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Tag: svendita

Italia, Germania e Giappone: quale delle 3 Colonie USA FALLIRÀ PER PRIMA?

Germania in crisi titolava lo scorso 8 febbraio a caratteri cubitali – per l’ennesima volta – Il Sole 24 Ore; “produzione industriale giù del 3%”. A dare la botta definitiva sarebbero stati i dati dell’ultimo dicembre: ci si aspettava un crollo significativo dello 0,4, al massimo lo 0,5% che, spalmato sull’anno, significherebbe comunque un disastroso – 6%; il calo invece, in un solo mese, è stato addirittura dell’1,6%. Altri 12 mesi così e l’industria tedesca, in un solo anno, avrà perso quasi il 20%; “I giorni della Germania come superpotenza industriale stanno inesorabilmente volgendo al termine” sentenzia Bloomberg.

Ciononostante, ci sono altre superpotenze industriali che per andare come la Germania ci metterebbero una bella firma: “Il prodotto interno lordo del Giappone si è inaspettatamente ridotto per il secondo trimestre consecutivo” scrive Asia Nikkei, il Sole 24 Ore giapponese. Un altro fulmine a ciel sereno: la media degli analisti interpellati dal quotidiano economico, infatti, puntava a una crescita dell’1,1%, e la conseguenza immediata ha qualcosa di epocale; con questi ultimi dati, infatti, il Giappone scende definitivamente dal podio delle principali economie globali e, ironia della sorte, si fa scalzare proprio dalla Germania che, come scrive Onida sul Sole, nel frattempo – come negli anni ‘90 – “è tornata ad essere il vero malato d’Europa”.
Eppure, tra le grandi potenze industriali c’è anche chi ha tutto da invidiare pure al Giappone; chi? Ma noi, ovviamente: la nostra amata colonia italiana. La gelata del mattone titolava ieri mattina La Stampa; “Le compravendite di case calano del 16%, e le erogazioni dei mutui del 35%”, specifica. Non so se è chiaro: il 35% di mutui in meno, un’enormità dalle conseguenze devastanti: il patrimonio immobiliare degli italiani, infatti, negli ultimi 30 anni è stato il vero grande ammortizzatore sociale di massa che ha permesso di tenere botta di fronte a una crisi economica infinita e di proporzioni bibliche e che è stata tutta scaricata sulle persone comuni, mentre i super – ricchi incassavano. Il protettorato italiano è ormai, in buona parte, un’economia a zero valore aggiunto fondata su gelaterie e parrucchieri, che durano come un gatto in tangenziale e, ciononostante, proliferano come funghi proprio perché fanno leva sul patrimonio immobiliare accumulato dalle famiglie, che ormai è ridotto al lumicino; come ricordava una decina di giorni fa Il Sole 24 Ore infatti, ancora solo nel 2009 le famiglie italiane erano le più ricche di tutti: 159.700 euro pro capite, ben al di sopra dei francesi che erano fermi a quota 137.400 euro e, addirittura, degli statunitensi, a quota 152.300. E il grosso di questa ricchezza era tutto mattone: circa il 65%.
Ora tra i paesi del G7 siamo il fanalino di coda (e manco di poco) e più poveri eravamo in partenza, più c’abbiamo rimesso: nel 2011 la metà più povera della popolazione, infatti, deteneva il 12% del patrimonio complessivo; ora non arriva all’8, una quota che, però, non è stata redistribuita equamente tra il 50% messo meglio, eh? Se la sono presa tutta i più ricchi: il 10% più ricco del paese, infatti, già all’inizio del secolo deteneva oltre la metà della ricchezza complessiva, il 53%; ora ne detiene il 58. Si sono fregati tutta la ricchezza del 50% più povero e un pochino anche di tutti gli altri.
In buona parte è dovuto a un fattore molto semplice: il patrimonio (misero) dei più poveri sta nel mattone; quello dei più benestanti in buona parte è invece in azioni di aziende quotate e il valore delle azioni quotate è aumentato parecchio di più che la casa di famiglia, il 125% contro il 54, quasi 3 volte. E questo è se rimaniamo a Piazza Affari; quelli più privilegiati tra i privilegiati, infatti, mica investono nelle aziende italiane mezze decotte quotate a Milano: puntano direttamente tutto sui mercati internazionali che sono cresciuti del 200%, quasi il doppio. Con quest’ultima prevedibilissima, scontatissima botta al mercato immobiliare si va verso la resa dei conti finale; ora, una domandina semplice semplice: cosa hanno in comune i tre paesi elencati? Esatto: sono i 3 grandi sconfitti della seconda guerra mondiale e non è un caso; il superimperialismo finanziario statunitense, infatti, ha allungato le sue mani piene zeppe di dollari su tutto il pianeta, ma una cosa è essere semplicemente soggiogati dal potere del dollaro, un’altra cosa è essere occupati militarmente che è, sostanzialmente, la nostra condizione. Negli anni, un pochino questo aspetto fondamentale era rimasto quasi in sordina; certo, c’è stata Gladio, la strategia della tensione, il golpe bianco di tangentopoli, però il peso materiale, concreto, tangibile dell’occupazione militare vera e propria – almeno da un po’ di tempo a questa parte – non emergeva in modo così lampante, anche perché le nostre élite condividevano pienamente l’agenda e nessuno gliene chiedeva particolarmente conto. Ora, nei confronti dei propri protettorati l’impero usa più o meno la mano forte a seconda delle circostanze: quando se lo può permettere – e coincide con i suoi interessi o, almeno, non ci fa a cazzotti – può essere anche un dominio benevolo; lo è stato addirittura quello inglese sul subcontinente indiano dove, a un certo punto, sono state investite anche ingenti risorse, e proprio per liberare forze produttive: sono state costruite infrastrutture, sono stati fatti investimenti industriali enormi, fino a che l’impero non è entrato in difficoltà e, allora, le forze produttive sono state massacrate per estrarre quanto più valore possibile e rinviare il declino, che è esattamente quello che sta succedendo ora a noi con gli USA.
