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Tag: suprematismo

I miliziani bianchi uccidono i giovani kanak in Nuova Caledonia

Ottolina chiama, Sud del mondo risponde: continua il rapporto tra la non Tv del 99% e il Sud globale. Questa volta il nostro Gabriele approfondisce i recenti fatti avvenuti in Nuova Caledonia, comunità d’oltremare francese nell’Oceano Pacifico. Di recente, sull’isola si sono verificati violenti scontri tra le autorità, gli indipendentisti e i coloni di origine francese. Così la storia della Nuova Caledonia diventa simbolo del colonialismo dei coloni, che già abbiamo visto all’opera a Gaza in Palestina o in un’altra grande e storica ex colonia francese: l’Algeria. La stampa occidentale intanto ignora le milizie organizzate dai coloni bianchi di estrema destra che sparano contro i nativi incontrati per strada, uccidendo molti ragazzi dall’inizio delle proteste. Questa è una delle conseguenze del classico processo coloniale, associato alla recente liberalizzazione della vendita di armi sull’isola. Buona visione!

#NuovaCaledonia #colonialismo #Francia #suprematismo #imperialismo

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

L’impasse dell’impero dopo il capolavoro iraniano

Carissimi ottoliner, anche oggi, prima di passare alle cose serie, un brevissimo aggiornamento sulla nostra travagliata love story col bimbo prodigio dell’analismo geopolitico fai da te del Tubo, il dottor Parabellum 7 cervellum; grazie alla sua sconfinata cultura e alla sua irraggiungibile perspicacia, Parabellum 7 cervellum, infatti, è riuscito a dimostrare una cosa che ci mette profondamente in imbarazzo: facciamo giornalismo scandalistico e puntiamo alla pancia dei complottari più buzzurri con la favoletta del noncielodikono. La prova provata? E’ sotto i vostri occhi: il nostro motto, il media del 99% che voi ingenuotti pensavate fosse un tributo all’arcinoto slogan di Occupy Wall Street; non a caso voi siete sempre e solo i soliti poveri comunisti e Parabellum 7 cervellum, invece, è CEO di un celebre think tank e vi svela un segreto: “Prendi ad esempio la presentazione di Ottolina” ha raccontato sul canale di Iban Grieco, “loro dicono raccontiamo quello che il 99% della gente non vi racconta” e giù risate. “Cioè” continua “se lo dicono da loro: noi siamo portatori di quella verità alternativa. Io” conclude “non ho mai scritto una cosa del genere sul mio canale”; visto il livello culturale, direi che la cosa stupefacente è che – comunque – sa scrivere e, a quanto pare, anche in modo efficace: grazie a un suo reclamo, infatti, Youtube c’ha buttato giù per la seconda volta il video che lo riguarda. L’altra volta la scusa era il copyright, ora la privacy.
Non gli deve rodere poi tanto, dai; l’ha presa benissimo, talmente bene che, tra una crociata contro i complottisti e l’altra, ha anche elaborato una sua teoria del complotto: secondo Parabellum 7 cervellum, infatti, tutti i video emersi ultimamente che dimostrano come il nostro raffinato analista abbia citato spesso dati a sproposito (ma, soprattutto, abbia completamente ribaltato la sua idea sul ruolo della NATO nel conflitto Ucraino) sarebbero frutto di un coordinamento tra noi, Andrea Lombardi, Dazibao e non so chi altro, intervenuti per difendere il nostro leader maximo Marco Travaglio dopo che, con le sue argomentazioni ficcanti nella fantastica realtà parallela in cui vivono i liberioltristi, lo aveva asfaltato in diretta streaming. Non ha esplicitato, però, a che titolo e in che modo siano intervenuti anche i servizi cinesi, gli hacker nordcoreani e i delfini soldati di Putin, ma non ho dubbio che, prima o poi, riuscirà a svelarcelo; e, con questo, abbiamo finito l’ormai immancabile appuntamento quotidiano con le fantastiche rivelazioni di Parabellum 7 cervellum e torniamo a occuparci di cose serie.
Anzi, no, perché qui la situazione è drammatica, ma non seria: impanicati per le potenziali conseguenze di un’eventuale reazione muscolare da parte di Israele, dopo che sabato l’Iran ha dimostrato di essere in grado di colpire tutti gli obiettivi militari che vuole all’interno dello Stato genocidario di Israele, la propaganda suprematista è alla disperata ricerca di un qualche trofeo simbolico da offrire in pasto all’opinione pubblica e al regime suprematista di Tel Aviv come contentino. Ed ecco, immancabile, il titolone del Corriere della serva: Spinta per le sanzioni all’Iran, spiattella a 6 colonne in prima pagina; Dagli USA alla UE: studiamo le misure. Uno studio, tutto sommato, piuttosto semplice anche per degli alunni non particolarmente brillanti come i camerieri delle oligarchie che guidano le istituzioni dell’Occidente collettivo; la minaccia delle sanzioni, infatti, rischia non essere esattamente uno spauracchio efficace, soprattutto dal momento che l’Iran le sanzioni secondarie illegali degli USA (che l’impero di Washington, grazie alla dittatura del dollaro, impone anche a tutti gli altri) sono in campo ormai da oltre 40 anni e, cioè, da quando la rivoluzione khomeinista ha liberato il paese da quel pupazzo dello Scià messo lì dagli USA con un colpo di stato per rovesciare il governo popolare e sovranista di Mossadeq, e riguardano sostanzialmente tutto, aiuti umanitari e farmaci salvavita compresi.

