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Tag: stretto di Hormuz

Altro che Houti… Se la Cina umilia gli USA nella Grande Guerra per il Controllo del Mare

Mar Rosso, il conflitto è globale: ci sono arrivati pure La Stampa e Lucia Annunziata: “in gioco” scrivono nel sottotitolo “c’è la tenuta dell’America come superpotenza nel confronto con la Cina”; il motivo ve lo abbiamo raccontato in dettaglio in un altro video della scorsa settimana e, come scrive giustamente l’Annunziata, consiste nel fatto che “sul Mar Rosso è in gioco la tenuta da potenza globale degli Usa, fondata sul suo essere padrone dei mari”. “La US Navy” continua l’Annunziata “è oggi una delle strutture militari più potenti del mondo, dedicata ad assicurare quello che è la principale garanzia del mercato: la libera circolazione di merci e persone”, che poi tutta sta libera circolazione delle persone, ecco, insomma… anche se poi nel capitalismo, in realtà, pure le persone sono merci, ma questo è un altro tema; il punto vero – che solleva anche la Annunziata – qui è un altro e cioè esiste ancora questa supremazia USA? Ecco, in questo video cercheremo di rispondere a questa domanda; come prevedibile, stiamo tornando a una nuova grande guerra per il controllo del mare. Siamo proprio sicuri di essere in grado di vincerla?

Al contrario di quanto narrano le leggende metropolitane degli analfoliberali, a fare il mercato è sempre lo Stato; a fare il mercato globale, in particolare, c’ha pensato lo Stato USA, con le navi militari. Quando, a un certo punto, si è cominciato a capire che per vincere la lotta di classe dei ricchi contro tutti gli altri bisognava dare la possibilità ai padroni delle ferriere di delocalizzare lontano dai paesi dove sindacati e partiti di massa stavano alzando un po’ troppo la cresta, ci si è posti immediatamente il problema: chi garantirà che le merci poi possano attraversare in tutta sicurezza tutto il pianeta? Il comparto militare industriale a stelle e strisce un’ideina ce l’aveva: riempiteci di quattrini e ci pensiamo noi, e così fu. A partire da metà anni ‘70, il budget della marina militare, dopo anni di declino, cominciò a crescere a ritmi vertiginosi raddoppiando nell’arco di appena 5 anni, per poi continuare senza freni fino a raggiungere l’apice verso la fine dell’amministrazione Reagan; nel 1987 la flotta americana poteva contare su circa 600 navi da combattimento, in gran parte nuove di pacca o quasi, soprattutto – da quando, poco dopo, l’Unione Sovietica crollò – più che sufficienti per garantire la sicurezza di tutti i mari del globo. Da allora gli USA sono sempre stati considerati i padroni indiscussi del mare. Pure troppo: negli anni, infatti, tutta questa sicurezza e l’assenza di un vero contendente globale ha convinto gli USA che di navi, probabilmente, ne bastavano meno, parecchie meno. La metà: oggi la marina militare statunitense, infatti, di navi da guerra a disposizione ne ha meno di 300 (291, per la precisione); ed ecco così che qualche anno fa è cominciato a suonare l’allarme.
Maggio 2019, Popular Mechanics, la mitica rivista USA dedicata alla tecnologia: “La Cina adesso ha più navi da guerra degli Stati Uniti”; “La marina dell’Esercito di Liberazione Popolare” si legge nell’articolo “ha appena superato la soglia psicologica delle 300 unità da guerra. 13 in più degli Stati Uniti”. Nemmeno 5 anni dopo, quel gap si è quintuplicato: 340 contro, appunto, 291. Ma state tranquilli, amici suprematisti; immancabilmente, anche a questo giro arriva la rassicurazione perché, sottolinea sempre Popular Mechanics, “spesso la qualità prevale sulla quantità” e – come sanno tutti i lettori della propaganda suprematista e analfoliberale – la qualità è una prerogativa dell’uomo bianco e del suo giardino ordinato.
Nella giungla selvaggia che ci circonda, è tutta ferraglia: la retorica sul primato tecnologico, infatti, è parte del problema perché di sicuro, in tutti questi anni, al comparto militare industriale non sono state tolte risorse, anzi! Solo che invece che spenderle per fare le navi che servivano per continuare a garantirsi davvero il predominio sul mare, le hanno concentrate tutte in poche grandi navi e in sistemi d’arma spacciati come ultrasofisticati. Sul vantaggio concreto che tutta questa sofisticazione dà sul campo di battaglia, però, i pochi che non ci si gonfiavano il portafoglio hanno sempre avuto più di qualche dubbio e anche a quelli che prima non ne avevano, dopo le figure di merda raccattate in Ucraina sono cominciati a venire. E la fuffa del primato tecnologico potrebbe essere ancora più eclatante quando dalle trincee si passa al mare aperto: A vincere sono le flotte più grandi; così titolava, nel gennaio scorso, il suo lungo e dettagliatissimo articolo pubblicato dallo US Naval Institute il capitano della marina in pensione Sam J. Tangredi che, nel sottotitolo, specificava “Nella guerra navale, una flotta più piccola di navi di qualità superiore non è la via per la vittoria. A vincere quasi sempre è la fazione che semplicemente ha il maggior numero di navi”. “La qualità è più importante della quantità” scrive Tangredi; “ultimamente lo sento dire da troppe persone. E vorrei essere chiaro: no. Non lo è. E’ una delle cose più stupide che ho mai sentito. Non solo la quantità ha un valore di per se, ma a parità di competenza professionale, si rivela quasi sempre decisiva anche nella guerra navale”. Tangredi ha condotto una lunga ricerca su 28 guerre navali del passato: “In 25 casi” rivela “a vincere è stato chi aveva la flotta più grande. Quando le dimensioni erano le stesse, a fare la differenza sono state la superiorità strategica, l’addestramento e la motivazione degli equipaggi. E solo in 3 casi ad avere la meglio sono state flotte più piccole che vantavano una netta superiorità tecnologica”; “e con un confronto navale potenzialmente sempre più realistico tra una flotta statunitense in declino e una marina dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLAN) in piena espansione, gli insegnamenti della storia sono tutt’altro che rassicuranti”.
Evidentemente non è il solo a essersene reso conto: “La marina americana è in una corsa per colmare il divario della flotta cinese” scriveva il 15 gennaio scorso Gabriel Honrada su Asia Times “ma la realtà” sentenzia Honrada “è che l’America non ha la capacità di farlo”.

