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Tag: stellantis

Macron e Stellantis provano a giocare la carta cinese contro l’Italia

Un nuovo appuntamento di inizio settimana con l’immancabile Matteo Lupetti.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Fiat – Alfa Romeo – Lancia: come ti distruggo l’industria automobilistica made in Italy

Oggi ad Ottolina Tv abbiamo Dionisio Masella (CUB) e Delio Fantasia (lavoratore Stellantis di Cassino): con loro abbiamo parlato di FIAT, Alfa Romeo e Stellantis, del settore automobilistico, della mancanza di investimenti e innovazione e di come l’azienda stia liquidando la produzione sul nostro territorio. Stellantis è solo sintomo di una tendenza più generale (calo della produzione industriale del 40% dal 2008) e al contempo avanguardia di quello che sarà l’Italia: un paese deindustrializzato e che pensa di vivere solo sul turismo low cost del mordi e fuggi. Alla faccia del governo sovranista…

Se i Cinesi si prendono l’Industria dell’Auto ItalianaGrosso guaio a Mirafiori

Grosso guaio a Mirafiori titolava a 6 colonne ieri Libero; “arrivano i cinesi”. Per chi ancora nutriva qualche speranza che questa destra di straccioni fintosovranisti e svendipatria avesse in serbo qualcosa di diverso per il Paese, rispetto alla solita ricetta a base di finanziarizzazione e deindustrializzazione per fare felici le oligarchie e il padrone di Washington, ieri è stata la giornata dell’Epifania; la pietra dello scandalo sarebbe questo articolo apparso su Automotive News Europe, una tra le più autorevoli testate europee dedicate al mondo dei motori: Stellantis, titola, potrebbe costruire i veicoli elettrici del partner cinese Leapmotor in Italia. “Fino a 150 mila auto Leapmotor l’anno” chiarisce il sottotitolo “potrebbero venire costruite nello storico stabilimento FIAT di Mirafiori”; un’ottima notizia, da tutti i punti di vista: attirare investimenti esteri per la produzione, infatti, è ovviamente uno degli obiettivi dichiarati di qualsiasi forza di governo – e giustamente, direi. Il problema ovviamente, semmai, sorge quando, con la scusa di attirare investimenti esteri, si concedono incentivi e finanziamenti a cazzo coi nostri soldi, o si dà una bella sforbiciata ai diritti dei lavoratori per fare concorrenza a paesi con livelli salariali e leggi sul lavoro decisamente più arretrate; il paradosso di tutti i governi degli ultimi 30 anni è proprio che hanno massacrato il mondo del lavoro e hanno promesso mari e monti a chi ci faceva la concessione di venire a investire da noi, ma in realtà senza ottenere mai una seganiente lo stesso: le multinazionali straniere si sono comprate una quantità spropositata di nostre aziende, ma – il più delle volte – la finalità era papparsi marchi e quote di mercato, e di rilanci produttivi manco l’ombra. Di cosa parliamo, invece, a questo giro?