Per far fronte al fatto che una bella fetta del Sud globale di farsi succhiare risorse si è abbondantemente rotto i coglioni, e sta reagendo in modo sempre più perentorio, il superimperialismo finanziario USA sta succhiando risorse da tutti gli alleati e tra gli alleati, in particolare – ovviamente – a quelli letteralmente occupati militarmente, dove può esercitare direttamente e senza tanti compromessi il proprio dominio: l’equivalente del subcontinente del superimperialismo finanziario USA; la buona notizia è che, vedendo al precedente britannico, per quanto ti sforzi di spolpare lo spolpabile (o forse proprio perché ti riduci a spolpare lo spolpabile), alla fine l’impero crolla e i sudditi trovano il modo di andarti abbondantemente nel culo. Quella cattiva, invece, è che – sempre nel caso britannico – per convincerli a mollare definitivamente l’osso c’è voluta un’altra bella guerra mondiale, che non è stata esattamente una pacchia, diciamo. Come andrà a finire?
Autunno 2023, Dusseldorf: “In un cavernoso capannone industriale” “i toni cupi di un suonatore di corno accompagnano l’atto finale di una fabbrica secolare” scrive in un raro slancio poetico Bloomberg: la fabbrica in questione, da una trentina di anni, era diventata la divisione locale della francese Vallourec, il principale concorrente della ex italiana Tenaris nel mercato dei tubi in acciaio senza saldatura indispensabili per l’industria petrolifera e del gas, ma le sue radici affondano più dietro assai; a partire da fine ‘800, infatti, era sempre stata il fiore all’occhiello di Mannesmann, il colosso tedesco che prima di dedicarsi interamente alle telecomunicazioni ed essere inglobato da Vodafone (in quella che rimane ancora oggi la più grande acquisizione di tutti i tempi) aveva la leadership mondiale della lavorazione dell’acciaio e ora, “tra lo sfarfallio di razzi e torce”, ecco che “molte delle 1.600 persone che hanno perso il lavoro rimangono impassibili mentre il metallo incandescente dell’ultimo prodotto dello stabilimento viene levigato fino a diventare un cilindro perfetto su un laminatoio”. “La cerimonia” continua Bloomberg “mette fine a una corsa durata 124 anni, iniziata nel periodo di massimo splendore dell’industrializzazione tedesca e che ha resistito a due guerre mondiali, ma non è riuscita a sopravvivere alle conseguenze della crisi energetica”; cerimonie del genere, continua Bloomberg, sono diventate sempre più frequenti e ormai scandiscono “la dolorosa realtà che la Germania deve affrontare: i suoi giorni come superpotenza industriale potrebbero essere giunti al termine”.
Notare le date: 124 anni, come avrebbe dovuto festeggiare il centoventesimo compleanno anche la Ritzenhorff, la storica fabbrica di bicchieri di Marsberg, nella Renania – Vestfalia, ma per la festa non sono previste candeline; come ricorda Isabella Buffacchi sul Sole 24Ore infatti, la dirigenza ha annunciato “di doverla dichiarare insolvente per evitare la bancarotta, e 430 dipendenti rischiano il posto di lavoro”.
