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Tag: turchia

La NATO a capofitto verso la terza guerra mondiale – ft. Giacomo Gabellini

Oggi i nostri Clara e Gabriele intervistano Giacomo Gabellini attorno le dinamiche diplomatiche e belliche in atto nel continente euroasiatico. Le mosse turche e ungheresi segnano un cambio di passo nella politica europea e NATO verso l’Ucraina e la Russia, contrapponendo un fronte in dialogo con Trump (quasi certamente il prossimo presidente USA) per il raggiungimento di una soluzione diplomatica nell’Est Europa. Non mancano le tensioni nel Pacifico e nel Mar Cinese, dove il Giappone si muove alla ricerca di proprie certezze belliche in caso di conflitto. Buona visione!

#NATO #USA #Orban #Turchia #Trump #Ucraina #Giappone #Cina

L’Europa si sta esponendo a un disastro geopolitico e geoeconomico enorme – ft. Giacomo Gabellini

Oggi il nostro Gabriele intervista Giacomo Gabellini per parlare di quanto sta accadendo in giro per il mondo. Si spazia dal G7 al fronte ucraino, dalle sanzioni europee verso le auto cinesi fino al vertice dei BRICS+ su cui troneggia la richiesta di adesione turca al gruppo. Intanto l’Europa prosegue la propria aggressività verso gli ex partner euroasiatici (Russia e Cina in primis) andando dritta verso una catastrofe geopolitica e geoeconomica che la danneggerà in prima persona, lasciando invece gli USA relativamente sicuri tra due mari e ricchi di risorse. Sulla stessa barca sembra trovarsi Israele, impantanato nella striscia di Gaza e ora rivolto – in modo problematico – verso nord, dove il Libano ed Hezbollah ribollono. Buona visione!

#geopolitica #G7 #brics #sanzioni #Russia #Libano

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Xi Jinping in viaggio in Europa per dividere l’Europa?

La prossima settimana Xi Jinping andrà in Europa, con un’agenda piuttosto particolare: Francia, Serbia e Ungheria, tre paesi che normalmente non associamo l’uno con l’altro, ma che evidentemente per i cinesi rappresentano un priorità. Il tentativo è quello di inserirsi come cuneo nelle relazioni tra USA ed Europa, uno sforzo per cercare di attirare parti dell’Europa che la Cina ritiene potrebbero essere più in sintonia con la sua posizione. Ne parliamo in questo video!

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Israele vuole strangolare Gaza – ft. Michela Arricale

Questa sera Michela Arricale ci ricostruisce la vicenda della Freedom Flotilla, un gruppo di ONG e attivisti che tramite alcune imbarcazioni vuole forzare il blocco di Gaza per portare aiuti alimentari e medicinali alla popolazione. Il gruppo presenta già un pericoloso precedente nel 2010, quando le autorità israeliane uccisero dieci cooperanti, tutti di cittadinanza turca. Il progetto ha portato anche ad alcune tensioni tra il governo di Ankara e quello di Tel Aviv, entrambe però parte del più grande schieramento filo-occidentale e filo-statunitense nel mondo. Buona visione!

#Gaza #Turchia #Israele #Palestina

“Fino all’ultimo ucraino!” – Quando la NATO fece fallire i colloqui di pace tra Ucraina e Russia.

“Volete la pace o il condizionatore acceso?” ha chiesto una volta lo statista Draghi all’opinione pubblica italiana per convincerci della bontà delle sanzioni economiche contro la Russia. Ecco, russi ed ucraini, dopo appena due mesi dallo scoppio del conflitto e dopo lunghi e complicati colloqui di pace, avevano scelto la pace; peccato che i governi occidentali, invece, scelsero la guerra. Non è una novità: i professionisti della disinformazione al soldo di Putin avevano provato a insinuare nel dibattito pubblico italiano un’ipotesi simile sin dall’inizio, provando così a inquinare la purezza del messaggio trasmesso a reti unificate sul sostegno incondizionato del mondo libero alle libere scelte del popolo libero e sovrano di Ucraina. La novità è che, da qualche tempo a questa parte, la stessa tesi complottista hanno cominciato a sostenerla anche alcuni media mainstream, portando scompiglio nel partito unico dei sostenitori della tesi dello scontro insanabile tra i valori del mondo libero e democratico e la ferocia barbarica dell’autoritarismo che arriva da Oriente; un senso di smarrimento generalizzato al quale gli alfieri della libertà di parola e di espressione, in nome della quale sono pronti a combattere la loro guerra contro l’autoritarismo fino all’ultimo ucraino, hanno deciso di reagire voltando la testa dall’altra parte e fischiettando spensierati.
Purtroppo per loro, le armi di distrazione di massa hanno le gambe corte e la verità, nonostante tutti gli ostacoli, torna sempre ostinata a bussare la porta: a questo giro, ha bussato alla porta di Foreign affairs, la testata del Council on Foreign Relations, probabilmente il think tank dell’impero più autorevole e influente in assoluto, da sempre luogo nevralgico per l’elaborazione dell’agenda bellicista dei neoconservatori di entrambi gli schieramenti politici; I colloqui che avrebbero potuto porre fine alla guerra in Ucraina titolano: la lunga inchiesta ricostruisce nel dettaglio i colloqui di pace tra ucraini e russi tenutisi prima in Bielorussia e poi in Turchia tra il marzo e il maggio del 2022, colloqui durante i quali le due parti erano arrivate a un passo da un accordo prima che gli iniziali successi militari ucraini sul campo di battaglia e la promessa a Zelensky di sostenerlo fino alla vittoria totale facessero saltare tutto per aria. Per ricostruire tutto questo, due fedeli atlantisti come Samuel Charap della RAND Corporation e e Sergey Radchenk della John Hopkins University hanno esaminato i progetti di accordi scambiati tra le due parti, condotto interviste con diversi partecipanti ai colloqui ed esaminato numerose interviste e dichiarazioni a funzionari ucraini e russi. Quello che emerge è che – come i complottisti sobillavano da tempo – a nessuno dei nostri governi è mai importato un bel nulla della sovranità territoriale dell’Ucraina e che la guerra in Ucraina è sempre stata solamente un tassello della terza guerra mondiale a pezzi condotta contro chiunque metta in discussione il dominio globale dell’impero.
Alla fine di marzo 2022, a un mese dallo scoppio del conflitto, russi e ucraini – dopo una serie di incontri in Bielorussia e in Turchia – producono il cosiddetto Comunicato di Istanbul, che descrive un quadro di massima per un possibile accordo di pace futuro; da quel momento, negoziatori ucraini e russi iniziano a lavorare a un trattato di pace compiendo progressi sostanziali verso un accordo. A inizio maggio però, inspiegabilmente, tutto d’un tratto, i colloqui si interrompono; cos’è successo? E quanto vicini erano arrivati a porre fine alla guerra? È a queste domande che vuole rispondere l’inchiesta di Foreign affairs: “Quando abbiamo messo insieme tutti questi pezzi, quello che abbiamo scoperto è sorprendente e potrebbe avere implicazioni significative per i futuri sforzi diplomatici per porre fine alla guerra” scrivono gli autori dell’inchiesta; “Nel bel mezzo dell’aggressione senza precedenti di Mosca” sottolineano i due ricercatori atlantisti “i russi e gli ucraini hanno quasi concluso un accordo che avrebbe posto fine alla guerra e fornito all’Ucraina garanzie di sicurezza multilaterali, aprendo la strada alla sua neutralità permanente e, in seguito, alla sua adesione all’UE”.