Maurizio Belpietro

Lo ricorda, in un editoriale totalmente delirante, anche Maurizio Belpietro su La Verità, solo che per lui, appunto, è cosa buona e saggia perché è un’arma di distruzione di massa che permette democraticamente di affamare gli iraniani e mettere in ginocchio la repubblica islamica e di proteggere gli interessi di quella che ancora oggi, dopo 15 mila bambini sterminati, definisce serenamente l’unica democrazia del Medio Oriente; Belpietro, anzi, ricorda come – per un paio d’anni – il ricorso sistematico a questa arma di distruzione di massa sia stato leggermente indebolito. Ed è stata proprio quella la causa di tutti i mali: Se l’Iran minaccia il mondo, è infatti il titolo dell’editoriale, ringraziate i Dem USA; Belpietro ricorda infatti come Obama, come sempre, s’era fatto guidare dal cuore tenero e dall’infantilismo politico tipico dei democratici e aveva concesso all’Iran una riduzione delle sanzioni unilaterali illegali. In cambio, ovviamente, Obama aveva pensato di poter ottenere che l’Iran rinunciasse allo sviluppo del nucleare, per permettere a Israele di essere l’unico paese della regione a detenere segretamente il nucleare al di fuori di ogni accordo internazionale e garantire, così, la supremazia strategica dell’avamposto coloniale dell’imperialismo USA; ma siccome – si sa – gli iraniani sono cattivi, invece che sfruttare questa possibilità “per migliorare le condizioni di vita della propria popolazione… hanno usato quei soldi per armarsi e per riempire gli arsenali di una serie di movimenti terroristi dell’area, senza mai sospendere il programma nucleare”. Ovviamente l’AIEA, in realtà, dopo le sue ispezioni affermava il contrario, ma anche Saddam diceva di non avere le armi chimiche e poi Powell dimostrò il contrario con una fialetta piena di borotalco all’ONU.
Fortunatamente, però, dopo quel bambinone di Obama arrivò alla Casa Bianca un vero macho tutto d’un pezzo come Trump che, dietro consiglio di un vero statista integerrimo come John Bolton, “stracciò l’accordo con Teheran” e dichiarò guerra agli ayatollah, tra embargo, accordi di Abramo per saldare il progetto coloniale israeliano alle monarchie assolute del golfo e una bella dose di omicidi extra giudiziali ed extraterritoriali che, insieme alle sanzioni illegali, sono il vero simbolo della democrazia e dello stato di diritto con caratteristiche statunitensi; peccato, però, che dopo questa età dell’oro alla Casa Bianca siano tornati uomini senza banana arancione e senza spina dorsale che, da bravi traditori dei veri valori dell’Occidente, le sanzioni hanno deciso di allentarle e hanno permesso così all’Iran di tornare a sostenere “Hezbollah, Houthi, Hamas e qualsiasi altro movimento di tagliagole in attività nel mondo islamico” (a parte quelli democratici addestrati e foraggiati da Israele, dagli Stati Uniti e dalle illuminate petromonarchie del Golfo, ovviamente) e ora, continua Belpietro, “L’agenzia nucleare mondiale ci informa che gli ayatollah sono a un passo dalla produzione della bomba atomica”. “Insomma” conclude Belpietro, “grazie a Obama, Clinton e Biden siamo sull’orlo di una nuova guerra, che non riguarda il Medio Oriente, ma tutto il mondo”.
Ora, io di cazzate – come sapete – sono abituato a leggerne tante, ma un intero editoriale dove non c’è nemmeno una, e dico una, notizia non dico vera, ma nemmeno verosimile, forse non m’era mai capitato (e meno male che il giornale si chiama La Verità); l’Iran infatti, al contrario di cosa farfuglia Belpietro, il ramo di ulivo offerto da Obama l’ha utilizzato per dare un po’ di respiro alla sua popolazione e alla sua economia, eccome: tra il 2012 e il 2015, infatti, con l’inasprirsi delle sanzioni l’Iran aveva subìto un tracollo economico impressionante che aveva visto il PIL passare da 640 a 400 miliardi; peggio di una guerra – e con altrettanti morti. Allentate le sanzioni, che – ribadiamo – non è una concessione, ma solo un ripristino di un minimo di legalità internazionale, l’economia iraniana ha ripreso a correre: oltre il 20% in due anni, due anni di attività frenetiche e di grandi aspettative. Se Belpietro, tra una propaganda suprematista e l’altra, avesse parlato non dico con qualche antimperialista, ma anche solo con qualche imprenditore italiano (di quelli che dice di difendere e rappresentare) lo saprebbe benissimo, a partire proprio da quelli politicamente più vicini a lui: ad esempio, dallo stesso Adolfo Urso, che aveva colto l’occasione al balzo e aveva fondato una società di consulenza per le aziende ad hoc.
Un periodo che ricordo benino perché, a differenza di Belpietro, ogni tanto (per mia disgrazia) ho anche lavorato e dovevo andare con una delegazione di imprenditori italiani a Teheran per documentare alcune trattative molto importanti e promettenti, a partire dai mega progetti di ammodernamento della rete ferroviaria – dove l’Italia e alcune sue eccellenze l’avrebbero fatta da padroni – fino a che non arrivò parrucchino e la sua gang di guerrafondai suprematisti che, su richiesta dello stato terrorista di Tel Aviv, mentre in Siria foraggiavano insieme il terrorismo islamista della peggior specie, ingaggiarono una guerra per la distruzione e il regime change a Teheran e l’Italia perse di botto commesse da centinaia di milioni e potenzialmente, in prospettiva, plurimiliardarie. E l’Iran ripiombò nella crisi e comprese che ogni tentativo di trovare un nuovo dialogo con l’Occidente era del tutto velleitario. L’unico obiettivo degli USA era impedire in ogni modo la stabilità di uno Stato sovrano nella regione che mettesse a rischio il suo progetto imperiale e neocoloniale, e l’obiettivo dell’Europa, molto banalmente, non c’era: era solo obbedire a Washington e smentire sistematicamente accordi presi il giorno prima; da lì, tutti gli sforzi della repubblica islamica si sono concentrati nell’organizzazione dell’asse della resistenza per mano di uno dei più grandi strateghi militari degli ultimi decenni, il leggendario generale Soleimani, poi barbaramente assassinato da Washington nell’ennesimo omicidio extragiudiziale.
La bomba più eclatante, però, Belpietro la tira quando afferma che l’IAEA (che non sa manco come si chiama) avrebbe affermato che “Gli ayatollah sono a un passo dalla bomba atomica”; peccato che, durante la conferenza stampa di martedì, Rafael Grossi, che dell’IAEA è il direttore generale, abbia detto esplicitamente che “Per quanto riguarda l’Agenzia non abbiamo alcuna informazione o indicazione che l’Iran abbia un programma di armi nucleari” . L’editoriale infarcito di fake news di Belpietro, purtroppo, però è soltanto il caso più sguaiato ed eclatante di una propaganda che dalla notte di sabato lavora instancabilmente per tentare di rovesciare completamente la realtà e, ancora una volta, trasformare l’aggressore in aggredito, fino al paradosso. Il nostro amico Paolo Ferrero, ex ministro della solidarietà sociale, ieri infatti è stato intervistato da una piccola radio: Ferrero, ovviamente, ha ricordato il precedente dell’attacco illegale criminale del regime genocida al consolato iraniano di Damasco, al che il giornalista ha spiazzato tutti ed ha chiesto “Ministro, ma lei come ha saputo di questo bombardamento contro l’ambasciata iraniana? Perché io non l’ho letto da nessuna parte”; ma non solo, perché oltre a ribaltare platealmente il rapporto aggredito – aggressore, nell’agenda della propaganda suprematista, infatti, ci sono almeno altre due partite altrettanto importanti.
La prima è decantare la supremazia militare dell’uomo bianco, che non può mai essere confrontata con quella dei popoli inferiori, ma – come ricorda anche Guido Olimpo sul Corriere della serva – a febbraio la TV di Stato iraniana aveva trasmesso in pompa magna una strana esercitazione militare: in un poligono, erano stati ricostruiti degli hangar che assomigliavano in tutto e per tutto alle strutture della base di Nevatim, la famosa base aerea del deserto del Negev, che sono stati raggiunti da una selva di missili con gittate dai 1.400 ai 2.000 chilometri e, cioè, esattamente quello che è successo sabato scorso; nello sciorinare le altissime percentuali di abbattimenti effettuati con successo dalla possente alleanza messa in piedi in fretta e furia dagli USA a sostegno del genocidio, si dimenticano di sottolineare che, per la stragrande maggioranza, si trattava di droni da due bicci che sono stati lanciati apposta per essere abbattuti, ma che, per essere abbattuti, hanno impegnato una bella fetta dell’antiaerea che ha lasciato dei buchi grossi come case dove i missili veri, invece, sono passati eccome. Risultato: gli obiettivi militari che l’Iran voleva dimostrare di essere in grado di colpire e, cioè, tre installazioni (tutte e tre coinvolte, a vario titolo, nell’attacco criminale al consolato iraniano di Damasco), sono stati tutti colpiti. L’entità dei danni non è chiara, ma, con ogni probabilità, sono minimi – e graziarcazzo, non era quello lo scopo: lo scopo era semplicemente dimostrare che l’Iran è in grado, dal suo territorio, di colpire gli obiettivi che vuole.
La seconda partita, invece, è quella di dimostrare che in ballo non c’è la guerra tra l’imperialismo colonialista bianco e il resto del mondo, ma che abbiamo un sacco di amici anche nell’islam moderato – e, cioè, quello delle monarchie, meglio se assolute; il culmine del trash della propaganda woke al servizio di questa retorica coloniale l’ha toccato La Stampa con un articolo imbarazzante di Francesca Paci, scandalizzata perché “La sfida del velo non ci scalda più”, una battaglia coraggiosa per permettere alle donne gazawi di essere sterminate liberamente senza velo.
Ma – al di là delle solite trashate dell’imperialismo delle ZTL – in questa partita c’è anche un aspetto decisamente più inquietante: sin dall’inizio, infatti, si è giocata una partita delicatissima sul ruolo dei paesi arabi nell’alleanza che ha intercettato l’attacco iraniano. Quali paesi arabi siano stati coinvolti, e come, rimane ancora ad oggi un mistero; una cosa però è certa: se hanno aiutato Israele, lo hanno fatto contro le loro opinioni pubbliche che, anche laddove abbiano una pessima opinione dell’Iran, ovviamente questo sentimento non è comparabile con il disprezzo viscerale per l’entità sionista e l’imperialismo USA. Ergo, anche nel caso venga confermata la loro collaborazione, il loro interesse fondamentale è che rimanga tutto dietro le quinte (come d’altronde sono sempre rimaste le trattative e i negoziati, in particolare tra sauditi e israeliani) e tutto questo ancora prima che Israele sterminasse decine di migliaia di bambini e affamasse tutti gli altri; e visto che questi eventuali partner locali per Israele e per l’imperialismo USA sono fondamentali e sono in una posizione delicatissima, a rigor di logica il primo obiettivo della nostra propaganda dovrebbe essere quello di negare un loro ruolo anche di fronte all’evidenza.
Eppure, a questo giro, è successo esattamente il contrario: nonostante non vi siano notizie certe – e nonostante sauditi ed emiratini abbiano addirittura evitato sistematicamente anche solo di condannare l’operazione iraniana, al contrario di quanto avvenuto nel caso dell’attacco terrorista di Tel Aviv al consolato iraniano di Damasco, prontamente condannato in mondovisione da tutte le cancellerie dell’area – già domenica tutti i nostri media di regime sottolineavano con forza il ruolo attivo dei paesi arabi; forse, come dice Parabellum, sono diventato complottista e cavalco la retorica del noncielodikono, ma a me, sinceramente, questa roba mi è puzzata un po’ di operazione piscologica spinta dai servizi sin da subito. E quel sospetto è diventato, ieri, un’ossessione quando su La Stampa ho visto questa intervista qua: un giornalista anonimo intervista un riservista anonimo israeliano che parla di piani anonimi che prevedono il coinvolgimento anonimo di paesi arabi anonimi; quanto sono complottista inside, da 1 a 10, se mi viene il sospetto che questo articolo l’abbia pubblicato direttamente l’intelligence senza neanche passare dalla redazione? “Ci sono rapporti e smentite a proposito del ruolo svolto dai paesi arabi” chiede l’intervistatore anonimo; “qual è stato l’apporto degli stati arabi?”. “Quello che posso dire” risponde il riservista anonimo “è che per dispiegare questo tipo di difesa, in grado di bloccare un attacco di quella portata, abbiamo utilizzato risorse che non sono solo di dominio israeliano. E che a livello di spazio aereo, per affrontare qualcosa che viene da est, abbiamo dovuto volare da qualche parte a est di Israele, sopra territori che sono al di fuori dei nostri confini. Tutto è stato fatto in coordinamento, ma non posso entrare nel dettaglio di chi esattamente ha fatto cosa”; “Cosa comporta la cooperazione, in materia di sicurezza, tra Israele e i partner arabi?” rilancia l’intervistatore anonimo: “Non aspettatevi che condivida i termini esatti dell’accordo, sempre che esista questo tipo di documento. Come si può immaginare, se uno Stato partecipa a questo tipo di coordinamento e ti permette di sorvolare il suo spazio aereo, si tratta di una relazione unica. Non sono qui per svelare alcun segreto. Ma chiunque sappia fare due conti, se si pensa a un missile che vola da centinaia di chilometri verso Israele e si vuole intercettarlo prima che arrivi a destinazione, bisogna volare in cieli altrui. E non è stato certamente fatto senza chiedere permesso”.
Ora, io purtroppo non ho il curriculum di Giuliano Ferrara e devo dire che non ho mai avuto a che fare con nessun servizio di intelligence; quindi, in realtà, esattamente come operano non lo so, ma questa intervista dove nessuno dice niente, priva di ogni qualsivoglia minimo riferimento a qualcosa di verificabile, che può voler dire tutto e il contrario di tutto, tutto sotto forma anonima, non è proprio palesemente e platealmente una roba da servizi?
Ora, ovviamente qui c’è un aspetto piuttosto comprensibile che è, appunto, la necessità dell’imperialismo di far finta di fare anche gli interessi almeno di pezzi di popolazione locale, una battaglia di propaganda che ha assunto toni paradossali nel solito articolo di Di Feo: USA, Israele e sunniti: la nuova alleanza che ha fornito lo scudo politico militare anti-Iran, titolava; cioè, non i loro governi dispotici, ma proprio i sunniti come etnia che, ovviamente, prima di dare una mano al regime genocida che sta sterminando in diretta streaming i loro fratelli, si tagliano un braccio. Come ha riportato candidamente anche Deutsche Welle per mano del suo inviato in Giordania: “L’Iran non è popolare in Giordania, in generale, ma rifiuto l’intercettazione dei missili iraniani da parte della Giordania e il suo coinvolgimento involontario in questa guerra” avrebbe affermato una manifestante pro Palestina che, secondo la giornalista, rappresentava lo spirito diffuso nella piazza. Nelle ore successive, diverse fonti saudite, tra cui al Arabiya, hanno riportato dichiarazioni anonime che escludevano categoricamente ogni coinvolgimento saudita nell’alleanza costruita in fretta e furia dagli USA a difesa del genocidio. Ovviamente non significa che sia vero, anzi; ma ovviamente, immagino – che abbiano dato un sostegno o no – vedersi sputtanati così su tutti i media occidentali non credo gli abbia fatto piacere. E non credo che aumenti la capacità di USA e Israele di riportarli nettamente dalla loro parte, dopo le manovre di avvicinamento agli iraniani magistralmente coordinate l’anno scorso dalla diplomazia cinese.
Sarò ottimista, ma in questa maldestra operazione psicologica da parte della propaganda occidentale io vedo un chiaro segno di debolezza che non può che spostare ulteriormente i rapporti di forza a favore dell’asse della resistenza e convincere ancora di più le petromonarchie che il regime coloniale non è più in grado di garantirne la sicurezza in opposizione alle forze popolari e antimperialiste dell’area e che, se vuole tentare di far sopravvivere il suo regime feudale, deve provare attivamente a trovare un nuovo equilibrio regionale che le permetta di emanciparsi dal ruolo di cagnolino obbediente dell’imperialismo. L’operazione psicologica fatta dall’impero ai danni dei suoi partner arabi, da questo punto di vista, potrebbe essere un tentativo disperato di entrare a gamba tesa sulla dialettica interna a questi paesi per metterli di fronte a un fatto compiuto: è inutile che vi arrampichiate sugli specchi per dimostrare all’opinione pubblica della regione che non siete gli utili idioti dell’imperialismo, perché vi abbiamo già sputtanato. E potrebbe anche essere il tentativo di fornire un assist alle fazioni più filo-occidentali e più dubbiose sulla possibilità di costruire una nuova distensione con l’Iran e l’asse della resistenza che non metta automaticamente a rischio la sopravvivenza del loro regime premoderno.
Una cosa è certa: l’era dove USA e Israele colpivano a destra e manca senza dover temere le ripercussioni e disponendo a loro piacimento degli Stati pupazzo dell’area sembra essere definitivamente tramontata ed essere ancora in salute solo nella propaganda delle SS, gli specializzati in stronzate che ancora parassitano il nostro sistema mediatico. Mentre l’asse della resistenza dà il benservito all’imperialismo, noi almeno facciamo la nostra parte per dare il benservito ai suoi pennivendoli. Aiutaci a costruire un vero e proprio media alternativo, che dia voce al 99%: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio Belpietro