Siamo alla resa dei conti definitiva della seconda guerra dei 100 anni, che anche nella sua prima versione – quando a confrontarsi erano Francia e Inghilterra – ne durò in realtà 116; a questo giro, invece che due paesi in lotta per il controllo del territorio, a confrontarsi sono stati due sistemi economici: l’imperialismo finanziario da un lato e il capitalismo produttivo dall’altro. Potremmo leggerla anche così questa fase terminale della grande avventura industriale dell’asse Italia – Germania – Giappone, l’ultimo atto della guerra dei 100 anni tra il neofeudalesimo delle oligarchie finanziarie e il capitalismo industriale che, come ci ha raccontato Michael Hudson, è iniziata appunto con la prima guerra mondiale. Il tracollo dell’industria tedesca procede spedito oltre ogni più pessimistica previsione e il modo migliore per provare a realizzarne l’entità è attraverso questo grafico:

rappresenta l’andamento della produzione industriale; fatta 100 la produzione nell’ottobre 2015, è passata da un valore di 70 nel 1993 a un picco di 107,5 nel novembre 2017, in una delle più grandi ascese di sempre in un paese a capitalismo già avanzato. Da allora è iniziata la grande discesa che ha portato a perdere 15 punti nell’arco di 6 anni e se gli indici non vi stuzzicano abbastanza la fantasia, ecco qualche esempio concreto: il gigante della componentistica per l’automotive Continental ha da poco annunciato il taglio di oltre 7.000 posti di lavoro, 5.400 in ruoli amministrativi e 1.750 addirittura nelle attività di sviluppo e ricerca e “circa il 40% delle riduzioni” sottolinea Bloomberg “riguarderà i dipendenti in Germania”. Il produttore di pneumatici Michelin ha annunciato la chiusura di due dei suoi stabilimenti e la riduzione di un terzo entro il 2025 “con una mossa” scrive sempre Bloomberg “che interesserà più di 1.500 lavoratori” ai quali vanno aggiunti quelli impiegati in due stabilimenti della concorrente Goodyear che ha annunciato intenzioni simili; e sempre per restare nell’automotive e dintorni, anche Bosch, riporta sempre Bloomberg, “sta cercando di tagliare 1200 posti di lavoro nella sua unità software ed elettronica”.
Va ancora peggio per la chimica dove, sempre secondo Bloomberg, “quasi un’azienda su 10 sta pianificando di interrompere definitivamente i processi di produzione”; a inaugurare le danze intanto c’hanno pensato la Lanxess di Colonia e la BASF, che hanno annunciato rispettivamente un migliaio e 2.600 licenziamenti. D’altronde, non poteva andare molto diversamente: se la produzione industriale tedesca è calata in media del 3% in un anno, nel solo mese di dicembre quella metallurgica è crollata di 5,8 punti; quella chimica addirittura di 7,6, e il tonfo si è sentito benissimo anche in Italia. La crisi tedesca fa calare l’export made in Italy titolava il 16 gennaio Il Sole 24Ore, “a novembre – 4,4% annuo”; “La discesa, in termini assoluti” si legge nell’articolo “vale oltre 2,5 miliardi di euro”, ma se nei mercati extra UE l’export italiano cala di meno di 3 punti e mezzo, in Europa siamo poco sotto i 5 punti e mezzo “con punte più alte proprio a Berlino, primo mercato di sbocco, che ha ridotto nel solo mese di novembre gli acquisti del 6,4%, approfondendo il rosso dall’inizio dell’anno”. Risultato: “Italia e Germania”, riporta sempre Il Sole in un altro articolo, “sono i paesi della zona euro con la quota più alta di aziende vulnerabili” e, cioè, di aziende che rischiano di chiudere i battenti: addirittura 1 su 10; “Nel secondo e terzo trimestre del 2023” continua l’articolo “l’indice delle dichiarazioni di fallimento dell’eurozona ha raggiunto il livello più elevato dal 2015, quando l’indicatore UE è stato reso disponibile per la prima volta” e, ovviamente, il grosso delle aziende vulnerabili sono proprio aziende manifatturiere: l’11% contro il 6% di quelle attive nei servizi. Eh, narra la difesa d’ufficio degli analfoliberali, un po’ però ce lo cerchiamo, con tutte queste piccole aziende inefficienti. Beh, insomma: “La quota di imprese vulnerabili” ricorda infatti Il Sole “è aumentata in misura maggiore tra le grandi imprese rispetto alle PMI”. Eh, continua la difesa analfoliberale, ma un po’ comunque se la sono cercata: sono vecchi dinosauri, ma, anche qui, ari-insomma; “La quota di imprese vulnerabili” continua infatti l’articolo “è cresciuta più tra le imprese giovani rispetto alle più vecchie”, ed ecco così che, anche a questo giro, dura realtà rossobruna batte editorialisti del Foglio 3 a 0. E le stime dell’osservatorio UE potrebbero essere ottimistiche: secondo la società di consulenza Alvarez & Marsal, riporta infatti Bloomberg, “circa il 15% delle aziende tedesche attualmente sono in difficoltà finanziarie”; in soldoni, significa che fanno fatica a ripagare le obbligazioni che hanno emesso e, come sempre accade quando si cominciano ad ammucchiare le carcasse, ecco che spuntano gli avvoltoi. “Secondo i banchieri e i consulenti presenti a Davos” ricorda, infatti, sempre Bloomberg “le società di private equity sono attratte dalla Germania a causa delle difficoltà che molte aziende stanno attraversando, e stanno cercando di acquistare aziende familiari a basso costo e promuovere miglioramenti operativi” che, se lo traduci nella nostra lingua, significa come sempre smembrarle a pezzetti, spolparle per bene e rivenderle con ampio margine fuggendo con la