Aljaksandr Lukašenko con Vladimir Putin

I colloqui sono iniziati il 28 febbraio in una delle ampie residenze di campagna di Lukashenko, a circa 30 miglia dal confine tra Bielorussia e Ucraina; sul campo di battaglia, Putin – sostengono i due autori – non era riuscito a far cadere il regime di Zelensky in poco tempo come sperava mentre il governo ucraino, ancora sotto shock per l’attacco russo su tutti i fronti, era ben disposto a riconoscere a Mosca quello che non gli aveva riconosciuto nei quasi dieci anni precedenti di trattative: tutto questo creava le condizioni adatte affinché si arrivasse a un cessate il fuoco e a un compromesso accettabile per tutti. La delegazione ucraina, riportano gli autori, era guidata da Davyd Arakhamia, leader parlamentare del partito politico di Zelensky, e comprendeva il ministro della difesa Oleksii Reznikov, il consigliere presidenziale Mykhailo Podolyak e altri alti funzionari; la delegazione russa era guidata da Vladimir Medinsky, un consigliere senior del presidente russo che, in precedenza, aveva ricoperto il ruolo di ministro della cultura. Ai russi, si legge nell’inchiesta, importava soprattutto la neutralità ucraina, mentre Kiev voleva chiare garanzie di sicurezza che avrebbero obbligato altri Stati a venire in difesa dell’Ucraina se la Russia avesse attaccato di nuovo in futuro. “Il 10 marzo” ricostruiscono i due autori “il ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba – allora ad Antalya, in Turchia, per un incontro con il suo omologo russo Sergey Lavrov – ha parlato di una soluzione sistematica e sostenibile per l’Ucraina, aggiungendo che gli ucraini erano pronti a discutere delle garanzie che speravano di ricevere dagli Stati membri della NATO e dalla Russia”. A riprova di questo, il 14 marzo, proprio mentre le due delegazioni si incontravano via Zoom, Zelensky pubblica un messaggio sul suo canale Telegram chiedendo “garanzie di sicurezza normali ed efficaci”. Secondo l’inchiesta, anche Naftali Bennett, primo ministro israeliano all’epoca dei colloqui, avrebbe mediato attivamente tra le due parti mentre, per tutto il mese di marzo, i combattimenti continuavano pesantemente su tutti i fronti.
La svolta nelle trattative, nella ricostruzione di Foreign affairs, sarebbe arrivata il 29 marzo a Istanbul: dopo l’incontro nella capitale turca, le parti annunciano un comunicato congiunto e i termini vengono descritti a grandi linee durante le dichiarazioni alla stampa. Foreign affairs ha ottenuto la bozza completa del testo dell’accordo, che avrebbe previsto per l’Ucraina di diventare “uno Stato permanentemente neutrale e non nucleare rinunciando ad aderire ad alleanze militari o di consentire basi militari o truppe straniere sul suo territorio” e, come garanzia della sua sicurezza, i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU insieme a Canada, Germania, Israele, Italia, Polonia e Turchia in caso di attacco all’Ucraina sarebbero stati obbligati a fornire assistenza, obblighi, sottolinea l’articolo, “enunciati con molta maggiore precisione rispetto” addirittura anche “all’articolo 5 della NATO”. La Russia non chiedeva, quindi, carta bianca per riorganizzarsi e tornare a invadere impunita, con ancora maggior forza, l’Ucraina in futuro per brama di territori e di ricchezze da depredare, ma – molto semplicemente – la garanzia che l’alleanza aggressiva della NATO non fosse in condizione di utilizzare il protettorato ucraino per minare la sua sicurezza strategica; e, cioè, esattamente la tesi che per anni è stata etichettata come complottismo e propaganda putinista. Il comunicato di Istanbul, continuano gli autori, invitava poi le due parti “a cercare di risolvere pacificamente la controversia sulla Crimea nei prossimi 15 anni”; infine, la Russia avrebbe accettato di facilitare la piena adesione dell’Ucraina all’UE. Di confini e territori, invece – a riprova del fatto che era davvero l’ultimo dei problemi sia per Putin che per Zelensky – avrebbero parlato da ultimo i due presidenti in persona: “La bozza finale del 15 aprile” continuano gli autori “suggerisce che il trattato sarebbe stato firmato entro due settimane”; “A metà aprile 2022 eravamo molto vicini alla conclusione della guerra con un accordo di pace” avrebbe infatti confermato uno dei negoziatori ucraini, Oleksandr Chalyi, in un’apparizione pubblica nel dicembre 2023. Tutto sembrava fatto.
