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Tag: stato

Ecco perché l’Unione europea è funzionale alle oligarchie e all’impero USA

Eugenio Pavarani, professore di economia all’Università di Parma, ci descrive – dati alla mano – coma mai la scelta dell’Italia di entrare nell’euro è stata una scelta suicida. Dopo 30 anni di Unione Europea e 2 di Euro infatti, il nostro stato sociale è stato smantellato e la democrazia rappresentativa svuotata di senso. I trattati europei, infatti, sono trattai neoliberisti che impongono il primato delle oligarchie economiche sulla politica e una sottomissione di fatto dei popoli alle leggi del capitale. In questi contesti, gli Stati Uniti d’Europa non sono un racconto puramente mitologico.

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Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Italia vs USA- La lotta per l’indipendenza sta per cominciare?

Sovranità o barbarie. Sovranità o morte.
Tutta la storia contemporanea può essere letta anche come storia del conflitto tra nazioni ed imperi, tra comunità nazionali, che lottano per la propria indipendenza ed autodeterminazione, ed imperi aggressivi e coloniali, che cercano di assoggettare altri popoli per asservirli ai propri interessi. In questo periodo di transizione ad un nuovo ordine multipolare in cui, idealmente, l’autodeterminazione dei popoli diventerà veramente il principio fondante del nuovo equilibrio internazionale, nazioni coraggiose hanno cominciato, finalmente, ad alzare la testa e le armi contro i propri oppressori e contro il vecchio ordine mondiale fondato sull’egemonia del dollaro e sullo sfruttamento; e anche per il nostro paese, da 80 anni militarmente occupato da una potenza straniera a causa di una guerra persa, la questione nazionale è sempre più una questione dirimente e non più rimandabile, perché lo spaventoso declino economico, demografico e culturale che stiamo subendo è in gran parte frutto del fatto che non abbiamo la possibilità di portare avanti una nostra agenda dettata dai nostri interessi nazionali, che le nostre classi dirigenti sono selezionate a monte sulla base della loro mediocrità e servilismo e che, come ogni colonia, stiamo introiettando modelli culturali dal centro dell’impero che non hanno nulla a che fare con la nostra storia e che ci stanno dissolvendo dall’interno.

Nel libro Sovranità o Barbarie – Il ritorno della questione nazionale, Thomas Fazi e William Mitchell affrontano di petto questa questione e dimostrano come, nella storia, lo Stato Nazione sia stata la sola cornice istituzionale e culturale in cui le classi subalterne hanno migliorato le proprie condizioni di vita, hanno creato uno stato sociale fondato sulle tutele e sulla giustizia redistributiva e hanno allargato gli spazi di democrazia. Come sottolinea anche l’articolo 1 della nostra Costituzione, se non esiste sovranità popolare non esiste democrazia e, se non esiste democrazia – dobbiamo aggiungere – il popolo può solo subire le politiche delle oligarchie autoctone e straniere che, con il supporto del potere imperiale, depredano le ricchezze nazionali e fanno di tutto per conservare lo status quo. Citando ampi stralci dai discorsi e dagli scritti di figure come Togliatti, Basso e Di Vittorio, Mitchell e Fazi mettono in luce la profonda diffidenza – se non aperta avversione – che, per tutti questi motivi, la sinistra socialista nutriva contro ogni dissolvimento dello Stato italiano in una qualche istituzione sovranazionale poco o per nulla democratica. Le loro parole, oltre alla consapevolezza del fatto che l’internazionalismo dei popoli non ha alcunché da spartire con la globalizzazione finanziaria e capitalista, esprimono con ancora più chiara consapevolezza che la sovranità nazionale era il presupposto indispensabile per qualsiasi realizzazione dei bisogni e dell’emancipazione degli ultimi.
Ma anche Costanzo Preve, all’inizio di questo secolo, quando quasi tutti guardavano alla globalizzazione capitalista come al migliore dei mondi possibili e all’America come a un padrone benevolo, ci aveva avvertito e, in un libretto chiamato La questione nazionale alle soglie del XXI secolo, già denunciava l’inglobamento della nuova sinistra liberista nella sfera culturale delle élite capitaliste, mostrando quanto ideologica e strumentale fosse la sua nuova visione dello Stato nazionale come semplice residuo artificiale del passato e un residuo, perlopiù, di cui sbarazzarsi il più in fretta possibile, data la sua intrinseca pericolosità e aggressività nei confronti delle altre nazioni; in verità, ci ricorda Preve, nazionalismo ed imperialismo sono fenomeni politici opposti e da sempre in conflitto tra loro e chi nega la sovranità nazionale di un altro popolo con comportamenti coloniali e predatori non deve essere chiamato nazionalista, ma imperialista. E nel mondo attuale, in cui la storia sembra essersi rimessa in moto, è proprio da questa consapevolezza e da queste analisi che chi ha a cuore la pace e la democrazia dovrebbe ripartire. In questa puntata parleremo, quindi, del modo in cui l’ideologia neoliberista degli ultimi decenni ha cercato di distruggere il concetto di Nazione e di Stato sovrano per poter espandere le proprie logiche in ogni spazio e dimensione della vita comunitaria; vedremo poi la differenza tra i veri nazionalismi e le sue aberranti perversioni imperialistiche nel ‘900 e perché, oggi, la lotta per l’indipendenza nazionale ed europea dagli Stati Uniti non è davvero più rimandabile.
La famosa globalizzazione a guida americana non ha significato solo accelerazione delle comunicazioni, dei trasporti e delle transazioni finanziare, ma – soprattutto – restaurazione del pieno funzionamento dei rapporti capitalistici di produzione dopo l’intervallo del comunismo storico novecentesco dal 1917 al 1991; durante questa restaurazione, messa oggi in discussione dall’emergere di nuove potenze economiche e culturali concorrenti, gli Stati occidentali hanno perso alcune funzioni tipiche dei decenni felici (dal 1945 al 1991), come la redistribuzione della ricchezza e l’implementazione dei diritti sociali, rafforzando il loro ruolo di appoggio economico, politico e militare agli interessi delle oligarchie economiche; un processo, sostengono Fazi e Mitchell, che sarebbe sbagliato interpretare come indebolimento dello Stato e che ha, invece, a che fare con la volontà delle classi dirigenti di utilizzare lo Stato come strumento di profitto, di indebolimento delle classi lavoratrici e di svuotamento della democrazia.
Nonostante le contraddizioni di questo sistema stiano chiaramente scoppiando, In Italia la necessità quasi teologica della globalizzazione capitalista a guida americana non viene ancora messa in discussione e l’opposizione destra – sinistra, ormai del tutto artificiale e virtuale, continua ad essere riprodotta dall’alto per non far vedere ai cittadini queste contraddizioni e continuare a dividerli su questioni di pettegolezzo e di costume: sul tema della nostra sovranità e indipendenza nazionale, ad esempio, che sarebbe una chiara minaccia per la globalizzazione americana, la finta destra svolge da sempre il ruolo di cantore dell’occupazione militare del nostro suolo e sogna un’Italia finalmente americanizzata in cui i poveri possano essere sfruttati senza rompere troppo i coglioni e in cui la socialdemocrazia venga smantellata in ogni sua parte; la finta sinistra, invece, presa da un’incredibile crush per il partito democratico americano e per l’Unione Europea, sogna che l’Italia cessi proprio di esistere e questo perché, per loro, l’identità nazionale sarebbe roba da popolino e da medioevo, mentre l’America e le organizzazioni internazionali sono sinonimo di modernità, moda e umanitarismo.
Tutta questa ideologia antinazionalista, sottolinea anche il sociologo tedesco Wolfgang Streeck in Che fine farà il capitalismo?, serve proprio perché lo Stato nazionale sovrano è incompatibile con la forma imperiale americana e perché, storicamente, è stata la forma più efficace a disposizione delle classi popolari per controllare e socializzare l’economia: “Anche per questo” scrive Streeck, “anche se in modo spesso confuso o ambiguo, oggi le forme di opposizione prevalente al regime neoliberista globalizzato si presentano come rivendicazioni di sovranità nazionale o substatale.”; in Europa, aggiunge Preve, questo odio viscerale della sinistra liberal per la nazione “È diventata la questione culturale principale per cui la tradizione definita comunemente di sinistra è sostanzialmente inutilizzabile oggi per motivare un serio atteggiamento di critica e di resistenza all’attuale globalizzazione capitalistica ed imperialistica.” “E” continua “è uno dei fatti principali per i quali la sinistra, che negli ultimi due secoli nonostante difetti evidenti ha difeso cause sociali giuste, invece da 40 anni ha cambiato radicalmente natura.” Non è certo la prima volta nella storia che, in paesi sconfitti e occupati e con classi dirigenti collaborazioniste con l’occupante, diffondono idee che delegittimano l’idea stessa di sovranità e indipendenza e cerchino, in tutti i modi, di far passare l’idea che in fondo è meglio così e che il padrone è un padrone benevolo che sa fare al meglio gli interessi di tutti. Ma nel nostro caso, ricorda Preve, si è diffuso anche uno strisciante revisionismo che delegittima l’idea stessa di Nazione, per il quale le nazioni sarebbero solo il prodotto di un’ingegneria sociale priva di alcun fondamento culturale e di cui bisognerebbe liberarsi il più in fretta possibile, data la loro intrinseca aggressività nei confronti delle altre Nazioni; i più cauti su questo punto dicono che il nazionalismo guerrafondaio ed espansionistico – come, ad esempio, quello europeo e americano degli ultimi secoli – sarebbe una perversione e deviazione dell’originario ed autentico concetto di Nazione. “Ma invece bisogna dire” scrive Preve “che il nazionalismo militaristico e il colonialismo imperialistico sono stati la negazione e il nemico frontale della realtà nazionale per la stragrande maggioranza dei popoli del mondo. Il colonialismo imperialistico è la negazione, è il più grande nemico del riconoscimento della legittimità dell’identità nazionale.”