borsa piena e il deserto produttivo alle spalle. Fondi come Ares Management e Blackstone, riporta sempre Bloomberg, hanno aperto uffici a Francoforte e sono a caccia di affari per acquistare a prezzi di saldo, o anche soltanto per concedere prestiti ad alti tassi. E c’è chi scommette nel crollo definitivo: “I venditori allo scoperto” riporta, infatti, sempre Bloomberg “stanno scommettendo 5,7 miliardi di euro contro le aziende del paese”; ad essere presa di mira, in particolare, Volkswagen che in molti, ormai, sospettano non abbia nessuna chance di reggere l’impatto della concorrenza cinese. Ma le scommesse vanno anche oltre l’industria, a partire da Deutsche Bank, particolarmente esposta nel settore immobiliare, dove si è già registrato un calo di prezzi dell’11% nel residenziale che potrebbe essere solo l’antipasto; per gli uffici, infatti, “gli analisti” riporta Bloomberg “prevedono cali di valore in media rispetto al picco del 40%”. L’ultima volta che l’impero finanziario angloamericano cercò di troncare sul nascere l’ascesa industriale del Giappone e della Germania – con l’Italia utile idiota al seguito – le potenze industriali reagirono coltivando il sogno di ridurre in schiavitù mezzo pianeta; ora, fortunatamente, non hanno la potenza militare e politica nemmeno per pensarci e, però, la tentazione rimane: come abbiamo anticipato ieri, infatti, la Germania si è messa alla testa dei paesi europei che stanno cercando di affondare la normativa europea che impone alle grandi aziende di rispettare nientepopodimeno che le leggi sull’ambiente e i diritti umani, e pure di farle rispettare ai fornitori e ai subappaltatori. E’ già un passo avanti: prima, per trovare schiavi, ti invadevano coi carrarmati; ora si accontentano di fare qualche gara al massimo ribasso o di un po’ di caro vecchio caporalato.

Olaf Scholz

Di fronte alla debacle economica e all’assoluta mancanza anche solo di un barlume di reazione da parte della classe dirigente, nel mondo reale i malumori non possono che aumentare esponenzialmente: se oggi la maggioranza di governo tornasse alle urne, tutta insieme supererebbe di poco il 30%; e le piazze tornano a riempirsi di lavoratori dell’industria e dei servizi, ma in queste settimane, sopratutto, di trattori che, nonostante comportino numerosi disagi e spesso portino avanti rivendicazioni non proprio chiarissime – e addirittura a volte non proprio condivisibili – possono vantare un grande sostegno popolare, una miccia che bisogna spegnere in tutti i modi. E in particolare in Germania, dalle proteste contro il sostegno incondizionato a guerre e genocidi a quelle contro il declino economico, non c’è metodo migliore per spegnere una miccia che fare leva sull’atavico senso di colpa per il passato nazista; ed ecco così che come per magia, proprio quando serve, spunta una bella psyop in piena regola: ricordate la vicenda del fantomatico complotto di estrema destra ordito da alcuni dirigenti dell’AfD che avrebbero esternato la volontà di radunare gli immigrati per poi deportarli? Quello che ha spinto centinaia di migliaia di persone a scendere in piazza contro la deriva nazista, segnando l’unica vittoria in termini di public relations del governo Scholz da 2 anni a questa parte? Beh, a leggere il sempre ottimo Conor Gallagher su Naked Capitalism, è una vicenda non esattamente limpidissima, diciamo; il tutto, infatti, sarebbe nato da un rapporto di un’organizzazione no profit di nome Correctiv: Piano segreto contro la Germania si intitola. “Era l’incontro di cui nessuno avrebbe mai dovuto venire a conoscenza” recita il rapporto; “A novembre” continua “politici di alto rango del partito tedesco di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD), neonazisti e uomini d’affari comprensivi si sono riuniti in un hotel vicino a Potsdam. Il loro programma? Niente di meno che la messa a punto di un piano per le deportazioni forzate di milioni di persone che attualmente vivono in Germania”. Nel rapporto si fa inoltre riferimento alla Conferenza di Wannsee, durante la quale una quindicina di gerarchi nazisti mise a punto la strategia della cosiddetta soluzione finale della questione ebraica; indignarsi, ovviamente, è il minimo indispensabile ed è esattamente quello che succede, e non ci si ferma alle proteste: bisogna trovare una soluzione drastica. E la soluzione è proibire per legge l’AfD che diventa, magicamente, una proposta ragionevole, razionale, almeno fino a quando la vicedirettrice di Correctiv, Anett Dowideit, viene intervistata dalla Tv e indovinate un po’? Afferma, riporta Gallagher, “che in realtà non si era parlato di deportazioni durante l’incontro, né era simile alla conferenza nazista di Wannsee del 1942, dove si si decise di intraprendere l’uccisione di massa degli ebrei”; “Dowideit” continua Gallagher “ha affermato che la stampa tedesca ha interpretato male il rapporto di Correctiv”: due smentite secche che, però, non hanno trovato eco sui media – dove si continua a discutere di quanto sia democratico proibire all’AfD di partecipare alle elezioni. E la cosa buffa è che, nel frattempo, le deportazioni avvengono davvero e non certo a causa dell’AfD; a impartirle, infatti, è stato il democraticissimo Bundestag che ha approvato, nel silenzio dei media, una legge che apre la strada a una semplificazione drastica per la deportazione dei richiedenti asilo.