Ma cosa sarebbe stato, quindi, a far fallire i negoziati? “La risposta occidentale a questi negoziati” sono costretti ad ammettere i due autori “è stata certamente tiepida. Washington e i suoi alleati erano profondamente scettici riguardo alle prospettive del percorso diplomatico”; al contrario, sottolineano, i cosiddetti alleati scelsero di intensificare gli aiuti militari a Kiev e aumentare quello che definiscono espressamente il tasso di aggressività respingendo qualsiasi ipotesi di accordo. Sicuramente vi ricorderete la famosa missione ucraina dell’improbabile premier inglese Boris Johnson all’inizio dell’aprile del 2022, caratterizzata dal motto Combattere la Russia fino alla vittoria; in un’intervista dell’ormai lontano 2023, l’ex capo delegazione ucraina Arakhamia affermò chiaramente che “Quando siamo tornati da Istanbul, Boris Johnson è venuto a Kiev e ha detto che non avremmo dovuto firmare nulla con i russi e di continuare a combattere”. Anche il segretario di Stato americano Antony Blinken e il segretario alla difesa Lloyd Austin visitarono Kiev due settimane dopo Johnson e in conferenza stampa annunciarono: “La strategia che abbiamo messo in atto – un sostegno massiccio all’Ucraina, una pressione massiccia contro la Russia, la solidarietà con più di 30 Paesi impegnati in questi sforzi – sta avendo risultati concreti”.
Nell’articolo, Foreign affairs cerca, in tutti modi, di sminuire il peso della decisione occidentale nell’interruzione dei colloqui di pace e nella decisione ucraina di continuare la guerra, quasi come si vergognasse dei risultati della propria stessa inchiesta, ma non avevamo poi così tanto bisogno di loro per capirlo.
Oltre al buonsenso, ci sono anche le parole più volte pronunciate dall’ex primo ministro israeliano Naftali Bennet a dimostrarlo: in un’intervista del febbraio scorso, Bennet ricordava come tra la linea dei francesi e tedeschi, decisamente più pragmatici e propensi alla pace, e la linea oltranzista di Johnson, gli Stati Uniti alla fine scelsero la seconda e convinsero gli ucraini a fare altrettanto. La decisione fu, insomma, quella di “continuare a colpire Putin e non negoziare” dice Bennet. Insomma: una guerra che poteva finire con un bilancio di un migliaio di morti, con l’Ucraina in possesso di una parte dei territori oggi occupati dai russi, con milioni di sfollati in meno è stata trasformata dalla NATO in una guerra strategica per logorare la Russia, indebolire uno dei pezzi fondamentali del fronte che si batte per un nuovo ordine multipolare e rimandare, così, l’inevitabile collasso del progetto imperialistico statunitense, sulla pelle degli ucraini e dell’economia europea; una strategia, oltre che cinica e disumana, da molti punti di vista – e sempre più chiaramente – anche fallimentare e che, nei libri di storia del prossimo futuro, verrà probabilmente ricordata come il vero inizio del tramonto dell’ordine unipolare a guida americana che, ormai, sembra sempre più inarrestabile.
“L’Ucraina si avvia verso la sconfitta” ribadiva, ancora una volta, Jamie Dettmer su Politico mercoledì scorso; ed ecco che a tornare all’attacco è lo stesso Johnson, che così tanto impegno aveva messo nel far naufragare le trattative che avrebbero evitato tutto questo – garantendo vittoria sicura agli Ucraini – e che oggi si chiede sorpreso “Perché diavolo siamo così lenti nel fornire all’Ucraina le armi di cui ha bisogno?” per poi sottolineare con rara chiarezza cosa c’è davvero in ballo: “Se l’ucraina cade” afferma “per l’Occidente sarà una catastrofe. Sarà la fine dell’egemonia occidentale”. Tra tanti difetti, gli esaltati suprematisti come Johnson hanno sicuramente un grande pregio: dicono le cose come stanno. Chi vede la guerra come una difesa del diritto all’autodeterminazione dell’Ucraina e, quindi, pensa che la sua sconfitta sia una cosa triste e grave, ma che, alla fine del giro, stringi stringi, tutto sommato siano anche un po’ stracazzi loro, vive in un mondo parallelo: una vittoria russa significherebbe la fine dell’egemonia occidentale e, cioè, del diritto delle élite occidentali bianche – che sostanzialmente sono, con qualche rara eccezione qua e là, le stesse identiche persone e famiglie da 5 secoli a questa parte che, con la violenza delle armi e della finanza, si arricchiscono a dismisura sfruttando tutto il resto del pianeta. Da questo punto di vista, il caso di Boris Johnson è emblematico: è addirittura discendente diretto di Giorgio II.
Che questi siano terrorizzati per la fine del vecchio ordine fondato sui loro privilegi, ci sembra solo una buona notizia, sinceramente, e visto che chi nasce e cresce tra gli allori e s’è sempre ritrovato la tavola apparecchiata difficilmente sviluppa qualche talento particolare, il fatto che dei personaggi così abbiano, ancora oggi, voce in capitolo non può che avvicinare l’ora della loro fine; ed ecco così che il caro Johnson ha contribuito alla sua fine imponendo la volontà delle oligarchie occidentali di non firmare gli accordi a suo tempo e, ora, continua a dare il suo contributo. E invece di proporre una qualche exit strategy che faccia i conti con la realtà, rilancia la solita vecchia litania: sempre di mandare più armi all’Ucraina si tratta, solo che, due anni dopo, l’obiettivo al massimo non è certo vincere la guerra, ma tentare perlomeno di non perderla rovinosamente e, nel frattempo, di fare più danni possibili alla Russia, così impara.