Wolfgang Streeck

Un secondo pregiudizio a proposito della questione nazionale, da sempre caro ad un certa sinistra internazionalista, è che l’idea di nazione sarebbe nemica delle classi popolari e dell’emancipazione sociale; secondo questa teoria, il concetto di nazione implicherebbe una falsa unità tra le classi sociali e l’identità nazionale non sarebbe altro che un’identità borghese e capitalistica mascherata e venduta ai proletari dagli apparati ideologici di Stato per non far fare loro la rivoluzione e mandarli a morire in guerra per i propri interessi: questa obiezione, riflette Preve, rilevata da Marx e da gran parte dei marxisti successivi, è solo in parte pertinente. Dire che il nazionalismo distrarrebbe i proletari è ingenuo: “La gente è forse un po’ cogliona” ragiona il filosofo di Valenza “ma non cogliona fino a questo punto. La questione nazionale non distrae mai dalla questione sociale quando essa è realmente radicata in forze sociali reali. Lo sviluppo dialettico della lotta tra le differenti classi sociali della società capitalistica, ha anzi come presupposto storico la precedente identità nazionale.”; e infatti, se si guarda alla storia, possiamo tranquillamente dire che la rivoluzione classista pura è un’invenzione dei dogmatici. Tutte le rivoluzioni sociali concretamente avvenute – come quella russa, cinese, vietnamita e cubana – sono tutte sorte da una precedente questione nazionale non risolta a causa, appunto, dell’imperialismo, ossia la negazione assoluta del nazionalismo. Patria o muerte diceva Ernesto Guevara.
Bisogna prendere poi atto del fatto che la stragrande maggioranza delle persone non appartiene – e mai apparterrà – all’élite cosmopolita postnazionale “E per queste persone” scrive Carlo Formenti nelle conclusioni al libro di Fazi e Mitchell “nozioni quali cittadinanza, identità collettiva, senso di appartenenza, sono inestricabilmente legate a un determinato territorio e, nella maggior parte dei casi, a una nazione intesa come comunità caratterizzata dalla presenza di lingua, storia, cultura, geografia, usi e costumi comuni, o di almeno alcuni di questi caratteri (che di per sé non hanno nulla di organicista e/o di razziale).”; “In ultima analisi” conclude “cosa significa essere cittadini se non appartenere a una comunità che stabilisce autonomamente come organizzare la vita sociale ed economica all’interno di un dato territorio?”. È per questo che le destre che oggi hanno ancora con una retorica nazionalista (anche se prontamente tradita una volta al governo) sono egemoniche tra le classi popolari: perché sono in grado di tessere nuove narrazioni identitarie fondate sulla sovranità nazionale. Le forze veramente sociali e popolari invece, per tornare a vincere, oltre ad avere una chiara visione della necessaria trasformazione socioeconomica e istituzionale della società, devono anche essere in grado di produrre miti e narrazioni altrettanto potenti che riconoscano il bisogno di appartenenza delle persone e il loro legame col territorio in cui vivono e con le persone con cui condividono quello spazio.
Purtroppo, dobbiamo invece constatare che, mentre noi passiamo il tempo a delegittimare noi stessi mandando all’aria anche i nostri interessi economici, gli americani hanno ereditato dagli anglosassoni puritani la spiacevole illusione di avere un qualche primato sul mondo e, pertanto, di rappresentare una sorta di destino manifesto; come dichiarava Bill Clinton qualche anno fa “L’America è l’unica nazione indispensabile del mondo” e tutte le altre possono esistere solo se le riconoscono questo primato: “E qui si innesta appunto la pertinenza della questione nazionale” scrive Preve “perché l’imperialismo americano si arroga il diritto di decidere sovranamente in base ai propri interessi quali nazioni possono esistere sovranamente e quali no”. In conclusione, possiamo – insomma – dire che oggi questione nazionale significa battaglia per la democrazia e resistenza contro l’imperialismo e chi parla oggi di democrazia senza lotta concreta per l’autodeterminazione dei popoli, allude ad una sorta di proceduralismo e garantismo formale dietro cui le oligarchie straniere e autoctone non hanno nessun problema a nascondersi e a portare avanti i loro interessi antidemocratici.
Ovviamente, la solidarietà tra nazioni resistenti è una necessità: in un mondo sempre più interconnesso, aiutare gli altri vuol dire aiutare se stessi e lo sguardo degli oppressi ci rimanda al nostro stesso destino; anche per questo possiamo dire che è sicuramente preferibile l’internazionalismo al nazionalismo, ma nel suo significato etimologico, ossia come rapporto tra nazioni differenti ed eguali fondato su un diritto internazionale che riconosca la legittimità di tutte le nazioni – e non sulla retorica del cosmopolitismo pop e delle bombe umanitarie. “L’universalismo” conclude Preve “deve essere un dialogo tra le differenze, e non certo un altoparlante che diffonde orwellianamente ad una plebe livellata un unico messaggio universale obbligatorio.” E se anche tu vorresti che l’Italia sfruttasse al meglio il nuovo ordine multipolare nascente per riconquistare la propria libertà perduta, aiutaci costruire un media veramente libero e indipendente che combatta la propaganda dei media collaborazionisti: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giorgia Meloni

La GUERRA TOTALE degli USA di Biden contro il resto del pianeta, fino all’ULTIMO EUROPEO

Su una cosa sono tutti d’accordo: il discorso di giovedì scorso di Biden per l’annuale Stato dell’Unione è stato un discorso storico anche se, per ognuno, per un motivo diverso. La più entusiasta di tutti è la sinistra ZTL: Sleepy Joe si sveglia titola Il Manifesto; “A testa bassa contro Trump e l’Alta Corte” continua, “nel discorso sullo Stato dell’Unione il presidente Biden sorprende media e avversari e risale nei sondaggi”. Ancora più enfasi sul Domani, che minaccia un bivio storico: o retorica dem o barbarie. L’argine di Biden alla barbarie di Trump titola a 4 colonne: “Il tonante discorso sullo Stato dell’Unione detta il passo della campagna elettorale”; il suo intervento, sottolinea il giornale del compagno de Benedetti, sarebbe un vero e proprio “grido di battaglia per difendere la democrazia”. Un Biden da leccarsi i baffi rilancia anche l’altra sponda del partito unico della guerra e degli affari; secondo Il Foglio “quel che resta di una serata che meglio di così non poteva andare è la fierezza di Biden, che ha rovesciato il tavolo di una campagna elettorale che pareva destinata a stare sulla difensiva e la consapevolezza che democrazia e libertà non sono beni da dare per scontati, nemmeno nell’America che li ha sempre avuti a cuore”. Come Trump, più di Trump, peggio di Trump ribatte invece Libero che, incredibilmente, da testata ufficiale del fasciocomplottismo più spudorato accusa Biden di aver tenuto “un discorso populista” e “pieno di furbizie”, anche se gli riconosce di essere stato “stranamente lucido”. Di un Biden incredibilmente “vigoroso e all’attacco” parla anche l’immancabile Edward Luttwack sul Giornanale, che suggerisce “se non parla di trans e confini può vincere”, una tesi che per essere supportata ha bisogno di un paio di fake news che al Giornanale credo siano imposte da contratto per vedersi pubblicato un articolo; secondo Luttwack, infatti “nel suo discorso Biden ha saggiamente evitato di menzionare l’attivismo transgender della sua amministrazione” e “la scelta di Biden di non sfiorare neppure questo argomento ha funzionato”. Insomma… La Stampa invece opta per un registro diametralmente opposto e, festeggiando con un giorno di ritardo l’8 marzo, la butta sul femminismo delle ZTL; Biden, fattore donna titola, e riporta anche un altro aspetto ignorato da tutti gli altri media: “Pronto a bandire Tiktok”. Che strano… questo passaggio me lo sono perso; e pensare che, sul tema, sono anche fissato. Mentre Sleepy Joe si risveglia, sono rincoglionito io? Di sicuro, ma forse non a questo giro: nella trascrizione del discorso, infatti, la parola Tiktok non compare; il virgolettato della Stampa, in bella mostra sul titolo, è completamente inventato, tanto per cambiare. Anche questo fa parte della lotta contro le fake news e la disinformazione russa?

Joe Biden

Tra fake news, tifo da stadio, facili entusiasmi e altrettanto facili accuse strampalate, quello che colpisce di come i nostri media parlano del discorso di Biden è la chiara sensazione che non l’abbiano manco ascoltato e che, se l’hanno ascoltato, non c’abbiano capito proprio tantissimo, come se fosse un Putin o un Li Qiang qualsiasi; nell’ultima settimana, infatti, si sono seguiti i 3 interventi più importanti dell’anno da parte delle 3 leadership delle 3 grandi potenze globali e il trait d’union di come le ha riportate la nostra stampa è stato sostanzialmente uno solo: non aver capito assolutamente una seganiente di quello che c’era in ballo. Non dovrebbe sorprendere: siamo in una fase di trasformazione senza precedenti e le grandi potenze stanno strutturando il modo in cui intendono affrontarla nel tentativo di determinarne gli esiti; entrare nel merito di questa dialettica, per le nostre élite e per i loro organi di propaganda, molto banalmente non è fattibile, sia perché l’Europa non è una grande potenza autonoma – e quindi non ha niente da dire se non subire passivamente – ma ancora di più perché dovrebbe ammettere che il grande, storico discorso di Biden sostanzialmente significa una cosa sola: l’Occidente collettivo è in guerra col resto del mondo e a pagare i costi della guerra saranno i nostri alleati. In questo video cercheremo di analizzare le parole di Biden da questo punto di vista; un lavoro che tocca a noi fare perché c’è un Mondo Nuovo che avanza e pensare che a raccontarcelo saranno i vecchi media è semplicemente velleitario.
E giù di standing ovation, la prima di una lunga serie: prima di addentrarci nei contenuti dell’ora di comizio che Biden ha tenuto al congresso giovedì scorso, volevamo concentrarci su una piccola nota di costume che, però, aiuta a comprendere diverse cosine. Nei giorni scorsi abbiamo assistito prima alle due ore di discorso di Putin di fronte all’Assemblea Federale e poi al discorso annuale del premier cinese LI Qiang di fronte all’Assemblea nazionale del popolo; in entrambi i casi, sembrava di essere a una conferenza: molti dettagli tecnici, pochissime frasi ad effetto, nessuna standing ovation. Dal punto di vista comunicativo lo zero assoluto, dei veri e propri dilettanti. Nella patria di Hollywood, però, le cose funzionano diversamente: lo Stato dell’Unione, più che un momento di riflessione politica, sembra un copione di Spielberg. Il meccanismo è molto semplice: frasi a effetto che raramente superano i 20 secondi supportate da una standing ovation, una dietro l’altra, decine e decine di volte; se uno si concentrava sulla vicepresidente Kamala Harris, alle spalle di Biden, più che un comizio sembra una sessione di fitness e, tra una standing ovation e l’altra, il colpo di genio. Perfettamente coordinato con la regia, ogni tanto la telecamera si concentrava su un membro del pubblico che, pochi secondi dopo, veniva chiamato in causa da Biden come esempio concreto delle magnifiche sorti e progressive di 3 anni di Bidenomics e del sogno americano più in generale – dal capo del sindacato degli automobilisti accompagnato dall’operaio della fabbrica di auto dell’Illinois risollevata da Biden, alla cosiddetta voce di Selma, la cantante Bettie Mae Fikes, simbolo della resistenza alla repressione razzista del governo USA che nel marzo del 1965 si abbatté sui manifestanti per i diritti civili in Alabama. D’altronde, nella politica USA la coreografia non è solo importante: è il cuore di tutto; è quello che la distingue dalle altre dittature. Una dittatura smart, camuffata dietro allo sfavillio della società dello spettacolo, e con degli sceneggiatori da Oscar.
Ma, al di là della coreografia, c’è anche la ciccia; il nocciolo fondamentale del discorso di Biden, dal nostro punto di vista, sta esattamente tutto qui: la grande controrivoluzione neoliberista, fondata su globalizzazione e finanziarizzazione – entrambe fortemente sostenute, per oltre 40 anni, da Biden stesso anche in ruoli chiave nell’amministrazione – hanno reso gli USA incredibilmente vulnerabili sia esternamente perché, al contrario delle previsioni, hanno permesso l’emergere di altre potenze che ora minacciano la democrazia USA (che tradotto significa appunto, banalmente, il dominio del grande capitale USA sull’intero pianeta), sia internamente, perché hanno minato dalle fondamenta la tenuta sociale del paese e hanno così favorito l’ascesa di ogni sorta di avventurismo politico, che ora mette a repentaglio dall’interno il sistema nel suo complesso. Trump, con il suo Make America great again, ha rappresentato un primo tentativo di reazione a questa deriva, ma non ha funzionato e non può funzionare: prima di tutto perché, dal punto di vista della politica economica, per tornare a crescere gli USA hanno bisogno di un nuovo patto sociale di carattere fondamentalmente socialdemocratico; questo implica in primo luogo, come ci insegna Michael Hudson, dare un colpo alle rendite a partire, ad esempio, da quelle che ogni anno Big Pharma estrae dall’economia USA. L’altro aspetto fondamentale, sempre come spiega Michael Hudson, è investire il governo del dovere di creare le precondizioni per una produzione competitiva e, cioè, sviluppare quelle che genericamente si chiamano forze produttive – e cioè le infrastrutture materiali come, se non di più, quelle immateriali, a partire da una forza lavoro adeguatamente preparata e istruita: senza un governo in grado di sviluppare le forze produttive, tornare a essere competitivi è una chimera. Se, da un lato, hai un paese dove lo sviluppo delle forze produttive è affidato direttamente al governo e allo Stato – che ha come unico obiettivo abbassare i costi complessivi – e dall’altro, invece, è tutto in mano ai privati che hanno come unico scopo quello di estrarre la rendita più alta possibile, tra i due, in termini di competitività, non c’è scozzo.
Nell’Occidente collettivo innamorato delle privatizzazioni, questo inconveniente è stato parzialmente aggirato scaricando il costo che l’estrazione di rendite ha sulla società direttamente sulle spalle dei lavoratori, ma il risultato – alla fine – non cambia granché: rimane il fatto che un pezzo sempre più grande della ricchezza prodotta, invece di contribuire alla crescita dell’economia nel suo complesso, finisce nelle tasche di una ristretta oligarchia sotto forma di rendita e l’economia nel suo insieme diventa sempre meno produttiva. Il problema, ovviamente, è che per finanziare questa funzione che lo Stato e il governo devono svolgere per il bene di tutta l’economia servono tanti quattrini e quei quattrini arrivano dalle tasse; peccato che gli USA, comprese le amministrazioni nelle quali Biden ha ricoperto ruoli di primissimo piano (o, almeno, ha sostenuto con vigore) quelle tasse non abbiano fatto altro che ridurle continuamente e, ovviamente, non in maniera equa: i lavoratori, sempre più impoveriti, hanno continuato a pagare sempre le stesse tasse, mentre alle grandi corporation che li sfruttavano – e agli oligarchi che le possedevano – venivano fatti regali sempre più corposi.
Insomma: Rimbambiden non sembra poi così rimbambito; cosa sarebbe necessario fare per Make Amaerica great again, tutto sommato, ce lo ha chiaro e, di fronte a un avversario che continua a proporre tasse più basse per i super ricchi e il minimo ruolo possibile immaginabile per lo Stato e il governo come un Milei qualsiasi, propone un ritorno alla cara vecchia formula socialdemocratica che è l’unica che può garantire la crescita. Ed ecco così che, anche comprensibilmente, la sinistra delle ZTL ritrova il suo campione. C’è solo un piccolo problemino: il fatto è che la socialdemocrazia ai tempi del derisking state e, cioè, dello Stato che ha come sua prima missione quella di eliminare i rischi alla grande rendita finanziaria, molto banalmente, si riduce a una formula retorica. Biden vuole combattere il peso che le rendite scaricano sull’economia nazionale, ma si scorda della rendita più grande di tutte: la rendita dei monopoli finanziari; sono loro a imporre una tassa gigantesca su tutto il resto della società e a fare in modo che una quantità enorme di ricchezza esca dai circuiti produttivi e vada direttamente in tasca alle oligarchie USA – e degli alleati degli USA – ma a loro, in un’ora abbondante di discorso, non si fa cenno. Non potrebbe essere altrimenti: la campagna elettorale USA è, in grandissima parte, una competizione sfrenata a chi raccoglie più fondi e quindi, banalmente, a chi offre la prospettiva più vantaggiosa a chi detiene il grosso della ricchezza e Biden, da questo punto di vista, sta letteralmente asfaltando il suo competitor.
Tutta fuffa, quindi? Non esattamente, perché a sostenere il gigantesco costo che comporta farsi succhiare il sangue dalle oligarchie non devono essere necessariamente i lavoratori USA; a far quadrare i conti ci può pensare anche qualcun altro: l’imperialismo e il colonialismo, d’altronde, hanno sempre funzionato così. Il problema oggi, però, è che il Sud del mondo sembra aver iniziato ad alzare la testa e di pagare i conti USA non sembra avercene più tanta voglia. Chi li pagherà quindi? Esattooooo! TE. PROPRIO TE: te e tutti quelli come te che vivono nel giardino ordinato delle democrazie europee ai tempi dell’iperimperialismo USA. Oddio, in realtà non proprio tutti tutti: c’è anche un 1% che, in realtà, ci guadagna e sono gli unici a essere rappresentati dalle nostre élite politiche e dalla propaganda al loro servizio, una piccola élite compradora che, per conto dell’egemonia USA, succhia il sangue a tutti i suoi concittadini e li riempie pure di puttanate propagandistiche, un segreto di Pulcinella che, però, per i nostri media al servizio delle oligarchie rimane ancora inconfessabile.
Ed ecco così spiegato com’è che sui nostri media mainstream non troverai traccia del vero, profondo, storico contenuto del grande discorso di Joe lo sveglio: è il piano di una rapina e i proprietari dei nostri media sono il suo palo. Per non vivere nel mondo delle pete candite e continuare a farci rapinare senza manco rendercene conto, abbiamo bisogno di un media che, invece che alla propaganda dell’1%, dia voce agli interessi concreti del 99. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari