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A denunciare il fatto “che gli Stati Uniti non possono eguagliare la Cina in termini di numero di navi” direttamente alla CNN ci aveva pensato poco prima il segretario della marina americana Carlos Del Toro; perché? Semplice: come ha sottolineato sempre Del Toro, “La Cina ha 13 cantieri navali, uno dei quali ha una capacità maggiore di tutti e sette i cantieri navali statunitensi messi insieme”. Sul banco degli imputati generalmente viene messa l’intera strategia USA che, al contrario della Cina, non ha creduto nella possibilità di fondere l’industria militare con quella civile; nel 2017 la Cina è arrivata addirittura a creare una nuova commissione centrale ad hoc interamente dedicata allo sviluppo della fusione civile – militare e che vede al suo interno tutto il gotha della politica cinese, dal presidente Xi al premier, passando per i membri principali del politburo e altri 12 leader a livello ministeriale. Negli USA invece, sottolineano i detrattori, non se ne parla proprio. E graziarcazzo: l’industria civile navale negli USA, molto semplicemente, non c’è; come riporta il Manuale delle statistiche del commercio e dello sviluppo della Conferenza delle Nazioni Unite del 2022, infatti, durante l’anno precedente la Cina aveva costruito il 44,2% della flotta mercantile mondiale, seguita dalla Corea del Sud con il 32,4% e dal Giappone con il 17,6%. Gli Stati Uniti risultavano essere a quota 0,053% – ripeto 0,053%; non c’è poi tantissimo da integrare, diciamo. Quanto pesi questo fattore l’ha spiegato chiaramente il sottoammiraglio indiano, nonché arcinoto analista della Observer Research Foundation, Monty Khanna che, in un articolo del 2019 pubblicato da Maritime Affairs, sottolineava come “la costruzione di navi da guerra e navi civili negli stessi cantieri da parte della Cina ha consentito alla sua industria di costruzione navale di operare al massimo delle sue capacità indipendentemente dalle recessioni economiche, di applicare tecniche di produzione di massa per navi civili alla costruzione navale militare, di applicare tecnologie civili avanzate alle navi da guerra, di mantenere la cresciuta capacità produttiva per la costruzione navale militare ed eludere le sanzioni mirate ai suoi programmi di modernizzazione militare”. Risultato: nonostante Washington abbia da poco annunciato il finanziamento più grande mai autorizzato per cercare di colmare il gap, la Cina prevede di costruire altre 100 navi nei prossimi 6 anni; gli USA 80 nei prossimi 11.
Insomma: gli USA non sono più in grado di assicurare la sicurezza della navigazione sulla quale hanno fondato la legittimità del loro dominio imperiale; gli rimangano le basi nei pressi dei colli di bottiglia più importanti delle rotte commerciali globali, da Hormuz a Bab-el-Mandeb, da Malacca a Panama. Mantenere salda l’alleanza con i paesi che le ospitano è vitale come non mai e conferisce a questi paesi un potere che non hanno mai avuto: il nuovo ordine multipolare procede anche in questo modo. Per reagire, gli USA di scorciatoie realmente efficaci non ne hanno; devono affrontare il problema alla radice: per sperare di poter vincere la guerra contro altre grandi potenze, l’unica strada è la reindustrializzazione. Tra mille ostacoli, è esattamente quello che stanno cercando di fare con questa nuova ondata neoprotezionista, alimentata a suon di incentivi miliardari a chi va a investire negli USA, e smette di investire nei paesi suoi alleati. E anche questo, a suo modo, più che ostacolare – se solo avessimo una classe dirigente che fa gli interessi nazionali dei nostri paesi – dovrebbe accelerare la costruzione del nuovo ordine multipolare. Nel sistema kafkiano costruito dagli USA a immagine e somiglianza degli interessi delle sue oligarchie, tornare a curare i nostri interessi nazionali sarebbe già un atto rivoluzionario; non saranno le nostre borghesie compradore a farlo: ci dobbiamo pensare noi. Tutti, prima che sia troppo tardi – a partire da un vero e proprio media che stia dalla parte dello sviluppo e della pace contro i deliri dell’impero in declino. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Edward Luutwack