Boris Johnson

Ma il rischio che, ormai, sia troppo tardi anche per questo obiettivo non particolarmente ambizioso sembra sempre più concreto: come ricorda Simplicius The Thinker sul suo profilo Substack, infatti “Ricordate il presunto milione di proiettili che la Repubblica Ceca avrebbe trovato per l’Ucraina? Ora il presidente ceco Peter Pavel ha confermato di aver stretto accordi solo per 180 mila, e forse di averne trovati altri 120 mila, anche se non sono stati ancora acquistati. L’intero numero” sottolinea Simplicius “è fondamentalmente ciò che la Russia produce al mese”; d’altronde, di paesi che hanno munizioni da dar via in un mondo che, grazie alla lotta contro la fine dell’egemonia dell’Occidente dei vari Boris Johnson si ritrova ormai impelagato in questa guerra mondiale a pezzi, non è che ne rimangano molti. Per arginare in minima misura questo gigantesco gap, allora, l’Occidente collettivo sembra aver deciso di far produrre di più agli stessi identici stabilimenti di prima, oltre ogni limite; risultato: nell’arco di un paio di settimane, due fabbriche dedicate alla produzione di munizioni da 155 millimetri negli USA e una in Gran Bretagna hanno preso fuoco. “L’urgente aumento dei programmi di produzione” commenta sempre Simplicius “ha semplicemente sovraccaricato l’invecchiamento e lo stress delle infrastrutture e della forza lavoro in questi siti, il che si traduce comprensibilmente in elevati rischi di incidenti industriali” e l’Ucraina, appunto, è soltanto uno dei fronti che richiede sempre più armi: di fronte all’impotenza dimostrata dall’impero contro l’Iran in Medio Oriente, gli USA hanno annunciato un nuovo pacchetto bello ciccione di armi a sostegno dello sterminio dei bambini palestinesi e per provare a evitare che la Cina si metta in testa che, visto che gli USA e i suoi vassalli stanno prendendo schiaffi contemporaneamente su ben due fronti diversi, magari è arrivata l’ora di chiudere definitivamente la partita anche nel Pacifico, anche nei confronti di Taiwan gli aiuti militari non fanno che aumentare. Risultato: ecco che i repubblicani, finalmente, sembrano aver deciso di approvare il megapacchetto di nuovi aiuti su tutti i fronti, che giace al congresso ormai da 4 mesi. “Sto cercando di fare la cosa giusta” ha detto lo speaker repubblicano della camera Mike Johnson per provare a giustificare il suo repentino cambio di rotta: “Sono convinto del fatto che Xi, Putin e l’Iran costituiscano davvero l’asse del Male e credo che si stiano coordinando. E credo che Putin, se glielo permettiamo, finita questa partita andrà sicuramente oltre e che, dopo l’Ucraina, verranno i paesi del Baltico e anche la Polonia”.
L’ironia è che, degli oltre 90 miliardi in questione tra Ucraina, Israele, Mar Rosso e Pacifico, il 60% – in realtà – non andrà direttamente in armi ai proxy per tentare di non perdere rovinosamente le diverse guerre, ma a rifornire gli arsenali svuotati del dipartimento della difesa USA. Dalla guerra per procura in Ucraina a quella contro gli stati sovrani del Medio Oriente, passando per la guerra economica alla Russia e alla Cina a suon di sanzioni illegali, l’impressione sempre più concreta è che l’impero sia ormai sostanzialmente impotente di fronte ai suoi avversari e che l’unica cosa che lo tenga ancora in vita è la volontà degli alleati vassalli di dissanguare i loro cittadini, per impedire che il difensore universale del diritto delle élite sanguisughe di vivere sulle spalle altrui crolli come un castello di carte; tutti i subalterni del pianeta, dai paesi del Sud globale alle masse popolari sfruttate dell’Occidente collettivo, hanno di fronte un’occasione senza precedenti di mettere fine al vecchio ordine fondato sullo sfruttamento e la violenza. Ma a raccontarvi il nuovo mondo che avanza non saranno certo i vecchi media: ci serve un vero e proprio nuovo media che dichiari guerra ai privilegi dei Boris Johnson e dia voce agli interessi e ai diritti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Boris Johnson

Turchia, Erdonomics: la scommessa del sultano

Le recenti elezioni amministrative pongono un problema per Erdogan nelle grandi città; pur non essendo la sconfitta preannunciata dai nostri media, si tratta comunque di un dato da osservare per il governo di Ankara. Alla radice di questo, forse il drastico cambiamento di politica monetaria nel paese, passato per un netto rialzo dei tassi di interesse in un anno. Ne parliamo con Vadim Bottoni, cercando di spiegare le passate e presenti scelte macroeconomiche del paese. Buona visione.

Il PIANO di ERDOGAN per la riconquista dell’eredità ottomana passa dal digitale

Siete proprio sicuri che il tempo passato a guardare serie in streaming o alla tv sia tempo sprecato? E lo è per voi o per chi le distribuisce e produce?
Oggi parliamo delle “dizi”, grossomodo l’equivalente turco delle serie, e cercheremo di analizzarne i lati geopolitici, geoeconomici e di influenza culturale. Il governo Erdogan, al netto di qualche incomprensione con sceneggiatori e registi, ha usato le dizi per diffondere una certa immagine della Turchia nel mondo, tra modernità e tradizione, cercando di dare particolare diffusione a questi prodotti nell’ex Impero Ottomano e tra gli altri paesi emergenti. Il settore frutta oltre un miliardo di dollari l’anno ed è strettamente legato all’esplosione del turismo verso Istanbul.
I giovani arabi dopo la laurea o prima del matrimonio vanno a fare weekend lunghi in Turchia dove assaporano un mondo aperto all’Europa, ma nel solco della tradizione e della storia musulmana.

L’ALTRO GENICIDIO DEL MEDIORIENTE: perché l’Occidente nasconde il massacro dei curdi

Decine di migliaia di civili uccisi, centinaia di villaggi distrutti, milioni tra donne e bambini costretti a lasciare per sempre le proprie case. No, non parliamo del trattamento di Israele verso i palestinesi, ma del genocidio curdo che l’esercito turco, che è il secondo più grande della Nato, sta eseguendo in Mesopotamia.

Paolo Negro

I curdi, da 9 anni, stanno respingendo l’avanzata dell’ISIS e – quindi – stanno salvando l’Occidente da un’ondata di terrorismo senza precedenti: in cambio subiscono ancora oggi un massacro da parte del regime di Erdogan che sabota le infrastrutture civili, occupa illegalmente una parte della Siria per facilitare i corridoi dei terroristi dell’ISIS e che, negli ultimi mesi, sta commettendo omicidi quotidiani approfittando dell’attenzione mediatica su Gaza ed Ucraina. Io sono Paolo Negro, studio politica internazionale all’Accademia della modernità democratica e in questo video vi parlerò di questo genocidio e del motivo per cui se noi occidentali continueremo ad ignorarlo e ad accettare le politiche criminali dei nostri governi, saremo i primi a rimetterci la pelle.
Settembre 2014: l’ISIS assedia la città di Kobane a nord della Siria, al confine con la Turchia, all’interno dell’Amministrazione Autonoma che dal 2011 prende il nome di Rojava. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, oltre 400.000 persone sono costrette a lasciare le proprie case. La resistenza dei curdi è messa a durissima prova perché la superiorità militare dell’ISIS, apparentemente, è schiacciante; tutto merito del petrolio. E della Turchia. Come scriveva Martin Chulov sul Guardian, infatti, “Il commercio di petrolio tra i jihadisti e i turchi è stato ritenuto come prova di un’alleanza tra i due. I ricavi giornalieri tra 1 e 4 milioni di dollari affluiti nelle casse dell’ISIS per almeno sei mesi dalla fine del 2013 hanno contribuito a trasformare una forza ambiziosa con mezzi limitati in una potenza inarrestabile”. “Ci sono centinaia di unità flash e documenti sequestrati ed i collegamenti tra Turchia e ISIS sono innegabili” avrebbe poi dichiarato un alto funzionario occidentale all’Observer.