Antrop8lina Ep. 6 – Le teorie di P. Clastres: Società VS Stato

Oggi sesta pillola di antrop8lina per parlare di Pierre Clastres, antropologo francese noto per il suo libro “La società contro lo Stato”. Approfondiamo velocemente le sue teorie riguardo il potere e la gerarchia nelle società amazzoniche, il tentativo della comunità di contenere gli aspiranti leader. Buona visione!

La strategia europea per permettere agli USA di scatenare la Terza Guerra Mondiale nel Pacifico

“Esiste un solo piano A, ed è la vittoria dell’Ucraina”: intervistato da La Stampa, Charles chihuahua Michel, come si confà alla sua specie, prova a dissimulare la sua vulnerabilità e la sua debolezza digrignando i denti e riassume in modo sintetico il nuovo equilibrio politico che, alla vigilia delle elezioni europee, sta maturando in un’Unione Europea che, con virtuosa tenacia, sta riuscendo a spostare il suo baricentro ancora più a destra. “Più autonomia dagli USA: urgente la difesa comune” che – di per sé – suona anche bene, ma in realtà può essere interpretata in due modi radicalmente diversi. Quello più ottimista: dopo 2 anni di schiaffi, l’egemonia USA è indebolita e l’Europa approfitta delle circostanze per procedere in direzione della sua tanto agognata indipendenza strategica – senza pestare troppo i piedi a Washington – con la scusa della difesa dalla minaccia immaginaria di Putin, pazzo dittatore che, dall’isolamento, farnetica di avanzare fino a Lisbona; e poi c’è quello più pessimista: la strategia USA ha funzionato benissimo, la rottura tra Europa e Russia non è più conciliabile e il muro contro muro non è più reversibile. Ne consegue che gli interessi geopolitici di USA ed Unione Europea si sono totalmente riallineati e, quindi, è finalmente possibile delegare in toto il lento logoramento dell’Orso Russo all’alleato europeo per poter tornare a concentrarsi sul vero avversario sistemico e, cioè, la Cina. Questa delega totale del fronte occidentale russo all’Europa sarebbe anche facilitata dal fatto che, dopo due anni di declino economico e di deindustrializzazione forzata – con la complicità del ritorno dell’austerità e dell’ordoliberismo nel vecchio continente che impediscono di sostenere la guerra economica ingaggiata dagli USA a forza di incentivi multimiliardari finanziati col debito pubblico per attrarre capitali europei – l’unica carta che rimane da giocare all’Unione Europea per non fallire definitivamente è quella di convertirsi a una specie di nuova economia di guerra, puntando tutto sul riarmo e sullo sviluppo della sua industria bellica. Ovviamente, come sempre accade nella vita reale, queste due interpretazioni radicalmente diverse non vanno pensate come mutuamente escludentesi, ma – da bravi materialisti – come compresenti e in eterno rapporto dialettico tra loro; insomma: sono entrambe vere, e l’esito finale del conflitto tra queste due tendenze non è determinato e prevedibile, ma cambierà a seconda di come si evolve concretamente la situazione reale al di là dei titoli dei giornali e della propaganda che continua a martellare. “Una sconfitta dell’Ucraina” secondo il pensiero magico di Michel “non può essere un’opzione”, e indovinate un po’ come ha intenzione di ribaltare il corso degli eventi? “Coinvolgendo il Sud globale” afferma, e cioè “spiegando che ciò che la Russia sta facendo è estremamente pericoloso per la stabilità del mondo”. E che ce vo’
Intanto martedì scorso, per la terza volta, gli Stati Uniti da soli contro il resto del mondo hanno posto il veto all’ennesima risoluzione del consiglio di sicurezza dell’ONU che invocava il cessate il fuoco per il genocidio di Gaza; riuscirà il bravo Michel a convincere il Sud globale che lo Stato canaglia dell’ordine globale è la Russia – e non gli USA – in modo da permettergli di fornire agli USA la via d’uscita giusta per scatenare la terza guerra mondiale nel Pacifico?