Leapmotor è una delle ormai innumerevoli startup cinesi, spuntate come funghi negli ultimi 7 – 8 anni per ritagliarsi un posto al sole nella rivoluzione elettrica del mercato auto più grande del pianeta, e ha qualche asso nella manica: Leapmotor, infatti, ha sviluppato un chip tutto suo per i veicoli a guida autonoma e pure una piattaforma tutta sua che può essere utilizzata per la produzione di millemila modelli diversi, a seconda delle esigenze del mercato finale; Leapmotor, inoltre, ha da anni avviato una partnership strategica con FAW, il secondo gruppo per dimensioni delle 4 grandi e, cioè, le case automobilistiche di proprietà direttamente dello stato cinese – che in Cina è una cosa che fa sempre piuttosto comodo. Ed ecco così che, nell’ultimo anno, a buttare gli occhi su Leapmotor sono arrivati in diversi; ad agosto sembrava quasi fatto un accordo con Volvo, anche lei di proprietà di un altro marchio cinese, questa volta totalmente privato: si chiama Geely e – come ricordava Il Sole 24 ore nell’aprile 2020, a 10 anni dall’acquisizione – è un caso da manuale del “perché la cura cinese funziona”. “In un decennio” infatti “la casa svedese si è completamente trasformata. Ha raddoppiato il numero degli addetti, è passata da 449 mila a oltre 700 mila vendite all’anno, e da un fatturato di 126 a 274 miliardi di corone svedesi”: sono 21.500 posti di lavoro in più, tutti nella piccola, ricchissima e sindacalmente agguerritissima Svezia, talmente agguerrita che quando a fare concorrenza ai cinesi di Geely è arrivata Tesla e ha deciso di rompere con le tradizionali relazioni sindacali, ha causato un sciopero a macchia di leopardo che va avanti ormai da ottobre e che è sostenuto dall’80% della popolazione. Nel frattempo, invece, Volvo ha annunciato tre nuovi modelli interamente elettrici, ma la corsa a Leapmotor, invece, l’ha persa; e a vincerla siamo stati noi (vabbeh, si fa per dire…): a ottobre, infatti, dietro l’esborso di 1,5 miliardi di dollari, Stellantis col 21% è diventato il primo azionista. A che pro?
Leapmotor in quel momento, infatti, vende praticamente solo in Cina, che è sì il mercato automobilistico più grande del mondo – e anche di un bel po’ – ma è anche quello dove la concorrenza è più feroce, soprattutto nel mercato dell’elettrico dove la Cina, da sola, pesa più di tutto il resto del mondo messo assieme, ma a contenderselo ci sono la bellezza di 50 case diverse che si stanno facendo una guerra di prezzi spietata, alla fine della quale solo il più forte sopravviverà e, secondo gli analisti, i più forti non saranno più di una decina di marchi entro il 2030. E fino ad allora, a parte i marchi più grossi, di fare profitti non se ne parla proprio; ed ecco, infatti, che Stellantis tenta tutta un’altra strada: in Olanda, con Leapmotor dà vita a una joint venture che si chiama Leapmotor International. Obiettivo: vendere i veicoli elettrici prodotti in Cina in Europa; certo, non è un grande contributo al nostro automotive, anzi! Negli ultimi 20 anni il governo cinese ha lavorato giorno e notte per creare i presupposti per un’industria dell’elettrico di dimensioni gigantesche e, poi, ha imposto alle aziende di investire una quantità spropositata di quattrini per ritagliarsi qualche quota di mercato a colpi di innovazione e di riduzione dei costi; risultato: il nostro automotive – dove, invece, le aziende i profitti che hanno continuato a macinare solo grazie al contenimento dei salari e agli incentivi, invece che reinvestirli, li hanno redistribuiti per permettere ai grandi azionisti di andarli a buttare nel casinò della speculazione finanziaria, in particolare oltreoceano – non è minimamente in grado di reggere la concorrenza. In condizioni di libero mercato, se i cinesi cominciassero a esportare in massa le loro auto elettriche, per l’automotive europeo – molto semplicemente – sarebbe la fine; difficile dire se Stellantis, molto banalmente, allora abbia pensato di raschiare il fondo del barile facendo da spacciatore di auto cinesi: quello che sappiamo è che anche questo piano è naufragato. Con una decina d’anni abbondanti di ritardo, infatti, a un certo punto in autunno le istituzioni dell’Unione Europea si sono svegliate, hanno realizzato che mentre loro dormivano – e permettevano ai loro costruttori di intascare le miliardate senza investire un euro – i cinesi avevano sviluppato l’industria dell’automotive più efficiente del pianeta e, per proteggere i loro amichetti parassiti, hanno deciso di chiamare tutto ciò concorrenza sleale, un’ accusa non esattamente fondatissima, diciamo – come avevamo raccontato già in un video dello scorso settembre, pochi giorni prima che Stellantis concludesse l’operazione Leapmotor.
Nonostante i deliri, però, a questo giro in realtà forse ci ha detto culo; saltata l’ipotesi assalto al mercato cinese – e pure quella di dealer di roba cinese sul mercato europeo – ecco che, magicamente, salta fuori la terza opzione ed incredibilmente è la meglio di tutte: saranno i cinesi a venire qua e a dare lavoro alle nostre fabbriche. Un’opportunità gigantesca: Leapmotor, infatti, si è caratterizzata in particolare per la presenza nel segmento dei cosiddetti NEV, i Neighborhood Electric Vehicles, i veicoli elettrici di prossimità urbana; in particolare, questo modello qua:

