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Tag: scuola

Italia sotto shock: il paese rientra a scuola, ma invece dei prof ci trova Flavio Briatore

Oltre 7 milioni di studenti e poco meno di 700 mila insegnanti (oltre i quasi 200 mila tra personale amministrativo, tecnico e ausiliario); da stamattina si rimette completamente in moto quella che potremmo definire, in assoluto, la più grande industria del paese ed anche quella che -probabilmente più di ogni altra – è indicativa del nostro stato di salute e del nostro grado di civiltà: l’industria della conoscenza o, come la definisce il nostro Federico Greco, l’industria della d’istruzione pubblica (con la d davanti). La scuola che infatti finiamo di ripopolare con oggi è una scuola che, in ossequio ai dettami del neoliberismo più fondamentalista, è stata e sarà sempre di più spogliata del suo ruolo fondamentale: la formazione di una cittadinanza consapevole che abbia tutti gli strumenti per partecipare attivamente e consapevolmente alla vita pubblica; un progetto di lunga durata, coltivato meticolosamente nel tempo, che rappresenta uno dei pilastri fondamentali di quella che noi definiamo, appunto, la Controrivoluzione Neoliberista – che, in soldoni, significa la guerra delle classi dominanti contro la democrazia. Io sono Letizia Lindi, di mestiere insegno storia e filosofia nelle scuole superiori e, con questo video, Ottolina Tv oggi ha deciso di salutare il ritorno sui banchi di scuola dei nostri ragazzi e dei miei colleghi ricostruendo, passo dopo passo, gli snodi fondamentali di questo crimine contro il popolo italiano che è stata la devastazione della scuola pubblica e cercando di fare una proposta concreta per riprendercela.
Il termine scuola significa oggi “luogo nel quale si attende allo studio”; in realtà, però, deriva dal latino schŏla che, a sua volta, deriva dal greco scholé e che in origine significa – udite, udite – tempo libero, un po’ come l’otium dei latini: quella parentesi dalle fatiche quotidiane durante la quale ci si dovrebbe poter occupare liberamente di coltivare le proprie predisposizioni intellettuali senza necessariamente avere secondi fini, giusto per il gusto di farlo. Un bel lusso che, infatti, è sempre stato appannaggio di pochi, almeno fino a quando non è arrivata la nostra Carta Costituzionale; da allora, sulla carta, quel lusso diventava un diritto di tutti, senza distinzione di classe. L’istruzione pubblica dovrebbe essere, appunto, l’istituzione preposta a garantire a tutti questo privilegio: tredici anni di scuola durante i quali conoscere il mondo e la sua storia e quindi, in sostanza, noi stessi, senza alcun riferimento all’applicazione di queste conoscenze nel mondo del lavoro: un obiettivo che non è soltanto ovviamente equo e giusto, ma è anche perfettamente razionale. “E’ nell’interesse della produzione che non tutti siano ingegneri, medici, professori od operai specializzati, e che vi sia un gran numero di manovali dell’industria o di manovali dell’agricoltura” scriveva ad esempio Elio Vittorini nel 1945; “Ma è nell’interesse della civiltà che anche il più umile lavoratore manuale si trovi di fronte ai libri, di fronte alle opere di arte, di fronte al pensiero scientifico e filosofico, di fronte alle ideologie politiche, di fronte ad ogni ricerca e ad ogni esperimento della cultura, nelle stesse condizioni di assimilabilità in cui funzionalmente si trova l’ingegnere, il medico e il professore”. Facciamo ora un balzo nel tempo di un’ottantina di anni. 2023 ; relazione della Corte dei Conti a commento del rendiconto generale dello Stato: in sette anni i contratti a tempo dei docenti sono passati da 135mila a 232 mila (un bel +72%) e ora si va verso un nuovo record di 250 mila. Ed è giusto uno degli innumerevoli dati oggettivi che potremmo sciorinare per dare un’idea plastica della devastazione che è stata scientemente portata a compimento; se nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale le classi dominanti si sono viste sottrarre molti dei loro profitti (e anche dei poteri) a favore dei sistemi pubblici di protezione sociale, dalla fine degli anni settanta ci troviamo di fronte alla messa in atto di una lotta di classe dall’alto per recuperare il terreno perduto. Grazie ad una strategia che unisce interventi economici e culturali, i diritti garantiti dal sistema sociale vengono mano a mano trasformati in opportunità da conquistarsi – o, meglio, da comprare; insomma: da studenti (e cittadini), a clienti. Dalla scuola emancipatrice alla scuola della sottomissione il passo è breve, ma per arrivare alla completa trasmutazione genetica sono necessari alcuni passaggi fondamentali, prima di tutto la delegittimazione della scuola pubblica in quanto tale.