Charles Michel con un bomba

Il problema della guerra totale che gli USA vogliono ingaggiare contro il resto del mondo – che vorrebbe liberarsi da 500 anni di dominio dell’uomo bianco e chiudere l’era del superimperialismo a stelle e strisce – è che questa guerra si sviluppa contemporaneamente su tre fronti distinti e gli USA, nonostante spendano in armi poco meno che tutto il resto del mondo messo assieme, la forza di vincere contemporaneamente su tre fronti non ce l’hanno, manco lontanamente; l’obiettivo che hanno perseguito negli ultimi anni, quindi, è stato delegare due di questi fronti agli alleati vassalli per concentrarsi interamente su quello fondamentale e, cioè, lo scontro nel Pacifico con l’unica vera grande altra superpotenza globale che loro stessi definiscono per primi, ufficialmente, il loro unico avversario sistemico: la Cina.
Prima ancora che iniziasse la guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, il fronte che gli USA avevano cercato di sbolognare agli storici alleati regionali, in realtà, era stato proprio il Medio Oriente che, in soldoni, significa l’Iran, l’unica potenza regionale di una qualche consistenza a non essere totalmente assoggettata agli interessi statunitensi. Dopo decenni di guerre di invasione dirette, che anche se non avevano avuto esattamente gli esiti sperati avevano, comunque, permesso di ridurre a un ammasso di macerie alcuni degli stati nazionali dell’area – dall’Iraq alla Siria, passando per la Libia -, con Trump gli Stati Uniti accelerano infatti in modo vistoso il ritiro del grosso delle loro truppe dalla regione; il piano è, appunto, quello di delegare il contenimento prima e lo scontro diretto poi contro l’Iran ai proxy regionali – ovviamente in primo luogo Israele, che è l’unica potenza nucleare della regione e che è un vero e proprio avamposto del superimperialismo USA nella regione, ma anche ad emiratini e sauditi, alleati storici degli USA e che, nel frattempo, sono stati armati fino ai denti: con oltre il 5,5% del PIL destinato alla difesa, infatti, da qualche anno gli Emirati Arabi Uniti sono tra i paesi che proporzionalmente spendono di più in armi al mondo e l’Arabia Saudita, stabilmente sopra il 7%, è il campione assoluto – e si tratta, ovviamente, per oltre l’80% di armi made in USA. Questi paesi, insieme al Bahrein e un altro paese che ama molto togliere il pane di bocca alla popolazione per metterlo nelle casse dell’apparato bellico industriale USA e, cioè, il Marocco, avrebbero dovuto cementare la loro alleanza attraverso gli accordi di Abramo, voluti da Trump nell’estate del 2020; nel frattempo, proprio come in Ucraina, Trump faceva di tutto per varcare le linee rosse dell’Iran e spingerlo a qualche azione che avrebbe giustificato una reazione militare vecchio stile da parte dell’alleanza: nel maggio del 2018 ritirava unilateralmente e senza nessuna giustificazione plausibile gli Stati Uniti dal JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano, raggiungendo così due obiettivi: grosse difficoltà per l’economia iraniana, a causa del ritorno al vecchio regime delle sanzioni, e un po’ di panico nella regione per il ritorno della minaccia nucleare di Teheran. Ma era solo l’antipasto: il 3 gennaio del 2020, infatti, con un vero e proprio atto criminale gli USA lanciano un attacco aereo contro l’aeroporto di Baghdad per assassinare il maggiore generale iraniano Qasem Soleimani, l’architetto dell’asse della resistenza, che si era recato in Iraq per un incontro distensivo con i rappresentanti sauditi; l’Iran, però, evita accuratamente di cadere nella trappola e invece di impantanarsi in una nuova escalation, continua a lavorare con pazienza al rafforzamento dell’asse della resistenza che, ancora oggi, sta dando del filo da torcere a Israele e agli USA in tutta la regione. Nel frattempo, visto che il sostegno americano nella guerra in Yemen non sta sortendo chissà quali effetti, i sauditi cominciano a pensare a un piano B anche perché, nel frattempo, è scoppiata la guerra in Ucraina e hanno avuto una prova provata di cosa succede ad affidarsi mani e piedi a Washington: sotto le pressioni anche dell’opinione pubblica – per quel poco che gliene può fregare a un regime feudale premoderno dell’opinione pubblica – continuano a tenersi a debita distanza dagli accordi di Abramo e, nel frattempo, continuano a fare piccoli passi verso una riappacificazione con l’Iran; a spingere verso questa soluzione ci si mette di buzzo buono pure la Cina che, nel frattempo, è diventata di gran lunga il primo partner commerciale e il primo acquirente di petrolio saudita. Gli USA continuano a cercare di seminare un po’ di panico e, nel novembre del 2022, lanciano un allarme su un possibile attacco iraniano in suolo saudita – così, alla cazzodecane, giusto per fa un po’ caciara –, ma anche qui ci prendono 10: pochi mesi dopo, il 10 marzo del 2023, assistiti dalla paziente mediazione cinese iraniani e sauditi si tornano a stringere la mano a Pechino e riavviano le relazioni diplomatiche formali; gli USA, però, non hanno ancora perso le speranze e continuano a sperare nella firma saudita degli accordi di Abramo fino al 7 ottobre, quando l’operazione Diluvio di al Aqsa scombussola nuovamente tutti i piani e – complice l’azione dell’asse della resistenza e, in particolare, di Ansar Allah – obbliga gli USA a rimpelagarsi anima e core nella polveriera mediorientale: un sostegno incondizionato a un massacro genocida di carattere platealmente neocoloniale che, tra l’altro, non fa che rinsaldare il Sud globale e isolare sempre più Washington, ormai sempre più percepita – anche dai paesi più conservatori – come un pericoloso Stato canaglia completamente estraneo a ogni minima idea di diritto internazionale.
Insomma: il primo tentativo di delegare a qualcun altro uno dei tre fronti, direi che non è andato proprio benissimo anche perché, inevitabilmente, non ha fatto che aumentare l’influenza nella regione di Russia e Cina – e senza che nessuna delle due ci dovesse impiegare chissà quali risorse; d’altronde, è esattamente quello che succede quando i tuoi piani egemonici sono in palese contrasto con gli interessi dei popoli: mentre te impieghi risorse ingenti – e senza manco lontanamente raggiungere i tuoi obiettivi – agli altri gli basta tenersi in disparte e non rilanciare per essere visti come dei veri e propri salvatori della patria e ampliare così la loro influenza a costo zero. Andare contro il corso naturale della storia ha un costo altissimo che solo un impero al massimo della sua forma è in grado di sostenere, e al massimo della sua forma l’impero USA – così, a occhio – non lo è più da qualche tempo.
La lotta contro il declino dell’insostenibile egemonia USA in Medio Oriente, a un certo punto, sembrava addirittura stesse indebolendo la presa degli USA su quelli che, più che alleati (in particolare negli ultimi 2 anni), si sono rivelati veri e propri vassalli e, cioè, i paesi europei che, almeno di facciata – a partire proprio dalle votazioni all’Assemblea Generale e anche al Consiglio di Sicurezza dell’ONU – sembravano cominciare a prendere le distanze; probabilmente non avevano alternative: a differenza degli USA, dove – nonostante si sia sviluppato un movimento di solidarietà alla Palestina senza precedenti – la lobby sionista tiene letteralmente in pugno entrambi i probabili candidati alle prossime presidenziali, in Europa, alla vigilia del voto per il parlamento di Strasburgo, pestare un merdone sulla questione palestinese potrebbe essere determinante. La pantomima, però, sembra essere durata poco: al Summit di Monaco la Davos della difesa, come è stata ribattezzata – a parte qualche slogan inconcludente, da parte dell’Europa sul genocidio si è deciso di stendere un velo pietoso; tutta l’attenzione, invece, si è rivolta verso il fronte ucraino e sulla volontà dei vassalli europei di non spezzare il cuore ai padroni di Washington, come hanno fatto quegli irriconoscenti dei sauditi. Come sosteniamo sin dall’ormai lontano febbraio del 2022, infatti, la guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina può essere letta proprio come il tentativo USA di appaltare ai vassalli europei una lunga guerra di logoramento che tenga occupata Mosca e le impedisca, qualora fosse necessario, di garantire all’amico cinese il suo sostegno in caso di escalation nel Pacifico; ci stanno riuscendo?
Sinceramente, se ce lo aveste chiesto anche solo poche settimane fa avremmo risposto, in soldoni, di no; le ultime dichiarazioni – sulla falsariga di quelle rilasciate al Corriere da Charles Michel – però, ci stanno facendo sorgere più di qualche dubbio: l’idea che ci eravamo fatti, infatti, era che di fronte alla sostanziale debacle della NATO in Ucraina, il piano USA di spezzare definitivamente il processo di integrazione economica tra Unione Europea e Mosca fosse probabilmente destinato – almeno nel medio – lungo periodo, dopo una prima fase di innegabile successo – a essere reinvertito. In questi due anni, infatti, l’economia europea ha pagato un prezzo gigantesco e gli USA, che sono anche alle prese con una faida interna di dimensioni mai viste, non hanno fatto assolutamente niente di niente per condividere l’onere, anzi! Non solo si sono fatti d’oro con l’export di gas naturale liquefatto e hanno garantito un vantaggio competitivo enorme alle loro aziende proprio a partire dalla diversa bolletta energetica, ma hanno anche rincarato la dose oltre ogni limite con un’ondata di politiche protezionistiche senza precedenti e con una quantità di quattrini pubblici spropositata per attirare sul suolo americano tutti gli investimenti che le aziende, invece, non hanno nessunissima intenzione di fare nel vecchio continente; un fuoco incrociato al quale non siamo in nessun modo in grado di reagire: mentre gli USA, infatti, fanno i neoliberisti col culo degli altri (ma si sono tenuti ben stretta una Banca Centrale che funziona da prestatore di ultima istanza e che è in grado di monetizzare il gigantesco debito USA ogni volta che serve), l’impianto ordoliberista dell’Unione Europea ci impedisce di provare a tornare a crescere facendo debito. I capitali – noi – li dobbiamo cercare su quelli che la propaganda chiama mercati ma che, in realtà, non sono altro che i grandi monopoli finanziari privati che sono tutti made in USA, e i risultati si vedono: da due anni a questa parte la crescita USA, alla prova dei fatti, si è sempre dimostrata migliore delle aspettative; quella europea e, in particolare, quella tedesca, peggiore, di parecchio.

Angela Merkel con Vladimir Putin

L’Europa, nel frattempo, ha cercato di tenere botta differenziando l’approvvigionamento energetico, ma con il Medio Oriente in fiamme e sull’orlo di una guerra regionale non è che sia esattamente una passeggiata; ora, in questo contesto, Putin in Ucraina ci sta asfaltando e piano piano la questione Ucraina era stata vistosamente allontanata dai riflettori, relegata in qualche trafiletto nelle pagine interne: sembrava la tempesta perfetta per imporre all’Europa di sconigliare senza dare troppo nell’occhio e tornare alle posizioni espresse di nuovo, nell’autunno scorso, da Angela Merkel sulla necessità di un nuovo assetto della sicurezza continentale concordato con la Russia, che facesse da apripista alla fine delle sanzioni e al ritorno a rapporti economici sensati. D’altronde, da qualche tempo a questa parte, sembrava si stesse preparando il terreno: il bilancio disastroso delle sanzioni – che era chiaro sin dal principio, ma veniva dissimulato dalla propaganda con millemila puttanate – era stato sostanzialmente sdoganato; nelle ultime settimane e, in particolare, negli ultimissimi giorni, questa traiettoria però sembra di nuovo allontanarsi – e non mi riferisco certo solo alla strumentalizzazione senza pudore fatta della vicenda Navalny, che probabilmente era del tutto inevitabile. Il punto principale, piuttosto, è tutta questa retorica sulla corsa al riarmo europeo che ha tenuto banco, in particolare, proprio al Summit di Monaco e che – fattore ancora più preoccupante – è stata cavalcata in particolare proprio dalla Germania: la Germania, infatti, è in assoluto il paese che è ha subìto le conseguenze economiche più pesanti e quello che avrebbe più interesse a ricercare un nuova distensione con Putin, come suggerito da Angelona Merkel; il fatto che sia quello che, più di tutti, spinge sull’acceleratore dell’escalation, a nostro modesto avviso segnala che, oltre alla propaganda alla Navalny, c’è probabilmente qualcosa di molto più profondo. Del rischio che la Germania veda in una sorta di nuova economia di guerra, tutta focalizzata sull’industria bellica, l’unica via di uscita dal suo inesorabile declino industriale abbiamo parlato già ieri in questo video; qui volevamo aggiungere giusto un altro spunto di riflessione perché, come afferma proprio Charles Michel al Corriere, noi europei “stiamo lavorando duramente per convincere gli Stati Uniti a fare ciò che è necessario. Ma le esitazioni del Congresso – e il fatto che l’ex presidente Trump partecipi alla campagna elettorale – ci devono far capire che in futuro dovremo contare molto di più sulla nostra capacità”. Ora, questo sforzo per poter fare a meno degli USA, ovviamente, parte dalla situazione Ucraina dove, sottolinea Michel, “esiste solo un piano A: il sostegno all’Ucraina”, ma questa potrebbe essere solo la scusa, diciamo; sinceramente, nonostante non ritenga né Michel né nessuno dei suoi colleghi esattamente una cima, mi voglio augurare che non siano così rintronati da pensare di ribaltare le sorti della guerra con armi che riusciranno a produrre tra 5 anni e, come ha detto Michel stesso senza senso del pudore, “coinvolgendo anche il Sud globale”; piuttosto, quella che temo si stia facendo strada in Europa è proprio quello che ventilava mercoledì scorso anche Il Manifesto parlando della Germania e cioè, appunto, l’idea che per salvare la nostra industria non ci rimanga che concentrare tutti gli sforzi nell’industria bellica e che, per finanziarla, non ci rimanga che intraprendere la strada che porta a una sorta di nuova economia di guerra. D’altronde, è anche l’architettura istituzionale delirante che ci siamo dati a imporcelo: senza Banca Centrale prestatrice di ultima istanza in grado di monetizzare il debito e in balìa dei monopoli finanziari privati USA, ci possiamo indebitare soltanto per finanziare quello che piace anche a loro e quindi, in ultima istanza, quello che rientra nell’agenda del superimperialismo a stelle e strisce; e, di sicuro, non gli piace se facciamo debito per sviluppare una nostra industria tecnologica o una nostra transizione green che metta a repentaglio il primato che stanno cercando di ricostruirsi a suon di incentivi miliardari. Invece se li buttiamo tutti in industria delle armi – che usiamo esclusivamente per tenere occupata e logorare la Russia – quello gli va bene, eccome, e quindi se po’ fa: è l’unico tipo di microrilancio economico che il nostro padrone ci concede.
Anzi, no, non è l’unico: ce n’è pure un’altra, che peggio mi sento; lo ricorda lo stesso Michel, sempre nella stessa intervista: per una nuova corsa agli armamenti, afferma, ovviamente serve “supporto finanziario” e per trovarlo, sottolinea, “stiamo lavorando per cercare di usare gli asset russi congelati”. Ora, intendiamoci, io non ho niente contro gli espropri, quelli proletari però: ogni asset preso da un oligarca e nazionalizzato manu militari per me è sempre una conquista – io, ad esempio, lo farei domattina con tutti gli stabilimenti Stellantis e l’avrei fatto, a suo tempo, con l’ex ILVA. Qui, però, la faccenda è un’altra: si tratta di rapinare un bene privato per consegnarlo a un altro privato, esattamente com’è successo con la raffineria della Lukoil a Priolo ed esattamente come sta facendo la Germania con la raffineria del Brandeburgo e con tutta la rete gestionale della Rosneft distribuita tra Germania, Polonia e Austria per un valore complessivo, riporta Hadelsblatt, di circa 7 miliardi di dollari; come commenta sarcasticamente John Helmer sul suo blog, “Finché possono rubare o distruggere le risorse russe a ovest dell’Ucraina, la guerra non finirà” e “Il partito tedesco che meglio garantirà di continuare questo furto per l’arricchimento dei dirigenti e degli azionisti tedeschi vincerà le prossime elezioni”.
Insomma: un’economia di guerra e di rapina, alla faccia del giardino ordinato; impossibilitati a recuperare il terreno economico e produttivo perduto, in questi mesi si stanno mettendo le basi per un’Europa completamente diversa da quella che abbiamo già conosciuta e – sembra difficile crederlo – incredibilmente peggiore. Per evitare che tutto salti per aria, allora, ovviamente c’è bisogno di un supporto propagandistico ed ideologico di tutto rispetto e questo supporto, questa giustificazione, non può che essere uno stato di guerra permanente a medio – bassa intensità sostenuto da tutta la propaganda sul grande pericolo immaginario che arriva da Est; cioè, per tenere in piedi l’Europa dell’industria bellica e dell’economia di guerra che ci stanno prospettando, la guerra alla Russia non è un’ipotesi, non è un’eventualità: è proprio una necessità vitale. Dall’alto del nostro suprematismo del tutto ingiustificato, prendevamo per il culo i popoli arabi e le condizioni di vita indecenti che si fanno imporre dai loro regimi autoritari, al punto da dichiarare unica democrazia dell’area un stato fondato sul genocidio e l’apartheid, e poi ci siamo fatti ingroppare senza vasellina come loro non hanno permesso. Sarebbe arrivata l’ora di ritrovare un po’ di dignità e rovesciare completamente il tavolo prima che sia troppo tardi; per farlo, abbiamo bisogno di lasciarci alle spalle la guerra di propaganda a suon di armi di distrazione di massa tra sinistra ZTL e destra negazionista e reazionaria e mettere in piedi un vero e proprio media popolare, ma autorevole, che dia una prospettiva alle aspirazioni concrete del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Charles Michel