T03 Leapmotor

si chiama T03 e ha fatto il suo esordio in Europa a settembre, al salone di Monaco, è una piccola utilitaria che ricorda un po’ la 500 delle origini – quella della prima motorizzazione di massa – e che in Cina, nella sua versione più lussuosa con 400 chilometri di autonomia, sistema di guida autonoma e un touchscreen da 10 pollici, costa poco più di 10 mila euro; in Francia, dove è già commercializzata, parte da 22 mila. Il margine per abbattere i costi cominciando a produrle direttamente in Europa sarebbero enormi e, finalmente, Stellantis avrebbe una piattaforma dignitosa per le utilitarie elettriche che, nonostante i prezzi folli e la diffidenza dei climatoscettici e degli amanti del rombo dell’endotermico, continuano a macinare numeri da capogiro: come riportava Il Sole 24 ore tre giorni fa, infatti, il mercato dell’elettrico in Europa nel 2023 ha sfondato quota 2 milioni di veicoli, raggiungendo il diesel. A trainare, come noto, sono in particolare il mercato scandinavo – dove ormai è elettrica una nuova auto su due – e, in generale, quello nord europeo, dove il rapporto scende a 1 a 5; ma anche nella più conservatrice e squattrinata Europa meridionale l’elettrico, ormai, è il 10% del mercato e a crescere, in particolare, sono proprio i veicoli cinesi, che hanno registrato una crescita annua del 79%.
Insomma: è abbastanza evidente che, come sosteniamo da sempre perché a libro paga della dittaturah cineseh, la strada per salvare l’automotive italiano c’è; si chiama integrazione con i produttori cinesi e questa notizia di Stellantis, una volta tanto, va nella giusta direzione. E infatti, ricorda Mario Sechi nel suo editoriale su Libero di scrivere vaccate, “I sindacati applaudono e le sinistre sono elettrizzate”; ma a loro non la si fa: “Dov’è” infatti, si chiede Sech, “l’auto italiana in tutta questa storia?” “Gli Stati Uniti” ricorda infatti Sechi “vogliono bloccare la Cina per concorrenza sleale” e “l’Europa si prepara a farlo in maniera ufficiale”, “e in mezzo a questa battaglia fra titani, Stellantis porta la Cina a Mirafiori” e diventa così “una sorta di cavallo di troia”. Insomma: “L’ad Tavares ha deciso di viaggiare contromano rispetto alle strategie di Stati Uniti e Unione Europea” e i sovranisti de noantri dichiarano apertamente che, a costo di smantellare completamente la nostra industria, non s’ha da fare; d’altronde, rilancia nell’articolo a fianco Sandro Iacometti – giusto qualche ora prima di dichiarare dai microfoni di La7 che se gli operai morti nel cantiere a Firenze erano clandestini, se la sono cercata – tutto questo fa parte del complotto green che rettiliani di Bruxelles e cinesi in combutta stanno ordendo contro i patrioti del fossile.

Mario Sechi

Un po’ come la gigafactory che il colosso cinese delle rinnovabili Envision sta costruendo nel nord della Francia, nell’ambito di un accordo con Renault che vuole trasformare quella che ha ribattezzato la sua ElectriCity – e, cioè, il distretto che comprende i tre stabilimenti di Douai, Maubeuge e Ruitz, al confine con il Belgio – “nell’unità di produzione di veicoli elettrici più competitiva e performante d’Europa, con 400 mila auto prodotte ogni anno entro il 2025”; il tutto, ovviamente, finalizzato – come scrive il guru dei negazionisti climatici Franco Battaglia su La Verità – “a resuscitare il socialismo”. Noi, sinceramente, ci accontenteremmo anche di meno: già cercare di recuperare un po’ il gap accumulato in questi anni grazie all’ottusità dei nostri capitani d’industria – sostenuti sia dalle istituzioni di Bruxelles che dall’alt right sinofoba a libro paga della lobby del fossile – e salvare quel poco che rimane del nostro tessuto produttivo, sarebbe un bel passo avanti; piuttosto, invece della fuffa, sarebbe il caso di tenere i fari puntati per assicurarsi che dalle parole si passi, finalmente, ai fatti. Per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che non sia a libro paga delle oligarchie, ma nemmeno l’utile idiota di Washington e dei petrolieri, e dia invece voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Mario Sechi

LA GRANDE TRUFFA DELL’AUTO ITALIANA – Che fine hanno fatto i 220 miliardi regalati agli Agnelli?