Russia e Iran asfaltano il mito dell’invincibilità dell’impero e impongono l’ordine multipolare

Carissimi ottoliner, anche oggi – prima di passare alle cose serie – un po’ di Cabarellum e vaudeville vario dal mondo incantato delle bimbe di Bandera: ieri, infatti, vi avevamo mostrato uno screenshot che dimostra come Parabellum stia rassicurando la sua fanbase sulla sua ferma intenzione di respingere al mittente le accuse di Ottolina Tv andandolo a dire all’avvocato, dopo averlo già detto alla mamma Youtube. In 25 anni di Report, è l’atteggiamento standard che ho sempre riscontrato in chi era stato colto in castagna: invece che rispondere nel merito, annunciare una querela; ovviamente sanno benissimo che la querela non va da nessuna parte, ma per chi in cuor suo, comunque, li ha già assolti a prescindere, rappresenta una rassicurazione sempre molto efficace e se lo fanno multinazionali multimiliardarie dalle quali dipende una fetta importante della nostra vita, perché mai non dovrebbe farlo anche Parabellum che, come sottolinea lui, è addirittura CEO di un think tank? Amministratore delegato: una carica prestigiosa, mica cazzi; peccato si riferisca a un’azienda che, secondo le visure camerali, non vanta poi tantissimi dipendenti. Anzi, ne vanta 0. E’ un po’ come se quello che ti fa il cappuccino la mattina, invece che come barista, si presentasse come CEO del Bar da Luigi e Ivana, o come quando qualcuno mi definisce il direttore di Ottolina Tv, a me, che non sono in grado nemmeno di dirigere quelle due carognette dei mi’ figlioli.
Il fatto ingiurioso che avrebbe spinto un paladino del mondo libero come Parabellum a pensare di rivolgersi a un avvocato, è questa copertina – oppure questo meme (non ho capito bene, sinceramente): Parabellum sostiene, infatti, che anche quando ha avuto da ridire, ad esempio, con Lilin, non ha fatto nessun meme perché – sottolinea – “Si attacca la tesi, non il relatore”; evidentemente, come per la definizione di chi è l’aggressore e chi l’aggredito nella guerra per procura in Ucraina, crescendo (e fatturando) ha cambiato idea. Questa, infatti, è la copertina di un suo vecchio video e questo, in basso a sinistra, è Alessandro Orsini con la faccia sovrapposta a quella di Efiliate, il mostro di 300 che tradisce Sparta per passare col nemico; e questa, invece, è un’altra copertina di una live del suo sponsor principale, il raffinatissimo intellettuale e grandissimo giornalista d’inchiesta Ivan Grieco, che s’è fatto tutta una live con questa parrucca perculando sempre Orsini. Ho come il sospetto che qui c’è chi rischia di avere la bocca e le dita più veloci dei neuroni; e con questo concludiamo l’appuntamento quotidiano con l’incredibile mondo delle bimbe di Bandera e torniamo a occuparci di cose un pochino più serie.