Perché il CAPITALISMO è incompatibile con la DEMOCRAZIA

I greci pensavano che il mondo fosse stato creato da un uovo che aveva generato un essere dall’aspetto sia femminile che maschile, con le ali d’oro, le teste di toro sui fianchi e un enorme serpente sul capo; gli antichi Maya, invece, pensavano che l’umanità fosse germogliata dal suolo da un impasto di terra e mais. Nell’Occidente industrializzato, intere generazioni educate alla scienza e ai lumi della ragione hanno a lungo creduto che il capitalismo e la democrazia fossero perfettamente compatibili l’uno con l’altro; anzi, che fossero proprio fatti della stessa pasta. Bene, si dirà: in fondo ogni civiltà ha bisogno di costruire i propri miti per sopravvivere; ma giunti nel 21esimo secolo e con le crisi epocali che stiamo attraversando, tante persone stanno finalmente aprendo gli occhi e a questa favoletta non ci credono più.

Wolfgang Streeck

Wolfgang Streeck, il più importante sociologo tedesco contemporaneo, e Micheal Hudson, probabilmente uno dei più grandi economisti viventi, gli occhi li hanno aperti da tempo e nel loro decennale lavoro di ricerca hanno ormai in lungo e in largo dimostrato l’assoluta impossibilità che capitalismo e democrazia possano convivere in una stessa società. La democrazia è quella forma di governo che poggia sull’idea della partecipazione al potere dei cittadini, della redistribuzione della ricchezza e del primato dell’interesse comune sull’interesse privato; prodotto del pensiero democratico sono stati i sindacati, la sanità e la scuola pubblica, i diritti dei lavoratori e il suffragio universale. Il capitalismo, invece, è un sistema economico e sociale oligarchico che tende naturalmente alla concentrazione di ricchezza in mano a un gruppo di persone sempre più ristretto e che trasforma questa concentrazione di potere economico anche in potere politico, privando così la maggioranza delle persone sia della possibilità di partecipare al governo della cosa pubblica, sia di quella di autodeterminare la propria esistenza; prodotti del capitalismo sono l’individualismo consumistico, la privatizzazione dei servizi e degli spazi pubblici e la crescita senza limiti delle diseguaglianze sociali. “Questi due disegni di società, a cui si contrappongono anche visioni antropologiche e filosofiche differenti” afferma perentorio Streeck nel suo Come finirà farà il capitalismo? Anatomia di un sistema in crisi “non possono chiaramente coincidere. O l’uno, o l’altro.” “Le economie occidentali” sottolinea invece Hudson in The Destiny of civilization “si trovano di fronte a una scelta: ridursi all’austerità finanziarizzata e distruggere definitivamente ogni spazio democratico o fare il passo di ricominciare a distribuire la ricchezza e porre fine al domino delle oligarchie neofeudali”. E quelle di Hudson e Streeck non sono più voci isolate, e da tutte le scienze sociali arrivano studi e ricerche che dimostrano l’incompatibilità scientifica ed empirica di questi due opposti metodi di governo e visioni del mondo. “Ma come mai nonostante sia ormai diventato così palese” si chiede Streeck “è così difficile per tante persone accettare che le nostre ex democrazie si siano trasformate ormai da tempo in tecnocrazie di mercato che non rispondono più al controllo popolare?” “Troppi, credo” si risponde Streeck “sono ancora abituati alla tipica immagine del colpo di stato che abolisce in un sol colpo la democrazia: elezioni annullate, leader dell’opposizione e dissidenti in prigione, stazioni televisive consegnate a truppe d’assalto sul modello argentino o cileno.” Ma non è certo questo l’unico modo per porre fine a una democrazia e dar vita a regimi oligarchici e autoritari: in Occidente ad esempio, è avvenuto in modo molto diverso e cioè, semplicemente, quando con la svolta neoliberista si è deciso di lasciare il capitalismo libero di svilupparsi senza più freni e vincoli comunitari. In ogni caso, questo non è più certo il tempo di piangersi addosso e Hudson e Streeck ci indicano anche le possibili strade per sconfiggere questo cancro politico, economico e culturale.
C’è una buona notizia dentro una cattiva notizia esordisce Streeck in uno dei saggi di Come Finirà il capitalismo?. A un’intera generazione di occidentali la Guerra Fredda è stata raccontata come uno scontro fra democrazia e tirannia finita con la netta vittoria del capitalismo e, quindi, della democrazia: la cattiva notizia è che oggi la crisi delle democrazie occidentali si è talmente acuita che questo racconto mitologico si sta rivelando una menzogna; la buona notizia, invece, è che finalmente se ne ricomincia a parlare. Alle origini, riflettono Streeck e Hudson, il capitalismo portò effettivamente a una fase di maggiore partecipazione politica e di primordiale espansione dei diritti e questo perché la più numerosa classe borghese del tempo lottava contro i privilegi feudali della ristrettissima classe aristocratica; in quel breve attimo della storia, dunque, la sconfitta degli ereditieri feudali ad opera degli imprenditori capitalisti segna realmente un progresso generale non solo economico, ma anche civile e politico e questo sicuramente è il grande merito storico del capitalismo. Questa fase, però, è finita da un pezzo e – come ha insistito più volte Hudson nell’intervista che ci ha recentemente rilasciato – la società contemporanea somiglia molto di più proprio alla vecchia società feudale che non allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini: durante tutto il ‘900, infatti, nonostante nel senso comune capitalismo e democrazia siano usati quasi come sinonimi, i capitalisti si sono sempre opposti a riforme democratiche e di ampliamento dei diritti sociali e senza le battaglie socialiste sarebbero entrambi rimasti pura utopia; per fare un esempio, i socialisti europei dovettero lottare contro i regimi capitalisti autoritari in Germania, Francia, Italia e ovunque nel mondo anche solo per ottenere il suffragio universale maschile e poi quello femminile, e la stessa cosa si potrebbe dire per le battaglie per l’introduzione di servizi pubblici universali come l’istruzione, la sanità, la cura dell’infanzia e le pensioni per gli anziani. Il Manifesto di Marx ed Engels, giusto per citare nomi a caso, si conclude con un fervido appello ai lavoratori affinché vincano la battaglia per la democrazia contro le oligarchie economiche; anche Il trentennio d’oro del secondo dopoguerra, durante il quale le nazioni europee diedero veramente vita a delle socialdemocrazie, non fu il frutto di un capitalismo buono e moderato, ma il prodotto di una classe lavoratrice particolarmente organizzata e consapevole e di una classe capitalista sulla difensiva sia dal punto di vista politica che economico. Purtroppo, come non smetteremo mai di ripetere, con la controrivoluzione neoliberista avviata nella seconda metà degli anni ‘70 i rapporti di forza sono radicalmente cambiati, con tutte le conseguenze che stiamo vivendo; Milton Friedman, guru degli economisti neoliberali, diceva “Una società che ponga l’uguaglianza prima della libertà non otterrà nessuna delle due. Invece, una società che antepone la libertà all’uguaglianza è in grado di raggiungere un livello superiore di entrambe”.
Ma di quale forma di libertà parlavano Friedman, Thatcher, Reagan e, in generale, tutte le bimbe del neoliberismo di destra e di sinistra? Fondamentalmente, della libertà delle oligarchie di muovere i capitali un po’ ovunque in giro per il mondo e di speculare sui mercati senza più alcun ostacolo comunitario o di interesse nazionale; peccato, però, che questa libertà implichi una riduzione di tutte le altre libertà e diritti della maggioranza delle persone: “Ci sono essenzialmente due tipi di società” scrive Micheal Hudson in The Destiny of civilizazion: “le economie miste con pesi e contrappesi pubblici, e le oligarchie che smantellano e privatizzano lo Stato, prendendo il controllo del suo sistema monetario e creditizio e delle infrastrutture di base per arricchirsi, soffocando l’economia. Un’economia mista in cui i governi mirano a combinare il progresso economico con la stabilità sociale può sopravvivere solo resistendo al tentativo delle famiglie più ricche di ottenere il controllo del potere pubblico.” La svolta neoliberista, insomma, è il momento in cui le oligarchie sono state abbastanza forti da imporre il secondo modello – quello a loro più congeniale – e con l’inesorabile avanzare della finanziarizzazione, fatta di privatizzazioni dei servizi pubblici essenziali, attacco indiscriminato allo stato sociale, guerra senza frontiere a tutti i corpi intermedi e aumento senza limiti delle diseguaglianze sociali, anche la democrazia non poteva che perdere qualsiasi sostanza e significato; in fondo, se ci pensiamo, non c’è cittadino comune dei paesi cosiddetti democratici che non provi un senso di rassegnazione e abbia l’impressione di vivere un mondo in cui, qualunque cosa faccia o voti, ha perso comunque il potere di cambiare le cose. “Ma stando così le cose” si chiede giustamente Streeck “come mai non si è ancora diffusa in Occidente un’ideologia apertamente antidemocratica e le oligarchie si ostinano a tenere in vita queste complesse procedure democratiche?”
A dire il vero, negli ambienti cosiddetti progressisti e liberali qualche voce di protesta nei confronti del suffragio universale l’abbiamo già cominciata a sentire: ad esempio nel 2016, con l’accoppiata BrexitTrump che tanto fece gridare allo scandolo i salotti chic, oppure in Italia ogni volta che una qualche forza cosiddetta populista ottiene buoni risultati alle elezioni, ma – in linea di massima – dobbiamo riconoscere che ha ragione Streeck e la ragione è che la forma e le procedure democratiche sono, in verità, assolutamente utili e funzionali al potere oligarchico: è anzi proprio grazie al feticcio delle elezioni, riflette il pensatore tedesco, che questo sistema viene apparentemente legittimato a livello popolare; il compito delle attuali procedure democratiche è proprio quello di far apparire una società di mercato capitalista come una scelta del popolo e questo nonostante i suoi meccanismi siano chiaramente sottratti al vaglio popolare e nonostante sia una chiara scelta oligarchica di cui il popolo subisce le conseguenze. “Il capitalismo in Occidente” scrive “è oggi compatibile con la democrazia, nel senso che anche con le elezioni riesce tranquillamente a sterilizzare il potenziale redistributivo della politica democratica e allo stesso tempo fa affidamento sulla competizione elettorale per dare legittimità a questo stato di cose.”