Quanto a lungo continueremo a permettere alle nostre élite di evitare di pagare le conseguenze delle loro azioni semplicemente spacciando puttanate? Per smetterla una volta per tutte di farci prendere così platealmente per il culo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che invece che spacciare armi di distrazione di massa per rimandare la resa dei conti, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Olaf Scholz

La Meloni SVENDE il Paese a Washington e Wall Street e viene nominata REGINETTA DI DAVOS

Dopo 15 mesi di governo, la Meloni passa a pieni voti l’esame di sudditanza geopolitica e di tecniche avanzate di svendita del paese alle oligarchie finanziarie, e Davos la incorona ufficialmente reginetta del ballo annuale del globalismo targato World Economic Forum; mentre i riflettori si concentravano tutti sulla performance dello scemo del villaggio globale, Javier motosega Milei, e della rappresentazione plastica del livello di degrado umano e culturale nel quale le oligarchie vorrebbero intrappolare il Sud globale nella speranza che la grande decolonizzazione segni una battuta d’arresto, lontano dalle luci della ribalta – e in modo molto più subdolo – persone molto più misurate e presentabili ma ancora più spietate e prive di scrupoli tessevano la trama del mondo distopico che ci aspetta. In una sorta di raffinato rituale pieno di simbolismi, Giorgia la madrecristiana ha offerto lo scalpo del paese ai fondi speculativi che dominano la finanza globale e ha siglato un patto di sangue col demonio che prevede il sacrificio dei cittadini italiani e di quel che rimane della nostra democrazia in cambio della salvezza di un ristrettissimo gruppo di potere. Ma in cosa consiste concretamente questo patto demoniaco?

Kenneth Rogoff

La Stampa, venerdì 19 gennaio; in diretta dalla lounge del Centro Congressi di Davos, ecco che torna in grande style una delle principali star internazionali dell’economia mainstream: Kenneth Rogoff, una specie di vademecum del perfetto analfoliberale suprematista. Il neocidio a Gaza? Colpa dell’Iran. L’inflazione? Colpa dei terroristi yemeniti. La guerra in Ucraina? Colpa della Russia, e pure della Corea del Nord, e anche della Cina, che la riempiono di armi. La crisi in Europa? Colpa di Donald Trump. La nota positiva? Tenetevi forte: GIORGIA MELONI. Serio, eh? Da buon analfoliberale, Rogoff inizialmente su Giorgia la madrecristiana aveva espresso più di qualche perplessità: “Dopo un anno di governo Meloni” gli chiede l’intervistatore “è ancora spaventato?”. “No,” risponde Rogoff “affatto. Sono giorni che continuo a sentire persone parlare bene di lei”; Rogoff racconta di come tra i corridoi di Davos abbia cercato di capire da banchieri e policy makers quali pensavano potessero essere i leader più promettenti in Europa: “Beh,” dichiara “in molti hanno tirato fuori il nome proprio di Giorgia Meloni”. “Il cancelliere tedesco è debole,” continua “il presidente francese è in declino. E di certo, non possiamo guardare al Regno Unito. Meloni invece” ribadisce Rogoff “è stata una sorpresa positiva. Potrebbe essere davvero lei la risposta giusta per questa Europa alla disperata ricerca di leader”; ed ecco che immediatamente la propaganda filogovernativa si dimentica per un attimo della sua retorica antiglobalista e festeggia come di fronte a un’investitura papale: Meloni, l’economista Rogoff: “leader d’Europa”, titola Libero.
Ma chi è esattamente Kenneth Rogoff? Ve la ricordate la teoria dell’austerità espansiva? Per anni è stata la parola d’ordine per eccellenza del mainstream, e indovinate un po’ chi l’ha inventata? Esatto: proprio lui, di persona personalmente; sulla base di quelli che allora vennero spacciati come una grossa mole di dati empirici certificati e inequivocabili, Kenneth Rogoff nel 2010, infatti, riuscì a dimostrare una cosa che avrebbe scioccato tutti gli economisti keynesiani: secondo gli economisti keynesiani, infatti, l’unico modo concreto per stimolare l’economia è che lo Stato metta nell’economia – sottoforma di servizi, investimenti e sussidi – più di quanto ci preleva sottoforma di tasse. Rogoff stravolge questo principio: dimostra come quando il debito pubblico supera il 90% del PIL, la crescita dei paesi – in media – diventa negativa e non supera il -0,1% e come, invece, se lo Stato mette meno soldi nell’economia di quanti ne preleva – e quindi diminuisce il debito – incomprensibilmente, come per magia, i consumi e gli investimenti privati aumentano; l’austerità, conclude Rogoff, al contrario di quello che sostengono gli statalisti, le zecche rosse e tutte le persone accecate dall’invidia e dal rancore verso i ricchi e il capitale, non deprime l’economia ma, al contrario, la rilancia. Un risultato totalmente controintuitivo che però per le élite e l’oligarchia è una vera e propria gigantesca manna dal cielo: se non fosse arrivato, toccava inventarselo. A partire dal 2009, infatti, i famigerati PIIGS entrano in una profonda recessione: se ci fossimo ancora attenuti al verbo delle zecche rosse e dei socialisti, saremmo per forza dovuti intervenire con soldi pubblici per stimolare l’economia; però lo Stato è brutto e il debito è cattivo, e quindi n se po’ fa. Come si risolve allora l’inghippo? Grazie alla teoria dell’austerità espansiva la soluzione è semplicissima: basta prendere l’autostrada in contromano e tagliare ancora un po’ e, per magia, l’economia riprenderà; ed ecco così che, in men che non si dica, questo risultato viene propagandato ai quattro venti da tutti i principali economisti di regime.