Stephen Bryen

Secondo l’ex vice sottosegretario alla difesa USA Stephen Bryen, ormai in Ucraina “la Russia domina lo spazio aereo” e le difese aeree ucraine sono letteralmente scomparse e, secondo Bloomberg, questo ormai alimenta “la paura che l’esercito ucraino sia vicino al punto di rottura”; al che uno dice eh vabbeh, grazialcazzo, le forze armate russe mica sono un avversario qualsiasi. Prima di essere folgorato sulla via di Damasco che porta dritto all’interno dei salotti buoni della propaganda analfoliberale, pure Parabellum lo diceva che “mettercisi contro dal punto di vista militare è stupido”; il problema, però, è che l’insormontabile scoglio russo è solo la punta dell’iceberg: da ormai 4 mesi gli USA si sono ritrovati impantanati in un conflitto nel Mar Rosso che, inizialmente, la propaganda aveva provato a spacciare come una sorta di passeggiata di piacere. Contro quegli scappati di casa di Ansar Allah, il problema sembrava sostanzialmente quello di mantenere un po’ il contegno e non infierire in modo troppo violento contro un nemico così platealmente inferiore; dopo 4 mesi di bombardamenti illegali e un imponente impegno di forze e di risorse che, probabilmente, gli USA avrebbero preferito concentrare sul Pacifico – dove si continuano a scaldare i motori per il vero grande conflitto sistemico che l’impero dovrà affrontare per tentare di rinviare il suo inesorabile declino – gli USA hanno dovuto fare anche qui un discreto bagno di realtà, fino ad arrivare a dichiarare, per bocca dell’inviato speciale per lo Yemen Tim Lenderking, che “siamo consapevoli che non c’è una soluzione militare, e siamo a favore di una soluzione diplomatica”. “Gli Stati Uniti” scrive il giornalista libanese Kalil Nasrallah su The Cradle “hanno segretamente offerto una straordinaria serie di concessioni ad Ansar Allah per fermare le sue operazioni navali a sostegno di Gaza”, ma, purtroppo, “senza alcun risultato”.
Nel frattempo, gli USA subivano un attacco nella loro principale base al confine tra Siria e Giordania, che rappresentava un’altra pietra miliare nella strada che porta al declino: per la prima volta diventava chiaro che la loro contraerea non era più in grado di garantire la sicurezza delle installazioni militari dell’impero nel Medio Oriente, uno snodo storico: nel caso di un’evoluzione del genocidio in corso verso una guerra regionale, gli Stati Uniti, infatti, si troverebbero nell’impossibilità di dispiegare in sicurezza le loro forze di terra nell’area.
E, infine, ecco che arriva la spettacolare operazione militare iraniana di sabato scorso. Per capirne l’impatto reale basta vedere il panico che ha sollevato in tutte le redazioni impegnate nel sostegno allo sterminio dei bambini palestinesi che, come sempre di fronte a una realtà che non rientra nell’idea della insindacabile superiorità dell’uomo bianco rispetto al resto della popolazione mondiale, fanno presto: ribaltano la realtà e chi s’è visto s’è visto. Israele e Occidente respingono l’Iran titolava ieri Il Giornanale: “L’abbattimento del 99 per cento degli ordigni” esulta Gian Micalessinofobia “è anche la più significativa vittoria conseguita dal premier israeliano Benjamin Netanyahu in sei mesi di guerra”; beh, immaginiamoci le altre, allora… Come scriveva giovedì scorso Chaim Levinson su Haaretz, “Dobbiamo cominciare a dire chiaramente quello che non potrebbe essere detto: Israele è stato sconfitto. Una sconfitta totale”: “Gli obiettivi della guerra non verranno raggiunti” sottolinea Levinson, “gli ostaggi non verranno restituiti, la sicurezza non verrà ripristinata e l’ostracismo internazionale di Israele non finirà”.
Ora, ovviamente, fare un bilancio di un conflitto è sempre piuttosto complicato e il tutto è sempre fortemente influenzato dai vari bias cognitivi e dal wishful thinking di ognuno; la buona notizia, però, è che per il livello che interessa a noi qui, adesso, questa sostanziale impossibilità di determinare – oltre ogni ragionevole dubbio – chi vince e chi perde, non conta: il punto, infatti, è che all’impero non basta non perdere il singolo conflitto – e nemmeno vincerlo. Per stare in piedi, l’impero ha bisogno che i suoi vassalli siano convinti del fatto che, alla fine, molto banalmente non può perdere: l’idea dell’invincibilità dell’impero è il più importante e irrinunciabile dei suoi asset, a maggior ragione quando è in declino; l’impero in ascesa, o nell’era del suo massimo splendore, sui suoi vassalli è in grado di esercitare la sua egemonia, che significa che, in cambio della rinuncia alla tua sovranità, puoi comunque partecipare alla redistribuzione di una parte dei dividendi di questo ordine. Insomma: non conti una sega, non puoi decidere, ma comunque, alla fine – almeno da alcuni punti di vista – ci guadagni. L’ordine fondato sull’impero in declino, invece, tutti questi dividendi da distribuire ai vassalli per tenerli buoni e convincerli che quell’ordine è nel loro stesso interesse, non li genera più: l’impero in declino, i suoi vassalli li deruba senza dare niente in cambio e l’unica cosa che impedisce ai vassalli di ribellarsi è proprio il monopolio della forza bruta e l’idea dell’invincibilità dell’impero. Non a caso gli USA, su questo, hanno voluto eliminare ogni dubbio: le 1000 basi sparse per il pianeta e una spesa militare che, da sola, eguaglia sostanzialmente la spesa militare del resto del mondo messo assieme, servono proprio a questo, un segno chiaro e inequivocabile della propria supremazia, ma i segni, ormai, potrebbero non essere più sufficienti. Tutti gli esempi che abbiamo elencato rapidamente sopra rappresentano una mazzata gigantesca al mito dell’invincibilità e, a ben vedere, non potrebbe essere altrimenti: la gigantesca macchina bellica statunitense che è di gran lunga, ancora oggi, la più imponente dell’intera storia dell’umanità, sconta infatti due criticità strutturali che cominciano ad avere un peso insostenibile.
La prima è che buona parte di quello sterminato budget serve molto più a ingrassare le casse delle oligarchie del comparto militare industriale (e le tasche di quella che il nostro amico David Colantoni definisce la classe militare) che non a potenziare davvero la macchina bellica USA: l’esempio eclatante sono la quantità smisurata di quattrini che vanno sempre in nuovi armamenti che promettono magie e, alla fine, sul campo si rivelano più o meno avere la stessa funzionalità dei vecchi – ma con costi di ordini di grandezza superiori – che, spesso, sottraggono risorse a cose che non fanno tanta notizia, ma che sono davvero indispensabili, come le munizioni. La seconda è quello che definiamo il vantaggio asimmetrico della resistenza antimperialista che è, ad esempio, quello che ha portato gli USA a subire una disastrosa sconfitta in Vietnam e che, comunque, anche nelle guerre successive gli ha impedito di ottenere vittorie stabili e durature anche dopo aver temporaneamente annientato un nemico infinitamente più debole. Ma prima di proseguire in questo viaggio dentro la fine del mito dell’invincibilità dell’impero, ricordatevi di mettere mi piace a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra asimmetrica contro la dittatura degli algoritmi e, già che ci siete, anche quella di logoramento contro la propaganda suprematista iscrivendovi a tutti i nostri canali e attivando le notifiche; perché se l’impero, nonostante tutto, ancora oggi continua a infinocchiare qualcuno con il mito dell’invincibilità è solo a causa della gigantesca macchina propagandistica che affianca quella militare, ma che, come quella militare, dovrà fare i conti sempre di più con il vantaggio asimmetrico dell’antimperialismo e, cioè, voi, la gente comune e onesta che s’è rotta i coglioni di sorbirsi le loro cazzate.
Tra i tanti meriti dell’operazione militare effettuata dall’Iran sabato scorso, sicuramente una menzione speciale va a come abbia, per l’ennesima volta, esposto chiaramente a tutti la ferocia di cui è capace il suprematismo colonialista dell’uomo bianco quando qualcuno si azzarda davvero a metterlo in discussione armi alla mano: i giornali di ieri erano un tripudio di sostegno incondizionato allo sterminio dei sottouomini, con una proliferazione degli ormai onnipresenti SS, i sostenitori di stronzate, da fare impallidire i regimi più sanguinari della storia umana. Secondo Il Foglio “Si è svelato il vero Iran”: “Israele” scrivono gli amici del genocidio grazie ai soldi delle tue tasse “fa la stabilità del Medio Oriente contro l’Iran, mina vagante”, con a fianco una imperdibile chicca delle sempre imbarazzante Cecilia Sala che sostiene, addirittura, che “Allo stadio e in fabbrica gli iraniani dicono: non siamo chi ci governa” e chiedono info per prendere la tessera di Italia Viva; d’altronde, rilancia Micalessinofobia su Il Giornanale, “Per Netanyahu” si è trattato di “una vittoria totale”. “Forza Israele” rilancia ancora Il Foglio: “La nuova guerra per la libertà che combatte Israele riguarda tutti noi”.
Ma il vero colpo di classe è che, contemporaneamente, la stessa identica propaganda suprematista fa un salto mortale e prova a coprire anche l’interpretazione diametralmente opposta e, così, basta scorrere una pagina e, da un terribile attacco alla stabilità della regione (che ai bambini sterminati da Israele tanto stabile forse non appare), l’operazione iraniana ecco che, per magia, diventa una cos’e niente architettata da degli scappati di casa che non riuscirebbero a fare paura manco a una scolaresca. Il trait d’union tra queste due versioni apparentemente inconciliabili è uno solo: l’impero è invincibile e, come la metti la metti, non c’è resistenza che possa ottenere risultati significativi; tocca solo capire se ignorarla perché, alla fine, è innocua o raderla al suolo perché si è azzardata ad alzare la testa. Decidere razionalmente di compiere un’azione, portarla a termine e raccoglierne i risultati è una prerogativa della superiore civiltà dell’uomo bianco; gli altri sono attori irrazionali che a volte scalciano, a volte sconigliano, ma che mai e poi mai possono avere e perseguire un’agenda politica autonoma e razionale: ma siamo proprio sicuri sia davvero andata così?