Michael Hudson

La pensa così anche Michael Hudson: “Il modo apparentemente più ovvio per determinare se una società è democratica” scrive l’economista americano “è chiedersi se gli elettori sono in grado di attuare le politiche che desiderano. Recenti sondaggi d’opinione negli Stati Uniti mostrano una forte preferenza per l’assistenza sanitaria pubblica e la remissione del debito studentesco, ma nessun partito politico sostiene queste politiche. È ovvio” conclude amaramente “che queste vadano oltre la gamma consentita di opzioni aperte alla scelta democratica.” Insomma, a chi dice che finché ci sono libere elezioni il nostro mondo che ci circonda è quello che noi ci scegliamo, Hudson e Streeck rispondono che questo è semplicemente un mito, una leggenda metropolitana; e che nella dura realtà, oggi viviamo in una società regolata formalmente da procedure democratiche che nascondono una sostanza sociale capitalista e autoritaria, e rimossa dall’immaginario ogni politica redistributiva – aggiunge ironico Streeck – i cittadini democratici sono finalmente liberi di interessarsi degli spettacoli pubblici offerti dai loro leader e star più in voga. Dalla contrapposizione destra – sinistra al politicamente corretto, alle discussioni sul bon ton di quello o quell’altro politico nazionale, la post democrazia ci offre un catalogo praticamente infinito di pseudo dibattiti, non consentendo mai alla noia di avere il sopravvento; come ripete sempre il nostro Tommaso Nencioni, siamo di fronte alla politicizzazione delle puttanate e alla depoliticizzazione di tutto quello che ha un vero impatto sulle nostre vite.
A queste severe analisi di Hudson e Streeck si potrebbe però ribattere che la globalizzazione capitalistica stia alimentando anche diverse istanze di emancipazione, dalle nuove lotte femministe contro le discriminazioni sessuali alle rivendicazioni degli immigrati e, in generale, di tutte le minoranze; una spiegazione interessante di questi fenomeni emancipatori ce la offre l’economista Emiliano Brancaccio in un’intervista rilasciata a Jacobin Italia: “Il punto da comprendere è che la centralizzazione capitalistica, inesorabilmente, tanto tende a concentrare il potere di sfruttamento in poche mani quanto tende a livellare le differenze tra gli sfruttati.” Che si tratti di donne o di uomini, di nativi o di immigrati, man mano che si sviluppa il capitale tratterà questi soggetti in modo sempre più indifferenziato, come pura forza lavoro universale; questo processo di omologazione mette in crisi le vecchie tradizioni e valori, disintegra gli antichi legami di famiglia basati sulla soggezione della donna all’uomo e allenta sempre di più i confini nazionali e le rispettive identità culturali: “Col tempo” scrive Brancaccio “il capitale ci rende tutti uguali, e questo è il suo aspetto progressivo e universalistico. Ma ci rende tutti uguali nello sfruttamento, e questo è il suo aspetto retrivo e divisivo.” Si tratta, insomma, di un movimento contraddittorio a cui guardare – come a ogni fenomeno culturale capitalista – con sguardo critico, senza bigottismi nostalgici né infantili entusiasmi progressisti: “Il fatto che il capitale ci renda tutti sudditi, ma senza differenze” conclude Brancaccio “non è negativo in sé come ci dicono i sovranisti reazionari, ma non è nemmeno positivo in sé come ci dicono i globalisti liberali: è positivo se quella tendenza progressiva a rendere tutti i lavoratori egualmente sfruttati si trasforma in un rinnovato antagonismo di classe.”, e quindi se non si trasforma, detta in soldoni, in una guerra individualistica contro il passato in nome di un futuro ipercapitalista.
Ma insomma, dobbiamo chiederci, si può davvero ancora sperare in una rinascita democratica? Di quanta politica seria sono disposti ad occuparsi oggi le masse postdemocratiche? E quante persone credono ancora che esistano beni collettivi per i quali valga la pena lottare? Negli ultimi anni, scrive Hudson “gli sfruttatori hanno quasi sempre mostrato una volontà molto maggiore di difendere i loro guadagni con la violenza di quanto le vittime siano disposte a combattere per proteggersi o ottenere riforme sostanziali.” Ma la nostra risposta non è disfattista: ce ne sono, e ce ne saranno sempre di più e il punto di partenza è che sempre più persone metteranno a fuoco questa assoluta incompatibilità strutturale tra capitalismo e democrazia. Sul piano della sfida politica, la possibilità di restituire senso al concetto di democrazia non può fare a meno di un processo di riforme che restituiscano ossigeno alla maggioranza della società, emancipandola dal ricatto materiale dentro e fuori i luoghi di lavoro, un percorso che rimetta al centro le grandi e mai tramontate questioni del diritto alla casa, alla sanità, alla democrazia nei luoghi di lavoro, all’istruzione; una battaglia quotidiana da accompagnare a due ingredienti fondamentali: controllo dei movimenti dei capitali sul piano nazionale ed europeo e una forte pianificazione economica. “Come contrapporre ad esempio il diritto all’abitare a quello della speculazione e della rendita” riflette Streeck “se non imponendo in maniera trasversale e sistematica limiti alla proprietà immobiliare e alla speculazione sui prezzi degli affitti?”; tutte le evidenze empiriche ormai ci dicono che la libertà di movimento dei capitali da un lato favorisce i profitti a danno dei salari e, dall’altro, alimenta l’instabilità macroeconomica e il caos delle relazioni internazionali. La nostra prima esigenza politica, dunque, è quella di reprimere la libertà di movimento del capitale per ridare slancio a tutti gli altri diritti – civili, politici e sociali; ma chi sarebbe materialmente in grado di portare avanti questa rinnovata subordinazione del mercato finanziario agli interessi della collettività? Streeck sembra piuttosto pessimista che tutto questo possa avvenire a un livello sovranazionale: “Se non c’è nulla nell’Europa sovranazionale che possa fornire il tipo di coesione sociale e di solidarietà e governabilità necessario, se tutto ciò che c’è a livello sovranazionale sono gli Junker e i Draghi, allora la risposta generale è che invece di fare come Don Chisciotte e cercare di estendere la scala della democrazia a quella dei mercati capitalistici, bisogna fare il possibile per ridurre la scala di questi ultimi e adattarla alla prima.” In altre parole, il mercato deve essere riportato nell’ambito del governo nazionale democratico. Staremo a vedere.
Quello che è sicuro è che per invertire la rotta serve prima di tutto convincersi dell’intrinseca antidemocraticità del capitalismo, ma per farlo avremo bisogno di un media libero e dichiaratamente democratico che combatta la propaganda delle oligarchie che fingono pure di essere state scelte e volute da noi. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal .

E chi non aderisce è Mario Draghi

ANTONIO INGROIA Borghesia criminale e il patto StatoGovernatori per trasformare il Sud in NarcoStato

Oggi ospite eccezionale per Le interviste di Ottolina, Antonio Ingroia, ex magistrato in prima nella lotta al crimine organizzato e al narcotraffico.
Nell’intervista emergerà la connivenza tra potere centrale, crimine organizzato e finanza.
Il traffico internazionale di droga replica le dinamiche estrattiviste del sistema-mondo, drenando la poca ricchezza prodotta nelle periferie verso il centro.
Per ribaltare questo stato di cose, serve un mezzo comunicativo che dia voce al 99%, aiuta a costruirlo. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV su Gofundme e paypal

“PATRIA O MUERTE” – L’amore per la patria come antidoto alla dittatura globale delle oligarchie

Si avvicinano le elezioni europee e, come ormai accade inevitabilmente da anni, uno spettro si aggira per il vecchio continente: lo spettro dell’affermazione elettorale dell’estrema destra nazionalista. Che strano… I cantori delle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione neoliberista, infatti, avevano dato il tema dell’identità nazionale per morto già diversi lustri fa: sostenevano, in soldoni, che sarebbe stato – inevitabilmente e definitivamente – relegato in un angoletto buio della soffitta dei ricordi un po’ scomodi dall’ascesa incontrastata di un’economia sempre più mondializzata e interconnessa, dal superamento delle frontiere della governance globale e da identità sempre più fluide; gli stati nazionali, secondo questa ottica un po’ messianica, non erano altro che un rimasuglio arcaico che si ostinava a tentare di ostacolare con scarsissimo successo il pieno dispiegamento di una società sempre più aperta e il definitivo trionfo a livello globale dell’unico modello possibile immaginabile: la democrazia liberale. Come mai anche a questo giro non c’avevano capito assolutamente una cippa?
“Da quassù la terra è bellissima, senza frontiere, né confini”: così si esprimeva il 12 aprile del 1961 il primo essere umano ad avere la possibilità di guardare il nostro pianeta dallo spazio; non a caso, era un cosmonauta sovietico. L’aspirazione alla costruzione di un mondo senza frontiere e alla costruzione di un essere umano nuovo cittadino del mondo è da sempre parte integrante del movimento operaio e dell’identità politica di ogni sincero progressista; oggettivamente, però, con scarsissimi risultati fino a quando qualcuno non ebbe una incredibile intuizione: quello che non erano riusciti a ottenere i subalterni di tutti i paesi attraverso la lotta politica, lo si poteva raggiungere attraverso il mercato. Altro che internazionale dei lavoratori! A garantire un futuro di pace e di progresso c’avrebbe pensato direttamente la globalizzazione. Purtroppo si è rivelata essere un’intuizione non particolarmente brillante, diciamo: a fregare i nostri amici idealisti, l’assenza dell’aggettivo che deve sempre accompagnare il termine globalizzazione – e senza il quale si rischia sempre di prendere cazzi per mazzi – e cioè neoliberista. Quella che stavano sostenendo i nostri amici alla disperata ricerca di una nuova forma di internazionalismo non era genericamente la globalizzazione, ma specificatamente la globalizzazione neoliberista; e la differenza non potrebbe essere maggiore: lungi dall’essere un progetto post – nazionale, la globalizzazione neoliberista, infatti, mirava a consolidare un ordine economico internazionale fondato su una gerarchia precisa, con alcuni stati nazionali e i loro imperi al centro e gli altri alla periferia, che potevano accompagnare solo. In particolare, accompagnare la logica feroce dell’accumulazione capitalistica che, con il sostegno dell’impero, ha operato per mettere gli stati della periferia gli uni contro gli altri in una competizione senza fine a chi si accaparra più capitali dalle oligarchie finanziarie a suon di privatizzazioni, incentivi e guerra senza frontiere ai diritti di chi lavora. E così alla fine, paradossalmente, l’identità nazionale più che cedere il passo si è potenziata: la crescita di una governance internazionale sempre più oligarchica e meno democratica ha rafforzato vecchi e nuovi nazionalismi, e la comunità nazionale si è confermata la comunità di riferimento principale per miliardi di cittadini e cittadine in tutto il mondo.
Nel suo L’insicurezza sociale, cosa significa essere protetti? Robert Castel ci ricorda come gli individui, per sentirsi sicuri, sentano la necessità di sentirsi parte di una comunità; nel novecento, però, esistevano due tipi di comunità non necessariamente antitetiche, e cioè quelle nazionali e quella, senza confini fisici, del lavoro: la sconfitta del movimento operaio, dei suoi attori e delle sue istituzioni, quindi, non poteva che lasciare il posto al primato incontrastato della comunità nazionale. Davanti all’insicurezza della globalizzazione, la nazione non poteva che venire sempre più percepita come l’unico rifugio sicuro rimasto; di fronte a questo fenomeno, una fetta maggioritaria della sinistra ha reagito con uno schematismo un po’ superficiale e non particolarmente lungimirante: nel tentativo di tenere fede in modo completamente astratto al dogma internazionalista, non solo si è allineata totalmente all’ostilità del grande capitale nei confronti del concetto di nazione, ma ha rilanciato scagliandosi come un solo uomo contro l’idea stessa di stato. “Nel mondo globalizzato” sintetizzava il maître à penser per eccellenza di questa deriva, Toni Negri, “ogni reminiscenza statalista è destinata a piegarsi al sovranismo e all’identitarismo, e rinnova derive fasciste”.

