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Tag: Rampini

RAND CORPORATION: ecco perché un eventuale conflitto a Taiwan sarà per forza nucleare

Le teorie della vittoria delle forze armate USA per una guerra con la Repubblica Popolare Cinese
Archiviata definitivamente l’utopia concreta delle democrazie moderne che, come recita la nostra Costituzione, ripudiavano la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, il problema non è più se fare la guerra o meno, ma molto più banalmente che tipo di guerra fare per ottenere quali obiettivi: da questo punto di vista, il dettagliato rapporto di oltre 40 pagine recentemente pubblicato dalla solita Rand Corporation, più che per ciò che svela su quale potrebbe essere l’approccio USA alla questione taiwanese, è illuminante per quello che svela con candore sulla psicologia dei pericolosi sociopatici che, di mestiere, consigliano alle massime sfere delle forze armate e delle amministrazioni di ogni colore il da farsi; “Gli autori di questo paper” si legge subito nell’abstract “illustrano come gli Stati Uniti possono prevalere in una guerra limitata con la Repubblica Popolare di Cina, evitando catastrofiche escalation”. Insomma: combattere e vincere sì, ma con moderazione; dov’è che l’ho già sentita? Ma state tranquilli: ormai i tempi sono cambiati e, ormai, parlare di guerra nucleare non è più tabù; moriremo, certo, ma un po’ più consapevoli. Il rapporto, infatti, non lascia molti margini alla fantasia: nel caso gli USA rilancino il cambio radicale di politica nei confronti di Taiwan adottato durante l’amministrazione Biden e culminato, nell’agosto del 2022, con la missione criminale di Nancy Pelosi sull’isola, evitare il conflitto sarà sempre più impossibile; il conflitto tra grandi potenze non potrà che essere prolungato e sempre più cruento, e che un conflitto prolungato e cruento tra grandi potenze non sfoci nel ricorso al nucleare è puro wishful thinking privo di fondamento. Cosa mai potrebbe andare storto?