droni sulla Spianata delle moschee

Prima questione: l’operazione militare è stata una minaccia inquietante contro il resto del mondo o una pagliacciata? Ovviamente, piuttosto chiaramente, nessuna delle due; che non si sia trattato di una semplice pagliacciata lo dimostra un dato su tutti: l’Iran, in tutto, avrebbe speso alcune decine di milioni, Israele – e i vari amici sostenitori dello sterminio dei bambini palestinesi – oltre 1 miliardo. Se è stata una pagliacciata, per il mondo libero di sterminare non è stata a buon mercato. L’Iran avrebbe speso così poco per un motivo molto semplice: il meglio del suo arsenale non l’ha tirato in ballo. Il motivo è piuttosto semplice: la risposta iraniana all’attacco criminale di Israele contro il suo consolato a Damasco voleva essere misurata e proporzionale. L’obiettivo mi pare chiaro: si voleva evitare di offrire a Israele una scusa valida per replicare, a sua volta, con un’altra ritorsione sproporzionata che avvicinerebbe una regionalizzazione del conflitto che non vuole nessuno (a parte, appunto, i suprematisti sionisti in preda al peggiore dei deliri ideologici autodistruttivi). Per calibrare l’attacco, l’Iran – addirittura – avrebbe trattato direttamente con gli USA per capire qual era il limite possibile per infliggere a Israele un duro colpo strategico, ma permettere, comunque, agli USA e agli altri amici del genocidio di mantenere una certa distanza da Israele e non supportare acriticamente ogni tipo di reazione, fatto per cui alcuni analisti un po’ confusi hanno parlato, appunto, di una messa in scena teatrale che non fa altro che rafforzare l’occupazione sionista; una lettura molto superficiale che denota una scarsa capacità di lettura di cosa sia e come funzioni l’imperialismo.
Per quanto gli USA vogliano, in tutti i modi, evitare un’escalation regionale, la loro copertura di Israele in quanto avamposto dell’imperialismo USA nella regione non potrà mai venire meno, dal momento che una sconfitta di Israele significherebbe una vittoria del mondo multipolare e postcoloniale; quindi, anche nel caso Israele decidesse di trasformare il genocidio in una guerra regionale, per quanto contrario l’imperialismo USA non potrebbe che correre in loro soccorso facendo, così, naufragare definitivamente la strategia USA che comporta un disimpegno dal Medio Oriente per potersi concentrare sul Pacifico. In sostanza, le priorità USA hanno un ordine gerarchico preciso: primo, impedire agli attori del nuovo ordine multipolare di avanzare fino a trasformare alcune aree del pianeta in aree sotto la loro influenza e totalmente indipendenti dal progetto imperiale USA e, solo dopo, riuscire a mantenere questo equilibrio grazie ai propri proxy per potersi permettere di concentrarsi principalmente nel principale dei fronti della guerra contro il declino imperiale che è, ovviamente, il Pacifico. La strada che si trova, quindi, a percorrere l’Iran è oggettivamente stretta e va percorsa con cautela; chi, invece, ci vede un’autostrada da percorrere con l’acceleratore a paletta rischia di essere o un incompetente o un avventuriero, ma sulla pelle altrui: all’interno di questa strada strettissima, allora, il punto è stabilire se l’Iran abbia ottenuto qualcosa di veramente significativo oppure, come sostengono i detrattori, abbia semplicemente fatto una messa in scena per accontentare la sete di vendetta del suo popolo che, in quanto non occidentale, è ovviamente feroce e anche parecchio limitato.
Il primo obiettivo, ovviamente, è quello della deterrenza e come sottolinea giustamente su X la nostra amica Rania Khalek di BreakThrough News “Se Israele fosse stato colto di sorpresa e non avesse avuto a disposizione diversi giorni per mitigare l’impatto dell’attacco iraniano, il danno sarebbe stato enorme. Una vera guerra al contrario non verrebbe annunciata in anticipo in modo che Israele possa preparare una sorta di sinfonia delle difese aree dei suoi alleati. Biden” deduce Rania “comprende questo rischio, ed è il motivo per cui ha affermato che non sosterrà un eventuale contrattacco israeliano” soprattutto perché, appunto, ammesso e non concesso che gli arsenali svuotati dei sostenitori dello sterminio dei bambini palestinesi e la loro base industriale sia, alla prova dei fatti, in grado di sostenere questo livello di fuoco, a non poterlo sostenere – probabilmente – sarebbero ancora prima i portafogli. “L’equazione nella regione” conclude Rania “è cambiata, e l’Iran lo ha fatto magistralmente e responsabilmente senza innescare la grande guerra”.
Nello specifico dell’operazione militare iraniana, un altro aspetto molto interessante è quello sottolineato dal sempre ottimo Fadi Quran di Avaaz, sempre su X: ricordando una vecchia lezione a cui ha assistito alla Stanford University, Fadi sottolinea come “La portata dell’attacco iraniano, la diversità dei luoghi presi di mira e le armi utilizzate, hanno costretto Israele a scoprire la maggior parte delle tecnologie antimissilistiche di cui dispongono gli Stati Uniti e i suoi alleati nella regione. Gli iraniani” continua “non hanno usato armi che Israele non sapeva avessero, ma ne ha semplicemente usate molte. Gli iraniani invece ora probabilmente hanno una mappa quasi completa di come appare il sistema di difesa missilistico israeliano, così come di dove in Giordania e nel Golfo gli Stati Uniti hanno installazioni”; “questo” sottolinea ancora Quran, per Israele rappresenta “un costo strategico enorme: l’Iran adesso può decodificare tutte queste informazioni e ha gli strumenti per un futuro attacco enormemente più mortale”. “Chiunque sta sottolineando che si è trattato soltanto di un’operazione scenografica, non tiene in dovuta considerazione il fatto che raccogliere informazione sulle posizioni del nemico è estremamente prezioso, soprattutto se siamo di fronte a una lunga guerra di logoramento”; “Netanyahu e il governo israeliano” conclude “preferiscono una guerra rapida, calda e urgente in cui possano attirare l’America. Gli iraniani invece preferiscono una guerra di logoramento più lunga che privi Israele delle sue capacità di deterrenza e lo renda per gli arabi e gli Stati Uniti un alleato troppo costoso da sostenere”, soprattutto dal momento che questo continua ad essere solo uno dei tanti fronti e altrove non è che le cose vadano esattamente molto meglio.
Le difese aeree sono scomparse, titola Asia Times; la Russia domina lo spazio aereo dell’Ucraina: nell’articolo, il vice sottosegretario alla difesa USA Stephen Bryen ricorda come “La maggior parte dei sistemi di fascia alta precedentemente forniti dagli Stati Uniti e dall’Europa sono stati distrutti o hanno esaurito i missili intercettori”; “Ora” continua Bryen “gli Stati Uniti hanno annunciato che forniranno 138 milioni di dollari per mantenere e riparare i sistemi di difesa aerea HAWK precedentemente consegnati all’Ucraina”. Un sistema che, però, ormai non riscuote più molto successo: Taiwan ha recentemente deciso di liberarsene, sostituendoli con un sistema autoctono denominato Tien Kung e Israele ha dichiarato che quelli che gli rimangono sono ormai in pessime condizioni e non sono operativi, e che li sta sostituendo con i suoi Fionda di David. D’altronde l’HAWK è un sistema di difesa antiaerea semimobile che, nella sua versione originale, risale ormai agli anni ‘50; nel tempo sono stati implementate diverse migliorie, ma il grosso delle componenti sono “circuiti integrati di media scala che sono per lo più fuori produzione”: “è piuttosto improbabile” sottolinea Bryen “che una qualsiasi fonderia sia disposta a intervenire sulle sue linee per produrre una manciata di queste componenti, e quindi i computer, i componenti di guida, il sistema di controllo del fuoco, i radar e l’elettronica di bordo potrebbero avere i giorni contati”. E anche se riuscissero a risolvere questo collo di bottiglia, la reale efficacia, comunque, rimarrebbe opinabile: “Quanto sia efficace HAWK contro le minacce moderne” sottolinea infatti Bryen, “non è chiaro”; “Generalmente si ritiene che la capacità di uccisione di HAWK contro gli aerei sia superiore all’85% se lanciato in tandem (e, cioè, due missili per bersaglio)”, se il bersaglio è sufficientemente vicino, però. La gittata dei missili HAWK, infatti, non supera le 30 miglia; le bombe plananti – che vengono usate sempre di più dall’aviazione russa – partono da ben più lontano, ma ancora più dubbi ci sono sulla capacità del sistema HAWK di neutralizzare sciami di droni e missili balistici – per non parlare degli ipersonici. Insomma, “La conclusione” scrive Bryen, è che nonostante tutti i soldi e i quattrini di USA e alleati “ l’Ucraina non dispone più di difese aeree efficaci in grado di proteggere le infrastrutture critiche o fermare gli aerei russi sul campo di battaglia o nelle sue vicinanze, e senza difese aeree efficaci, la Russia domina lo spazio aereo dell’Ucraina”. E proprio grazie, in buona parte, al dominio dello spazio aereo, ribadisce Bloomberg, “Gli attacchi russi all’Ucraina alimentano la paura che l’esercito sia vicino al punto di rottura”: “Gli attacchi missilistici della Russia al sistema energetico ucraino, il bombardamento della sua seconda città più grande e l’avanzata sul fronte alimentano le preoccupazioni che lo sforzo militare di Kiev sia vicino al punto di rottura”, ricorda Bloomberg; “Una grave carenza di munizioni e manodopera lungo il fronte di 1.200 chilometri e le lacune nella difesa aerea mostrano che l’Ucraina è nel suo momento più fragile in oltre due anni di guerra” e “il rischio è un crollo delle difese ucraine, un evento che darebbe al Cremlino la possibilità di fare un grande passo avanti per la prima volta dalle fasi iniziali del conflitto”.
Nel condurre la sua guerra contro il resto del mondo per perpetuare un sistema globale fondato sul primato di una piccola tribù sul resto della popolazione mondiale, l’impero, quindi, si trova a combattere contemporaneamente da un lato con grandi potenze militari contro le quali sconta un importante deficit in termini di base industriale e, dall’altro, con attori in grado di sfruttare in vario modo i vantaggi asimmetrici (che così, a occhio, come minimo, è più che sufficiente per far venire qualche dubbio sul supposto strapotere dell’impero) e quando un servo comincia ad annusare che lo strapotere del suo padrone potrebbe non essere più così solido, inevitabilmente comincia a guardarsi intorno per capire se ci sono alcune alternative, soprattutto se è consapevole che, in un eventuale successo della rivolta degli schiavi, insieme al padrone ad essere decapitato sarebbe pure lui. Da questo punto di vista, la caduta dell’impero potrebbe anche essere accelerata dal collo di bottiglia in cui si è infilato a causa del suo continuo ricorso a dei proxy per portare avanti i suoi obiettivi strategici, come d’altronde è già successo in passato con l’islam radicale; idem ora col sionismo radicale, in particolare degli alleati più esplicitamente clericofascisti del governo Netanyahu: l’agenda politica dei Ben Gvir e degli Smotrich, infatti – come, d’altronde, quella dei banderisti più oltranzisti in Ucraina – sembra guidata, in buona parte, non solo da opportunismo e utilitarismo (che, con tutti i loro difetti, per lo meno sono atteggiamenti che spingono a confrontarsi sempre con la realtà materiale e i reali rapporti di forza esistenti), ma proprio da un fervore ideologico degno della peggiore feccia nazifascista alla quale, spesso, si ispirano esplicitamente.
Al contrario delle oligarchie USA che, per quanto deprecabili, hanno dimostrato di saper fare piuttosto bene il loro interesse e, quindi, di avere un’idea piuttosto precisa della realtà (altrimenti l’impero più vasto e potente della storia umana, di sicuro, non lo costruisci) questa feccia iperideologizzata vive in una realtà parallela e rischia di portare le oligarchie stesse a sbattere contro il muro – che sarebbe anche un ruolo oggettivamente positivo se non fosse che, nel farlo, hanno questo vizietto di sterminare una quantità spropositata di esseri umani e di portare l’intera umanità a un passo dall’autodistruzione definitiva anche senza nessuna utilità evidente; il problema, però, è che le oligarchie, per quanto possano anche realizzare lucidamente che i neonazisti di Azov – come i coloni millenaristi – facciano più danni della grandine, non possono sottrarsi dal sostenerli perché, comunque, la priorità strategica è impedire ai loro nemici (e, cioè, a qualsiasi paese che punti a indebolire l’unipolarismo USA per rafforzare la sua sovranità, accelerando la transizione verso un nuovo ordine multipolare) di ottenere qualche successo significativo. Ed ecco, così, come un genocidio e una pulizia etnica, anche se controproducenti per gli obiettivi strategici USA, alla fine si trasformano nella meno peggio delle opzioni.
In questo scenario inquietante la speranza, appunto, è che laddove vi siano dei margini di manovra, gli stati vassalli ne approfittino per prendere le distanze; purtroppo, però, al momento questa speranza appare spesso decisamente vana: nel caso di Israele, ad esempio, le forze europee effettivamente hanno fatto meno ostruzionismo degli USA per trovare una soluzione nell’ambito dell’Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite; ciononostante, però, per implementare le decisioni della Corte internazionale di giustizia, prima, e del consiglio di sicurezza, poi, non hanno mosso mezzo dito, mentre quando si è trattato di difendere lo stato genocida di Israele dalla legittima reazione iraniana – tutto sommato contenuta e fin troppo proporzionata – hanno ritrovato tutto lo smalto che sembravano aver perso e hanno messo in campo tutta la loro forza militare deterrente.
Da questo punto di vista, vorrei spezzare una lancia a favore del governo italiano, in particolare Antonio Tajani: tra i leader europei, infatti, così a occhio, è stato quello che ha espresso probabilmente la posizione più avanzata. Prima di tutto ha sottolineato il nesso diretto con l’attentato criminale all’ambasciata iraniana di Damasco, lasciando campo libero all’interpretazione di Teheran, prima, e di Mosca poi, che l’operazione militare iraniana sia stata del tutto legittima dal punto di vista del diritto internazionale. Ma poi è stato anche uno dei primissimi a esprimere pubblicamente e con parole chiare l’auspicio che Israele non risponda a questo attacco; probabilmente hanno pesato le forti relazioni commerciali che il nostro paese ha sempre intrattenuto con Teheran, dove eravamo in prima linea anche per le infrastrutture ferroviarie, un megabusiness al quale abbiamo rinunciato in ossequio alle politiche imperiali USA – un altro esempio eclatante delle ferite che gli sgarbi dell’arroganza imperiale hanno seminato a destra e manca e che, in una fase di declino, potrebbero riemergere in superficie con più forza e più rapidità di quanto sia oggi prevedibile.
Il dominio imperiale USA è il principale nemico dell’umanità; la storia, inevitabilmente, troverà il modo di presentare il conto. Scopo dell’informazione mainstream oggi è coprire, con ogni mezzo necessario, la realtà di questo processo storico devastante ed è per questo che abbiamo sempre più urgentemente bisogno di un vero e proprio media che, invece che fare da megafono alle follie della propaganda suprematista, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari

L’INTERVISTA DI CARLSON: come Putin ha asfaltato la fuffa di Trump e il Suprematismo USA

La politica americana non smette mai di stupirci e anche la scorsa settimana ci ha regalato due perle preziose: la prima sono le dichiarazioni di Donald Trump che, durante un discorso pubblico in South Carolina, ha detto che se fosse rieletto presidente gli Stati Uniti non difenderebbe militarmente un paese europeo da un attacco russo a meno che il paese in questione non abbia speso almeno il 2 per cento del PIL nella difesa, “Anzi, incoraggerei i russi a fare quello che vogliono” ha intimato minaccioso agli europei; “Dovete saldare i vostri debiti!”. Queste dichiarazioni apparentemente folli rivelano in verità uno dei tasselli fondamentali della strategia politica di Trump e del partito Repubblicano: disimpegnarsi il più possibile in Europa in modo da poter concentrare tutte le risorse necessarie nel Pacifico nell’ottica di una futura guerra alla Cina. Naturalmente, all’idea che Trump possa addirittura smantellare la NATO costringendo gli Stati europei a difendersi da soli, tanti giornalisti italiani si sono lasciati andare ad urla isteriche e imprecazioni disperate; la reazione degli ottoliner, invece, pare che sia stata più o meno questa.

Vladimir Putin e Donald Trump

L’altro scandalo lo ha scatenato il giornalista americano Tucker Carlson il 6 febbraio scorso recandosi a Mosca per intervistare Vladimir Putin; era la prima volta che un giornalista occidentale faceva un’intervista al presidente russo dallo scoppio della guerra in Ucraina e, tanto per cambiare, dopo la pubblicazione dell’intervista le reazioni dell’opinione pubblica occidentale hanno dato prova di grande superficialità: tra chi ha dipinto Carlson come un traditore della democrazia e scagnozzo di Putin e chi, invece, guarda al giornalista americano come al nuovo messia della libera informazione e della lotta alla propaganda occidentale, è praticamente una gara a chi la spara più grossa. Basterebbe, infatti, aver studiato un attimo la biografia di Carlson, aver letto qualche sua dichiarazione precedente e aver seguito un minimo la geopolitica americana negli ultimi anni per sapere cosa politici e giornalisti di area repubblicana – come lui – stanno cercando di fare; è chiarissimo che a Carlson non interessi un bel nulla delle centinaia di migliaia di morti in Ucraina, né delle ragioni dei pacifisti, né della libera informazione: Carlson è, infatti, lontano mille miglia dalla sacrosanta lotta all’imperialismo e al suprematismo americano nel mondo. Semplicemente, in questo periodo il giornalista si limita a fare da megafono alle posizioni politiche di Donald Trump – e la posizione di Trump sulla guerra per procura della NATO in Ucraina è sempre stata chiarissima: bisogna fermarla al più presto, perché oggi il vero nemico del dominio globale americano non è la Russia, ma la Cina, e per poter vincere la guerra contro Pechino la Russia deve essere assolutamente riportata nell’orbita occidentale. “La più grande minaccia per questo Paese non è Vladimir Putin; è ridicolo. La minaccia più grande, ovviamente, è la Cina” dichiarava Carlson quando ancora faceva il conduttore a Fox News, e rincarava: “Gli Stati Uniti dovrebbero avere buoni rapporti con la Russia per combattere meglio la Cina; se la Russia dovesse mai unire le forze con la Cina, l’egemonia globale americana, il suo potere, finirebbe all’istante” e da quando l’anno scorso è stato licenziato da Fox News, Carlson non ha fatto altro che portare avanti esattamente questa narrazione guerrafondaia e sinofobica tanto cara a Trump e a tutti trumpiani americani ed europei. In questa puntata parleremo delle diverse visioni strategiche imperiali di democratici e repubblicani americani e, in particolare, del conflitto su quale debba essere considerato il nemico principale tra Russia e Cina e sul ruolo dell’Europa in questo scacchiere; vedremo inoltre come Putin, durante l’intervista con Carlson, abbia sfatato molte delle falsità della propaganda russofobica occidentale e come abbia platealmente deriso la retorica razzista e suprematista anticinese di Trump e Carlson ribadendo la propria solidissima alleanza con Pechino.

Henry Kissinger

Negli anni ’70, durante l’amministrazione di Richard Nixon, Kissinger utilizzò la diplomazia triangolare per mettere la Cina contro l’Unione Sovietica; nel 2018, Kissinger consigliò alla politica americana di tornare a questa diplomazia triangolare, ma nella direzione opposta: “Henry Kissinger” come riportava, infatti, il Daily Beast “ha suggerito al presidente Donald Trump che gli Stati Uniti dovrebbero collaborare con la Russia per contenere una Cina in ascesa”. I supporter dell’ala trumpiana dei Repubblicani e la destra reazionaria europea vedono infatti nella Russia un paese pur sempre bianco, europeo, cristiano e capitalista – e quindi un potenziale alleato contro la minaccia cinese, patria del comunismo, dell’ateismo e di un’etnia diversa dalla nostra; FuckBiden e i democratici, invece, la vedono diversamente. Da una parte sanno benissimo che, a lungo termine, l’unico vero grande competitor al loro dominio è la Cina e lo hanno anche scritto nero su bianco nel documento ufficiale che riassume la loro Strategia per la Sicurezza Nazionale; a differenza dei trumpiani, però, non confidano troppo sulla possibilità di spezzare l’alleanza che si sta consolidando tra Russia e Cina e hanno cercato di consolidare l’alleanza con i partner europei, nel tentativo di delegargli l’opera di contenimento del nemico russo e potersi concentrare sul Pacifico. Da una parte, quindi, l’Europa è vista come un continente ormai in inesorabile declino per la cui sicurezza e controllo non vale spendere soldi preziosi; dal lato democratico, invece, la NATO e – in generale – il controllo politico e militare sulle provincie atlantiche dell’impero rappresenta ancora una priorità. Ma al netto di queste differenze, come ha insistito più volte anche Ben Norton nell’intervista che ci ha rilasciato, quello che molti europei fanno ancora così fatica a comprendere – troppo presi da pseudo – dibattiti sul grado di bon ton di questo o quell’altro presidente americano – è che sia democratici che repubblicani sono profondamente imperialisti e il loro scontro non riguarda se gli Stati Uniti debbano o meno essere un impero, ma piuttosto su quale sia la migliore strategia per preservarlo; e quale delle due strategie, quella repubblicana o quella democratica, sia effettivamente la più lungimirante sarà solo la storia a dircelo, perché se è vero che, a prima vista, un avvicinamento russo alla Cina sembra un disastro per gli americani, è anche vero che il capo della CIA William J. Burns ha recentemente definito l’assistenza militare degli Stati Uniti all’Ucraina “un investimento relativamente modesto con significativi ritorni geopolitici per gli Stati Uniti e notevoli ritorni per l’industria americana”. In ogni caso, gran parte delle attuali politiche statunitensi, così come la famigerata intervista di Carlson a Putin, devono essere lette alla luce del conflitto tra queste due diverse visioni strategiche, cosa che – manco a dirlo – politici e giornalisti italiani si guardano bene dal fare.
Ma Chi è Tucker Carlson? Il giornalista americano è diventato famoso negli ultimi anni vendendosi come populista, a difesa dell’America profonda dagli attacchi delle oligarchie radical chic democratiche; naturalmente, con gli ultimi Carlson non ha mai avuto nulla a che fare: rampollo di una famiglia potente, ricca e politicamente ben integrata, Carlson ha iniziato la sua carriera mediatica come falco neoconservatore, sfornando articoli razzisti e guerrafondai per il Weekly Standard, la bibbia dell’ala più reazionaria dei repubblicani. Negli anni Duemila è stato promosso a conduttore di programmi alla CNN per poi, infine, passare a Fox News; tra le altre cose, ha sostenuto con entusiasmo l’invasione illegale dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, definendo gli iracheni “scimmie primitive semianalfabete”. Nel maggio del 2006, durante una discussione sulla guerra in Iraq in un popolare programma radiofonico, ha dichiarato con modi gentili di non avere troppo rispetto della cultura irachena: “Una cultura in cui la gente non usa la carta igienica o le forchette, non merita considerazione” ha detto, aggiungendo infine che “Gli iracheni dovrebbero chiudere quella cazzo di bocca e obbedire agli Stati Uniti perché non sono in grado di governarsi da soli”; dopo essere stato licenziato da Fox News, Carlson si avvicina ancora di più a Trump e oggi rappresenta uno dei suoi più efficaci strumenti di propaganda.