Wolfgang Streeck

A tentare di riportare il dibattito sul piano del materialismo dialettico, sottraendolo a queste derive semplicistiche, c’ha pensato fortunatamente Wolfgang Streeck , direttore emerito dell’Istituto Max Planck per lo studio delle Società di Colonia: Streeck, infatti, sottolinea proprio come quel Leviatano repressivo che è lo stato – e, in particolare, proprio nella sua forma nazionale – sia stato storicamente la forma più efficace a disposizione delle classi popolari per controllare e socializzare l’economia e come, ancora oggi, rappresenti l’ultimo argine al dominio incontrastato delle forze del capitale. Anche per questo – anche se in modo spesso confuso o ambiguo – in assenza della comunità del lavoro organizzata, oggi le forme di opposizione prevalente al regime neoliberista globalizzato si presentano come rivendicazioni di sovranità nazionale o substatale, siano esse di sinistra o di destra, escludenti o inclusive.
Ma cos’è la nazione? Davvero questo concetto è necessariamente strumento della reazione? Oppure, al contrario, può essere anche uno strumento di emancipazione egualitaria e popolare? Un quesito fondamentale che, finalmente, oggi possiamo affrontare con due strumenti in più: il primo si chiama Un’idea di paese. La nazione nel pensiero della sinistra ed è l’ultima fatica del giovane Jacopo Custodi, ricercatore in comunicazione politica alla Scuola Normale; l’altro invece si chiama Nazioni in cerca di stato ed è opera di un altro giovane ricercatore, lo storico Paolo Perri. Due libri che da prospettive diverse e complementari ci parlano, appunto della nazione, di come questo concetto non vada necessariamente declinato su base etnicocentrica ed escludente e di come un approccio diverso a questa questione possa rappresentare finalmente una base per una sinistra egemonica, nazionalpopolare e in grado di sfidare sia l’egemonia della globalizzazione neoliberista sia il suo alter ego complementare, rappresentato dal nazionalismo xenofobo e finto sovranista. I due autori condividono la definizione di Benedict Anderson di nazione come comunità immaginata: le ideologie, sostengono, non sono mistificazioni fuorvianti da sfatare rivelando una presunta verità, ma sono invenzioni concettuali che creano un ordine ideale che produce effetti materiali concreti: identità, affetti, passioni. Il fatto che, per secoli, lo sviluppo dello stato si sia accompagnato a quello della nazione e che miliardi di uomini e donne in tutto il pianeta crescano e vivano in un contesto culturale, istituzionale e comunitario in cui la nazione è la principale comunità d’appartenenza, rende la nazione un concetto materialmente vivo ed estremamente potente, che ci piaccia o no; il problema, allora, più che disquisire su quanto ci piace o meno un dato di realtà incontrovertibile, consiste più prosaicamente nel comprendere concretamente il tipo di nazione evocato: escludente e rivolto al passato, o includente e rivolto al futuro? A incidere, continuano i nostri due autori, sarebbero in particolare due variabili: da un lato la storia e, dall’altro, il progetto politico inteso come l’insieme di interessi e di gruppi sociali che ci si propone di rappresentare; un concetto escludente di nazione è, ad esempio, per eccellenza, quello che si fonda sull’appartenenza etnica che, contro ogni minima parvenza di rigore storico, viene spacciata come chiusa, statica e naturale. La nazione fondata su una purezza etnica necessariamente posticcia non può che essere funzionale esclusivamente a vedersi eternamente come un fortino minacciato da tutti gli altri popoli – culturalmente ancora più che politicamente; è una nazione che teme ogni mutamento sociale, sogna il ritorno a un eden passato totalmente artefatto e, nel farlo proprio mentre magari legittimamente contesta le oligarchie transnazionali, punta al rafforzamento di gerarchie sociali che vedono le oligarchie locali al centro e tutti gli altri intorno, che possono accompagnare solo: insomma, l’esatto opposto di una nazione che si fonda sulla condivisione di principi e orizzonti democratici, aperta a chiunque voglia condividere un progetto sociale fondato sull’uguaglianza e necessariamente in eterno divenire. Questa idea includente di nazione rifiuta l’artificio dell’omogeneità etnica e culturale, e più che essere interessata al pedigree e da dove vieni, è interessata a dove vorresti andare e al contributo che sei disposto a dare per arrivarci, insieme; in quanto fondata su un progetto politico condiviso e democratico, la nazione includente è un’arma straordinaria di contrasto allo strapotere delle oligarchie e, paradossalmente, è per sua natura intrinseca molto più concretamente internazionalista di quanto non lo siano le utopie astratte, perché già solo per il fatto di esistere – e di resistere – contribuisce concretamente alla costruzione di un sistema di relazioni internazionali più equo e democratico.

Jacopo Custodi

Jacopo Custodi si sofferma principalmente sull’idea di nazione nella sinistra radicale e nella sua tradizione teorica, in particolare nel contesto italiano, e lo fa a partire da una semplice ma fondamentale riflessione: pensate se io oggi mi svegliassi e su un qualsiasi social mi azzardassi ad affermare una cosa tipo “O la patria, o la morte”. Immaginate? Razzista! Rossobruna!
Ebbene sì: sono razzista e rossobruna, come Che Guevara: Patria o muerte infatti, com’è ben noto, è stato a lungo il più celebre dei suoi slogan. A lungo, appunto, ma da una trentina di anni, un po’ meno, diciamo. Il Che, ovviamente, si riferiva in particolare alla funzione fondamentale che l’idea di comunità nazionale rivestiva nelle lotte di decolonizzazione, ma la centralità della questione nazionale nelle riflessioni di un militante rivoluzionario non era certo una sua invenzione: da Lenin a Rosa Luxembourg, in tutta la storia del movimento operaio la questione nazionale è sempre stata centrale; durante la rivoluzione d’Ottobre, la lotta per l’autodeterminazione nazionale di quelle che diventeranno poi le repubbliche sovietiche è stato uno degli assi fondamentali, e per Antonio Gramsci la partita principale consisteva nella definizione di un un progetto nazionalpopolare di unità del proletariato del Nord con i contadini del Sud per un blocco storico nazionale capace di costruire un’Italia socialista. Amare il proprio paese, scrive Jacopo Custodi, “vuol dire attivarsi per cambiarlo, e allo stesso tempo identificarsi con esso e rappresentarlo”, ed “è questo” continua l’autore “il senso profondo di quell’espressione, costituirsi in nazione, che compare nel Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels e che porta con sé l’eco della Rivoluzione Francese”; “Ciò che è nell’interesse della nazione” continua Custodi “dipende da cos’è la nazione, e da dove viene messa la sua frontiera immaginata”. Il punto, insiste, è la lotta per l’egemonia e la rivendicazione del fatto che le battaglie per l’uguaglianza e l’emancipazione dei subalterni non solo coincidono con l’interesse nazionale, ma SONO l’interesse nazionale; lasciare alle forze della reazione la costruzione dell’idea di nazione significa, molto semplicemente, rinunciare a lottare per l’egemonia e nascondersi mentalmente in qualche paradiso perduto, tra qualche battuta snob sulla necessità di abolire il suffragio universale e qualche piagnisteo vittimista su quanto il volgo non sia in grado di comprenderci.

Paolo Perri

Paolo Perri inquadra invece la questione nazionale da un altro punto di vista, ripercorrendo la storia dei movimenti e partiti politici che rappresentano quelle nazioni senza stato in cerca di maggiore autonomia o indipendenza; l’autore ripercorre la storia dei principali indipendentistmi, dalla Spagna all’Irlanda passando per Scozia, Galles, Fiandre e chi più ne ha più ne metta, e in questo modo ci permette di toccare con mano, in qualche modo, quello che Custodi ha provato a descrivere teoricamente. Come Custodi, Perri condivide l’idea della nazione come un prodotto dell’immaginazione politica che mette insieme elementi sociali, religiosi, economici e storici per un concetto di nazione sempre mutevole; questi nazionalismi diventano spesso il catalizzatore politico di una domanda di trasformazione più ampia il cui maggiore o minore successo è determinato da un lato dal grado di repressione dello stato nazionale in cui si sviluppano e, dall’altro, dalla loro capacità di rappresentare un progetto sociale ed economico alternativo : “Le mobilitazioni autonomiste e indipendentiste nell’Europa di questi ultimi anni” scrive Perri “si possono e si devono ricondurre a una molteplicità di fenomeni, quasi sempre espressione della crisi della democrazia rappresentativa. I movimenti nazionalisti, allora, possono proporsi da un lato come canali di radicalizzazione democratica, avanzando soluzioni antiliberiste e redistribuzioniste, come nei casi irlandese, basco, catalano e scozzese; oppure possono agire come forze autoritarie e conservatrici, che declinano il nazionalismo in forme di chiusura neo – comunitarista e xenofoba, come nel caso fiammingo.” L’idea nazionale, in questo caso, diviene il perno centrale di un immaginario antisistemico che catalizza il dissenso sociale: durante le crisi, sottolinea Perri, “Partiti spesso marginali, o addirittura organizzazioni clandestine e/o paramilitari, si sono trasformati in veri protagonisti della scena politica, sostituendosi in molti casi ai partiti tradizionali di destra, di centro e di sinistra. In tutti i casi qui presi in considerazione, il nazionalismo, da semplice espressione della frattura centro – periferia, ha finito quindi per interagire con diverse ideologie politiche, sposandone sempre più convintamente alcuni aspetti e producendo una sintesi liquida, che gli ha permesso di rispondere a un numero molto più ampio di istanze e richieste provenienti dalla società”; non è un caso che molti di questi movimenti abbiano rappresentato una delle risposte politiche alla globalizzazione neoliberista e che il loro sostegno elettorale sia cresciuto nelle fasi successive alla crisi del 2008. Paolo Perri ci costringe a prendere atto dell’ineludibile centralità del concetto di nazione nei momenti di crisi mostrandoci, ancora una volta, come la lotta per una declinazione diversa di nazione sia non solo possibile ma, probabilmente, l’unica possibilità che ci rimane per provare davvero a tornare a combattere per l’egemonia e non rassegnarci in eterno a rimanere ad abbaiare alla luna da un angolino.
Per riflettere insieme su come uscire concretamente dall’angolino l’appuntamento è per mercoledì 31 gennaio a partire dalle ore 21 in diretta su Ottolina Tv insieme a Paolo Perri e a Jacopo Custodi per una nuova puntata di Ottosofia .Noi comunque, nel frattempo, un’ideina ce la siamo fatta: servirebbe un vero e proprio media che faccia i conti con la realtà – a partire dall’esistenza di stati e nazioni – e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Tony Blair

ANDREA ZHOK e la critica del nichilismo liberale

Nessuno può permettersi di non dichiararsi liberale: è questa la prima regola del fight club che è diventato il dibattito pubblico; la seconda: Nessuno deve chiedersi liberale cosa significa sul serio.
Ci ha provato Andrea Zhok in Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente; il termine liberale, infatti, è diventato molto banalmente sinonimo di tutto ciò che è tolleranza, apertura e civiltà: l’esatto contrario di populismo che, invece, sarebbe sinonimo di tutto ciò che è intolleranza, ottusità e dominio incontrastato degli istinti più bassi. Non esattamente un utilizzo rigorosissimo del linguaggio, diciamo. Per ridare un senso alle parole Zhok, allora, cerca di andare oltre la propaganda e fa uno sforzo titanico per ricostruire la genesi storica del liberalismo: come sarebbe effettivamente emerso e da quali processi. Buona visione.