“Le guerre sono molto più semplici da iniziare che da finire” sottolinea il rapporto della Rand Corporation, anche perché definire esattamente cosa significa vincere una guerra è più complicato di quanto non sembri; un problema che da 30 anni a questa parte gli USA – sostiene il rapporto – non si sono dovuti porre: qualsiasi fosse l’esito sul campo, infatti, dalla Serbia all’Iraq il rischio di ripercussioni in casa era sostanzialmente pari a zero, ma con “una guerra contro una grande potenza dotata di armi nucleari” la storia cambia completamente e quindi, nel caso di un conflitto con la Repubblica di Cina, “gli USA hanno bisogno di avere una visione chiara fin dall’inizio di come pensano di poter porre termine a un conflitto ottenendo vantaggi politici mentre evitano una potenziale escalation catastrofica”. Insomma: gli USA hanno bisogno di quella che, in termini scientifici, viene definita una teoria della vittoria e che, in soldoni, consiste nell’“identificare le condizioni alle quali il nemico accetterà la sconfitta, e quindi pianificare come modellare il conflitto in modo da creare quelle condizioni”; una buona teoria della vittoria, sottolinea il rapporto, deve avere “obiettivi politici chiari, deve essere concisa, prendere in considerazione le reazioni del nemico, sia militari, che politiche, e anche come reagiranno gli altri paesi coinvolti”. Elaborare una buona teoria della vittoria, continua il rapporto, è fondamentale perché “Le scelte che gli Stati Uniti fanno oggi influenzeranno quali teorie della vittoria saranno praticabili tra un decennio”; “Le modifiche delle capacità militari” sottolinea infatti Rand “richiedono tempi lunghi, e gli Stati Uniti si ritrovano ad affrontare limiti delle risorse disponibili che rendono impossibile investire equamente in tutte le opzioni possibili senza determinare una mancanza delle risorse disponibili per la scelta strategica più adeguata”. Ma non solo: elaborare una buona teoria della vittoria in tempo di pace è fondamentale per preparare le alte cariche delle forze armate e dell’amministrazione a essere in grado di fornire alla future presidenze consigli tempestivi adeguati qualora la deterrenza fallisse e scoppiasse improvvisamente il conflitto; “Viste le conseguenze del possibile ricorso all’arsenale nucleare o anche solo di attacchi convenzionali diffusi contro la Patria, alti ufficiali e funzionari devono essere consapevoli dei diversi rischi che le diverse teorie della vittoria comportano, per fornire i consigli migliori possibile al presidente. Non riuscire a centrare un equilibrio efficace tra il desiderio di ottenere un successo operativo e l’imperativo di gestire l’escalation con armi nucleari da parte dell’avversario rappresenta una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti”.
Si tratta, quindi, di capire come condurre una guerra in grado di raggiungere determinati obiettivi politici evitando il ricorso alla possibilità della mutua distruzione reciproca: per farlo “è essenziale stabilire obiettivi politici limitati”; l’era delle vittorie totali, se mai è esistita, sembrerebbe tramontata per sempre. Nel caso specifico di Taiwan, ad esempio – specifica il rapporto – “gli Stati Uniti potrebbero definire in modo restrittivo il proprio obiettivo politico nei termini di prevenire la possibilità che la Repubblica Popolare di Cina riesca ad imporre un controllo fisico totale di Taiwan, senza che la Repubblica Popolare sia comunque costretta a riconoscere l’indipendenza dell’Isola”. Per meglio schematizzare queste diverse gradazioni possibili di vittoria, il rapporto ricorre a una scala che va dalla distruzione alla vittoria totale: con vittoria totale si intende la vittoria che “consente al vincitore di dettare i termini della pace unilateralmente, anche se tali termini violano gli interessi vitali della parte sconfitta”, come ad esempio è avvenuto nei confronti di Germania e Giappone nella seconda guerra mondiale. Questo tipo di vittoria però, sottolinea il rapporto, “contro una grande potenza nucleare, semplicemente non è plausibile, perché caratteristica distintiva dell’era nucleare è proprio che anche la parte perdente, anche se le forze convenzionali sono state totalmente annientate, è ancora in grado di annientare il vincitore”. Una vittoria limitata, invece, implica il raggiungimento di obiettivi politici limitati, inferiori rispetto a quelli ai quali il vincitore ambirebbe se avesse il controllo completo sui termini della pace; questo, ad esempio – specifica il rapporto – è quello che ha ottenuto la Gran Bretagna nella guerra delle Falkland contro l’Argentina, alla fine della quale “la Gran Bretagna ha riguadagnato il controllo delle isole, ma il regime argentino è sopravvissuto al conflitto e non ha rinunciato alle sue rivendicazioni politiche sulle isole”. Una sconfitta limitata, invece, è l’esatto inverso di una vittoria limitata, come un’ampia sconfitta è l’inverso delle vittoria totale. Rand aggiunge poi un’ulteriore gradazione, e cioè la distruzione, che “va oltre la sconfitta più ampia e comprende la completa distruzione dei fondamentali di una società”, come successe a Cartagine durante la terza guerra punica. Ora, ribadisce Rand, proprio a causa della sproporzione dei contendenti nelle guerre combattute negli ultimi 30 anni, “I leader statunitensi si sono abituati a perseguire obiettivi massimi e combattere in modi che sarebbero estremamente pericolosi in un conflitto tra grandi potenze”, “ma se pensiamo a un conflitto tra USA e Cina nel 2030, il quadro appare completamente diverso”.
