità macroeconomica e il caos delle relazioni internazionali. La nostra prima esigenza politica, dunque, è quella di reprimere la libertà di movimento del capitale per ridare slancio a tutti gli altri diritti – civili, politici e sociali; ma chi sarebbe materialmente in grado di portare avanti questa rinnovata subordinazione del mercato finanziario agli interessi della collettività? Streeck sembra piuttosto pessimista che tutto questo possa avvenire a un livello sovranazionale: “Se non c’è nulla nell’Europa sovranazionale che possa fornire il tipo di coesione sociale e di solidarietà e governabilità necessario, se tutto ciò che c’è a livello sovranazionale sono gli Junker e i Draghi, allora la risposta generale è che invece di fare come Don Chisciotte e cercare di estendere la scala della democrazia a quella dei mercati capitalistici, bisogna fare il possibile per ridurre la scala di questi ultimi e adattarla alla prima.” In altre parole, il mercato deve essere riportato nell’ambito del governo nazionale democratico. Staremo a vedere.
Quello che è sicuro è che per invertire la rotta serve prima di tutto convincersi dell’intrinseca antidemocraticità del capitalismo, ma per farlo avremo bisogno di un media libero e dichiaratamente democratico che combatta la propaganda delle oligarchie che fingono pure di essere state scelte e volute da noi. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal .

E chi non aderisce è Mario Draghi

FONDAMENTALISMO DEMOCRATICO: come la propaganda ha capovolto il concetto di Democrazia

“Sostenere Israele e Ucraina è vitale per l’America. Dobbiamo tornare ad essere l’arsenale della democrazia”: così ha detto zio Joe Biden nel suo discorso alla nazione il 20 ottobre scorso. Un discorso che mette in evidenza l’idea di democrazia che ha l’élite statunitense: un brand made in USA – con tanto di copyright regolarmente registrato – e da brandire come un’arma a proprio piacimento, mentre tutti i paesi o le entità che non posseggono il suddetto marchio di provenienza sono considerati “Stati canaglia”, incarnazioni del Male da estirpare. Questo è il succo di quel ‘fondamentalismo democratico’ – per citare Luciano Canfora – che ritiene il sistema politico-economico e il modo di vivere occidentale come l’unico ammissibile.