Flavio Briatore professore all’università per parlare di Crazy Pizza e Billionaire (fonte: Gallura Oggi)

Il primo assalto in grande stile risale ormai all’inizio degli anni ‘80, gli anni della grande controrivoluzione avviata in tandem sulle due sponde dell’Atlantico da Reagan e Thatcher; nel 1983 viene pubblicata, da parte dell’amministrazione federale statunitense, un’analisi sullo stato della scuola dal titolo quanto mai emblematico: A nation at risk, una nazione a rischio. Il rischio sarebbe proprio causato dalla scuola pubblica che, così come è stata riformata durante l’era della democrazia di massa, non soddisfa più le esigenze dell’accumulazione capitalistica: “Se una potenza nemica avesse tentato d’imporre all’America il livello mediocre di prestazioni scolastiche che conseguiamo ora, probabilmente saremo indotti a considerare un tale gesto come un atto di guerra (…)” si legge nel rapporto; “La nostra società e le sue istituzioni scolastiche hanno perso di vista gli scopi fondamentali della scuola”. Non è da meno la Lady di ferro, che già nel 1970 si era conquistata il nomignolo di milk snatcher, “ruba-latte”: aveva imposto l’abolizione del latte gratuito nelle scuole per i bambini di età compresa tra i 7 e gli 11 anni. Coerentemente a questo simpatico esordio politico, da Primo Ministro la Thatcher imputa alla scuola e all’università la responsabilità della mancata crescita e stabilità della Gran Bretagna: il sistema scolastico britannico, a suo avviso, non sarebbe in grado di preparare una forza lavoro motivata, qualificata e disciplinata; viene così elaborato il famigerato Education Reform Act . L’idea è semplice e, tutto sommato, apparentemente anche innocua: come ogni tassello della gigantesca macchina che permette la produzione e la riproduzione sociale, anche la scuola deve essere valutata e i finanziamenti devono essere distribuiti a seconda degli esiti di questa valutazione; semplice no? Indolore. Insomma… Come sempre, infatti, il diavolo si nasconde nei dettagli: chi decide, infatti, chi deve essere valutato e chi valuta? E chi ne stabilisce i criteri? Alla fine il modello adottato funziona così: un comitato di esperti introduce alcuni criteri per la valutazione degli studenti; a conclusione di ciascun ciclo, gli studenti vengono sottoposti a degli esami, predisposti e gestiti dall’esterno. In base ai risultati ottenuti vengono stilate quelle che vengono definite le league tables, che valutano l’efficacia pedagogico-didattica delle singole scuole e, in base a questa valutazione, si determina il livello dei finanziamenti e anche il grado di autonomia concessa ai singoli istituti per gestirli. E’ la logica fondativa della dittatura liberista: dare di più a chi ha già di più e sempre di meno a chi ha già meno. L’idea perversa, ma geniale, della Thatcher consiste nel coinvolgere in questo processo di divisione tra scuole di serie A e di serie B l’intera società e responsabilizzare così i genitori, che devono imparare a fregarsene della società nel suo complesso e a guardare solo ed esclusivamente al loro orticello, meglio se in competizione con quello degli altri: “Noi crediamo che tu possa diventare un cittadino responsabile se sei tu che prendi le decisioni” dichiarava la Thathcer durante la presentazione della riforma; “non quando queste vengono prese da qualcun altro al posto tuo. Ma sotto i governi laburisti, naturalmente, venivano prese da altri. Prendiamo ad esempio l’educazione. (…) Sotto il socialismo le opportunità e le eccellenze nella nostra scuola pubblica sono state degradate. E naturalmente ai genitori questo non piace”.
Gli anni 80 ci lasciano, così, una bella eredità: la formazione di un ampio fronte bipartisan che guarda con favore a un sistema scolastico interamente orientato alla prestazione: la questione non è più il raggiungimento dell’eguaglianza democratica, ma la competizione per determinare dove sta l’eccellenza, e lasciare indietro tutti gli altri. La ricreazione è finita titolava nel 1986 un suo famoso libro il ricercatore svizzero Norbero Bottani; il messaggio è chiaro: è arrivato il momento di dismettere quel riformismo progressista che negli anni ‘60 e ‘70 aveva provato a spingere sull’acceleratore dell’uguaglianza e della democrazia in ambito scolastico e riconfigurare la scuola come un’agenzia di formazione per produttori dotati dell’equipaggiamento cognitivo necessario alle aziende. Si trattava cioè, sostanzialmente, di trasformare la scuola in produttori di affari, di lavoro, di negozio che, per tornare al latino, deriva da negotium e, cioè, “nec otium”: la negazione di otium e, quindi, la negazione di ciò che dovrebbe essere la scuola. Per incontrare il secondo snodo fondamentale di questa lunga controriforma bisognerà poi arrivare al decennio successivo; siamo nel 1992 e sulla rivista statunitense The Nation viene pubblicato uno storico articolo: Un ristretto cerchio di amici – si intitola – La nuova scuola americana dell’era Bush. Poco prima, infatti, l’allora presidente George H. W. Bush, insieme a un nutrito gruppo di dirigenti di grandi aziende, aveva dichiarato pubblicamente in pompa magna di aver finalmente trovato un rimedio contro il presunto inesorabile declino delle scuole statali: a salvare le future generazioni di studenti americani sarebbe stato – pensate un po’ – il mondo