Navi Militari Europee nel Mar Rosso: Escalation o Armata Brancaleone?

Mar Rosso, l’Italia si schiera titolava lunedì il Corriere della serva: il riferimento, come ben saprete, è alla missione Aspides che in greco, non a caso, significa scudo e che è la missione militare targata Unione Europea che dovrebbe avere il compito di difendere le nostre navi mercantili nel Mar Rosso. Una missione che però, titolava ieri Il Giornanale, resta un annuncio: per il via libera infatti, come minimo, bisognerà attendere il 19 febbraio, quando si riunirà il consiglio esteri convocato da Bruxelles. Nel frattempo, in molti rimangono piuttosto titubanti: il ministro degli esteri spagnolo Josè Manuel Albares avrebbe annunciato l’intenzione del suo paese di non partecipare; idem l’Irlanda. L’Olanda, invece, c’aveva judo: partecipa già alla missione Prosperity Guardian a guida americana. Missioni difensive europee sono for pussies, missioni offensive angloamericane sono for real men– anche se i real men non sempre brillano proprio per lucidità strategica: “Gli attacchi aerei allo Yemen stanno funzionando?” ha chiesto un giornalista a Biden durante una conferenza stampa di qualche giorno fa; “Dipende da cosa cosa intendi per funzionare” ha risposto Biden. “Stanno stoppando gli Houti? No. Continueranno? Sì.”, che poi – a ben vedere – è il riassunto perfetto della strategia geopolitica USA da un po’ di tempo a questa parte. D’altronde, come commenta il mitico blog Moon of Alabama, “Quando il tuo unico arnese è un martello, ogni problema assomiglia a un chiodo”.