Martin Chulov

“La maggior parte dei combattenti che si sono uniti a noi all’inizio della guerra” avrebbe poi confessato un comandante dell’ISIS al Washington Post “sono arrivati attraverso la Turchia, e così hanno fatto le nostre attrezzature e forniture”. Il 19 gennaio del 2014, ad Adana, tre camion vengono fermati per un’ispezione di routine: “Quando sono stati fermati”, scrive il giornalista turco Burak Bekdil del think tank Middle East Forum, “gli agenti dell’intelligence turca hanno cercato di impedire agli ispettori di guardare all’interno delle casse”. Fortunatamente il tentativo non va in porto: le guardie non si lasciano intimidire e quello che si ritrovano di fronte è un vero e proprio arsenale di “razzi, armi e munizioni” destinati “all’ISIS e ad altri gruppi in Siria”. Secondo la ricostruzione di Bekdil il camion era stato caricato ad Ankara; i conducenti, poi, lo avrebbero portato fino al confine, dove alla guida sarebbe subentrato direttamente un agente dell’intelligence turca e, secondo Bekdil, “questo è accaduto molte altre volte”. Il 21 ottobre Bekdil è deceduto in seguito a un incidente stradale; negli ultimi articoli aveva aspramente criticato le posizioni di Erdogan nei confronti del genocidio israeliano a Gaza. Nel sanguinario e incandescente scacchiere del vicino Oriente, ognuno sceglie quali vittime omettere dal bilancio; fatto sta che, due mesi dopo il sequestro del carico, una registrazione audio ha offerto una lettura realistica della politica siriana del regime turco. I pezzi da novanta di Ankara, infatti, avrebbero affermato apertamente che un attacco alla Siria per la Turchia rappresenterebbe un’opportunità succulenta: “Un’operazione sotto falsa bandiera”, avrebbe affermato Il capo dello spionaggio Hakan Fidan, “sarebbe molto facile”. D’altronde, avrebbe sottolineato, avevano già inviato con successo duemila camion in Siria. “I comandanti dell’ISIS ci hanno detto di non temere nulla perché c’era piena collaborazione con i turchi”; a parlare dalle colonne di Newsweek, a questo giro, sarebbe nientepopodimeno che un tecnico delle comunicazioni dell’ISIS, dopo essere fuggito dallo stato islamico. “L’ISIS” continua “ha visto l’esercito turco come suo alleato, soprattutto nell’attacco contro i curdi in Siria. I curdi erano il nemico comune sia per l’ISIS che per la Turchia. Inoltre solo attraverso la Turchia l’ISIS è in grado di schierare i jihadisti contro le città curde a nord della Siria”.
Ma perché il secondo esercito della NATO ha bisogno anche dei terroristi dell’ISIS per sterminare i civili curdi? La risposta sta in quell’incredibile esperimento sociale che caratterizza il Rojava da qualche anno e che si chiama confederalismo democratico, un assetto istituzionale e politico che permette a Curdi, Arabi, Assiri, Caldei, Turcomanni, Armeni e Ceceni di vivere per la prima volta in pace nelle regioni di Afrin, Euphrates, Jazira, Raqqa, Tabqa, Manbij e Deir ez-Zor dopo secoli di conflitti religiosi ed ideologici. Non è un’utopia, non è una formuletta teorica valida solo nelle pagine di qualche accademico, ma è una realtà quotidiana che permette alla popolazione non solo di sopravvivere in condizioni disperate di guerra ma anche di sviluppare questo modello come paradigma per tutto il vicino Oriente e potenzialmente per il mondo intero. Fedeli nei secoli alla politica “divide et impera“, le potenze imperialiste sanno che pace ed autodeterminazione dei popoli nel vicino Oriente sarebbero catastrofiche per i loro interessi economici; il regime turco, in particolare, è impaurito dal confederalismo democratico perché sa che l ́unico modo per chiudere per sempre la questione nazionale curda in Turchia è quello di compiere prima lo sterminio dei curdi in Siria. Ma anche gli imperialismi occidentali, abituati a decidere arbitrariamente il destino del vicino Oriente, non vedono di buon occhio la rivoluzione del Rojava.

David Fromkin

Dalla fine della prima guerra mondiale, infatti, le potenze vincitrici hanno continuato a banchettare sui resti extra-anatolici del defunto impero ottomano, stipulando accordi diplomatici che hanno causato l’inizio di conflitti che perdurano da oltre 100 anni. “A peace to end all peace” è un saggio di David Fromkin del 1989 che spiega come tutte gli accordi stipulati con l’obiettivo di pacificare il vicino Oriente non fecero altro che inasprire ancora di più le tensioni tra i diversi popoli. Gli Alleati disegnarono i confini con la squadra ed il compasso senza tenere minimamente conto delle decine di etnie che popolavano quelle terre, ma considerando unicamente i rapporti di forza scaturiti dal primo conflitto mondiale: figure geometriche che potremmo definire ad minchiam, come dimostra lo storico James Barr nel saggio “A line in the sand” del 2011. Tra le due guerre, furono soprattutto Francia e Inghilterra a scegliere politiche e governi del vicino Oriente, mentre dal 1945 sono gli Stati Uniti a decidere il destino dell’area dando un sostegno concreto ai golpe nelle quattro nazioni che attualmente colonizzano le comunità curde: nel 1953 supportarono lo shah di Persia in Iran, tra il ‘56 ed il ‘57 fallirono tre colpi di stato in Siria, addestrarono i militari turchi per il golpe del ‘60 e nel 1963 rovesciarono il governo populista di Abd al-Karim Qasim in Iraq. Il capolavoro politico degli Stati Uniti, però, rimane il finanziamento dei gruppi ribelli in Iraq nel 1991 ed in Siria nel 2011, che ha causato la nascita di alcune delle fazioni jihadiste più feroci degli ultimi decenni. Nonostante oggi le potenze occidentali facciano parte della coalizione per combattere l’ISIS, il caos nel vicino Oriente rimane la situazione ideale per perpetuare lo sfruttamento di uomini e risorse; e continuare a fomentare l’odio etnico e religioso tra i popoli dell’area porterà sì ancora più morti e rifugiati, ma anche maggiori profitti per l’industria bellica e petrolifera dell’Occidente collettivo, data l’impossibilità di ricostruire un’autonomia politica che finalmente contrasti alla radice le ambizioni egemoniche del nord globale a guida Usa nell’area. Le vere forze democratiche che lottano per la resistenza del Rojava, per il confederalismo democratico e per la sua internazionalizzazione sono l’unica soluzione per la pace definitiva nel vicino Oriente e per la distruzione del terrorismo che minaccia continuamente anche i popoli occidentali. Il sostegno all’avanguardia curda e a quelle forze che, all’interno delle comunità Arabe, Assire, Caldee, Turcomanne, Armene e Cecene, vivono e diffondono il paradigma del confederalismo democratico, dunque, non solo è un dovere di basilare umanità ma anche un contributo concreto alla sicurezza di tutti quei paesi che dai conflitti in medio Oriente hanno tutto da perdere, a partire proprio dall’Italia.
Per continuare a raccontare il complicato scacchiere mediorientale senza diventare vittime dei doppi standard delle élite corrotte locali e globali che continuano a soffiare sul fuoco dei conflitti etnici e religiosi per i propri tornaconti, abbiamo bisogno di un media che promuova il punto di vista del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal .

E chi non aderisce è Recep Erdogan.

La Solitudine di Zelensky: perché l’occidente globale sta voltando le spalle al suo ultimo crociato

Magari mi sono distratto io, ma ultimamente mi sembra che i titoli “copia incolla” sull’occidente unito come un sol uomo che si appresta a concludere trionfante la sua crociata contro la giungla selvaggia che ci assedia vadano un po’ meno di moda; eppure, per mesi e mesi sulle prime pagine di tutti i principali giornali italiani non c’è stato letteralmente altro.

Viene quasi il sospetto che qualcosa sia andato storto e che ora non sia esattamente chiarissimo come salvare la faccia se non, appunto, attraverso l’oblio.

La controffensiva ormai è relegata alle pagine di cultura e società: invece che militare, sembra la controffensiva dei selfie, o dei killfie, come si dice in gergo. Il termine indica il fenomeno delle persone disposte a tutto pur di catturare lo scatto perfetto e che alla fine ci lasciano le penne, e nella guerra ucraina ha raggiunto una dimensione tutta nuova: 13 morti, in una botta sola.

Tanti sarebbero gli uomini dei servizi segreti militari di Kyev, caduti mercoledì scorso nel tentativo di sbarcare in Crimea per realizzare un video che ritrae incursori che sventolano la bandiera ucraina e dicono felici che “la Crimea sarà ucraina o disabitata”, scrive il Messaggero.

In tutto, ricostruisce il Messaggero, “una trentina di marinai ucraini che alle 2 di notte hanno puntato verso la Crimea su un’imbarcazione veloce e 3 moto d’acqua”, che sono state “prima intercettate da un pattugliatore della marina russa, poi attaccate dagli aerei e costrette al ritiro. Il video però”, sottolinea non ho capito quanto sarcasticamente il Messaggero, “è stato girato e postato”.

E io che mi lamento che per fare un video mi devo leggere qualche articolo di giornale. Che ingrato.

D’altronde, a breve, gli smartphone con le camere di ultima generazione potrebbero essere l’unica arma che l’occidente è ancora disposto a fornire per questa guerra per procura, che rischia di rimanere senza procuratori; nonostante le tonnellate di inchiostro sprecato per tentare di convincerci che l’iperinflazione, i tassi di interesse alle stelle e la recessione incombente non fossero altro che leggende metropolitane spacciate dai gufi e dagli utili idioti della propaganda putiniana, sembra quasi che per la realtà sia arrivato il momento di presentare il conto. Non poteva andare altrimenti.

Nonostante negli ultimi 50 anni le élite politiche del nord globale non abbiano fatto altro che restringere ogni spazio di democrazia, fortunatamente qualcosina in eredità ci è rimasto

e, mano a mano che per le élite che negli ultimi 18 mesi hanno sacrificato gli interessi della stragrande maggioranza dei loro cittadini si avvicina lo spettro delle urne, il mondo fatato immaginario dipinto dalla propaganda del partito unico della guerra e degli affari comincia a scricchiolare.

Il primo clamoroso esempio è stata la Polonia, che sul sostegno all’Ucraina senza se e senza ma ha tentato, con il supporto incondizionato di Washington, di riconfigurare completamente il suo status all’interno dell’Unione Europea; sotto stretta osservazione per le sue palesi violazioni dei requisiti minimi di uno stato di diritto, nell’arco di poche ore si era magicamente trasformata nella paladina più intransigente del mondo democratico contro i totalitarismi.

Evidentemente, però, l’operazione di maquillage ideologico ha convinto più i rubastipendi che stanno in villeggiatura a Bruxelles che non i contadini polacchi, che inspiegabilmente sono così maleducati da preoccuparsi più di non finire in miseria che non di immolarsi in nome della retorica democratica.

La storia la conoscete: da quando è naufragato l’accordo sul grano tra Russia e Ucraina mediato dalla Turchia, l’Ucraina ha cominciato a esportare il suo grano via terra, approfittando della sospensione di quote e tariffe da parte della UE nei confronti dei prodotti alimentari ucraini a partire dal febbraio del 2022. Da allora il grano ucraino ha letteralmente invaso paesi come la Bulgaria, la Romania e appunto la Polonia, rischiando di gettare sul lastrico gli agricoltori locali: ammassato a milioni di tonnellate nei silos, pur di sbarazzarsene il grano ucraino aveva raggiunto prezzi troppo bassi per permettere a qualunque produttore di reggere la concorrenza. Di fronte alle proteste delle popolazioni locali, nel maggio scorso, l’Unione Europea aveva introdotto un divieto temporaneo alla vendita del grano ucraino in questi stessi paesi, divieto che però a settembre è scaduto.

Una tempistica perfetta: il 15 ottobre infatti la Polonia torna al voto, e il voto degli agricoltori è determinante, in particolare per il partito di governo di estrema destra Diritto e Giustizia, che ha proprio tra la popolazione rurale il suo bacino di voti principale e che, come 18 mesi prima, da essere considerato la peggio feccia reazionaria era diventato, nell’arco di mezza giornata, il punto di riferimento dei sinceri democratici, ora si apprestava altrettanto rapidamente a fare il percorso inverso.

Il compagno Morawieczki infatti ha si è rifiutato di ritirare il divieto e Zelensky ha reagito presentando un ricorso ufficiale presso il WTO e accusando la Polonia di essere solidale solo a parole.

E Morawieczki non l’ha presa proprio benissimo, diciamo. “Non trasferiremo più armi all’Ucraina”, ha annunciato laconico a fine settembre in diretta televisiva. Ma non solo: “Se vogliamo che il conflitto si intensifichi in questo modo, aggiungeremo altri prodotti al divieto di importazione in Polonia. Le autorità ucraine non capiscono fino a che punto l’industria agricola polacca sia stata destabilizzata“.