imprenditoriale; viene così fondata la New American Schools Development Corporation, una società privata che aveva lo scopo di promuovere e finanziare progetti miranti allo sviluppo di un nuovo modello di istruzione. Sulla carta, si trattava di finanziare con fondi privati alcuni gruppi di ricerca che avrebbero elaborato progetti innovativi da sperimentare nelle scuole; nei fatti, si trattava di promuovere la creazione delle cosiddette charter schools: istituti scolastici ai quali veniva garantita un’ampia autonomia organizzativa e che diventavano responsabili non più di fronte a commissioni scolastiche formate dai professionisti dell’educazione e della formazione, ma ai fantomatici stakeholders, gli sponsor e le famiglie degli studenti. Le charter schools, pur ricevendo la maggior parte dei loro fondi comunque sempre dallo Stato o dalle amministrazioni locali, non sono gestite dallo Stato come le altre scuole pubbliche, ma da organizzazioni private, con o senza fini di lucro; e così, in un battibaleno, ecco che uomini politici, avvocati e persino direttori di banca vengono inseriti in posizioni apicali all’interno del sistema scolastico statale.
E l’Europa non poteva certo restare indietro: già nel 1989 lo European Round Table of Industrialist, la potentissima lobby degli industriali europei, aveva pubblicato un rapporto dal titolo Istruzione e competenza in Europa ; “L’istruzione e la formazione” si legge nel rapporto “sono investimenti strategici vitali per la competitività europea e per il futuro successo dell’impresa”, ma “l’insegnamento e la formazione, purtroppo, sono sempre considerati dai governi e dagli organi decisionali come un affare interno. L’industria ha soltanto una modestissima influenza sui programmi didattici, che invece devono assolutamente essere rinnovati insieme ai sistemi d’insegnamento”. Il rapporto sottolineava infatti come gli insegnanti abbiano “una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari, della nozione di profitto (…) e non capiscono i bisogni dell’industria”: ecco così che 6 anni dopo, nel 1995, viene pubblicato il libro bianco dell’Unione europea che traduce pedissequamente le richieste degli industriali; un intero capitolo viene dedicato a come “avvicinare la scuola all’impresa”, perché la costruzione della società futura “dipenderà dalla capacità di apportare due grandi risposte (…): una prima risposta incentrata sulla cultura generale, una seconda volta a sviluppare l’attitudine al lavoro e all’attività”. “La responsabilità della formazione deve, in definitiva, essere assunta dall’industria” rilancia nel 1996 sempre lo European Round Table of Industrialist: “Sembra che nel mondo della scuola non si percepisca chiaramente quale sia il profilo dei collaboratori di cui l’industria ha bisogno. L’istruzione deve essere considerata come un servizio reso al mondo economico”. A tradurre queste indicazioni in legge, in Italia ci penserà, poco dopo, il compagno Luigi Berlinguer, cugino di Enrico e famigerato Ministro dell’Istruzione dal 1996 al 2000: la parola d’ordine è autonomia; autonomia didattica, finanziaria e anche organizzativa. L’indirizzo di fondo che viene prospettato è la creazione di un sistema di istruzione pluralistico, che da statale diventa più genericamente pubblico e all’interno del quale sono legittimate ad operare tanto le scuole statali quanto quelle gestite da altri enti pubblici (p.e. i comuni e le province), ma soprattutto anche quelle gestite da enti privati, religiosi o no. Le une e le altre godono sia della facoltà di rilasciare titoli di studio aventi valore legale sia dell’opportunità di attingere a finanziamenti statali, non senza numerosi dubbi dal punto di vista della legittimità costituzionale vera e propria; d’altronde, la controrivoluzione e la d’istruzione di massa non possono attendere e non sarà qualche cavillo legale a ostacolarle.
L’autonomia di Berlinguer è il pilastro fondamentale sul quale si inseriranno tutte le controriforme degli ormai quasi 30 anni successivi; la più importante, ovviamente, non poteva che far capo al più spregiudicato e servizievole faccendiere degli interessi delle oligarchie che sia mai transitato, anche se fortunatamente piuttosto rapidamente, tra i nostri palazzi del potere: parlo, ovviamente, di Matteo Shish Renzi, il Tony Blair dei poveri, che ispirandosi all’amico criminale di guerra di oltremanica riesce nell’incredibile operazione di unire tutti i tasselli del grande progetto di controriforma della scuola neoliberale. Fino alla parodia: “Ogni scuola” recita infatti senza pudore un documento di presentazione della riforma della Buona scuola “dovrà avere la possibilità di schierare la squadra con cui giocare la partita dell’istruzione”; dai ragazzi! Siamo una squadra fortissimi! Come scrive Angela Angelucci su Roars “La riforma dell’autonomia scolastica in Italia è un pezzo importante delle riforme del mercato del lavoro, perché sta dentro un gioco di scatole cinesi che riesce ad incrociare perfettamente le direttive europee in materia di istruzione, obbedendo alla perfezione ai dettami di Confindustria”: “dalla legge Fornero, ai Modelli nazionali di certificazione delle competenze al termine del primo ciclo appena emanati, dal Quadro europeo delle qualifiche, al Jobs act sono tutte disposizioni che si rincorrono in un incastro di reciproci riferimenti normativi (…) e il risultato è chiaro: lo studente perfetto da un alto e il lavoratore perfetto dall’altro: competente come un idiot savant, abile in lavori scarsamente qualificati, flessibile e fungibile per lo sfruttamento e il precariato e senza alcuna consapevolezza storica, giuridica, sociale, culturale e politica”. Insomma: la scuola non più fucina di sapere, di scienza e di coscienza, ma di individui con un mediocre livello di conoscenze tecnologiche spendibili sia come promettenti consumatori che come lavoratori flessibili.