“La famiglia miliardaria degli Agnelli, che con la sua casa automobilistica negli anni ‘70 impiegava oltre 170 mila persone” scrive il Financial Times “è stata una regalità industriale italiana per oltre un secolo, corteggiata da tutti i governi che si sono succeduti, attraverso incentivi e politiche di favore”; “adesso, non più”. Dopo la sfuriata contro gli extraprofitti delle banche, la Giorgiona nazionale, per la seconda volta, trova il coraggio di dire apertamente quello che ogni italiano che non abbia subito una lobotomia totale ha sempre pensato e – per la prima volta nella storia dei primi ministri di questo paese – si scaglia contro la stirpe più parassitaria della storia italiana contemporanea. Nel caso degli extraprofitti delle banche non finì proprio benissimo, diciamo: dopo una bella overdose di retorica da è finita la pacchia, giusto il tempo di far incassare qualche decina di milioni agli speculatori al ribasso ed ecco che la tassa veniva già abbondantemente ridimensionata fino a ridursi a una minchiata tale da non trovare neanche più spazio nella legge di bilancio; non c’è motivo di credere che, a questo giro, possa andare meglio. Ciononostante, inveire contro gli eredi di una stirpe che, da oltre un secolo, viene sommersa da aiuti e incentivi pubblici di ogni genere senza restituire mai una seganiente è sempre un esercizio benefico e liberatorio e quindi, con grande gioia, ci uniamo a gran voce al coro: GLI AGNELLI CI HANNO ROTTO IL CAZZO. Stellantis aveva promesso il ritorno a 1 milione di veicoli prodotti in Italia: sono fermi a 750 mila. Nel 2022 ha registrato profitti record e nei primi sei mesi del 2023 ancora un altro record: li hanno distribuiti come dividendi e c’hanno ricomprato le azioni, e non hanno investito un euro – manco per la carta igienica; a maggio a Pomigliano i lavoratori si sono dovuti fermare due ore perché, come riportava addirittura Bloomberg, “Lo stabilimento è sporco, i bagni puzzano e mancano pure le tute da lavoro: i lavoratori devono aspettare mesi per sostituire quelle vecchie e logore”. Nel frattempo non hanno fatto altro che elemosinare altri incentivi e altri favori e quando la nostra Giorgiona, giustamente, li ha mandati a cagare, Tavares su Bloomberg ha risposto con le minacce: “Se non si danno sussidi per l’acquisto di veicoli elettrici, si mette a rischio il mercato italiano e i nostri impianti, a partire da Pomigliano e Mirafiori”. Detto fatto: a marzo 2260 operai di Mirafiori se ne andranno in cassa integrazione e potrebbe non essere una cosa passeggera; erano impiegati nelle linee della Maserati e dell’unico veicolo elettrico del gruppo costruito in Italia, la 500e. Per i nuovi modelli Maserati bisognerà aspettare anni e la 500e non è competitiva; senza un altro modello di grande consumo – è l’opinione unanime di tutti gli analisti – Mirafiori è spacciata.

Gli Agnelli

Però, in realtà, un investimento in Italia gli Agnelli l’hanno fatto: si sono comprati il gruppo GEDI. A differenza di Stellantis non produce profitti, ma ne vale la pena: tra Repubblica e La Stampa dell’addio all’Italia di Stellantis non c’è traccia. Al suo posto, questa roba vergognosa qua: “La nuova Lancia riparte dall’Italia”; “I nostri valori sono la storia, il design e una visione ambiziosa per il futuro”: è l’informazione mainstream ai tempi dell’editoria in mano agli oligarchi, una fabbrica di armi di distrazione di massa, opuscoli promozionali al posto delle notizie. Di fronte alla rivoluzione dell’elettrico l’automotive europeo si è fatto trovare completamente impreparato e, inevitabilmente, il primo anello a saltare è quello più debole: ci accontenteremo delle sparate inconcludenti della Meloni come per gli extraprofitti delle banche o, a questo giro, ci diamo finalmente una svegliata e ci prepariamo a vendere cara la pelle?
Nel 2023 produzione ferma a 750 mila veicoli titolava in prima pagina ieri Il Sole 24 Ore: “L’obiettivo del milione rischia di essere archiviato”. Lo smantellamento dell’automotive italiano, programmato scientificamente da Stellantis con la copertura dei media comprati ad hoc dalla famiglia Agnelli, procede inesorabile: la quota del milione di veicoli prodotti, infatti, non è stata fissata a caso; è la massa critica minima necessaria per tenere in piedi tutto il settore che, con poco oltre 160 mila persone impiegate in oltre 3 mila aziende, è il cuore di quel poco che rimane del nostro manifatturiero. “Siamo nati al fianco della FIAT nel 1980” ha dichiarato il fondatore e amministratore delegato della Promax Spa Nicola Pino al Sole “e grazie a loro ci siamo internazionalizzati, ma questi volumi produttivi ci mettono in ginocchio”: tra Melfi e il Piemonte, la Promax, che produce sedili, occupa circa 1000 persone; erano 1.600 giusto una quindicina di anni fa. Tutto merito di Stellantis che copre il 60% delle commesse: “Un milione di veicoli è la cifra minima per provare almeno a risalire la china, anche se i buoi sono già scappati, e il terreno perso è difficilmente recuperabile”; “La questione” sottolinea Il Sole 24 Ore “è emersa con drammaticità a Melfi, dove le aziende della componentistica e le imprese dei servizi sono nate intorno allo stabilimento ex FIAT, e che ora si trovano a corto di commesse”.
A fare una bella e utile cronologia del massacro, sempre su Il Sole 24 Ore, ci pensa il sempre ottimo e puntualissimo Paolo Bricco; la sua ricostruzione parte dal 2004: all’epoca, ricorda Bricco, “la FIAT era tecnicamente decotta. E quando arriva Sergio Marchionne, il gruppo perde due milioni al giorno”. Dopo 5 anni arriva l’acquisizione di Chrysler, la più malconcia delle Big Three di Detroit: “L’operazione funziona” sostiene Bricco “ma il nuovo gruppo, FCA, è frastagliato, sconnesso, disomogeneo. E di sicuro il baricentro non è più italiano”; d’altronde, come sottolineava Marchionne, è “la fusione di due società povere”e, per risalire la china, non trova di meglio che cominciare a staccare dei pezzi che si spostano “a Londra per la migliore fiscalità” e “ad Amsterdam per i vantaggi asimmetrici assegnati a chi controlla le società attraverso il voto plurimo”. Questo è un aspetto fondamentale che molto spesso non viene citato: il codice civile olandese, infatti, stabilisce che una società per azioni può stabilire liberamente il numero di voti per ogni azione detenuta da determinati soci che, ovviamente, rappresenta un vantaggio gigantesco per gli azionisti più forti perché gli permette di controllare la società anche senza maggioranza, un altro dei dispositivi tecnici che, negli ultimi decenni, ha favorito la concentrazione del potere economico nelle mani di pochissimissimi. “IVECO – CNH, che fa trattori e macchine movimento terra” ricorda Bricco “è la prima”; seguiranno poi FCA, Exor, Ferrari e Magneti Marelli, il gioiello della componentistica che poi sarà ceduto al fondo KKR, quello che recentemente s’è comprato pure la rete digitale di Telecom grazie al lavoro diplomatico dell’ex direttore della CIA David Peatraues. Nel frattempo, ricorda Bricco, “in Italia accadono due cose”: la prima risale al 2010, quando viene annunciato il piano Fabbrica Italia – mica pizze e fichi, ma, come scrivevano nero su bianco Marchionne e John Elkann in una lettera agli azionisti, “Il più straordinario piano industriale che il nostro Paese abbia mai avuto”, così straordinario che dopo poco più di un anno, senza che nel frattempo si fosse mossa foglia, veniva ritirato. Per la seconda tappa bisognerà poi aspettare il 2016 quando, sempre in pompa magna, viene annunciato il fantomatico Polo del lusso che, a partire dalla sinergia tra Alfa Romeo e Maserati, doveva attirare altri marchi internazionali di prestigio come Audi e Mercedes e proiettare nel futuro l’Italia dell’auto, ma – ricorda Bricco – “anche il polo del lusso non va bene. E un pezzo alla volta inizia a ridursi la base manifatturiera italiana”.