Citazioni entusiastiche si moltiplicano sul Financial Times, sull’Economist e sul Wall Street Journal: Paul Ryan, speaker alla camera USA dal 2015 al 2019, lo userà come base per una risoluzione a suo nome a sostegno delle politiche di austerity europee; l’attuale governatore della Banca di Finlandia Olli Rehn che, all’epoca, era nientepopodimeno che vice presidente della Commissione europea, in una lettera indirizzata ai ministri economici e finanziari della UE, al FMI e alla BCE, scriverà che “È largamente riconosciuto, sulla base di una seria ricerca accademica, che quando i livelli del debito pubblico superano il 90%, tendono ad avere un impatto negativo sull’andamento dell’economia, che si traduce in bassa crescita per molti anni”. Vi imponiamo ricette lacrime e sangue che vi riducono in miseria? Ma è per il vostro bene! Lo dicono i numeri di Rogoff! Lo dice la scienziaaah!
Particolarmente entusiasti della nuova rivoluzione copernicana di Rogoff da noi saranno i vari Francesco Giavazzi, Alberto Alesina e, in generale, gli economisti che gravitano attorno alla Bocconi che, da lì in poi, diventeranno vere e proprie superstar; i risultati li conoscete tutti benissimo: ovviamente il PIL, invece che ripartire, non ha fatto che contrarsi ulteriormente. La disoccupazione è aumentata, il tenore di vita è peggiorato, i consumi sono diminuiti e paradossalmente poi, per mettere le toppe, pure il debito è aumentato molto di più di quanto non sarebbe stato necessario per introdurre politiche espansive prima; l’austerità espansiva ha funzionato talmente male da riuscire – addirittura – a far tornare qualche accenno di combattività anche tra le masse popolari anestetizzate ormai da decenni di controrivoluzione neoliberista e dalle sue conseguenze antropologiche. Nel 2013 se n’è accorto addirittura il Fondo Monetario Internazionale: ogni euro di contrazione fiscale – ha sottolineato – ha avuto un impatto recessivo di 1,5 euro; secondo i nostri prestigiosissimi teorici dell’austerità espansiva l’impatto recessivo sarebbe dovuto essere di 0,5 euri. In confronto, le previsioni di Mario Draghi sugli effetti delle sanzioni alla Russia sono state già più affidabili. Ma com’è possibile?
A differenza delle puttanate di Draghi sulle sanzioni russe, che erano palesemente solo propaganda e wishful thinking della peggiore specie, l’austerità espansiva non si fondava su un fondamentale studio empirico di indiscutibile rigore scientifico? Ecco, appunto. No. Il fondamentale studio di Rogoff, osannato da tutti gli economisti mainstream come una grande rivoluzione scientifica al pari di quelle di Newton e di Galileo, era in realtà un discreto troiaio: “Lo studio intitolato Growth in a time of debt – La crescita al tempo del debito – e pubblicato nel 2010 sulla prestigiosa American Economic Reviewricorda Vittorio Daniele su economiaepolitica.it “non è stato smentito da sofisticate applicazioni econometriche ma, come nella favola di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore, da un umile studente di dottorato dell’Università del Massachusetts che, utilizzando proprio i dati di Reinahrt e Rogoff per un’esercitazione, si è accorto che qualcosa non quadrava nelle stime dei due economisti”.

Rogoff, in sostanza, sosteneva che la crescita dei paesi afflitti da un insostenibile debito – di oltre il 90% rispetto al PIL – avessero registrato in media una crescita negativa del – 0,1%; lo studentello dimostrò che, invece, la crescita era stata positiva, e manco di poco: +2,2%. Nel tempo, tutti i grandi sostenitori dell’austerità espansiva si sono rimangiati tutto: da Mario Monti a Mario Draghi, passando anche per lo stesso Giavazzi; ovviamente, non possiamo che esserne felici. Rimane il dubbio, però, del perché a governare la nostra economia poi siano stati richiamati sempre loro, invece del ragazzino che ha smontato il pessimo studio di Rogoff e tutte le persone minimamente ragionevoli che non ci sono mai cascate. Non è che più che la competenza tecnica e scientifica, pesa la fedeltà ad alcuniinteressi specifici? Perché se, dal punto di vista dell’economia generale, l’austerità espansiva è stata una disastro totale, non è che ci hanno perso tutti: le oligarchie finanziarie ci hanno guadagnato eccome, e quando dici oligarchie finanziarie, dici Washington. Guarda qua: dall’arrivo dell’austerità espansiva ad oggi i mercati finanziari americani si sono quintuplicati, e se a guidarli – e a garantirgli il posto di comando – non sono le competenze ma la fedeltà agli interessi delle oligarchie, non è che ora che i Monti, i Draghi e i Giavazzi sono stati illuminati e si sono riscoperti moderatamente keynesiani, ci sta dietro una fregatura?