E così, finalmente, arriviamo all’oggi. Il 2022 segna un altro anno cruciale: nascono infatti i nuovi Licei TED, che sta per Transizione Ecologica e Digitale, perché una bella dose di greenwashing non si nega a nessuno; i TED propongono una formazione quadriennale che, come si legge nel sito di presentazione, si avvale “della rete di grandi gruppi e imprese che aderiscono al Consorzio di aziende CONSEL“ tra le quali figurano tra gli altri colossi come Microsoft, Atlantia, Generali, Sky e Vodafone. Nel contempo, viene approvato a larghissima maggioranza dalla Camera il disegno di legge relativo “all’istituzione del sistema terziario di istruzione tecnologica superiore”; nascono così gli ITS Academy che, come recita il sito della Regione Toscana, “sono accademie tecnologicamente qualificate e avanzate, finalizzate alla promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, e al rafforzamento delle condizioni per lo sviluppo di un’economia ad alta intensità di conoscenza, competitiva e resiliente, in grado di rispondere alla domanda di nuove ed elevate competenze tecniche e tecnologiche da parte delle imprese del territorio, concorrendo così alla crescita e allo sviluppo della Regione”. Anche qui troviamo ben rappresentata la scuola neoliberale: al posto della scuola pubblica, apriamo le porte ai privati che determinano programmi e finalità dello studio; al posto delle conoscenze, parliamo di competenze che, secondo l’Unione europea, non sono altro che flessibilità e disponibilità alla riconversione continua, altrimenti detta precarietà; al posto del docente che ha avuto una formazione specifica per il suo lavoro, apriamo le porte ai tecnici del mondo del lavoro e gli insegnanti rimangono a guardare e, al limite, vengono impiegati come facilitatori. La scuola che finiremo di ripopolare da stamattina, in mezzo al solito profluvio di retorica sui nostri ragazzi che rappresentano il nostro futuro è, in buona parte, esattamente questa e noi, molto banalmente, la vogliamo cambiare, e siamo convinti che le energie per farlo non mancano: dopo decenni di lotta di classe dall’alto contro il basso combattuta tra i banchi di scuola, la scuola pubblica italiana – grazie alla resistenza di centinaia di migliaia di docenti rispettosi del dettato costituzionale e di altrettanti studenti e famiglie che non hanno nessuna intenzione di farsi asfaltare dal rullo compressore delle controrivoluzione assistendo passivi – rimane ancora oggi una delle più grandi fucine di disobbedienza civile e di resistenza democratica del paese e noi siamo fermamente intenzionati a fare tutto quello che è in nostro potere per provare a riaccendere la miccia, alla maniera di Ottolina.
Ecco così che quando abbiamo incrociato Federico Greco e Mirko Melchiorre è sbocciato subito l’amore. Sicuramente li conoscete già: sono i registi di quei due straordinari esempi di resistenza culturale popolare che sono stati PIIGS e C’era una volta in Italia; non semplicemente dei film, ma dei veri e propri aggregatori di energia popolare. Prima per come sono stati prodotti: i relativamente pochi soldi necessari – almeno rispetto ai risultati straordinari – sono stati infatti raccolti attraverso una campagna di crowdfunding che ha rappresentato un’opportunità straordinaria per mettere in rete le migliori energie del Paese, una rete che poi si è fatta sentire al momento della distribuzione; i due film, infatti, per anni sono stati portati in lungo e in largo per tutta la penisola e ogni proiezione si è trasformata in un vero e proprio momento collettivo di mobilitazione politica, come raramente se ne sono visti in questi anni di sonnolenza e rassegnato disfattismo. L’unico tassellino che è mancato è stata un’organizzazione capace di dare un seguito strutturato a tutta questa energia sprigionata; e questo è esattamente il contributo che come Ottolina TV e come MultiPopolare abbiamo deciso di provare a dare in occasione di questo nuovo lavoro che i nostri due amici si apprestano ad affrontare. L’appello, quindi, è a mobilitarci tutti quanti per portare a termine la campagna di raccolta fondi, trasformandola (appunto) in un primo momento di mobilitazione; e poi tenerci pronti sin da subito per far girare il film in ogni angolo del paese e trasformarlo nell’occasione che stavamo aspettando per rilanciare un movimento di massa per riprenderci l’istruzione pubblica. In descrizione trovate tutte le informazione necessarie per partecipare a questo progetto tanto ambizioso quanto necessario, come tanto ambizioso quanto necessario è in generale l’obiettivo di Ottolina TV e di MultiPopolare: dare vita finalmente a un vero e proprio media che, invece che ai sacerdoti della controrivoluzione neoliberale, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maria Stella Gelmini