Riassumendo una mole imponente di letteratura scientifica sulla strategia militare, Rand ha elencato 5 teorie della vittoria che hanno attraversato il dibattito dei decision makers lungo tutta la storia: la prima viene definita dominanza e consiste nell’”uso della forza bruta per annichilire fisicamente il nemico, incapace di continuare a resistere”; “Questa teoria” sottolinea Rand “ha il fascino della semplicità, ma richiede – appunto – significative asimmetrie di potere, che non sono pensabili nel conflitto tra USA e Cina, e in generale quando ad essere coinvolte sono comunque due potenze nucleari”. La seconda viene definita negazione e consiste nel “convincere il nemico che è improbabile che riesca a raggiungere i suoi obiettivi, e che ulteriori combattimenti non potranno modificare sostanzialmente la situazione”: nel caso del conflitto tra USA e Cina su Taiwan, questo sostanzialmente significherebbe impedire la conquista militare dell’isola da parte della Cina “ad esempio mediante l’interdizione della possibilità del ricorso alle forze aeree e marittime”. La terza viene definita svalutazione e consiste nel “convincere il nemico che anche se riuscisse a raggiungere i propri obiettivi, i benefici sarebbero molto inferiori di quanto inizialmente stimato”; per capire di cosa stiamo parlando, Rand ricorre a un esempio che arriva dal mondo dell’economia, e cioè quando le “aziende si auto – sabotano, ad esempio indebitandosi ulteriormente o svendendo alcuni asset di valore per diventare meno appetibili per un eventuale acquisizione ostile”: nel caso di Taiwan, ad esempio, alcuni analisti hanno suggerito che questo obiettivo potesse essere raggiunto minacciando l’eventuale distruzione totale delle fabbriche del leader mondiale dei microchip TSMC, ma Rand mette in guardia da questo tipo di considerazioni e sottolinea come “non abbiamo individuato misure militari che potrebbero ridurre significativamente l’attaccamento politico della Repubblica Popolare di Cina alla questione taiwanese”, senza considerare il fatto che – in questo caso – anche “Taiwan stessa, probabilmente, si opporrebbe fortemente a tali azioni” e che “distruggere gli interessi vitali dello Stato in difesa del quale ti sei mobilitato” rappresenterebbe, nella migliore delle ipotesi, “una vittoria di Pirro”. La quarta teoria della vittoria viene denominata del rischio calcolato e consiste nel “convincere il nemico a smettere di combattere minacciando una qualche forma di escalation”; in particolare ovviamente, si tratta della minaccia nucleare: “La sfida principale in questo caso” sottolinea però Rand, è “che quando siamo di fronte a un avversario che può ricorrere alla stessa arma, il rischio di escalation aumenta deliberatamente”. La teoria del rischio calcolato, in soldoni, è “una competizione a chi si assume più rischi e persegue la sua strategia con più risolutezza” e, in questo caso, la Cina per Taiwan potrebbe essere decisamente più tollerante ai rischi di quanto non lo siano gli USA stessi. La quinta e ultima teoria della vittoria, invece, viene definita dei costi militari e consiste nel convincere l’avversario che “i costi della continuazione della guerra superano i benefici”; una ipotesi che rientra in questo ambito ed è particolarmente popolare tra gli analisti e gli strateghi a stelle e strisce è quella che prevede “il blocco a distanza del commercio marittimo della Cina in punti di strozzatura come lo stretto di Malacca”. Rand, però, sottolinea come la teoria dei costi militari, per essere realmente efficace, deve soddisfare 3 requisiti fondamentali e, soprattutto, “in primo luogo, gli Stati Uniti devono trovare un punto debole sufficientemente prezioso da influenzare il processo decisionale dell’avversario, ma non così prezioso da risultare inaccettabile e quindi condurre a un’escalation”. Dopo questa lunga disamina introduttiva, il verdetto di Rand è che l’unica opzione realistica è la teoria della negazione, ma è tutt’altro che una passeggiata: “Una valutazione completa della fattibilità concreta della negazione va oltre gli scopi di questo paper” sottolinea RAND, ma quello che è certo è che “Tendenze sfavorevoli nell’equilibrio militare a tre tra la Repubblica Popolare, Taiwan e gli Stati Uniti nel tempo hanno reso più difficile garantire il successo di una strategia di negazione”; “La Modernizzazione e l’espansione militare della RPC hanno creato crescenti preoccupazioni nei confronti della capacità delle forze armate statunitensi di scongiurare un’invasione di Taiwan”. Rand ricorda come, ancora nei primi anni 2000, Taiwan sarebbe probabilmente stata in grado di difendersi da un’invasione della Repubblica Popolare anche con un sostegno limitato da parte degli Stati Uniti: all’inizio degli anni ‘10, i rapporti di forza erano già radicalmente modificati e “un assalto anfibio in larga scala non era più inimmaginabile”, ma ciononostante, rimaneva comunque “una scommessa audace e forse folle da parte di Pechino”, ma verso la metà degli anni ‘10 “le valutazioni iniziarono a rilevare carenze crescenti nella capacità delle forze armate statunitensi di contrapporsi a un’invasione”, fino a quando – nelle simulazioni effettuate a partire dal 2018 – “le forze aeree statunitensi hanno cominciato a fallire disastrosamente”. Ciononostante, Rand invita a non perdere la speranza; gli attacchi anfibi infatti, sottolinea, sono estremamente complessi: “La Storia” infatti, sottolinea il rapporto, “suggerisce che, affinché l’invasione abbia successo, l’attaccante ha bisogno del controllo aereo e marittimo locale totale, mentre a chi difende basta negare all’avversario quel controllo, il che è molto più semplice da conseguire”. Inoltre, continua il rapporto, “gli USA hanno un vantaggio significativo nella guerra sottomarina grazie a investimenti decennali”; “Una nostra ricerca”, sottolineano, “ha dimostrato che i sottomarini d’attacco statunitensi sarebbero particolarmente ben posizionati per affondare un gran numero dei trasporti anfibi dell’esercito di liberazione” e su questo non mi esprimo, che non ho elementi. I passaggi dopo, però, mi puzzano di whisfhul thinking da un chilometro di distanza: Rand, infatti, sottolinea come gli USA abbiano anche una grande esperienza con attacchi di precisione da lunga distanza in grado, di nuovo, di colpire i mezzi anfibi, e come inoltre siano in netto vantaggio per quanto riguarda i jet