Il sospetto, sinceramente, viene: il nuovo tormentone di questi prestigiosi e sofisticati economisti infatti è che sì, lo Stato dovrebbe tornare a investire un po’ – come fa Biden con la Bidenomics –, però i soldi che mette sul tavolo non devono servire ad aumentare di nuovo il ruolo dello Stato nell’economia, ma solo a incentivare i privati ad investire nella giusta direzione, azzerando i rischi; non è che questa idea non è fondata su solide basi scientifiche, ma non è altro che un’altra gigantesca cazzata come quella dell’austerità espansiva, utile solo agli interessi che hanno già dimostrato di tutelare così bene? E quando Rogoff si complimenta con la nostra Giorgiona, non è che non lo fa sulla base di solide valutazioni sul tipo di politica necessaria per rilanciare l’economia in Europa, ma esclusivamente in base al fatto che è quella che, più di ogni altro, è in grado di garantire che quegli stessi interessi saranno difesi anche a costo di dover passare sul cadavere dell’ultimo cittadino europeo?
Da questo punto di vista – bisogna ammetterlo – la nostra Giorgiona non s’è fatta mancare niente: ovviamente, prima di tutto, dal punto di vista geopolitico, dove i padroni a stelle e strisce non si sono accontentati – come con altri paesi vassalli – della totale sudditanza di Roma all’agenda di Washington a spese dell’interesse nazionale. Per lavare via i peccati di alcune affermazioni del passato decisamente ostili nei confronti della globalizzazione neoliberista e dei suoi architetti, hanno preteso anche un gesto simbolico eclatante: l’uscita dalla via della seta. La maggioranza dei paesi europei, infatti, continua ad aderire al memorandum – a partire dai paesi strutturalmente più vicini a Washington, dai baltici alla Polonia e, addirittura, la colonia ucraina; a nessuno Washington ha chiesto di uscire, a parte a Roma: non bastava garantire eterna fedeltà. Per suggellare il patto di sangue ci voleva proprio l’umiliazione in mondovisione, e Roma è stata ben felice di accontentarli perché la sua sudditanza non doveva essere nota solo a Biden e ai suoi uomini: bisognava convincere anche le oligarchie finanziarie e gli economisti come Rogoff che, però, non campano solo di posizionamenti geopolitici e gesti simbolici; vogliono la ciccia, al sangue. Che eccola che a Davos è arrivata puntualmente: Mossa a sorpresa del ministero dell’economia titolava entusiasta venerdì Il Giornanale; “ENI, il tesoro cederà il 4% per rassicurare i mercati”, dove – ovviamente – per mercati si intendono le poche decine di oligarchi presenti a Davos e che, tra un festino a base di escort e l’altro, hanno concesso un po’ dei loro sterminati capitali ai governanti più servizievoli dell’impero.

Giancarlo Giorgetti

A Davos Giorgetti si è intrattenuto un po’ con tutti: dal mitico Ray Dalio di Bridgewater, all’amministratore delegato di Bank of America Brian Moynihan, a quello di Jp Morgan Jamie Dimon e, oltre a ENI, sul piatto c’erano anche Poste e, in prospettiva, anche Ferrovie dello Stato; L’Italia in vendita titola indignata addirittura La Repubblichina. Il bue che dà del cornuto all’asino: l’obiettivo infatti, come sapete, sarebbe quello di fare un po’ di cassa per abbattere un po’ di debole, ma è fuffa allo stato puro; in tutto, secondo il governo stesso, si parlerebbe al massimo di una ventina di miliardi, che ai nostri quasi 3 mila miliardi di debito, ovviamente, gli fanno come il cazzo alle vecchie. L’idea che il debito non si possa abbattere vendendo i gioielli di famiglia non è esattamente un’esclusiva di noi oltranzisti bolscevichi: lo dice chiaramente su La Stampa anche l’ultramoderato Mario Deaglio che, da liberale, non è in linea di principio contrario a vendere quel poco di partecipazioni statali che ci rimane ma, sempre da buon liberale, capisce anche quali dovrebbero essere i paletti minimi essenziali, e cioè che questo ingresso dei capitali privati avvenga nell’ambito di una politica industriale degna di questo nome, e che sia capace di mettere al servizio di questa politica i capitali, e non viceversa -che però, è più facile da dire che da fare.