Ma quale meritocrazia! – Contro il più grande mito del nostro tempo

La meritocrazia è un dei più importanti miti sociali del nostro tempo che serve a convincere le persone che se non raggiungono posizioni importanti nella società è solamente colpa loro e a nascondere gli effettivi rapporti di potere nel mondo. Tutti i dati ci dicono che le diseguaglianze economiche si ereditano di padri in figli nella stragrande maggioranza dei casi. Purtroppo, anche a scuola e nell’Università sempre di più questa finta meritocrazia sta diventando il criterio attraverso cui viene strutturata la ricerca e il sapere. Ne parleremo a Fest8lina con Francesco Sylos Labini e Salvatore Cingari venerdì 5 luglio dalle 15 alle 16.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare!

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Lo scandalo Putin: se ne sbatte delle minacce europee e parla di asili, ospedali e salario minimo

Politico: “Putin minaccia la NATO con un attacco nucleare”; Bloomberg: “Putin avverte la NATO sui rischi di una guerra nucleare”; New York Times: “Putin afferma che l’Occidente rischia un conflitto nucleare”. Come sempre in questo periodo, ieri Putin ha ripetuto il rituale del suo lungo discorso annuale di fronte all’assemblea federale e, come ogni anno, la propaganda del partito unico della guerra e degli affari dell’Occidente collettivo fa di tutto affinché non ci si capisca una seganiente: ne avevamo già parlato a lungo l’anno scorso in questo video; anche quest’anno il copione è abbastanza simile. La propaganda occidentale, ormai assuefatta alle sparate a caso del sempre pimpantissimo Manuelino Macaron e alla ricerca disperata del titolone, scatena panico e si dimentica di dire che, anche a questo giro, la stragrande maggioranza del tempo Putin lo ha dedicato a parlare di welfare state e di sviluppo economico; d’altronde, farebbe strano: come lo giustifichi il fatto che tutto il mondo occidentale come un sol uomo è concentrato a fare la guerra per procura a un singolo Stato che continuano a spacciare come sull’orlo della bancarotta, e quello dedica più tempo agli asili, agli ospedali, al salario minimo, ai data center e al sostegno alle piccole medie aziende che non al rischio della scesa in campo direttamente di uomini della NATO?