Emiliano Alessandroni

Quello di democrazia, insieme a quello di libertà, è probabilmente il concetto in assoluto più abusato nel discorso politico occidentale. Basta aggiungerne un pizzico un po’ a caso e tutto diventa magicamente più bello : governo democratico, partito democratico, forze democratiche, metodi democratici, sentimenti democratici, spirito democratico e chi più ne ha più ne metta. Ed è proprio a causa di questo abuso retorico che occorre compiere un’opera titanica di messa in questione, di problematizzazione e di decostruzione del concetto stesso, che è proprio quello che fa Emiliano Alessandroni nel suo Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici, un’opera ambiziosa che non si ponte tanto l’obiettivo, appunto, “di raccontare la democrazia, quanto quello di problematizzarla” e cioè “di liberare la sua narrazione e il suo concetto dalle semplificazioni tutt’oggi in voga”.
Se c’è un dogma che l’apparato giornalistico-mediatico propaganda quotidianamente è quello di identificare la democrazia occidentale con il Bene, in contrapposizione alle dittature – cioè a tutti i sistemi politici diversi da essa – che vengono identificati in blocco con il Male. A questo pensiero astratto, cioè fisso e astorico, Alessandroni contrappone un pensiero dialettico nel quale i termini non sono essenze, sostanze opposte, ma processi storici che si compenetrano. L’idea di Alessandroni è tanto semplice quanto dirompente: ci sono stati e ci possono essere processi di emancipazione, ossia conquiste realmente democratiche, in ciò che definiamo dittature, come d’altronde ci sono stati e ci possono essere processi di de-emancipazione, ossia regressioni dispotiche, in ciò che definiamo democrazie. Per mandare in tilt il manicheismo storico-filosofico del pensiero liberaloide contemporaneo, basta e avanza: per i pensatori liberali, infatti, il concetto di democrazia tutto sommato può essere ridotto a un assetto giuridico-politico specifico, e cioè il sistema caratterizzato dalla “competizione elettorale”. Se c’è siamo in una democrazia, sennò no. Aut aut. Semplice e chiaro.
Per Alessandroni, però, le cose sarebbero leggermente più articolate. Primo: il processo della competizione elettorale – sottolinea – sarebbe marcatamente influenzato dal potere economico -finanziario, che ha in mano anche quello mediatico. Chi ha più soldi ha, oggettivamente, più chance di far passare le sue idee e far eleggere i suoi politici di fiducia. Secondo: il diritto di voto nelle democrazie può essere ristretto a una minoranza o, comunque, escludere grandi masse di popolazione. Nella democrazia greca, ad esempio, è risaputo che votassero solo i maschi adulti, figli di padre e madre ateniese e liberi di nascita. Terzo: uno Stato giuridicamente democratico può attuare una politica dispotica di sterminio e colonizzazione verso altri popoli o altre nazioni; Israele è, ad esempio, giuridicamente una democrazia, ma agisce come despota verso la popolazione palestinese. Tutto questo non significa di per se, ovviamente, non riconoscere alla “competizione elettorale” un ruolo potenzialmente emancipatorio; piuttosto si tratta, molto semplicemente, di sottolinearne limiti – se non addirittura contraddizioni – che la propaganda cela con le sue semplificazioni manicheiste. “Se merito della tradizione liberale è stato insistere sull’idea di “democrazia giuridico-politica”, necessaria per la decentralizzazione del potere” sottolinea infatti Alessandroni, il dovere “della tradizione che fa riferimento al materialismo storico è focalizzare l’attenzione sui concetti di democrazia sociale e di democrazia internazionale, che soli permettono a quella giuridico-politica di ambire a una certa dose di universalismo, ed evitare che si trasformi in un paravento per nuove forme di dominio e di accentramento del potere nelle mani di una minoranza, anche se con modalità meno rozze e più sofisticate”. “Soltanto l’unità combinatoria di questi tre concetti e la loro declinazione universale” sottolinea infatti Alessandroni, “può incarnare la sostanza democratica. Come che sia, pare evidente quanto, lungi dall’esser giunti alla fine della storia, come teorizzava Francis Fukuyama, il cammino verso la democrazia rimanga piuttosto, allo stadio attuale, ancora inesorabilmente lungo”.
Proprio per questo motivo non bisogna cadere nella propaganda dell’ideologia democraticista, che è funzionale alla giustificazione dell’assetto di dominio vigente nello stesso modo in cui, nell’Ottocento, il ricorso al termine libertà era utilizzato dai padroni di schiavi per giustificare e moralizzare l’istituto della schiavitù. “Con democrazia” scrive infatti Alessandroni “si tende a indicare, nell’attuale presente storico, il sistema di dominio dell’Occidente. E quelle autentiche spinte democratiche, che (..) sorgono al di fuori del perimetro occidentale, vengono rappresentate, dalla nostra pubblicistica, sotto forma di minacce nei confronti della democrazia”. Da questo punto di vista, conclude Alessandroni, proprio “Come nell’antica Atene” anche oggi “il termine democrazia assolve la funzione ideologica di occultare e giustificare un determinato sistema di dominio”. E’ proprio il ricorso spregiudicato a questa ideologia, ad esempio, a permettere di occultare il fatto che quello che è considerato comunemente il paese guida del mondo democratico – gli Stati Uniti d’America – sia, a tutti gli effetti, l’esempio più fulgido di dispotismo nei rapporti internazionali. Una verità palese e arcinota soprattutto a tutti quei paesi che hanno sperimentato la condizione coloniale e l’aggressione armata. Dalla loro prospettiva di colonizzati e aggrediti, la democrazia non giunge certo da Occidente tramite le bombe e neanche dal suo avamposto mediorientale, ossia Israele. “Lo Stato di Israele” si chiede infatti retoricamente Alessandroni “costituisce davvero il migliore prototipo di democrazia e di libertà del Medio Oriente, come spesso si è sostenuto e si continua a sostenere? E ritornando nuovamente sul piano teorico, può essere ritenuto democratico un paese che manifesta un’evidente inclinazione coloniale? Ovvero, democrazia e colonialismo possono essere compatibili?”In termini di democrazia sostanziale, ovvero di una democrazia che non sia riducibile astrattamente alla sola “competizione elettorale”, la risposta è molto semplice: no, democrazia e colonialismo non sono compatibili.