Maledetti populisti! La stragrande maggioranza dei loro elettori avanza una rivendicazione, e per paura di perdere le elezioni questi gliela concedono pure, magari addirittura senza aver prima ottenuto il via libera da Washington o da Bruxelles.

Se ce lo dicevano prima che funzionava così la democrazia, ci inventavamo un altro sistema.

E la Polonia non è certo un caso isolato. Tra gli stati canaglia dell’internazionale nera di Visegrad che più hanno cercato di sfruttare la guerra per procura in Ucraina per tornare a piacere alla gente che piace, senza manco bisogno di rinunciare a un briciolo della loro vocazione clericofascista, spicca infatti anche la piccola ma agguerritissima Slovacchia, che salta anche più agli occhi; fino al 2018 infatti al governo c’era stato un tale Robert Fico, che invece il muro contro muro con la Russia e il suicidio delle sanzioni economiche li vedeva di pessimo occhio già da tempi non sospetti.

Cresciuto tra le fila del Partito Comunista subito prima dello smembramento della Repubblica Ceca, Fico aveva fondato una formazione politica tutta sua, che si chiama SMER, ed è un esempio piuttosto eclettico di partito socialdemocratico che ha incredibilmente sempre nutrito più di qualche perplessità per quel che riguarda le controriforme di carattere neoliberista e l’adesione religiosa ai vincoli esterni.

Nel 2018 però al governo guidato da Fico ne subentra un altro, altrettanto populista, ma a questo giro in senso prettamente reazionario, che fa sue battaglie di civiltà come ad esempio trasformare l’aborto in un reato penale, e come tutti i veri fintosovranisti ma veri reazionari, quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO in Ucraina ecco che la Slovacchia si trova a gareggiare per il primo gradino del podio dei governi più svendipatria del continente.

Come ricorda People Dispatch, “in termini di percentuale del suo prodotto interno lordo, la Slovacchia è attualmente uno dei maggiori donatori europei all’Ucraina. Ha fornito all’Ucraina obici, veicoli corazzati e la sua intera flotta di aerei da combattimento MiG-29 dell’era sovietica”.

Purtroppo però, continua l’articolo, la Slovacchia “è anche uno dei paesi più poveri d’Europa, e il grosso dell’elettorato è convinto che il denaro dovrebbe servire per migliorare i servizi interni, non per la guerra”.

Totalmente dipendente dal gas russo a prezzi di sconto, la Slovacchia negli ultimi 18 mesi ha registrato uno dei tassi d’inflazione più alti dell’intero continente, superando durante la scorsa primavera addirittura quota 15%; la crisi economica ha scatenato una crisi politica e la maggioranza filo NATO si è sfaldata, ma invece di sciogliere il parlamento e tornare alle urne la presidenta fintoprogressista Zuzana Caputova ha deciso di consegnare il paese nelle mani dell’ennesimo caso di governo tecnico farsa guidato dal vice governatore della banca nazionale.

Come tutti i governi tecnici che si rispettano, i mesi successivi sono stati mesi di sospensione della democrazia e di politiche antipopolari in nome dei vincoli esterni nei confronti dell’Unione Europea e della NATO, fino a quando anche qui è arrivata la scadenza naturale della legislazione ed è tornata quella gran rottura di coglioni che sono le elezioni politiche che – ormai – ai paladini della democrazia piacciono sempre meno.

Ovviamente a quel punto, come sempre accade al termine di un governo tecnocratico antidemocratico, il grosso dell’elettorato non poteva che prediligere la forza politica che meno si era compromessa, ed ecco così che il nostro Robert Fico ha avuto gioco facile.

Durante la campagna elettorale gli è bastato ricordare che le conseguenze delle sanzioni alla Russia lui le denuncia da sempre e promettere espressamente che in caso di vittoria “non invieremo un solo colpo all’Ucraina”, ed ecco fatto: una cosa lineare, prevedibile, semplice.

Per tutti, tranne che per la sinistra suprematista imperiale delle ZTL e la sua bibbia, internazionale, che affida l’ennesima analisi psichedelica all’immancabile Pierre Haski.

Un vero punto di riferimento: quando avete un dubbio, andate a vedere cosa ne pensa Haski. e fate, o pensate, l’esatto opposto.

Secondo Haski in questo caso, la vittoria di Fico sarebbe attribuibile “al ruolo della disinformazione di massa, dalle fake news ai video truccati, che ha imperversato durante la campagna elettorale slovacca”.

Ma la potenza di fuoco dell’inarrestabile macchina propagandistica di Putin – il primo presidente nella storia a riuscire a pilotare l’opinione pubblica globale nonostante sia già morto da mesi per uno dei suoi 17 incurabili tumori e nonostante la bancarotta della Russia annunciata dalla Tocci da due anni ma tenuta ancora nascosta – va ben oltre la Slovacchia: anche il nostro paese, nonostante la RAI, Mediaset, La7, il gruppo GEDI, e gli analfoliberali sul web, è a rischio.

Facciamo un passetto indietro: lunedì scorso Tajani è andato a Kyev e durante la visita avrebbe ufficialmente annunciato nuovi invii di armi.“E’ soltanto una dichiarazione d’intenti” l’ha redarguito Crosetto.

Di questo fantomatico ottavo pacchetto di aiuti, sottolinea infatti Crosetto, “C’è tantissima gente che ne parla non avendone competenza”, anche perché, ricorda sommessamente, “è secretato. C’è una continua richiesta da parte ucraina di aiuti, però bisogna verificare ciò che noi siamo in grado di dare rispetto a ciò che a loro servirebbe”.

l’italia ha fatto molto”, ha continuato Crosetto, ma non abbiamo “risorse illimitate”, e abbiamo già fatto “quasi tutto ciò che potevamo fare; non esiste molto ulteriore spazio”.

Non è un cambio di linea eh, ci mancherebbe. “Continueremo a sostenere l’Ucraina”, ha infatti ribadito, “privilegiando la via del dialogo per riaffermare il diritto a raggiungere una pace giusta”, ma solo come se fosse antani, tarapiotapioca con scappellamento a destra.

O a centrodestra, se siete più moderati.

Ma gli arsenali vuoti non sono l’unica cosa a spingere l’Italia verso una parziale marcia indietro: come ha sottolineato Giorgiona stessa, a preoccupare comincia anche ad essere, anche qui, l’opinione pubblica. Un sostegno incondizionato, avrebbe dichiarato Giorgiona “genera una resistenza e rischia di generare stanchezza nell’opinione pubblica”, ma a colpire ancora di più è la reazione dello stesso Zelensky, che fino a qualche mese fa si incazzava decisamente per molto meno, e oggi invece si riscopre comprensivo.