di quarta e, sopratutto, di quinta generazione. C’è un però: sia gli eventuali missili, sia i jet, dovrebbero partire da portaerei o altre imbarcazioni di grandi dimensioni che, per quanto avevo capito io, non sarebbero proprio obiettivi difficilissimi per i cinesi. E, in effetti, lo ricorda anche Rand: “La capacità della Republica Popolare di attaccare le basi aeree statunitensi” ricorda infatti lo stesso rapporto “è molto cresciuta, il che minaccia di compensare i vantaggi degli Stati Uniti riducendo il numero di sortite possibili”; Rand, d’altronde, ricorda come “Gli USA da questo punto di vista stanno implementando diversi programmi di modernizzazione che cominceranno a dare i loro frutti tra la fine di questo decennio e l’inizio del prossimo”. Dubito però che nel frattempo, invece, l’esercito popolare di liberazione stia a guardare, e dubitano anche quelli di Rand che sottolineano come – se la Repubblica Popolare continuasse ad avere una crescita economia robusta e una certa stabilità interna – le risorse dell’esercito popolare di liberazione aumenterebbero e “la Repubblica Popolare continuerebbe a guadagnare terreno nella competizione militare”; e – a parte quello che scrivono Il Foglio e Rampini – difficile credere che la Cina non continuerà a crescere e la leadership di Xi Jinping ad avere tutto il consenso popolare che le serve.
Di fronte a tutto questo, gli USA potrebbero semplicemente accettare il fatto che “C’è un rischio sempre più grande di fallimento”, ma “Alla fine potrebbe essere nell’interesse degli Stati Uniti accettare un rischio maggiore di una sconfitta limitata su Taiwan piuttosto che coltivare un rischio molto maggiore di escalation nucleare”: si ha come l’impressione che Rand cerchi, in qualche modo, addirittura di fare da pompiere, come se si rivolgesse a funzionari che, presi dall’entusiasmo, non vedono l’ora di menare le mani e, però, non hanno valutato bene il cespuglio di schiaffi che li attende. E la sensazione aumenta andando avanti col rapporto: Rand, infatti, sottolinea come, di fronte a tutte queste difficoltà che la strategia della negazione dovrebbe affrontare, in molti sostengono vada un po’ rafforzata con elementi mutuati dalla strategia sui costi militari. Il rapporto, però, sottolinea come deviare alcune risorse per perseguire la teoria della vittoria dei costi militari aumenterebbe ulteriormente il rischio di fallimento della strategia della negazione: “Usare bombardieri pesanti per imporre costi militari, ad esempio, potrebbe deviare queste risorse già scarse dalla campagna di negazione”. Un modo realistico per integrare le due strategie piuttosto, sostiene Rand, potrebbe consistere nell’utilizzare navi di superficie, che sono troppo vulnerabili per dare un contributo concreto alle operazioni di negazione vicino a Taiwan per imporre una qualche forma di blocco navale più a largo: per imporre alla Cina di desistere, forse è un po’ pochino e il brodo s’allungherebbe come in Ucraina, e anche a questo giro “Il vantaggio demografico cinese, più la sua ampia base industriale, più la maggior posta in gioco nel conflitto, conferiscono alla Repubblica Popolare capacità e motivazioni più forti di quelle degli Stati Uniti”; d’altro lato, il protrarsi del conflitto “non necessariamente risolverebbe i problemi operativi centrali che deve affrontare l’esercito di liberazione popolare, che essenzialmente consiste nella necessità di trasportare e poi sostenere un ampio numero di forze verso Taiwan”. Secondo Rand, infatti, l’esercito di liberazione popolare ha una capacità di trasporto marittimo relativamente modesta; sicuramente la Cina avrebbe sufficiente capacità di costruzione navale per rifornire con continuità la sua flotta anfibia ma, a conflitto in corso, questi siti produttivi sulla costa sarebbero esposti agli attacchi del nemico.
Insomma, ariecco il caro vecchio pantano e il solito vecchio quesito esistenziale: “Possono, realisticamente, grandi potenze dotate di armi nucleari combattere una guerra lunga, dura e dolorosa senza degenerare verso l’uso del nucleare?” Rand, per prima, nutre qualche perplessità: “C’è una tensione tra, da una parte, il fatto che le guerre tra grandi potenze storicamente tendono a protrarsi nel tempo e, dall’altra, i limiti imposti dall’avvento dell’era nucleare su quanto cruento un conflitto può diventare prima che sfoci inevitabilmente in un’escalation catastrofica”; “La minaccia della mutua distruzione potrebbe scoraggiare l’escalation nucleare, anche se i due schieramenti sono impegnati nelle classiche operazioni di provocazione convenzionale che caratterizzano sempre guerre prolungate, come ad esempio attaccare direttamente la base industriale del nemico e i centri abitati. Teoricamente è possibile che questo timore possa prevenire un’escalation nucleare anche in presenza di attacchi convenzionali su grande scala. Ma, nella pratica, sembra improbabile”. Sembrerebbe perlomeno azzardato, ad esempio, pensare che “la RPC sia abbastanza propensa al rischio da iniziare una guerra con gli Stati Uniti, e allo stesso tempo così avversi al rischio da escludere a priori il ricorso al nucleare anche nel caso venissero minacciati i suoi interessi vitali”; allo stesso modo, se la Repubblica Popolare decidesse di reagire attaccando la base industriale USA con attacchi convenzionali di ampia portata, è “perlomeno plausibile che gli USA considererebbero come minimo l’ipotesi di minacciare una risposta nucleare contro Pechino per fermare gli attacchi”. E visto che il prolungarsi di un conflitto inevitabilmente, a un certo punto, pone una minaccia esistenziale alla parte più in difficoltà, chi sta perdendo ha un incentivo razionale ad azzardarsi a ricorrere a un uso limitato del nucleare, nonostante la possibilità di sfuggire presto di mano: “Con il procedere della guerra, entrambi i lati diventerebbero sempre più pronti ad accettare i rischi mentre cercano un modo per portare un conflitto sempre più costoso verso la fine”.