Gli italiani

Poi, appunto, c’è la vendita di Magneti Marelli: è il 2018 e FCA incassa la bellezza di 6,2 miliardi; i fondi speculativi sono predatori, ma a volte pagano bene. Sarebbero stati dei bei soldini per provare a rilanciare la produzione in Italia, ma è troppa fatica; gli azionisti di maggioranza di FCA, grazie anche proprio al voto multiplo permesso in Olanda, impongono una scelta lungimirante: i quattrini vengono spartiti come super dividendi, e dall’automotive finiscono chissà dove. Di fronte a questa cronologia impietosa, sostiene Bricco, quelli che oggi si scandalizzano per l’indifferenza degli Agnelli rispetto alle sorti dell’Italia (e che sono rimasti muti negli ultimi 15 anni) fanno abbastanza ridere; la storia degli Agnelli, da decenni, è – come titola il suo prezzo Bricco – una storia alla Prendi i soldi e vendi. Ma quanti soldi hanno preso? Una stima che circola spesso sono 220 miliardi, ma “probabilmente” sottolinea Bricco “sono molti di più”; nessuno, però, lo saprà mai perché, continua Bricco, “è impossibile conoscere i veri numeri sugli incentivi alla ricerca e alla innovazione e soprattutto sono una sorta di segreto di Stato i veri numeri dei pensionamenti e dei prepensionamenti con cui l’industria privata (e non solo la FIAT) si è più volte ristrutturata a spese del bilancio dell’INPS”. Di sicuro, conclude Bricco, c’è “che il Paese ha dato molto. E il bilancio è del tutto a favore della fu FIAT”. Con la fusione con PSA, ovviamente, le cose non potevano che peggiorare: mentre la Francia diventava un socio forte direttamente con le azioni detenute dallo Stato, a rappresentare gli interessi dell’Italia rimanevano, appunto, solo gli Agnelli; non esattamente una botte di ferro, diciamo, e in una fase che per il decotto automotive europeo – totalmente incapace di reggere la concorrenza cinese dove, nella transizione e nell’elettrificazione, si investono cifre spropositate da anni e anni e dove si sono raggiunte un’economia di scala e un’efficienza ineguagliabili – è di per se un discreto bordello. Risultato: quel poco che si mette sul tavolo per difendere gli insediamenti produttivi tradizionali va a tutelare la produzione francese, e quella italiana viene abbandonata. La nuova 600 elettrica si produce in Polonia, la Panda elettrica in Serbia, ma l’assemblaggio finale – per provare a reagire alla concorrenza cinese – non basta, ed ecco così che arriva la goccia che fa traboccare il vaso: come riporta Bloomberg, Stellantis avrebbe inviato una lettera ai suoi fornitori italiani nella quale segnalava le straordinarie opportunità di investimento in Marocco.
Non è un paese a caso; 11 novembre, South China Morning Post: “La Cina punta sul Marocco mentre la nazione nordafricana diventa il centro della rivoluzione dei veicoli elettrici”; “La vicinanza del Marocco all’Europa, l’abbondanza di minerali essenziali e gli incentivi fiscali” scrive la testata di Hong Kong “hanno posto il Marocco al centro del settore dei veicoli elettrici”. “Nell’ambito della tendenza globale al nearshoring” continua “per accorciare le catene di approvvigionamento le aziende cinesi si stanno ora schierando nel Paese nordafricano”: come vi abbiamo raccontato svariate volte negli ultimi mesi – al di là delle tesi strampalate di chi avversa l’elettrico perché gli piace il rombo del motore e altre segate varie – l’automotive del prossimissimo futuro è elettrico e l’unica speranza che ha l’Europa di non venire completamente esclusa dai giochi – come avvenuto con i microchip e le piattaforme digitali e come sta avvenendo di nuovo, in modo ancora più preoccupante, con l’intelligenza artificiale – è trovare il modo di integrare le catene del valore con l’unica superpotenza manifatturiera mondiale, e cioè la Cina; il resto sono chiacchiere, soprattutto da quando gli USA hanno deciso che per giocarsi la loro partita era tornato il tempo del protezionismo più feroce, e se le istituzioni e la politica europea non fanno i conti con questo dato materiale incontrovertibile, vorrà dire che i produttori europei l’integrazione coi cinesi la faranno fuori da casa nostra. E in questo processo l’Italia, che è l’anello debole del vecchio continente, non poteva che fare da apripista.