So che l’Italia ha le proprie sfide”, avrebbe affermato, “e so anche che l’Italia subisce una forte campagna di disinformazione della federazione russa, che spende milioni per distruggere le relazioni tra le nazioni dell’Europa e del mondo”.

E a noi, manco un centesimo, popo’ di ingrati.

Di fronte a questa inarrestabile campagna propagandistica russa che, senza che ve ne accorgeste, si è impossessata di tutti i media e tutti i mezzi di produzione del consenso italiani, Zelensky non può che apprezzare comunque lo sforzo: “Vorrei ringraziarvi perché voi avete un primo ministro molto forte”, avrebbe affermato.

Ma com’è che tutti questi Paesi, che abbiamo sempre additato come umili servitori degli USA, anche contro i loro stessi interessi più immediati, ora cominciano di punto in bianco un po’ a scalpitare? Semplice: i primi a scalpitare ormai, infatti, sono proprio gli USA.
Come sapete, per rinviare per l’ennesima volta il rischio shutdown pochi giorni fa Biden e la maggioranza repubblicana alla camera, hanno siglato un patto che permette nei prossimi quarantacinque giorni di effettuare tutta una lunga serie di spese. Che è lunga si, ma non abbastanza da contenere ulteriori aiuti all’Ucraina. Biden voleva altri 6 miliardi. ne ha ottenuti zero.

Ed è solo l’inizio. Perchè comunque quell’intesa tra leader repubblicani alla camera e amministrazione democratica, a qualcuno proprio non è andata giù. Risultato: un piccolo gruppo di 8 repubblicani che secondo i media mainstream sarebbero l’estrema destra dell’estrema destra trumpiana, hanno chiesto il voto di sfiducia per lo spekaer della camera Kevin McCarthy, lo hanno ottenuto, e poi lo hanno pure vinto. È la prima volta che succede da quando esistono gli Stati Uniti d’America per come li conosciamo oggi. Senza lo speaker, l’attività legislativa della camera è bloccata e l’ucraina teme che per lei sarà bloccata anche quando di speaker ne eleggeranno uno nuovo. “Difficile eleggere uno speaker che sostenga gli aiuti all’ucraina”, così avrebbe dichiarato un parlamentare repubblicano interrogato da La Stampa. Non si tratta di uno dei parlamentari della fronda, ma di Pete Sessions, storico rappresentante neocon del texas, e filoucraino sfegatato. A spingere i repubblicani verso un deciso cambio di rotta, i sondaggi che continuano a dimostrare come la maggioranza assoluta dei cittadini USA non ne possa più. Come quello pubbicato l’altro giorno dalla cnn che affermava che il 55% degli americani ritiene che siano stati dati tutti gli aiuti necessari e che “è stato fatto abbastanza”. I soldi che ci sono, devono essere spesi in qualcosa che potrebbe permettere ai repubblicani di vincere le prossime elezioni: in particolare, rafforzare il controllo del confine con il Messico, e ridurre il debito.
“Prima bisogna garantire i finanziamenti per la sicurezza alle frontiere e poi occuparci di Ucraina”, avrebbe dichiarato Garrett Graves, della ristretta cerchia di McCarthy. Ed ecco così che spunta la candidatura di Jim Jordan, potentissimo capo della commissione giustizia, tra gli artefici della procedura di impeachment contro Biden e uno degli oppositori più vocali all’invio di aiuti a Kyev.

Una “SUPERPOTENZA DISFUNZIONALE”, come l’ha definita in un lungo articolo su “foreign affairs” Robert Gates, già direttore della CIA all’inizio degli anni ‘90, e poi caso più unico che raro di segretario della difesa bipartisan, prima con George W. Bush, e poi con Barack Obama. La domanda che si fa Robert Gates è più attuale che mai: Può un’America divisa scoraggiare Cina e Russia?

“Gli Stati Uniti”, sottolinea Gates, “si trovano ora ad affrontare minacce alla propria sicurezza più gravi di quanto non fossero mai state negli ultimi decenni, forse mai. Il problema, tuttavia è che nel momento stesso in cui gli eventi richiedono una risposta forte e coerente da parte degli Stati Uniti, il Paese non è in grado di fornirne una”. Secondo gates gli USA si trovano ancora oggi in una posizione di relativa forza rispetto a Cina e Russia. “Purtroppo, però”, riflette Gates, “le disfunzioni politiche e i fallimenti politici dell’America ne stanno minando il successo”. Per tornare ad avere il potere di dissuadere gli avversari da compiere ulteriori gesti inconsulti, suggerisce Gates, gli Stati Uniti devono assolutamente ritrovare quell’”accordo bipartisan decennale rispetto al ruolo degli Stati Uniti nel mondo”, ed essere in grado di spiegare insieme a tutti gli elettori che “la leadership globale degli USA, nonostante i suoi costi, è indispensabile per preservare la pace e la prosperità”. Per fare questo non bastano gli appelli alla nazione dallo studio ovale. “Piuttosto”, sottolinea Gates, “è necessario che tutti ripetano all’infinito questo messaggio affinché venga recepito”. Insomma, l’esercizio di quel poco di democrazia che è rimasto nel nord globale rischia di far sbandare dalla strada maestra, che non è quella che si scelgono i popoli in base ai loro interessi, ma quella che decidono a tavolino i Gates e gli oligarchi che lo sostengono. Per tornare sulla retta via, c’è bisogno di richiamare tutti all’ordine, e lanciare una campagna di lavaggio del cervello di massa che ci faccia riconoscere come nemici senza se e senza ma quelli che loro hanno individuato come nemici in base ai loro interessi. E siccome poi alla gente li puoi raccontare tutte le cazzate che vuoi, ma se gli levi il pane da sotto i denti, poi a un certo punto comunque si incazza, se non basterà il soft power della persuasione, vorrà dire che si passerà all’hard power delle mazzate. L’occidente globale è in via di disfacimento. prima che si rassegnino a mollare l’osso, ci sarà da vederne delle belle.

Contro il piano orwelliano dei gates, nel frattempo, quello che possiamo fare è continuare a insinuare i dubbi e a segnalare le contraddizioni. e per farlo, abbiamo bisogno di costruire il primo media che invece che dalla parte della loro propaganda, stia dalla parte degli interessi del 99%

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…e chi non aderisce è Robert Gates.