Vladimir Putin

Un anno fa, Putin si prendeva gioco della propaganda senza capo né coda dei media e delle istituzioni occidentali ricordando come “inizialmente alcuni analisti avevano previsto un crollo del PIL russo superiore al 20%. Poi si sono corretti: saremmo dovuti crollare almeno del 10. Secondo gli ultimi dati, il nostro PIL si è contratto appena del 2,1%” e a partire dal terzo trimestre del 2022, continuava Putin, è tornato a crescere; un anno dopo, il bilancio è migliore delle più rosee aspettative: “Nel 2023” afferma Putin davanti all’Assemblea Federale “l’economia russa è cresciuta più della media mondiale”. Gli ingredienti di quella crescita li aveva anticipati, appunto, un anno fa e ora si cominciano a raccogliere i frutti; Putin, a questo giro, ricorda infatti come sono state avviate 1 milione di nuove attività imprenditoriali e commerciali di ogni genere: un record assoluto. Un bel traino è stato l’edilizia, come un daddy Conte qualsiasi: 110 milioni di metri quadrati di superficie residenziale solo l’anno scorso, “il 50% in più rispetto al livello più alto dell’era sovietica, raggiunto nel 1987” e che si vanno ad aggiungere agli oltre 4 milioni di metri quadri di superficie in più destinata alla produzione; “I nostri imprenditori” ha affermato Putin “credono in loro stessi, nelle loro capacità, e nel loro paese”.
E questo nonostante le sanzioni; anzi, in parte proprio grazie a loro: come ricorda Putin, infatti, nel 2023 “centinaia di nuovi marchi russi hanno fatto il loro esordio sul mercato”. “Nel 1999” sottolinea ancora “la quota delle importazioni nel nostro Paese ha raggiunto il 26% del PIL. L’anno scorso è stata pari al 19% del PIL e il nostro obiettivo è, prima del 2030, raggiungere un livello di importazioni non superiore al 17% del PIL”. Sempre nonostante le sanzioni, sottolinea ancora Putin, nel 2023 i porti russi hanno movimento oltre 5 volte la quantità di merce movimentata nell’anno del massimo splendore dell’ex Unione Sovietica: tutto questo, sottolinea Putin, è stato possibile grazie al fatto che il mondo finalmente sta attraversando cambiamenti di un’entità mai vista sino ad oggi. “Ad esempio” sottolinea Putin “nel 2028, i paesi BRICS, tenendo conto dei nuovi membri, creeranno circa il 37% del PIL globale, mentre i numeri del G7 scenderanno al di sotto del 28%”; nel 1992 i paesi del G7 pesavano per il 45,7 e i paesi BRICS per appena il 16,5: “Queste sono le tendenze globali” ha sottolineato Putin “e non è possibile allontanarsi da questa realtà oggettiva, che rimarrà tale qualunque cosa accada, anche in Ucraina”. Putin sottolinea poi come il segreto dei BRICS sta nel “rispetto per gli interessi reciproci che ci guida nell’interazione con i nostri partner, e questo è il motivo per cui sempre più paesi sono interessati a far parte di organizzazioni multilaterali come l’Unione Economica Eurasiatica o la Shanghai Cooperation Organization”: tutti vedono grandi opportunità,in particolare “nel progetto di costruzione di un Grande Partenariato Eurasiatico” e nell’adesione “all’iniziativa cinese della Nuova via della seta”. La Russia, continua Putin, ha approfondito il suo rapporto con l’ASEAN, con gli stati arabi e con l’America Latina e, ancora di più, con l’Africa, a partire dal vertice Russia – Africa che “ha rappresentato una vera svolta, con il continente africano che è diventato sempre più assertivo nel perseguire i propri interessi e nell’esercitare un’autentica sovranità. Aspirazioni che noi continueremo a sostenere sinceramente”: quindi il Mondo Nuovo che avanza, e la ferma volontà da parte della Russia di coglierne tutte le opportunità; altro che dittatore isolato e paranoico! Qui quelli isolati e paranoici siamo noi.
Ma la cosa forse più interessante del lungo discorso di Putin, in realtà, è ancora un’altra e l’ha sottolineata lui stesso: “Tutto quello che ho detto fino ad ora è importante, ma quello di cui parlerò ora è la questione più importante di tutte”; saranno i missili? I contingenti che la NATO minaccia di dispiegare direttamente in Ucraina? La Transnistria? Macché: la questione più importante di tutte, secondo Putin, sono “I bassi redditi, in particolare di molte famiglie numerose”; se leggi La Repubblichina ti aspetti Hitler e, invece, ti ritrovi di fronte Fanfani. “Nel 2000” ricorda Putin “42 milioni di russi vivevano al di sotto della soglia di povertà. Da allora la situazione è radicalmente cambiata. Alla fine dello scorso anno” continua con enfasi “il numero di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà è sceso a 13,5 milioni”; un dato clamoroso, ma – frena gli entusiasmi Putin – “ancora troppo elevato” e il nostro primo dovere è “concentrarsi costantemente sulla ricerca di una soluzione”. Una prima misura, sottolinea Putin, è stata introdotta il primo gennaio del 2023 e consiste in “un assegno mensile per le famiglie a basso reddito” che l’anno scorso ha riguardato “più di 11 milioni di persone”, ma “la povertà resta un problema acuto” in particolare per le famiglie numerose, che sono povere in circa un caso ogni 3: il nostro obiettivo, scandisce Putin, è che “entro il 2030 questa percentuale non sia superiore al 12%, meno della metà di oggi”, a partire dalle regioni della Russia centrale e nordoccidentale che, a partire dal prossimo anno, riceveranno circa 750 milioni di finanziamenti pubblici per cominciare ad affrontare il problema.