Gian Micalessin

Ma se i razzi USA e britannici non sembrano impattare poi molto sulle capacità offensive di Ansar Allah e, invece che riportare la calma, sembrano esclusivamente aumentare il bordello, anche la nostra Aspides rischia di non essere molto efficace nella difesa; risultato? Aspides ad oggi potrà contare su appena tre navi messe a disposizione dalla triplice italo – franco – tedesca: “l’Italia così” scrive Gian Micalessinofobia sempre sul Giornanale “si ritroverebbe a fare la parte del leone. La nostra marina militare, già presente nel Mar Rosso con la fregata Martinengo che partecipa alla missione anti – pirateria Atlanta, è pronta infatti a mandare un’altra unità dedicata”; un po’ pochino per coprire un’area che andrebbe dallo stretto di Bab-el-Mandeb – attualmente sotto fuoco yemenita – a quello di Hormuz, che separa l’Iran da Oman ed Emirati e che, sulla carta, pattugliato dovrebbe esserlo già da 4 anni: nel 2020, infatti, Parigi riuscì a strappare all’Europa l’ok alla missione Agenor, che doveva proteggere la navigazione commerciale dal rischio che arrivava dall’Iran e che però, come sottolinea lo stesso Micalessinofobia, è “rimasta un’inutile scatola vuota”. Siamo di fronte a un remake? Al momento sembra abbastanza probabile: tra i due stretti infatti, ricorda ancora Micalessinofobia, “ci sono oltre 2.300 chilometri di mare. Un’estensione impossibile da coprire con appena tre navi e qualche drone”.
Qualcosina in più di Agenor sembra l’abbia portato a casa un’altra operazione: si chiama Atalanta, è in corso ormai dal lontano 2008 e ha l’obiettivo di proteggere i mercantili della pirateria a largo della Somalia; quando inizialmente gli USA avevano annunciato l’avvio dell’operazione Prosperity Guardian, l’Unione Europea – per voce di Borrell – aveva inizialmente parlato di un nostro contributo proprio attraverso l’operazione Atalanta, ma il tutto era stato inizialmente bloccato dal veto spagnolo: poi Biden ha alzato il telefono, ha chiamato direttamente Sanchez e il divieto è venuto meno, ma l’iniziativa è rimasta dov’era. Una volta tanto, l’Europa ha avuto un sussulto di dignità e ha evitato di fare il portaborse in un’operazione dove la catena di comando era saldamente in mano agli USA e dove le regole di ingaggio, come abbiamo visto chiaramente, vanno decisamente al di là della difesa dei mercantili. Ma sull’utilità di quello che abbiamo già dispiegato per l’operazione Atalanta in questo nuovo contesto, ci sono più di qualche dubbio: “Gli Houti” infatti, spiega l’ex ufficiale della folgore e fondatore del Security Consulting Group Carlo Biffani intervistato da AGI, “non attaccano con barchini dotati di motori fuoribordo e fucili d’assalto e rappresentano ben altro tipo di minaccia”; in quel caso, continua Biffani, “bastò schierare navi da guerra che incrociavano a largo della Somalia, e posizionare a bordo dei cargo personale armato con dotazioni consistenti unicamente in fucili d’assalto. In questo caso invece si tratta di neutralizzare in tempo reale il lancio di missili contro obiettivi navali”. Per assolvere a questo ruolo, bisognerà ricorrere probabilmente a delle portaerei e sfruttare “la terza dimensione, ovvero quella dei cieli, con sistemi di ascolto e di controllo radar di ampissimo raggio”; per le regole d’ingaggio di questa missione, come sottolinea il Corriere, “mancano ancora i dettagli”. I media, comunque, sono concordi nel dare per scontato che sarà appunto meramente difensiva: “Sono categoricamente escluse azioni a terra” scrive Di Feo sulla Repubblichina, “neppure per eliminare le rampe da cui partono ordigni contro le forze occidentali” e questo, se confermato, è senz’altro una buona notizia.
Ma le buone notizie, come le bugie, hanno le gambe corte: come spiegava Stephen Bryen su Asia Times già una decina di giorni fa, infatti, se USA e UK – a un certo punto – da scortare i mercantili (come dovremmo cominciare a fare anche noi con l’operazione Aspides) sono passati a lanciare razzi sullo Yemen non è perché sono scemi o perché sono cattivi, o almeno non esclusivamente; il problema, spiega Bryen, è che “sono sorti seri dubbi sia da parte britannica che da parte statunitense sul fatto che fossero adeguatamente attrezzati per resistere ancora a lungo agli attacchi di sciami di droni e di missili Houthi”. Solo nella giornata del 10 gennaio scorso, ad esempio, “le forze statunitensi e britanniche hanno dovuto abbattere 21 droni e missili. E per stessa ammissione del segretario dalla difesa britannico Grant Shapps, questo non sarebbe sostenibile”; il problema, meramente tecnico ma fondamentale, è che le imbarcazioni militari di missili non è che ce n’abbiano all’infinito e quello che è più grave, sottolinea Bryen, “non possono essere rifornite in mare”. Con l’aumento del numero degli attacchi da parte di Ansar Allah, in realtà rimanevano quindi due sole opzioni: o smettere di scortare i mercantili – che non era pensabile – o provare ad attaccare le postazioni dalle quali gli attacchi partivano pur sapendo che i risultati sarebbero probabilmente stati molto limitati, tanto che ancora lunedì USA e UK hanno colpito di nuovo in almeno sei località diverse, ma Ansar Allah nel frattempo – sempre più superstar assoluta per tutta l’opinione pubblica del mondo arabo – è riuscita a continuare i suoi attacchi senza grossi problemi. Ieri, ad esempio, Ansar Allah ha comunicato di aver colpito l’americana Ocean Jazz che, sempre secondo gli yemeniti, sarebbe solitamente scortata dalla marina mercantile USA e che sarebbe solitamente adibita al trasporto di attrezzatura militare statunitense di grandi dimensioni. Le 3 navi europee in dotazione a Aspides potrebbero ritrovarsi di fronte a questo dilemma ancora prima perché, molto banalmente, sostanzialmente non sono dotate di sistemi per fronteggiare i missili balistici; sappiamo che possono abbattere i droni, ma che riescano ad abbattere un missile balistico è piuttosto difficile. L’unica soluzione realistica sembrerebbe quella di impiegare, appunto, aerei da ricognizione in grado di individuare tempestivamente l’eventuale lancio di missili per poi comunicarlo alla marina USA, che sarebbe l’unica in grado di abbatterli, ma fornire intelligence alla marina USA sul nemico che sta bombardando non sarebbe poi molto diverso da partecipare direttamente alla loro missione e, quindi, entrare in guerra contro lo Yemen.