Il dottor Stranamore

Insomma: quale sia l’esito inevitabile del cambiamento della politica USA nei confronti di Taiwan per ostacolare l’ascesa cinese, gli statunitensi lo sanno benissimo e non si sforzano manco tanto per nasconderlo, a partire dai più guerrafondai tra i think tank; se la palla fosse in mano alle persone comuni la questione non si porrebbe nemmeno. Rimane da capire quanto le oligarchie siano disposte a catapultarci nell’armageddon pur di non vedere per la prima volta il loro conto in banca diminuire un pochino invece che continuare a crescere – come ha fatto invariabilmente negli ultimi 30 anni sulle spalle di tutti noi. Contro la normalizzazione del ricorso all’arma fine del mondo che la propaganda ci sta piano piano tentando di suggerire, sarebbe il caso di risvegliare non dico tanto un qualche senso di giustizia – che magari siamo fuori tempo massimo – ma, almeno, di sopravvivenza sì: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media in grado di raccontare senza peli sulla lingua alla gente comune di che morte hanno deciso che sono destinati a morire se non interveniamo prima di subito. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il dottor Stranamore

PUTIN ACCOLTO DA IMPERATORE NEL GOLFO – Il Nord Globale è in preda al panico

Fermi tutti! Fermi tutti, che qui c’è da brindare; è tornata – più in forma che mai – la mia crush numero 1: Nathalie Tocci! Dopo averci deliziato per mesi e mesi con una quantità infinita di vere e proprie perle di doppiopesismo suprematista e previsioni strampalate di ogni genere, sistematicamente smentite tempo zero dalla realtà, la Tocci – ultimamente – aveva iniziato a battere un po’ la fiacca e, per spiazzarci ancora di più, era arrivata addirittura a scrivere cose non dico condivisibili, ma – tutto sommato – perlomeno ragionevoli sullo sterminio in corso a Gaza. Ma quando poi, venerdì mattina, abbiamo aperto la prima pagina de La Stampa, lo spiazzamento si è trasformato in vero e proprio stato confusionale; accanto alla sua graziosa fotina, infatti, campeggiava un titolo sconcertante: Perché adesso in Ucraina rischia di vincere Putin. E’ stata rapita? Lo zio Vladimiro gli ha segretamente fatto impartire un vecchio trattamento Ludwig? L’ha sostituita con una sosia?

Nathalie Tocci

Fortunatamente, però, era solo un falso allarme: superate le prime righe, infatti, ecco che riappare subito la vecchia Natalona che tutti noi abbiamo imparato ad amare, determinata come non mai a sacrificare ogni minimo residuo di dignità in nome della propaganda e del suprematismo. D’altronde la posta in gioco è alta; la Tocci, infatti, che – va detto – ha sempre tifato escalation senza se e senza ma, convinta che le minacce di Putin fossero sempre e solo bluff e che il dovere dell’Europa fosse distruggere la Russia senza tanti fronzoli, lamenta il fallimento di una strategia europea che definisce eccessivamente cauta e attendista. E’ l’abc di ogni suprematista che si rispetti: l’Occidente collettivo è una civiltà superiore e, in quanto tale, non può perdere; se perde è perché ha deciso, per eccesso di ingenuità, di essere troppo docile e gentile, come d’altronde dimostra anche la guerra a Gaza. Proprio la civiltà dei guanti di velluto, diciamo. La Tocci, quindi, torna a lamentare la “stanchezza” dell’Occidente nei confronti di una guerra che – ovviamente – sarebbe in grado di vincere con la mano destra legata, e accusa “chi pensa che da questa stanchezza possa uscire qualcosa di buono”, ovvero “un negoziato che porti un compromesso tra Kiev e Mosca, magari mandando a casa il presidente ucraino Zelensky”.
Poveri illusi! Non tengono in conto, sottolinea la nostra Nathalie, che “per arrivare a un compromesso serve l’accordo tra le due parti. E a questa soluzione il presidente russo Vladimir Putin non pensa proprio” e non tanto perché ormai la Russia ha asfaltato sul campo di battaglia l’Occidente collettivo e quindi ormai, prima di trattare, vuole finire l’opera – che ne so – prendendosi pure Odessa, o per lo meno Kharkiv – che è un’ipotesi tutto sommato verosimile. No, no! Secondo la Tocci, semplicemente, “Putin ha bisogno di uno stato di conflitto perpetuo per sorreggersi”; infatti, sottolinea, “Se dovesse finire la guerra, il regime sarebbe chiamato a fare i conti con” – udite udite – “centinaia di migliaia di morti”: cioè, non 100 mila, che è già una barzelletta, e nemmeno 200, ma proprio centinaia e centinaia di migliaia. Cioè, non solo tutti quelli schierati in Ucraina, nessuno escluso, ma pure quelli rimasti a casa, che sono morti dal dispiacere. E viste le basi fattuali così solide su cui fonda il suo ragionamento, ecco che la Tocci, spregiudicata, decide di fare un passo oltre e si lancia in un’altra delle sue fantastiche previsioni: se, infatti, un compromesso adesso è impensabile – sostiene la Tocci – le cose potrebbero cambiare tra un anno, una volta terminata la lunga corsa per le presidenziali USA, soprattutto se alla Casa Bianca arrivasse Trump; allora un accordo sarebbe il regalo di investitura di Putin all’amico The Donald. Ma non fatevi illusioni, perché “naturalmente, per Putin, questo sarebbe soltanto una pausa temporanea”, giusto “il tempo di riarmarsi, e poi proseguirebbe la rincorsa dell’obiettivo rimasto invariato sin dall’inizio della guerra” che indovinate un po’ quale sarebbe? Ma ovviamente “il controllo di Kiev” scrive Natalona, ma non solo, perché – a quel punto – perché fermarsi? Perché “non proseguire” dice la Tocci “con la casella successiva, cioè la Moldavia e poi, magari, avventurarsi in territorio NATO, nei Baltici”? E poi ancora più in là, dritti verso Lisbona e, da lì, in canotto verso il nuovo continente. Ma chi gliel’avrà messa in testa questa gigantesca sequela di puttanate? E perché proprio adesso, quando – dopo qualche intervento ragionevole sulla guerra a Gaza – stava lentamente riuscendo a ricrearsi un minimo di credibilità?
Washington, martedì 5 dicembre: il Congresso degli Stati Uniti è in procinto di discutere il pacchetto da 100 e oltre miliardi messo assieme dall’amministrazione Biden; in larga parte, dovrebbero servire a permettere all’Ucraina di tenere occupato Putin ancora un po’ senza dichiarare definitivamente la bancarotta, almeno fino al voto per le presidenziali USA del prossimo novembre e, tra le fila del partito repubblicano, le perplessità si sprecano. Ovviamente sanno benissimo che tirare il freno a mano adesso significherebbe, potenzialmente, permettere a Putin di aumentare a dismisura il suo bottino di guerra e, anche, che questo comporterebbe un danno enorme per gli interessi strategici USA, ma sanno anche che, dopo due anni di umiliazioni sul campo, il loro elettorato di questa guerra per procura ne ha le palle piene e per recarsi alle urne vuole vedere tornare in cima all’agenda politica qualcosa che li riguarda da vicino, a partire dalla lotta senza se e senza ma a quelle che ormai definiscono apertamente le invasioni barbariche dei migranti latinos dal confine meridionale – che vorrebbero blindato e con licenza di uccidere. Ecco allora che il segretario alla difesa Lloyd Austin prova l’ultima carta: un lungo incontro riservato con i senatori più riottosi per provare a cercare una quadra prima che inizi il voto; ma è un fallimento totale. Dopo appena 20 minuti – riporta il buon vecchio Stephen Bryen su Asia Times – ecco che i senatori repubblicani escono in fretta e furia dalla sala, inviperiti. Cos’è successo? Secondo le prime ricostruzioni, appunto, i repubblicani volevano impegni formali sostanziosi sul muro col Messico, ma sono stati rimbalzati. Ma c’è dell’altro: secondo Tucker Carlson, Lloyd Austin li avrebbe letteralmente minacciati:

“Il segretario alla Difesa Lloyd Austin” – ricostruisce il Messengers – “avrebbe sostenuto che se i legislatori non riusciranno ad approvare ulteriori aiuti all’Ucraina, ciò molto probabilmente porterà le truppe statunitensi sul terreno in Europa a difendere gli alleati della NATO in altri paesi che la Russia potrebbe prendere di mira”; insomma, gli aveva letto l’editoriale che poi avrebbe pubblicato anche il suo ufficio stampa in Italia Nathalie Tocci. Carlson, come sempre, aggiunge, anche un altro po’ di pepe: Lloyd Austin infatti – sostiene – avrebbe detto esplicitamente che “Se non stanziamo più soldi per Zelensky, manderemo i vostri zii, cugini e figli a combattere la Russia”; insomma, “O paghi gli oligarchi o uccideremo i tuoi figli” sintetizza Carlson, con Musk sotto che gli chiede “Ma ha davvero detto così?”. “Lo ha fatto davvero” replica Carlson. “E’ confermato”. Ora, io di Carlson mi fido più o meno come della Tocci ma, comunque si sia svolto davvero il colloquio segreto, un paio di cose risultano chiare:
uno – la minaccia, comunque sia stata formulata, non ha convinto i repubblicani, che infatti – alla fine – hanno bocciato il pacchetto di aiuti;
due – la minaccia, invece, ha convinto Nathalie Tocci, che l’ha trasformata nel suo ennesimo illuminante editoriale indipendente e privo di condizionamenti.
D’altronde, fallita miseramente la controffensiva ucraina, l’unica speranza che i sostenitori senza se e senza ma della guerra per procura contro la Russia hanno di salvare almeno un pezzettino di faccia è portare avanti una controffensiva mediatica in grande stile. Il primo tassello di questa controffensiva consiste nel riformulare gli obiettivi della guerra: se fino a due settimane fa l’obiettivo era, attraverso la controffensiva, riprendersi tutti i territori conquistati dalla Russia dopo il 24 febbraio – e magari, già che ci siamo, pure la Crimea – e poi mettere fine al regime di Putin, ora che – con poco meno di un annetto di ritardo – si è costretti a prendere atto del fallimento, non rimane che rivedere gli obiettivi retroattivamente; ed ecco così che la debacle diventa una mezza vittoria perché, comunque, abbiamo impedito a Putin di conquistare Kiev.