Tucker Carlson

E veniamo ora ai punti più interessanti dell’intervista con Putin: nell’intervista, il presidente russo ha parlato della storia del suo paese, dei rapporti con l’Ucraina, della Seconda Guerra mondiale e dei miti su cui in questi anni in Occidente è stata montata questa ondata di russofobia; il più diffuso di questi miti, naturalmente, è che la Russia rappresenterebbe una costante minaccia esistenziale per gli europei. Questo terrorismo psicologico – smentito clamorosamente dagli ultimi due secoli di storia in cui, a ben vedere, sono sempre stati gli europei occidentali a invadere i territori russi e non il contrario – è stata funzionale ai nordamericani una volta conclusa la guerra fredda, così da poter tenere in vita la NATO e legittimare la propria presenza militare sul nostro territorio; finita la guerra fredda, racconta infatti Putin, la Russia aveva tutte le intenzioni di avere ottimi rapporti con l’Occidente, come dimostra anche il tentativo di entrare nella NATO e il progetto di dar vita a una difesa missilistica congiunta, respinto da Clinton e Bush Jr. Ma i buoni rapporti con i paesi europei, con i quali era stata costruita anche una forte interdipendenza economica ed energetica, è sempre stata avversata dagli USA, i quali hanno sempre temuto di perdere il controllo sul vecchio continente e, soprattutto, che si potesse formare una grande alleanza politica euroasiatica; in questo clima di ostilità, dunque, la costante espansione della NATO ad est non poteva che essere considerata una minaccia per la sicurezza della Russia, ha sottolineato Putin: un po’ come se oggi Messico e Canada stringessero un’alleanza militare con la Cina con la possibilità di ospitare testate nucleari cinesi a pochi passi con il confine statunitense. Quale sarebbe la reazione nord-americana. Difenderebbero il diritto di Messico e Canada, in quanto Stati sovrani, ad entrare in tutte le alleanze militari che vogliono? Ho come l’impressione di no. In ogni caso, se su tutte queste riflessioni di Putin Carlson annuiva soddisfatto e tra i due sembrava ci fosse totale sintonia, quando si è parlato di Cina le cose sono improvvisamente cambiate: “La domanda è” chiede Carlson “cosa viene dopo gli USA? Si scambia una potenza coloniale con un’altra, molto meno sentimentale e indulgente. I BRICS, ad esempio, rischiano di essere completamente dominati dai cinesi, dall’economia cinese, in un modo che non è positivo per la loro sovranità. È preoccupato per questo?”; “Abbiamo già sentito queste storie sull’uomo nero” replica laconico Putin, “La filosofia della politica estera cinese non è aggressiva” continua, “La sua idea è quella di cercare sempre un compromesso. E questo lo vediamo. Ci viene raccontata sempre la stessa storia dell’uomo nero, ed eccola di nuovo, in forma eufemistica, ma è sempre la stessa storia dell’uomo nero”. Ma mentre si continua a fare propaganda sinofoba con le favolette, continua Putin, la realtà è che “La cooperazione con la Cina continua ad aumentare. Il ritmo di cooperazione della Cina con l’Europa sta crescendo. È più alto e maggiore di quello della crescita della cooperazione sino – russa”; “Chiedete agli europei” continua Putin: “Hanno paura? Forse sì. Non lo so. Ma cercano comunque di accedere al mercato cinese a tutti i costi. Soprattutto ora che stanno affrontando problemi economici. In America” conclude Putin “volete limitare la cooperazione con la Cina. Ma è a vostro danno, signor Tucker, che state limitando la cooperazione con la Cina. State danneggiando voi stessi.” Putin ha poi sottolineato soddisfatto come la politica repubblicana non sia affatto riuscita a isolare la Cina dalla Russia e a dividere i BRICS, e che sono state proprio le politiche di Biden e del Partito Democratico in Ucraina in questi anni a condurre al definitivo fallimento di questa strategia.
Come sappiamo, il nuovo obiettivo americano è ora quello di dividere i BRICS, in particolare facendo leva sui propri buoni rapporti con l’India, cercando così di creare quanti più conflitti possibili tra cinesi e indiani che, storicamente, non godono di ottimi rapporti. Secondo una recente inchiesta del Washington Post, una volta rieletto Trump si starebbe preparando ad imporre una tariffa del 60% su tutti i prodotti cinesi importati: praticamente una dichiarazione di guerra; la speranza è che, sia in campo economico che su Taiwan, Xi Jinping non caschi in queste provocazioni imperialistiche occidentali e continui a dare prova di grande saggezza razionalità politica. E se anche tu sogni un’Europa fuori dalla NATO e una grande alleanza euroasiatica tra Stati sovrani che porti pace e benessere su tutto il supercontinente, bisogna prima di tutto costruire media libero e indipendente che combatta la propaganda americana. Adesso anche tu puoi fare la tua parte e costruirlo insieme a noi: iscriviti al nostro canale in inglese (OttolinaTV – English – YouTube) e aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Tucker Carlson

Nazioni Unite: l’umiliazione di Biden e Zelensky e l’inarrestabile ascesa del Sud Globale

La sintesi dei primi due giorni dell’annuale assemblea generale delle Nazioni Unite, sta tutta qui. Come sottolineava giustamente il Global Times alla vigilia dell’incontro: “Questo è l’anno dove finalmente a dettare l’agenda saranno i paesi del Sud Globale”. Un esito scontato.

Dall’ampliamento della Shanghai Cooperation Organization, al più che raddoppio dei BRICS, per finire con il G77 della scorsa settimana all’Havana, il sud del mondo ha deciso di spingere sull’acceleratore.

Ne ha dovuto prendere atto anche Joe Biden, unico leader dei membri permanenti del consiglio di sicurezza ad aver deciso di partecipare in prima persona all’evento ma che, a quanto pare, ha commesso qualche errore.

Di fronte a una platea che chiedeva impegni chiari per rilanciare il raggiungimento dei diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile adottati dall’assemblea ormai otto anni fa, Biden ha provato a fare il gioco delle tre carte.

Ha rivendicato la fine della morsa della fame per centinaia di milioni di disgraziati in tutto il mondo, pensando forse di avere di fronte un popolo di semianalfabeti come quelli che sta provando a convincere a rieleggerlo in patria fra qualche mese.

Purtroppo per lui, però, la platea sapeva benissimo di cosa stava parlando: se oggi nel mondo ci sono meno affamati di dieci anni fa, lo si deve solo ed esclusivamente alla Cina, che Biden vorrebbe cancellare dal pianeta.

Ma Biden non si è accontentato di questa ennesima figuretta.

Come fa sistematicamente da due anni a questa parte, ha cercato di trasformare l’ennesima occasione per affrontare i problemi che affliggono la stragrande maggioranza della popolazione mondiale nell’ennesimo palcoscenico per il solita vecchio remake hollywoodiano della guerra in Ucraina come scontro tra il bene e il male.

Ma come sottolinea giustamente sempre il Global Times: “Le infinite chiacchiere sulla guerra e le minacce palesi e nascoste rivolte ad altri paesi, costringendoli a schierarsi, sono l’ultima cosa che questi paesi vogliono sentire”.

Per averne la prova è bastato aspettare l’intervento in aula di Zelensky; più si affannava, e più la sala si svuotava. Ma com’è possibile che l’unica superpotenza del pianeta sia stata umiliata pure a casa sua?

25 settembre 2015

Dopo nove mesi di negoziati, tutti i centonovantatré membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottano all’unanimità la risoluzione intitolata “Trasformare il nostro mondo: l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile”; un programma estremamente ambizioso, e iperdettagliato: 91 paragrafi, 17 obiettivi, 169 target.

Una roadmap per una redistribuzione della ricchezza su scala globale in senso radicalmente più egualitario, e per affrontare tutti insieme felicemente le principali sfide che affliggono l’umanità tutta, e che a otto anni di distanza si è dimostrata essere esattamente quello che i più scettici sostenevano sin dall’inizio: fuffa allo stato puro.

Una foglia di fico per continuare a coprire il sempre più drastico furto che un manipolo di paesi sviluppati, e le loro ristrettissime oligarchie, opera a danno del resto del pianeta.

Come ha sottolineato Lula: “I dieci miliardari più ricchi del pianeta detengono più ricchezza del 40% più povero dell’umanità”. Sette di loro, per capirci, hanno passaporto a stelle e strisce. “L’azione collettiva più ampia e ambiziosa delle Nazioni Unite mirata allo sviluppo – l’Agenda 2030 –”, ha tuonato Lula dal palco, “potrebbe trasformarsi nel suo più grande fallimento”. “Abbiamo raggiunto la metà del periodo di attuazione e siamo ancora lontani dagli obiettivi definiti”.

Ma questa è solo una parte della storia: due anni prima, infatti, durante una visita in Kazakistan, nella più totale disattenzione da parte del circo mediatico occidentale, Xi Jinping annunciava l’intenzione di avviare un gigantesco progetto per la costruzione di infrastrutture di trasporto e di comunicazione nel cuore del supercontinente eurasiatico; come ricorda l’Economist: “Un annuncio che venne recepito in occidente con ‘indifferenza e perplessità'”.