Aereo da ricognizione MQ-1 Predator

In uno slancio di ingiustificato ottimismo proviamo comunque ad attaccarci a un’ultima possibilità e cioè che entrino in gioco anche la diplomazia e il dialogo: se l’Europa garantisse che Aspides non servirà per scortare anche navi israeliane o dirette in Israele, e che si limiterà a scortare cargo e petroliere diretti verso gli altri porti del Mediterraneo, potrebbe anche strappare ad Ansar Allah l’impegno a non minacciarle con missili balistici; difficile, però, che questo gentleman agreement possa avvenire se – appunto – Aspides prevederà, come sembra scontato, l’impiego di aerei da ricognizione che ovviamente sarebbero sospettati di lavorare per gli angloamericani. Insomma, sembra che la strada sia piuttosto stretta: da un lato una missione davvero puramente difensiva che ci esporrebbe a molti rischi e, dall’altro, l’adesione sostanziale alla missione offensiva USA, che a rischio ci metterebbe tutto il nostro traffico commerciale. L’unica soluzione concreta per tutelare i nostri interessi nell’area rimane quella di affrontare il problema alla radice, e cioè il genocidio al quale, fino ad ora, abbiamo assistito – nella migliore delle ipotesi – impassibili. Qualche piccolo spiraglietto si è aperto: dopo che i familiari degli ostaggi lunedì hanno fatto irruzione alla Knesset, Israele ha annunciato di aver ripreso a parlare con Hamas di una nuova pausa e di un nuovo scambio di prigionieri. Tutto sommato, potrebbero cominciare a sentire il bisogno anche i militari israeliani: sul campo, infatti, la resistenza palestinese nonostante tutto sembra tenere botta e le forze armate israeliane, dopo aver provato a sollevare un mezzo polverone, lunedì hanno dovuto ammettere di aver subito 24 perdite in un giorno solo.
Anche sul fronte della guerra ibrida contro l’Iran probabilmente si sperava di poter ottenere qualcosa in più, a partire dalla scaramuccia col Pakistan; fortunatamente invece, dopo lo scambio di razzi, le relazioni diplomatiche sono state subito riavviate e il ministro degli esteri iraniano Abdollahian è atteso per una visita ufficiale ad Islamabad il prossimo 29 gennaio; allo stesso tempo, l’Arabia Saudita ha fatto sapere che per Israele non è troppo tardi per tornare indietro e che, se si tornasse a discutere seriamente della soluzione dei due Stati, le petromonarchie potrebbero tornare a dialogare con Tel Aviv.
Insomma, la soluzione definitiva contro la lotta di liberazione palestinese sembra sempre più un miraggio delirante, come anche la marginalizzazione dell’Iran; nel mezzo ci stanno 30 mila vittime civili totalmente gratuite che rimarranno a eterna memoria di come l’Occidente collettivo, dopo 5 secoli di dominio globale, al momento del suo declino relativo abbia avuto ancora l’energia per mostrare il peggio di sé – e questo, diciamo, nella migliore delle ipotesi. Contro i colpi di coda dell’impero in declino e i deliri suprematisti della sua macchina propagandistica, abbiamo bisogno subito di un vero e proprio media che stia dalla parte dei popoli che lottano per la loro liberazione e del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Antonio Tajani