El Kann

Ingaggiare qualche dissing contro gli Agnelli, che ormai l’Italia l’hanno abbandonata da mo’, sicuramente fa sempre piacere e sicuramente – giustamente – esalta un pezzo di elettorato, ma se continui a fare lo zerbino di Bruxelles e di Washington nella loro guerra ideologica contro Pechino, finito il piacere per l’industria italiana, a casa, comunque, non hai portato nulla, esattamente come per la tassa sugli extraprofitti delle banche. Il mondo sta cambiando alla velocità della luce: da una parte, al netto di tutte le contraddizioni, ci sono pace, investimenti e sviluppo; dall’altra, oligarchie predatorie e venti di guerra e, al di là di qualche battuta anche simpatica, la Giorgiona nazionale da che parte sta l’ha sempre fatto capire piuttosto chiaramente. Contro la sua propaganda abbiamo bisogno di un vero e proprio media che perculi gli Agnelli come Giorgia e più di Giorgia, ma che al contrario di Giorgia stia dalla parte del mondo nuovo che avanza e del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è John Elkann

LA MORTE DELL’AUTO ITALIANA – Stellantis: profitti record, licenziamenti e capannoni in svendita

Ciao ciao Mirafiori!
Dopo gli ultimi sviluppi, la dichiarazione di morte dell’automotive italiano è sostanzialmente ufficiale: “Costruisci il tuo futuro” l’ha chiamato Stellantis, con una bella dose di sano masochismo. E’ il progetto che ha previsto l’invio di una mail a 15 mila dipendenti, dove venivano invitati a mettersi in tasca qualche euro e levarsi definitivamente dai coglioni: il futuro che si dovrebbero costruire è da disoccupati. Vista l’aria che tira – e la possibilità concreta che se non se ne vanno oggi con una bella dose di incentivi in tasca, se ne dovranno andare comunque domani con in mano un pugno di mosche – in 500 avrebbero già accettato; a convincerli, in particolare, un annuncio apparso l’altra settimana su Immobiliare.it: capannone in vendita, Grugliasco, 115 mila metri quadrati, prezzo su richiesta.