La questione demografica porta via un quarto d’ora buona di discorso, una carrellata di aiuti per incentivare i figli e la famiglia tradizionale che democrazia cristiana scansate, e poi tutto quello che serve affinché questi bambini crescano in salute e diventino adulti produttivi: 4 miliardi di euro per la manutenzione straordinaria di 18.500 edifici scolastici, a partire dagli asili, ai quali si aggiungono altri 4 miliardi per 40 nuovi campus universitari, 1 miliardo e mezzo per 800 strutture per la specializzazione professionale e non ho capito bene quanto per la nascita di 25 nuove università in tutto il paese; d’altronde, sottolinea Putin, “Nel 2035 avremo 2,4 milioni di cittadini in più con un’età compresa tra i 20 e i 25 anni” ed è su loro che la Russia deve puntare per aumentare in modo considerevole la produttività. E devono fare in fretta perché da qui al 2028, spiega Putin, avranno bisogno di 1 milione di giovani tecnici formati nei settori elettronico, farmaceutico e, soprattutto, in campo medico; ma, soprattutto, perché la Russia vuole raggiungere la sovranità tecnologica in una lunga serie di settori – dalla chimica all’aerospazio passando per l’energia nucleare e la new space economy.
“La percentuale di produzione ad alto contenuto energetico deve aumentare del 50% nei prossimi 6 anni” sottolinea Putin: per farlo, Stato e aziende private devono lavorare fianco a fianco; a questo fine, Putin offre agli imprenditori un patto fiscale. Le aziende russe infatti , come in tutto il resto del mondo, sono ricorse a ogni sorta di stratagemmi per pagare meno tasse possibili; questo ha comportato spesso un ostacolo alla crescita delle aziende stesse che, per evitare di passare da un regime fiscale agevolato a uno più gravoso, sono ricorse spesso a frammentare il loro business incorrendo in una sostanziosa perdita di produttività: “Queste aziende d’ora in avanti dovranno evitare la pratica della divisione artificiale, essenzialmente fraudolenta, delle attività e abbracciare modelli civili e trasparenti”. Per chi si adeguerà a questo new normal “non ci saranno multe, sanzioni, ricalcoli delle imposte per i periodi precedenti”; insomma: un bel condono, rafforzato anche da una bella “moratoria sulle ispezioni” perché “Le aziende che garantiscono la qualità dei loro prodotti e servizi e agiscono in modo responsabile nei confronti dei consumatori possono e devono godere della nostra fiducia”. E non è ancora finita; Putin, infatti, propone di rendere il condono stabile: una volta ogni 5 anni si azzera tutto perché “dobbiamo creare condizioni adeguate affinché le piccole e medie imprese possano crescere in modo dinamico e migliorare la qualità di questa crescita attraverso forme di produzione ad alta tecnologia. E per questo, in generale, il regime fiscale per le piccole e medie imprese manifatturiere dovrebbe essere allentato”.
Insomma: siamo di fronte a un piano complessivo a medio lungo termine per trasformare definitivamente la Russia in un moderno paese capitalista fondato sulla libertà di impresa e sul profitto e così, dopo la leggenda del pazzo dittatore isolato, cade anche quella del regime autocratico tenuto in piedi da una sorta di economia di guerra. Dove sta, allora, la differenza con noi? La parolina magica di Putin si chiama sovranità: in cambio, infatti, “Le imprese russe” continua Putin “devono investire le proprie risorse in Russia e nelle sue regioni, nello sviluppo delle imprese e nella formazione del personale”; in questo modo – è la ratio – l’economia reale crescerà e anche i salari ne beneficeranno, spinti anche dall’aumento del salario minimo. “A partire dal 2020” ricorda infatti Putin “il salario minimo è cresciuto del 50%. Entro il 2030 dovrà raddoppiare”; “Dobbiamo garantire” continua Putin “che il reddito medio dei lavoratori delle PMI superi la crescita del PIL nei prossimi sei anni. E ciò significa che queste imprese devono migliorare la propria efficienza e fare un salto di qualità nelle loro prestazioni”. Per farlo, servono i capitali: una complessiva riforma del mercato dei capitali che “permetta di aumentare gli investimenti nei settori chiavi del 70% entro il 2030” e senza ricorrere ai capitali internazionali; “In linea di principio” punzecchia Putin “le aziende russe dovrebbero operare all’interno della nostra giurisdizione nazionale e astenersi dal trasferire i propri fondi all’estero dove, a quanto pare, si può perdere tutto. Quindi ora, io e i miei colleghi della comunità imprenditoriale dobbiamo tenere sessioni di brainstorming per trovare modi per aiutarli a recuperare i loro soldi. Ma il metodo migliore, appunto, sarebbe semplicemente non trasferire i tuoi soldi lì. In questo modo non dovremo pensare a come recuperarli”. Quindi stop alla fuga dei capitali: lo Stato, tra investimenti in infrastrutture sia materiali che immateriali e un impianto regolatorio a maglie larghe, vi permette di fare tutti i soldi che volete, ma voi dovete rimanere qui a investire e sostenere la crescita economica generale. Insomma: lo dipingono come un feroce dittatore ma, in realtà, sembra uno dei pochi autentici liberali rimasti, una bimba di Adam Smith che, da autentico seguace di Adam Smith, sa che una cosa è il capitalismo industriale e produttivo – con anche tutto lo sfruttamento che comporta, ma nel quale, per fare quattrini, si deve produrre qualcosa – e un’altra cosa è il ritorno al feudalesimo che l’imperialismo occidentale ha in serbo per la Russia sin dai tempi di quell’alcolizzato svendipatria di Eltsin.