Euromaidan

Ma chi l’ha detto che Putin voleva conquistare Kiev? Certo Zelensky, Biden, la Tocci, ma Putin – di sicuro – no (e anche noi abbiamo avuto sempre più di qualche dubbietto, diciamo); la storiella è sempre stata che s’è ritrovato di fronte una resistenza ucraina che non si aspettava – per carità, tutto può essere -, ma la resistenza che s’è ritrovato di fronte mica era la resistenza ucraina dei patrioti armati di fucili di legno che ci rifilavano ovunque all’inizio. E’ la resistenza della NATO che, in 8 anni dal colpo di stato dell’Euromaidan, ha trasformato l’esercito ucraino, in assoluto, in uno dei più cazzuti del vecchio continente, e mica era un segreto eh? Cioè, magari non lo sapevano Jacoboni e David Parenzo, ma Putin tendenzialmente sì, ecco. Ciononostante, gli uomini impiegati dalla Russia erano pochini e la loro avanzata non era stata anticipata da qualche campagna democratica di bombardamento a tappeto in stile NATO; quindi, o Putin e tutti i suoi generali e tutta la sua intelligence sono scemi, oppure – probabilmente – il piano non era esattamente quello che gli attribuisce la propaganda occidentale e io, se fossi un hooligan della propaganda suprematista, su questa cosa che sono tutti scemi non ci punterei troppo, ecco, perché se sono scemi loro, te – che ti sei fatto a prendere a pizze in faccia per due anni – probabilmente proprio proprio un aquila non sei, ecco.
Ma al di là di tutte le deduzioni che possiamo fare – che comunque, ovviamente, rimangono sempre opinabili – ora finalmente sembra emergere qualcosa che tanto opinabile non è: come sottolinea il buon vecchio Mearsheimer, infatti, ormai “esistono prove sempre più convincenti che dimostrano che Russia e Ucraina erano coinvolte in seri negoziati per porre fine alla guerra in Ucraina subito dopo il suo inizio”. La prima testimonianza eccellente di questi negoziati risale allo scorso ottobre; a parlare è l’ex cancelliere tedesco Gerard Schroeder, secondo il quale Mosca aveva proposto un piano di pace molto concreto in 5 punti: “Il rifiuto dell’Ucraina di aderire alla NATO, due lingue ufficiali in Ucraina, l’autonomia del Donbass, le garanzie di sicurezza per l’Ucraina e i negoziati sullo status della Crimea”. Altro che conquista di Kiev, quindi: “Durante i colloqui” ricorda però Schroeder “gli ucraini non hanno accettato la pace perché non gli era stato permesso. Dovevano prima coordinare tutto ciò di cui parlavano con gli americani”; ma Schroeder, si sa, è uomo di Gazprom e non è indipendente come Nathalie Tocci. A novembre, però, ecco che arriva un’altra conferma; a parlare, a questo giro, è nientepopodimeno che Davyd Arakhamia, leader parlamentare di Servitori del Popolo, il partito di Zelensky: “I russi” avrebbe dichiarato “erano pronti a porre fine alla guerra se avessimo accettato la neutralità e ci fossimo impegnati a non aderire alla NATO” ma “quando siamo tornati da Istanbul” ricorda Arakhamia “Boris Johnson è venuto a Kiev e ha detto che non avremmo firmato nulla con loro e che combattevamo e basta”.

Francesco dall’Aglio

A confermare il vero scopo della Russia e il ruolo dell’Occidente collettivo c’ha pensato pure l’ex premier israeliano Natali Bennett, presente ai negoziati: “Tutto ciò che ho fatto” avrebbe affermato “è stato coordinato fino all’ultimo dettaglio con Stati Uniti, Germania e Francia. E la decisione è stata quella di continuare a colpire Putin”. I partner occidentali, quindi, hanno deciso di bloccare l’accordo e “io ho pensato che si sbagliassero” ha concluso Bennet; è esattamente la stessa identica cosa che il nostro Francesco Dall’Aglio ha sostenuto – durante le nostre dirette – ogni benedetta settimana da quando è iniziato il conflitto e che ora, finalmente, diventa sostanzialmente ufficiale – ma, evidentemente, non abbastanza per spingere la Tocci a prendere consapevolezza della realtà e a smarcarsi un po’ dai deliri dell’amministrazione Biden. Purtroppo per la propaganda analfoliberale, però, continuare a sostenere vaccate che cozzano palesemente con la realtà non sembra ormai più essere una strategia vincente; nonostante il bombardamento mediatico ininterrotto, il grosso della popolazione mondiale – anche nel cuore dell’Occidente collettivo – ormai il giochino l’ha capito eccome; ma allora perché continuare imperterriti sulla stessa strada, rilanciando con questa buffonata di Putin che, una volta conquistata Kiev, invade pure i paesi Baltici?
Per capirlo, basta vedere le immagini dell’arrivo di Putin, giovedì scorso, negli Emirati Arabi Uniti: ad aspettarlo c’erano “il picchetto d’onore, bandiere russe ovunque, l’inno russo eseguito dall’orchestra, il saluto dell’artiglieria” sottolinea Ria Novosti, e anche gli aerei acrobatici che hanno disegnato una gigantesca bandiera russa nel cielo ; un’accoglienza un po’ diversa da quella che, pochi giorni prima, aveva trovato il presidente tedesco Stenmeier in Qatar. Se l’erano dimenticato; è rimasto lì ad aspettare per mezz’ora. I media occidentali hanno rosicato di brutto: “L’accoglienza disgustosamente sontuosa del despota Putin ha titolato il britannico Sun. “Vladimir Putin” scrive La Bretella Rampina sul Corriere della serva “umilia i suoi nemici con la tournée nel Golfo”; “tutto” rilancia Libero “per mandare all’Occidente una sorta di pernacchia metaforica”. Dopo il tour nel Golfo, Putin ha ricevuto a Mosca il presidente iraniano Raisi e, poche ore prima, era stato il turno del principe ereditario dell’Oman che, con Putin a fianco, avrebbe affermato di fronte alle telecamere che “L’ingiusto ordine mondiale dominato dall’Occidente deve finire”; “è necessario” ha continuato il principe “creare nuovi meccanismi per le relazioni internazionali che non impongano alcuna ideologia”. “Gli Stati Uniti” ha dichiarato Putin “hanno cercato di utilizzare la globalizzazione come strumento per garantire il proprio dominio nel mondo”; “ora, tuttavia” ha continuato “il vecchio modello con un processo drammatico e irreversibile sta per essere sostituito da un nuovo ordine multipolare”. E la Russia darà il suo contributo per la creazione di un nuovo modello economico globale veramente democratico, basato sulla concorrenza leale tra tutti gli attori. Il palcoscenico era il forum annuale organizzato da VTB Bank: seconda banca del paese, a quest’ora si sarebbe dovuta ritrovare in ginocchio a causa delle sanzioni; nel 2023 registrerà i profitti più alti della sua storia. Bene, ma non benissimo, diciamo.