Il mese dopo Xi ci ribadisce, e se dal Kazakistan aveva parlato fondamentalmente di strade e ferrovie, dall’Indonesia a questo giro si concentra su porti e corridoi marittimi, ma anche a questo giro, nel centro dell’impero, politici e propagandisti continuano a fare orecchie da mercanti.

Dieci anni dopo, quel progetto accolto con indifferenza e perplessità ha portato a casa la bellezza di 3.100 progetti in 150 paesi diversi per una cifra complessiva che si aggira attorno ai mille miliardi di dollari. Tutti messi nell’economia reale.

Come dichiarò il presidente dell’Asian Infrastructure Investment Bank nel 2016 durante la cerimonia di inaugurazione del suo istituto: “L’esperienza cinese dimostra che gli investimenti nelle infrastrutture aprono la strada a uno sviluppo economico-sociale su vasta scala e che la riduzione della povertà è una conseguenza naturale di ciò”.

Infatti, secondo le stime cinesi, la Belt and Road ad oggi non solo avrebbe creato direttamente quasi mezzo milioni di posti di lavoro, ma soprattutto avrebbe generato una ricchezza che ha permesso di elevare sopra la soglia della povertà assoluta la bellezza di quaranta milioni di esseri umani. Ed è solo l’inizio.

Dopo un relativo rallentamento delle cifre impiegate a partire dalla fine del decennio scorso e durante tutta l’emergenza pandemica, nella prima metà di quest’anno abbiamo assistito a una vistosa ripresa: oltre 43 miliardi di investimenti, contro i 35 dello stesso periodo l’anno scorso.

Ma non solo: l’approccio cinese sta cambiando alla radice l’approccio anche del resto del pianeta al tema degli aiuti allo sviluppo. Prima dell’arrivo dei cinesi, infatti, gli unici aiuti allo sviluppo che dal Nord Globale raggiungevano il sud del mondo erano una presa in giro.

In sostanza: si riempivano di quattrini le élite corrotte e conniventi di questi paesi in cambio di riforme di chiaro stampo neoliberale, che ovviamente non facevano che aumentare la dipendenza economica nei confronti dei paesi sviluppati, e impedivano così ogni alla radice ogni reale miglioramento della propria capacità produttiva.

Man mano che gli effetti benefici delle infrastrutture lungo la nuova Via della Seta cominciavano a svelarsi, i popoli del sud del mondo hanno cominciato a realizzare che un’alternativa c’è, hanno cominciato a chiedere a gran voce di perseguirla, e quando le élite non si sono adeguate perché una bella villa di sottobanco a Londra è meno impegnativa che ricostruire le precondizioni per lo sviluppo, hanno cominciato a cacciarle a suon di golpe patriottici come quelli a cui abbiamo assistito nel Sahel negli ultimi tempi.

Così, oggi, i tromboni del Nord Globale, se non vogliono perdere completamente ogni possibilità di influenza su questi paesi, sono costretti ad offrire qualcosa di simile a quello che offrono i cinesi. Di conseguenza, laddove si è imposta in un modo o nell’altro una classe dirigente minimamente autonoma, oggi può fare leva sulla competizione tra cinesi e resto del mondo per strappare l’offerta migliore. Si può, dunque, probabilmente per la prima volta nella storia, permettere di dire anche dei bei “no.

Ove mai le élite continuino a dire solo dei “” che magari gli garantirebbero di arricchirsi, o anche solo di rimanere al potere, ma senza migliorare minimamente le condizioni di vita della popolazione, rischierebbero grosso, perché da questo punto di vista il famoso adagio thatcheriano secondo il quale “there is no alternative”, non vale più. Oggi l’alternativa c’è e come, già solo questa è una svolta epocale.

Ovviamente l’Occidente collettivo fa fatica ad adeguarsi, e continua a sperare di rimpiazzare aiuti concreti allo sviluppo con un po’ di fuffa, facendo leva sulla potenza di fuoco della sua macchina propagandistica; un po’ come è successo al G20 con l’IMEC, l’India-Middle East-Europe Economic Corridor, che si è conquistato i titoloni di stampa e tg in tutto il Nord Globale come l’alternativa occidentale e democratica alla Via della Seta cinese, ma che l’occidente non è assolutamente in grado di portare a termine.

Come scrive, giustamente, l’ex ambasciatore indiano in Turchia Bhadrakumar, infatti: “L’unico modo per trasformare il sogno dell’IMEC in realtà è renderlo al contrario un progetto di connettività regionale inclusivo, e permettere che la Cina ne faccia parte. Questo però”, conclude sarcasticamente Bhadrakumar, “comporterebbe assumere che l’IMEC sia qualcosa di diverso da una semplice operazione propagandistica USA il cui unico obiettivo è permettere a Biden di presentarsi alle prossime elezioni con almeno una storia di successo nella sua altrimenti catastrofica politica estera”.

Ma il contributo che la Cina e la Via della Seta hanno già dato alla faticosa costruzione di un nuovo ordine multipolare non si limita alla rivoluzione nell’approccio agli aiuti allo sviluppo: la Via della Seta, in dieci anni, ha anche accelerato e di tanto lo spostamento di qualche migliaio di chilometri del baricentro del potere economico mondiale. “Mentre l’influenza americana diminuisce”, ammette infatti addirittura anche l’Economist, “le economie asiatiche si stanno integrando”.
Il lungo articolo ricorda come “settecento anni fa, le rotte commerciali marittime che si estendevano dalla costa del Giappone al Mar Rosso erano costellate di dau arabi, giunche cinesi e djong giavanesi, che trasportavano ceramiche, metalli preziosi e tessuti in tutta la regione” e di come questa “enorme rete commerciale intra-asiatica fu interrotta solo dall’arrivo di marinai dagli imperi europei in ascesa”. L’Economist puntualmente si dimentica di citare anche le armi e la ferocia del colonialismo dell’uomo bianco.

Il punto è che, riconosce sempre l’Economist, quella fitta rete commerciale intra-asiatica è tornata ad essere il centro del mondo. “Nel 1990, solo il 46% del commercio asiatico si svolgeva all’interno del continente”. Oggi siamo vicini al 60%. che è anche più o meno la percentuale degli investimenti esteri diretti nella regione detenuti da altri asiatici. Anche i prestiti bancari sono sempre più asiatici, a partire dalla spettacolare crescita della Commercial Bank of China, che “è più che raddoppiata dal 2012 ad oggi, raggiungendo quota 203 miliardi”.

“Nel 2011 i paesi più ricchi e più antichi dell’Asia avevano circa 329 miliardi di dollari investiti nelle economie più giovani e più povere di Bangladesh, Cambogia, India, Indonesia, Malesia, Filippine e Tailandia. Un decennio più tardi quella cifra era salita a 698 miliardi di dollari”.
“Secondo un recente sondaggio”, continua l’Economist, “solo l’11% degli operatori economici asiatici considera ancora gli USA il potere economico più influente dell’Asia” e “uno studio pubblicato l’anno scorso suggerisce che il trattato siglato nel 2020 e denominato Regional Comprehensive Economic Partnership, comporterà un aumento consistente degli investimenti transfrontalieri nella regione”.

“Al contrario”, sottolinea sempre l’Economist, “a seguito dell’abbandono da parte dell’America dell’accordo commerciale di partenariato transpacifico nel 2017, ci sono poche possibilità che gli esportatori asiatici ottengano un maggiore accesso al mercato americano”. Questa integrazione lega profondamente la Cina e i paesi che guardano con favore al suo piano per un nuovo ordine multipolare, ai più fedeli alleati di Washington.

“Uno studio condotto dalla Banca asiatica di sviluppo nel 2021 ha concluso che le economie asiatiche sono ora più esposte alle ricadute degli shock economici dalla Cina piuttosto che dall’America”; tradotto: gli alleati USA subiscono più danni se va male l’economia cinese che non se va male quella USA.
Questo fenomeno, nonostante la retorica sul decoupling, mano a mano che la Cina crescerà economicamente, non farà che aumentare e nonostante l’imponente propaganda degli ultimi mesi, la potenza economica cinese continuerà a crescere, mentre quella occidentale continuerà a stagnare, nonostante la guerra tecnologica.

Come ha sottolineato l’ottimo Kishore Mahbubani su Foreign Policy, infatti: “Gli USA non possono arrestare la crescita cinese”. “La decisione dell’America di tentare di rallentare lo sviluppo tecnologico della Cina”, scrive Mahbubani, “non è che il solito vecchio tentativo di chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati. La Cina moderna ha dimostrato molte volte che lo sviluppo tecnologico del Paese non può essere fermato”. Mahbubani ricorda come nel 1993 l’amministrazione Clinton cercò di restringere l’accesso dei cinesi alla tecnologia per i sistemi satellitari. Oggi la Cina ha 540 satelliti in orbita, ed è una vera superpotenza del settore.

Mahbubani ricorda anche di quando gli USA nel 1999 decisero di restringere l’accesso dei cinesi ai dati geospaziali del sistema GPS. Oggi il sistema BeiDou Global Navigation che la Cina è stata costretta a svilupparsi da sola è più avanzato di quello occidentale. Ora si gioca la partita dei microchip, ma paradossalmente potrebbe fare più male agli USA che alla Cina. La Cina, infatti, rappresenta oltre un terzo del mercato globale dei chip e senza il suo mercato le aziende USA saranno a corto di profitti da reinvestire in ricerca e sviluppo.

Che le élite che fondano la loro spropositata ricchezza siano pronte a tutto pur di non accettare il loro declino è comprensibile, ma che noi persone comuni continuiamo a farci corbellare da una manciata di analfoliberali che ci vogliono spacciare la loro feccia propagandistica per oro, invece, grida vendetta. E per vendicarci la cosa migliore che possiamo fare è costruirci un media tutto nostro che ci faccia uscire da questa bolla asfittica e anacronistica del suprematismo occidentale; per farlo, abbiamo bisogno del tuo sostegno!

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…e chi non aderisce è Volodomyr Zelensky!