Il sempre più pimpante Manuelino Macaron

Ed ecco, allora, che si arriva al tema della guerra: “Il cosiddetto Occidente, con le sue pratiche coloniali e la propensione a incitare conflitti etnici in tutto il mondo” sottolinea infatti Putin “non solo cerca di impedire il nostro progresso, ma immagina anche una Russia che sia uno spazio dipendente, in declino e morente dove possono fare ciò che vogliono”; niente di nuovo sotto il sole, continua: “Vorrebbero solo replicare in Russia ciò che hanno fatto in numerosi altri paesi, tra cui l’Ucraina: seminare discordia in casa nostra e indebolirci dall’interno. Ma si sbagliavano, e ciò è diventato evidente ora che si sono scontrati con la ferma determinazione e determinazione del nostro popolo multietnico” – e contro la forza del possente apparato militare russo. Putin ricorda come, nel conflitto in Ucraina, la Russia abbia potuto dimostrare la potenza e l’efficacia dei suoi missili ipersonici Kinzhal e Zircon, e la lista della spesa continua ancora a lungo: dagli “ICBM ipersonici Avangard” ai “complessi laser Peresvet”, dal “missile da crociera a portata illimitata Burevestnik” al “veicolo sottomarino senza pilota Poseidon”, per finire con “i primi missili balistici pesanti Sarmat prodotti in serie”; “Sistemi”, sottolinea Putin, che “hanno dimostrato di soddisfare gli standard più elevati e non sarebbe esagerato affermare che offrono funzionalità uniche”.
Dopo aver fatto un po’ lo sborone, Putin allora fa il diplomatico: “La Russia” afferma “è pronta al dialogo con gli Stati Uniti su questioni di stabilità strategica. Tuttavia” sottolinea “è importante chiarire che in questo caso abbiamo a che fare con uno Stato i cui ambienti dominanti stanno adottando azioni apertamente ostili nei nostri confronti”; insomma, “intendono discutere con noi questioni di sicurezza strategica, ma allo stesso tempo cercano attivamente di infliggere una sconfitta strategica alla Russia sul campo di battaglia”. Un caso eclatante di questa ipocrisia, sostiene Putin, sono state le “accuse infondate” mosse recentemente alla Russia “riguardo ai piani di dispiegamento di armi nucleari nello spazio”, una storiella che Putin non solo definisce “inequivocabilmente falsa”, ma che fa palesemente a cazzotti col fatto che “Nel 2008 abbiamo redatto una proposta di accordo sulla prevenzione dello spiegamento di armi nello spazio”, ma in oltre 15 anni “Non vi è stata alcuna reazione”. Il tentativo, suggerisce Putin, è quello di “trascinarci di nuovo in una corsa agli armamenti”, esattamente come fatto “con successo con l’Unione Sovietica negli anni ’80”, ma a ‘sto giro non ci fregate: “Il nostro attuale imperativo infatti” è che si rafforza l’industria della difesa, ma in modo che influisca direttamente in modo positivo sulle “capacità scientifiche, tecnologiche e industriali del nostro Paese”; insomma, mentre miglioriamo “la qualità delle attrezzature per l’esercito e la marina russa”, “Per noi rimane fondamentale accelerare la risoluzione dei problemi sociali, demografici e infrastrutturali che abbiamo di fronte”. “L’Occidente”, continua Putin, “ha provocato conflitti in Ucraina, Medio Oriente e in altre regioni del mondo, diffondendo costantemente falsità. Ora hanno l’audacia di dire che la Russia nutre l’intenzione di attaccare l’Europa” ma, ovviamente, “Sappiamo tutti che le loro affermazioni sono del tutto infondate”, eppure le usano come scusa per cominciare a “ parlare della possibilità di schierare contingenti militari della NATO in Ucraina”. Ora, ricordate “cosa è successo a coloro che già una volta hanno inviato i loro contingenti nel territorio del nostro Paese ?” Ecco: “Oggi, qualsiasi potenziale aggressore dovrebbe affrontare conseguenze molto più gravi” perché “disponiamo anche di armi capaci di colpire obiettivi sul loro territorio”; ora stanno “spaventando il mondo con la minaccia di un conflitto che coinvolga armi nucleari”, ma si rendono conto che “potenzialmente significa la fine della civiltà”? Il problema, continua Putin è che “proprio come qualsiasi altra ideologia che promuove il razzismo, la superiorità nazionale o l’eccezionalismo, la russofobia è in grado di acciecare”. “Il problema”, conclude, “è che si tratta di persone che non hanno mai affrontato avversità profonde, e non hanno idea degli orrori della guerra”. Insomma: in soldoni, il Putin che s’è presentato di fronte all’assemblea federale è un De Mita che ce l’ha fatta; conservatore e liberale, ha capito che nel mondo dell’unipolarismo USA, anche solo per portare avanti un’agenda moderata e interclassista – ma non platealmente al soldo delle peggiori oligarchie transnazionali – ti devi armare fino ai denti.
La palla ora, in buona parte, sta a noi: fino a che punto i fanatici al soldo dell’impero neofeudale di Washington che governano i nostri paesi saranno intenzionati a mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa dei loro popoli per compiacere le oligarchie di turno? Putin, dal tono del suo lungo discorso, sembra essere ottimista: nessuno è così stupido da andare verso l’autodistruzione certa per fare gli interessi del suo padrone. Noi rimaniamo moderatamente agnostici: non sarebbe la prima volta che ripone una fiducia ingiustificata sulla peggiore classe dirigente della storia dell’Occidente. Di sicuro, quello che ci dovremmo impegnare a fare noi qui e ora, senza aspettare di vedere come va a finire questa partita, sarebbe mandarli tutti a casina, anche perché questa è una di quelle partite che non è detto che gli spettatori riescano a vedere fino al fischio finale; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media un po’ strambo che, ad esempio, quando parla per due ore il presidente della più grande potenza nucleare del pianeta, invece che ascoltarlo per i primi 30 secondi perché poi c’ha judo e inventarsi i virgolettati, cerca un po’ di capire cos’ha detto sul serio – anche se non vive nel giardino ordinato. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è (di nuovo) il pimpante Manuelino Macaron

[LIVE OTTOSOFIA] – Mercoledì 14 febbraio 2024 ore 21.00 – Perché la filosofia insegnata bene può cambiare il mondo – ft Massimo Mugnai

Appuntamento del mercoledì con la live di Ottosofia. Stasera parleremo dell’insegnamento della filosofia con il professor Massimo Mugnai che nel corso della sua carriera accademica si è occupato soprattutto di storia della logica. Ha insegnato fino al 2017 “Storia della logica” presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ora è professore emerito.

LA RASSEGNA STRAMBA del Mercoledì – Special School Edition| Live mercoledì 7 febbraio 2024 ore 09.15

Secondo appuntamento “fuori orario” della rassegna stramba che anche oggi vedrà il coinvolgimento dei ragazzi del liceo scientifico “Giuseppe Peano” di Roma. Appuntamento dunque alle 9.15 con il nostro affezionato Giuliano Granato

L’economia cinese torna sul tavolo operatorio

video a cura di Davide Martinotti

“L’economia cinese è attualmente sul tavolo operatorio, con la cavità toracica spalancata, collegata a una macchina cardiopolmonare, circondata da infermieri che fissano i monitor”. Questo l’incipit di un articolo di Han Feizi, osservatore di Asia Times, che ci racconta il suo punto di vista sull’economia cinese e suoi suoi obiettivi “irrealisticamente ambiziosi”. Un po’ di ottimismo, misto al gusto per lo splatter socio-economico!