Sergio Marchionne

Neanche 10 anni fa, il venditore di pentole in cachemire Sergio Marchionne lo aveva definito il fiore all’occhiello dell’automotive italiano: doveva essere il cuore pulsante di un fantomatico “polo del lusso” specializzato nella produzione di due modelli Maserati: la Ghibli e la Quattroporte, roba da 150/200 mila euro a botta. “Questi sono giorni cruciali per riposizionare il marchio e avviare una fase di espansione senza precedenti” aveva declamato enfaticamente Marchionne il giorno dell’inaugurazione, e a un certo punto avevano cominciato a macinare così tanto che, nel 2016, il sindacato s’era dovuto mobilitare perché “i carichi e i ritmi di lavoro sono troppo sostenuti, e questo mette a rischio la salute dei lavoratori” (Fiom-Cgil, 2016).
E’ durato come un gatto in tangenziale: “A pieno regime” ricorda Davide Depascale su Il Domani “l’impianto Maserati impiegava duemila operai. Nell’ultimo anno ne erano rimasti un centinaio.” Li hanno spremuti come limoni per qualche anno e poi gli hanno dato una pedata nel culo, e ora l’intero capannone te lo porti a casa con un click: “Lo stabilimento” si legge nell’annuncio “si presenta in buone condizioni manutentive a seguito di recenti e rilevanti interventi di ristrutturazione”. Si divertono pure a girare il dito nella piaga. D’altronde, però, quando è crisi è crisi, insomma. “Stellantis, record di utili nel 2022” titolava entusiasta Milano Finanza già nel febbraio scorso, e il banchetto era solo all’inizio: giusto pochi giorni fa sono stati pubblicati i risultati del terzo trimestre e Stellantis registra un altro risultato record: +7% di ricavi netti rispetto all’anno prima. Ottimo! Nella guerra mondiale dell’automotive in corso, per finanziare la transizione all’elettrico e mantenere la quota di mercato, un po’ di quattrini da investire sono proprio quello che ci vuole.
Macché: sapete cosa ci hanno fatto? Ci hanno ricomprato le loro azioni, l’ennesimo caso di buyback selvaggio che non serve ad altro che a continuare a gonfiare la bolla speculativa sui titoli azionari e a far intascare al management premi multimilionari a suon di stock option e altri meccanismi simili; nel 2022, il solo CDA si è messo in tasca oltre 31 milioni, 3 in più dell’anno precedente. Quando la FIAT sfornava milioni di auto e dava da lavorare a 200 mila persone, lo storico amministratore delegato Vittorio Valletta non guadagnava più di 500 mila euro: riusciremo mai a mettere fine a questo saccheggio?
A rimettere in fila due numeri su Il Domani ci pensa Edi Lazzi, segretario generale della Fiom di Torino: “A Mirafiori dal 2007, ultimo anno senza cassa integrazione” ricorda “la produzione è calata dell’89%, e la cassa integrazione ha raggiunto picchi del 70”. Nel 2022 gli occupati complessivi sono arrivati alla quota miserrima di 12 mila; erano 20 mila solo 8 anni prima. Mille in meno l’anno, “come se ogni anno chiudesse una fabbrica di medie dimensioni” sottolinea Depascale su Il Domani. “Nei prossimi anni” rilancia Lazzi “il 70 per cento dei lavoratori va in pensione. Senza nuove assunzioni Mirafiori si fermerà”, e pensare che a Mirafiori sarebbero dovuti finire anche i lavoratori della Maserati di Grugliasco dove, nel frattempo, a ritrovarsi con le pezze al culo ovviamente è anche tutto l’indotto “con tutta la componentistica” sottolinea Depascale “a rischio chiusura”. Un esempio su tutti la Lear Corporation: è una multinazionale americana con oltre 160 mila dipendenti in 37 paesi, la 147esima azienda al mondo per fatturato, stando alla classifica di Fortune 500; è specializzata di sistemi elettrici e di interni per auto – in particolare sedili – e fare i sedili in pelle umana per le auto da 200 mila euro della Maserati era un ottimo business, ma ora che la Ghibli e la Quattroporte nello stabilimento accanto non le producono più, ecco che – dei 420 dipendenti che hanno – la bellezza di 300, a breve, si ritroveranno in mezzo a una strada senza grosse alternative. Stellantis, infatti, tra un buyback e l’altro qualche investimento – in realtà – in giro per il mondo lo fa anche, a partire dalle famose gigafactory, solo che non li fa coi soldi suoi e non in Italia. Negli Stati Uniti, da pochissimo, ha annunciato il secondo impianto: entrambi si troveranno a Kokomo, in Indiana; 6,3 miliardi di investimento per 2.800 posti di lavoro previsti, oltre 2 milioni di dollari l’uno che, in buona parte, ricadranno sulle casse dello Stato sottoforma di credito d’imposta. Esattamente come in Europa, dove Stellantis ha incassato una quantità spropositata di incentivi per completare il suo primo impianto a Douvrin, nel nord della Francia, e ora sta procedendo con il cantiere di Kaiserslautern in Germania. Dopo – e soltanto dopo – arriverà, forse, il contentino anche per l’Italia: anche l’ex FIAT di Termoli, infatti, dovrebbe diventare una gigafactory. Per convincere Tavares a farci la grazia gli abbiamo dovuto promettere la bellezza di 600 milioni del PNRR, ma le condizioni che abbiamo chiesto in cambio non convincono proprio tutti: la fabbrica, infatti, dovrebbe riassorbire i vecchi operai FIAT ma il management ha già fatto sapere – riporta l’Ansa – che “l’azienda avrà la necessità di disporre di professionalità totalmente diverse da quelle tuttora presenti nel vecchio stabilimento”.
Cosa significa? Che a una bella fetta dei vecchi operai che, grazie all’anzianità, hanno raggiunto finalmente stipendi quasi dignitosi, si darà il benservito con qualche ammortizzatore sociale pagato con le nostre tasse e, al loro posto, se ne prenderanno di nuovi con trattamenti salariali e accessori peggiori possibile. D’altronde, dire che la morte dell’automotive italiano era annunciata è un eufemismo, e pensare che anche l’Italia possa avanzare qualche pretesa per le briciole che il protezionismo USA e il ritorno dell’austerity nell’Unione Europea lasceranno cadere dal banchetto della transizione ecologica e dell’elettrificazione potrebbe rivelarsi del tutto velleitario; dentro alla gabbia delle compatibilità con l’agenda geopolitica USA, da un lato, e il culto dell’austerità dell’Unione Europea dall’altro, il nostro destino è segnato. Non deve essere necessariamente così e, per dimostrarvelo, ora vi racconto una bella storiella. L’articolo è ormai un po’ datato; siamo nel 9 agosto scorso e Bloomberg titola : “La chiusura della Ford dopo 100 anni in Brasile cede il territorio degli Stati Uniti alla Cina”. La location è uno dei luoghi più iconici della lunga storia dell’automotive globale: siamo nella cittadina di Camacari, una trentina di chilometri a nord di Salvador, la capitale dello stato di Bahia; qui, in uno spazio sterminato più grande del Central park di New York, sorgeva una delle principali fabbriche della Ford del gigantesco paese sudamericano che, da un paio di anni, è stata totalmente smantellata pezzo per pezzo. Ma nell’aria non c’è segno né di sconfitta, né di rassegnazione: a breve qui si tornerà a lavorare a pieno ritmo. L’ex Ford di Camacari, infatti, è stata acquisita da BYD, il colosso dell’automotive elettrico che vanta tra i suoi principali investitori anche la Bearkshire Hathway di Warren Buffett; qui sorgerà la sua fabbrica più grande fuori dall’Asia.