Edward Said

Ma come mai – occorre domandarci – quando si parla di democrazia non si tiene conto di questi fattori così importanti? Come mai si considera determinante, per riconoscere un soggetto come democratico, soltanto il suo sistema elettorale interno e non anche le relazioni che esso instaura con gli altri soggetti? La risposta è piuttosto semplice: si chiama egemonia culturale che, per dirla con Edward Said, si nutre di 5 grandi narrazioni: la prima è quella che si concentra sulla distinzione ontologica tra Occidente e resto del mondo, il giardino ordinato contro la giungla selvaggia che lo circonda e lo minaccia, per dirla con il ministro degli esteri dell’unione europea Josep Borrell. La seconda è volta a codificare e naturalizzare la differenza tra noi e loro: noi siamo umani mentre loro no. La terza si fonda sulla retorica della missione civilizzatrice: noi occidentali bombardiamo sempre per il Bene e la democrazia e i bombardati, alla fine, ce ne saranno grati. La quarta mira alla diffusione massiccia dell’ideologia imperiale: una vera azione pedagogica intrapresa da tutti i lavoratori culturali, dai giornalisti ai registi cinematografici e ai vignettisti, rivolta tanto ai colonizzatori quanto ai colonizzati. La quinta è quella più specificatamente letteraria, capace di creare storie e immagini molto potenti in grado di esaltare la cultura imperiale: è la contrapposizione onnipresente in ogni tipo di prodotto culturale tra personaggi positivi – espressione della mentalità e dei valori imperiali – e personaggi negativi, espressione della cultura dei popoli sottomessi. Queste narrazioni unite diventano una Grande Narrazione che non ci fa immedesimare nella sorte dei colonizzati ma in quella dei colonizzatori, perseguitati dal “fardello” della loro “missione civilizzatrice”.
Fortunatamente, però, possiamo sempre cambiare prospettiva e rigettare la distinzione manichea e razzista tra noi e loro, onnipresente nei talk show televisivi venti anni fa come oggi; “cosa intende dire con “noi” il commentatore delle notizie serali” scriveva infatti Said già nel 2004 “quando chiede educatamente al segretario di Stato se le “nostre” sanzioni contro Saddam Hussein erano giustificate, mentre milioni di civili innocenti, non di membri dello “spaventoso regime”, vengono uccisi, mutilati, affamati e bombardati perché noi possiamo dare prova del nostro potere? O quando il giornalista televisivo chiede all’attuale segretario di Stato se, nella nostra furia di perseguire l’Iraq per le armi di distruzione di massa (che in ogni caso nessuno è mai stato in grado di trovare), “noi” applicheremo a tutti lo stesso principio e chiederemo a Israele di rendere conto delle armi in suo possesso senza ottenere risposta? […] Bisognerebbe trovare il coraggio” conclude Said “di dire nel modo dovuto: io non faccio parte di questo “noi”, e quello che “voi” fate, non lo fate in mio nome”.

Joe Biden

Se anche tu non vuoi più far parte di quel “noi” e vuoi combattere per un’informazione che sostenga la lotta degli oppressi e non dia corda alla propaganda degli oppressori, l’appuntamento è per domani mercoledì 8 novembre alle 21:00 in diretta su Ottolina TV con una nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina TV in collaborazione con Gazzetta filosofica. Ospite d’onore Emiliano Alessandroni, docente presso le cattedre di Letteratura italiana, Filosofia contemporanea e Filosofia politica all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo“. E se, nel frattempo, anche tu credi che per una democrazia reale in grado di combattere l’imperialismo anche sul piano culturale prima di tutto ci sarebbe bisogno di un vero e proprio media che dia voce agli interessi concreti del 99%, aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina TV su GoFundMe e su PayPal .

E chi non aderisce è zio Joe Biden