Andrea Zhok

Quando parliamo di liberalismo politico parliamo, scrive Zhok, di un “orientamento politico magmatico, privo di una forma precisa, definito di volta in volta da ciò contro cui combatte, il cui minimo comune denominatore ideologico è in ultima istanza solo una concezione della libertà negativa, individuale ed economica. La particolarità di questa concezione della libertà è la sua neutralità assiologica: non è libertà per fare alcunché, ma libertà da interferenze altrui”. (p.151) Possibile che un sistema di pensiero così minimalista abbia avuto tanto successo? Quali sono i fattori che lo innervano e che, uniti, hanno dato forza a una proposta politica tanto misera e superficiale? Zhok individua la genesi della ragione liberale come un processo prodotto dalla convergenza di quattro ingredienti essenziali nati nel mondo antico e premoderno, e cioè la libertà individuale, il denaro, la tecnoscienza e lo Stato: “È la convergenza di questi quattro momenti, ciascuno a suo modo capace di incrementare le forze sociali e produttive disponibili” scrive l’autore “a caratterizzare lo sviluppo socioeconomico del mondo occidentale negli ultimi due secoli, per poi estendersi nella seconda metà del XX secolo a gran parte del resto del pianeta”.
Partiamo dalla libertà individuale: la sua genesi è fatta risalire dall’autore alla svolta storica prodotta dell’invenzione della scrittura alfabetica nella Grecia antica; senza la scrittura alfabetica infatti, sostiene l’autore, è sostanzialmente impossibile pensare all’individuo, e cioè a un soggetto che riflette su di sé e sul mondo circostante e che è capace di pensarsi – proprio come faceva Socrate – come qualcosa di distinto dalla comunità di riferimento. L’individualismo moderno, che caratterizza la società occidentale e contemporanea, è figlio di questa svolta storica che ha subìto un’accelerazione a partire dall’invenzione della stampa a caratteri mobili e, in seguito, dell’informatica: la libertà individuale sarà intesa nel liberalismo come libertà negativa e cioè, sostanzialmente, mancanza di impedimenti; l’individuo si libera dai legami comunitari e solidali. Non è più partecipazione, come per gli antichi, ma isolamento egoistico, la libertà di farsi gli affari propri; svincolato da valori comuni, l’individuo deve semplicemente calcolare vantaggi e svantaggi economici del proprio agire all’interno di una società di mercato. L’avvento della tecnoscienza, invece, è quello che rende possibile la rivoluzione industriale, ma che rivoluziona completamente anche il nostro modo di pensare la natura stessa: con la tecnoscienza, infatti, la natura diventa un semplice aggregato misurabile di cose che servono a far quattrini e il sapere scientifico è tanto più importante quanto più permette di dominare il mondo naturale e umano. E qui veniamo alla terza componente, che è il denaro perché, per rendere tutto misurabile, serve un’unità di misura universale: il denaro consente di facilitare gli scambi, misurare e accumulare valore ed è in grado di esercitare il suo potere a prescindere dalla sua genesi sociale; quello del denaro è un potere asociale e ademocratico. Il denaro, come ricchezza liquida, estende sempre più il proprio potere – diventando pervasivo – dall’Ottocento, in una società sempre più urbanizzata e monetizzata; in un mondo senza alcun valore obiettivo tutto diventa prezzabile, quindi acquistabile attraverso il denaro. Per finire c’è lo Stato, posto a garanzia dell’ordine tramite esercito, polizia e sistema giuridico; lo Stato liberale è svuotato da progetti politici che facciano capo a decisioni valoriali: non è altro che gendarme degli interessi dell’élite. Lo Stato deve soltanto favorire il mercato e i suoi attori: il politico, nel liberalismo, è ridotto al tecnico; il governo degli uomini che, normalmente, richiederebbe la costruzione di valori condivisi e scelte legittimate da cittadini, diventa così sovrapponibile all’amministrazione delle cose.
Finché questi quattro ingredienti sono rimasti separati, però, non accadde alcuna rivoluzione; solo dalla loro miscela esplosiva nell’Inghilterra del Settecento scoppiò la rivoluzione permanente, tuttora in corso: “Sarà nella cornice statale inglese, tra Seicento e Settecento” scrive Zhok “che l’individualismo etico della riforma protestante, una matura circolazione monetaria, e i successi della razionalità tecnoscientifica convergeranno sinergicamente, portando alla luce per la prima volta la ragione liberale e il suo correlato operativo, l’economia capitalistica”. Senza l’imporsi del capitalismo come sistema di produzione, la ragione liberale sarebbe rimasta una ideologia tra le altre; come sintetizza Zhok: “Del successo storico della ragione liberale è stata poi parte essenziale la sua istituzionalizzazione in forma capitalistica, con la creazione della scienza economica e con l’asservimento della natura (e degli uomini) alle finalità del “sistema economico”. (p.85)
Questo modello, infine, raggiungerà un suo compimento nel neoliberismo, l’imporsi del quale – alla fine degli anni settanta del Novecento – venne salutato da Fukuyama come, letteralmente, la fine della storia. Contro questa lettura trionfalistica, Zhok mette in risalto le crisi e degenerazioni che questa supposta vittoria comporta: dalla frammentazione dell’identità personale a quella dell’identità collettiva, allo sviluppo sempre più accelerato di tecnologie prive di controllo sociale, all’inquinamento ambientale; il sistema liberale finisce col minare i suoi stessi presupposti sociali, cercando di rattoppare queste contraddizioni con palliativi come il consumismo, la diffusione di droghe e psicofarmaci, l’industria dell’intrattenimento e dello svago, la pervasività del diritto che norma ogni aspetto della vita. E quando queste “toppe”, questi palliativi, non bastano più, il liberalismo risponde con l’opzione autoritaria degli stati d’eccezione; si compie, in questo modo, quella che potremmo chiamare la trappola di Hobbes: la conseguenza logica della ragione e della società liberale è la guerra di tutti contro tutti, che ha come conseguenza la necessità del Leviatano, di un potere totalitario in grado di portare ordine là dove c’è guerra e autodistruzione.

Cosa possiamo fare dunque? L’autore stesso ci lancia un salvagente, ricordandoci che “Nella storia le determinazioni non sono mai cause necessitanti […] ma circoscrivono spazi di maggiore o minore possibilità”. (p. 14) Questo significa che abbiamo sempre la possibilità, per quanto ristretta, di agire per modificare la realtà storica attuale, sottraendoci al dilemma che vede come conclusioni necessarie l’autodistruzione sociale o una sua torsione totalitaria. Per chi vuole riflettere insieme a noi su come farlo concretamente, l’appuntamento è per mercoledì 24 gennaio alle 21.00 in diretta su Ottolina Tv con una nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina Tv in collaborazione con Gazzetta filosofica: ospite d’onore Andrea Zhok, professore di Antropologia filosofica e Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano e autore di Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente (Meltemi, 2020).
E se nel frattempo anche tu credi che per una democrazia sostanziale occorra combattere il liberismo reale, aiutaci a costruire il primo vero e proprio media che dà voce agli interessi concreti del 99%: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Michele Boldrin

Karl Polanyi, la grande trasformazione e la leggenda del libero mercato

Il mito fondativo dell’era del trionfo del neoliberismo in cui siamo immersi più o meno suona così: il mercato è il frutto spontaneo della natura umana; lo Stato con le sue regole, invece, è un artificio. Poi – vabbé – al limite ci si divide un po’ tra quelli che sostengono che sia un artificio che ha fatto anche cose buone e altri che, invece, sono convinti che abbia fatto solo ed esclusivamente danni, e meno c’è meglio è, ma sul mito fondativo il consenso è abbastanza trasversale.

Karl Polianyi

La storia dell’economia è la storia della lotta tra il mercato e lo Stato, ma non per Karl Polanyi; storico, antropologo ed economista ungherese, nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale se ne venne fuori con una tesi che di primo acchito venne considerata piuttosto strampalata e che, in estrema sintesi, suona così: il libero mercato è tutt’altro che un fenomeno naturale, ma è un artificio e a renderlo possibile è Stato proprio lo Stato. Fa un po’ strano, no? A meno di situazioni straordinarie, lasciato in balìa di se stesso il mercato, alla fine, si regola da solo. Storpiando completamente l’idea di Adam Smith, nel tempo questo affermazione è diventata parte integrante del nostro senso comune; eppure, dice Polanyi – che oltre che economista era pure storico e antropologo – questa fede in un mercato in grado autoregolarsi non è insita nell’uomo. Anzi, è piuttosto recente e a promuoverla è Stato proprio quello che viene spesso considerato il suo più acerrimo nemico: lo Stato. “Il libero mercato” scrive infatti Polanyi “è frutto di scelte politiche. Il mercato come agente regolatore dell’economia non è derivato dal libero sviluppo del mercato arcaico, ma è Stato frutto dell’assalto della controrivoluzione capitalista, che ha distrutto le vecchie consuetudini per creare una società basata sul mercato”; uno di questi interventi statali è, ad esempio, l’abolizione del sistema di sussidi ad inizio Ottocento in Inghilterra. “La strada verso il libero mercato era aperta ed era tenuta aperta da un enorme aumento in continuo interventismo centralmente organizzato e controllato. Rendere la semplice e naturale libertà di Adam Smith compatibile con la necessità di una società umana era una questione estremamente complicata”; il quadro dipinto da Polanyi mette in luce una contraddizione fondamentale: “Lungi dall’eliminare la necessità di controllo, regolamentazione ed intervento” scrive l’economista ungherese “l’introduzione di mercati liberi ne avevano accresciuto la portata. Gli amministratori dovevano essere costantemente all’erta per assicurare il libero funzionamento del sistema” e – guarda un po’ – “anche coloro che più ardentemente desideravano liberare lo Stato da tutti gli obblighi non necessari, e tutta la filosofia dei quali richiedeva la limitazione delle attività dello Stato, non potevano far altro che affidare allo Stato stesso i suoi poteri organi e strumenti richiesti per l’applicazione del laissez-faire”: per usare un francesismo, laissez-faire un par di palle. L’affermazione del mercato ha consistito, per Polanyi, nella creazione di un mercato autoregolato per il lavoro prima, per la terra poi e, infine, per la moneta, ma l’illusione è durata poco perché l’autoregolazione di questi tre mercati – e cioè l’assunto fideistico che le semplici forze della domanda e dell’offerta avrebbero potuto, sempre e in qualsiasi luogo, condurre la società a trovare un equilibrio ottimale – era destinata a scontrarsi subito con la dura realtà della vita economica concreta. Dalla libertà del mercato del lavoro emergevano povertà, disoccupazione e degrado; dalla libertà della terra scaturiva una concorrenza agguerrita nei mercati delle materie prime che minava gli interessi agrari e minerari e dalla libertà del mercato della moneta scaturivano crisi finanziarie, inflazione e pure deflazione, che mangiavano i profitti, rendevano gli investimenti rischiosi e distruggevano il commercio internazionale. E così lo Stato dovette tornare a intervenire per mettere un po’ di toppe in qua e in là per evitare che la nave affondasse; paradossalmente quindi, “Mentre l’economia del laissez-faire era il prodotto di una deliberata azione da parte dello Stato” riassume Polanyi “le successive limitazioni al laissez-faire iniziarono in modo spontaneo. Il laissez-faire era pianificato, la pianificazione non lo era”.
Altro che Stato contro mercato quindi: quando lo Stato ha pianificato scientemente qualcosa, quel qualcosa era, appunto, un mitologico libero mercato fondato sulla libertà dei più ricchi di arricchirsi a dismisura a scapito della salute dell’economia stessa; e quando, per salvare capra e cavoli, lo Stato è dovuto intervenire per mettere qualche paletto, non ha seguito un piano strutturato per ridimensionare lo strapotere delle oligarchie, ma si è limitato a mettere qualche toppa dove poteva. Per Polanyi doveva essere solo l’antipasto: “La società industriale”, scrive, potrà tornare ad esistere solo “quando l’esperimento utopistico di un mercato autoregolato non sarà altro che un ricordo orribile”.
Nei decenni successivi, le democrazie costituzionali moderne a quell’esperimento utopistico gli hanno dato una discreta mazzata, senza però riuscire a mettere definitivamente in soffitta quell’assurdo mito fondativo che, dopo una piccola parentesi di ragionevolezza, è tornato a imporsi con la grande controrivoluzione neoliberista: ancora una volta un esempio da manuale di fantomatici mercati autoregolamentati creati con la forza dallo Stato attraverso una meticolosa pianificazione fatta di delocalizzazioni, privatizzazioni, finanziarizzazione e demolizione delle istituzioni democratiche. Immancabilmente, però, anche a questo giro l’esperimento utopistico del mercato autoregolato è tornato nell’arco di pochi anni a presentare il conto, dopo aver raso al suolo la nostra società industriale; solo che, a questo giro, per ora di interventi pezzi e bocconi dello Stato per mettere qualche paletto qua e là in realtà non è che se ne vedano molti. Eppure la grande crisi ormai è in corso da 15 anni abbondanti, almeno da quando Lehman Brother fu obbligata a chiudere baracca; lo stimolo finale, l’altra volta, venne dalla guerra, che costrinse anche gli ultraliberisti britannici a convertirsi dal giorno alla notte a una specie di economia pianificata per non venire definitivamente rasa al suolo. Ecco: noi, sinceramente, per riportare un po’ di ragionevolezza nella politica mainstream vorremmo evitare di dover aspettare la terza guerra mondiale; chiediamo troppo?

Marco Bertilorenzi

Per rispondere, seguiteci domani sera, mercoledì 17 gennaio, a partire dalle 21 in diretta con la nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina Tv in collaborazione con Gazzetta Filosofica: ospite d’onore il nostro caro Marco Bertilorenzi, che è un po’ il nostro cicerone quando cerchiamo di addentrarci nella storia del pensiero economico. E, nel frattempo, se come noi pensi che ci sarebbe bisogno come il pane di un media che invece che fare da ripetitore alla propaganda delle oligarchie provi a darci gli strumenti per capire che un’alternativa c’è – e magari anche in cosa dovrebbe consistere – aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Donald Reagan

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