La Cina, ad esempio, segue esattamente questa strada: anche la Cina, infatti, cerca di attirare capitali privati per finanziare le sue gigantesche e potentissime aziende di Stato, ma – appunto – lo fa nell’ambito di una politica industriale precisa decisa dal governo. L’operazione, però, non è che stia dando chissà che frutti, e graziarcazzo: seguire una precisa politica industriale, infatti, molto banalmente vuol dire che la remunerazione dei capitali impiegati dipende dal successo di quelle politiche industriali e dalla loro capacità di generare plusvalore; la finalità non è generare profitti in se, ma ottenere qualcosa di concreto per l’economia nazionale – che sia energia più pulita o un servizio postale più efficiente: ovviamente il tutto viene fatto e pensato in modo che possa generare dei profitti, ma non è per niente scontato e quando si dovrà decidere se i profitti fatti vanno redistribuiti tra i soci o reinvestiti, il fatto di dover perseguire una finalità concreta peserà. Insomma: chi porta capitali si accolla un certo rischio di impresa. Nel nostro modello di derisking state, come lo chiama la Gabor, l’ingresso di capitali invece ha una logica completamente diversa; se manca una politica industriale non è un caso: è semplicemente perché l’unica politica industriale che ci deve essere è quella di garantire in ogni modo che i capitali vengano remunerati adeguatamente; per il capitale finanziario non ci deve essere nessuna forma di rischio, e se questo implica trasformare un’azienda produttiva in un carrozzone inutile, pazienza. L’importante è che il dividendo sia sempre garantito: ovvio, quindi, che se i capitali possono scegliere se entrare nella compagine azionaria di un’azienda che deve rispettare una determinata politica industriale o in una dove l’unica politica industriale è riempirli di soldi, opteranno sempre per la seconda; ed ecco perché le aziende di Stato cinesi fanno fatica ad attirare capitale privato, e perché Giorgetti va col piattino in mano a Davos a svendere pezzi di Stato senza avere uno straccio di politica industriale. Qualcuno cerca di minimizzare la cosa sottolineando come, alla fine – ad esempio nel caso di ENI – si tratterebbe soltanto del 4%: in realtà, con questa logica, potrebbe anche essere l’1%; la dinamica non cambierebbe. A guidare l’azienda rimarrebbe sempre e comunque la stretta logica del capitale finanziario: la remunerazione il prossimo trimestre e chi s’è visto s’è visto.
Ma allora, se non serve ad abbattere il debito pubblico e costringe a trasformare le poche aziende decenti che ci rimangono in pure e semplici macchine da dividendi incapaci di creare valore reale per il paese, perché Giorgetti si abbassa al ruolo di mendicante per raccattare questi miseri 20 miliardi? Semplice: come per l’uscita dell’Italia dalla via della seta, è un atto plateale di sottomissione e di sudditanza, ma il masochismo come forma di piacere fine a se stessa non c’entra; molto più banalmente, Giorgetti deve assicurare le oligarchie e i grandi fondi che l’Italia è al loro servizio e che, aiutandola a rimanere in piedi, ci saranno ottimi affari per tutti. E del sostegno dei fondi per non affondare definitivamente, a breve ce ne sarà parecchio bisogno: anche quest’anno, infatti, il Tesoro italiano dovrà collocare sui mercati – che non esistono – 350 miliardi di euro di titoli di Stato. Fino all’anno scorso, una fetta consistente glieli comprava la BCE; quest’anno non solo non ne comprerà, ma venderà anche una fetta di quelli che ha già al ritmo di 7,5 miliardi al mese, e una mole del genere di titoli hanno un solo acquirente: i grandi fondi. Il resto è fuffa: il mercato, i risparmiatori… tutte leggende metropolitane. Quando il debito è a questi livelli, i titoli li possono comprare solo le banche centrali e i fondi, e siccome la nostra politica è al servizio delle oligarchie finanziarie private, la Banca Centrale ha deciso di tirare i remi in barca, cosicché il manico del coltello rimane esclusivamente in mano ai fondi che, quindi, possono pretendere dai paesi indebitati tutto quello che vogliono. Se non lo fai, i titoli non te li comprano, e loro vogliono due cose: impossessarsi dei gioielli di famiglia per spolparli per bene e che lo stato privatizzi tutti i servizi essenziali.
L’unico modo per vedere il bicchiere mezzo pieno è accontentarsi del fatto che a Davos, a quanto pare, Giorgetti il secondo tema non sembra averlo affrontato; ma la strada è tracciata e non sarà certo La Repubblichina che si riscopre statalista per il tempo di un titolone – dopo decenni passati a osannare i Rogoff, il rigore affamapopoli di Bruxelles e la lotta di classe dall’altro contro il basso condotta dai suoi editori e dai loro amicici senza esclusione di colpi – a fermarli: dalla geopolitica alla politica economica, il governo dei fintosovranisti e l’opposizione dei veri svendipatria – di comune accordo – hanno svenduto e stanno continuando a svendere gli interessi nazionali a Washington e alle oligarchie finanziarie.
Contro questo asse del male è arrivata l’ora di riorganizzare un vero fronte popolare, ampio, plurale democratico che dia di nuovo rappresentanza alla stragrande maggioranza del paese affrontando le contraddizioni alla radice: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che si fondi davvero su dati solidi e informazioni reali, invece di inventarsele di sana pianta per far contente le oligarchie. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Kenneth Rogoff