Lula, Hugo Chavez e Néstor Kirchner

Per Lula, che di fabbriche se ne intende – visto che c’ha passato mezza vita e c’ha perso pure un dito -, è una vittoria di portata storica: convincere gli investitori cinesi a riaprire quella fabbrica è sempre stato un suo pallino. Per questo, quando s’è recato a Pechino appena due mesi dopo l’inizio del suo mandato, ha voluto in tutti i modi incontrare di persona l’amministratore delegato di BYD. Durante il mandato del suo predecessore, i rapporti con la Cina erano precipitati ai minimi storici: puntava a un rapporto privilegiato con l’America di Trump mentre l’America di Trump chiudeva le fabbriche. La Ford, ad esempio, non si è ritirata in fretta e furia solo dallo stato di Bahia, ma tutto il paese – dal giorno alla notte – dopo 100 anni di attività; è l’epilogo di un lungo declino, un po’ come quello italiano. La produzione industriale pesava per quasi metà PIL fino alla fine degli anni ‘80; ora pesa per meno di un quarto.
La deindustrializzazione, in questi anni, ha riguardato anche i paesi del Nord globale; la differenza però è che – grazie alle logiche neo – coloniali – il Nord globale mantiene comunque il controllo delle catene del valore. Il Brasile e l’Italia, no. Lula non è il solo protagonista della rinascita dell’ex sito Ford di Camacari; un ruolo chiave l’ha svolto anche il governatore dello stato di Bahia, il primo – nella storia dello Stato – appartenente alle popolazioni indigene: si chiama Jeronimo Rodrigues e si aspetta che i cinesi portino nella regione almeno 10 mila nuovi posti di lavoro, e non solo quelli. BYD prevede di aprire una nuova miniera nello Stato per estrarre localmente il litio che servirà alla fabbrica, e ha già investito 700 milioni solo per la parte di ricerca e sviluppo per una nuova monorotaia che permetterà di liberare Salvador dal traffico. Se è questa la giungla selvaggia che minaccia il nostro giardino ordinato, forse varrebbe la pena farci un pensierino.
C’è un intero mondo, là fuori, che è alla ricerca di opportunità per tornare a far crescere l’economia reale, e non si chiama Carlos Tavares o John Elkann, che se ancora possono scendere per strada senza essere rincorsi da una folla inferocita è perché i soldi che non reinvestono per rilanciare l’industria automobilistica italiana li spendono per far dire alla propaganda che – tutto sommato – va bene così e che “there is no alternative”, quando invece l’alternativa c’è eccome. Solo che per raccontarla per bene abbiamo bisogno di un media tutto nostro, che dia voce al Sud globale e al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è John Elkann