E ora una brevissima interruzione pubblicitaria: i nostri media provano a fuggire a questo destino – che per i loro editori è drammatico e irreversibile – cercando di cambiare retroattivamente la storia: mi sa che servirebbe un media che la storia cerca di capirla per quello che è per evitare di farsi prendere sempre e solo a sberle per l’eternità. Per costruirlo, serve un editore un po’ diverso: tu; aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è… Spe’ che sono emozionato, che non lo dicevo da tanto…
E chi non aderisce è Nathalie Tocci

IL CALENDARIO DELL’AVVENTO DELLA POST – VERITA’ Un anno di previsioni mainstream – pt. 2: FEBBRAIO

2 febbraio, La Repubblichina: “La guerra non durerà, Putin è in un angolo”; 11 febbraio, Corriere della serva: “La Moldavia trema, Putin la vuole invadere”; 12 febbraio, di nuovo La Repubblichina: “I dubbi sull’offensiva di Putin. Non ha più risorse”; 13 febbraio, La Stampa: “Strage di russi”; 21 febbraio, La Repubblichina: “Ecco il piano ucraino per la guerra breve. Vinceremo nel 2023”; 27 febbraio, Libero: Dario Fabbri “La Russia ha perso”.
Carissimi ottoliner, benvenuti a questo secondo appuntamento con il calendario dell’avvento ottolino che ci accompagnerà da qua al 25 dicembre, quando festeggeremo l’arrivo ufficiale dell’era della post – verità. Oltre alla solita tiritera sulla vittoria immaginaria in Ucraina, il mese di febbraio è stato più che altro il mese della spy story più ridicola della storia delle spy stories: il giallo del pallone gonfiabile cinese, una polemica talmente farlocca che, nei mesi successivi, è stata totalmente rimossa nel tentativo di farcela dimenticare ma che, nel febbraio 2023, ha interessato prime pagine e decine e decine di articoli per la bellezza di 10 giorni, e che è finita solo quando ha lasciato il palcoscenico a un’altra crociata sinofoba totalmente infondata: la fake news sul Cina – gate per convincere l’Europa a mettere al bando le auto endotermiche a favore di quelle elettriche. E anche sulle analisi economiche ci sarebbe qualcosellina da obiettare…
1 febbraio, Il Foglio: “Perché i dati sorprendenti sull’economia italiana ci ricordano che l’ottimista non è altro che un pessimista bene informato”; 13 febbraio, La Stampa: “Eurozona, sale il PIL e l’inflazione frena”; 20 febbraio, di nuovo Il Foglio: “Crescita, export, investimenti, occupazione: analisi del nuovo miracolo economico”; “Una girandola di record che ha stordito i catastrofisti”. Sostituisci la parola record con cazzate e sì, a sto giro c’hai preso. In effetti ‘sta girandola di vaccate un po’ c’ha stordito davvero e, forse, era proprio quella la strategia: dirne talmente tante e talmente grosse che poi, alla fine, uno se le dimentica. Fino a che non è arrivato il calendario dell’avvento per gli ottoliner!
Il secondo mese dall’anno zero dell’era della post – verità non si apre all’insegna della vittoria immaginaria dell’Occidente collettivo sulla pelle degli ucraini, ma con una bella overdose di wishful thinking in campo economico; ad aprire le danze, il primo febbraio, è un vero e proprio gioiellino made in Il Foglio, la rivista ufficiale dell’internazionale analfoliberale: “Perché i dati sorprendenti sull’economia italiana ci ricordano che l’ottimista non è altro che un pessimista bene informato”, titola. L’articolo mette in fila un po’ di dati veramente entusiasmanti: il Fondo Monetario aveva appena rivisto al rialzo le stime della crescita italiana per il 2023 – dallo 0,2% a un fantasmagorico 0,6%. Ripeto: 0,6%; un decimo della Cina che Il Foglio – un giorno si e l’altro pure – dice essere ormai in crisi irreversibile. L’altro dato entusiasmante sarebbe stato quello pubblicato poco prima dall’Istat: l’esplosione dell’occupazione, che ha raggiunto la strabiliante quota del 60,5%; peccato che, contemporaneamente, le ore complessive di lavoro diminuivano. I famosi nuovi occupati nell’arco di un mese avevano raccolto una cassetta di pomodori o servito due cappuccini per un paio d’ore ed erano stati pagati 12 euro con qualche voucher (e, magari, si lamentavano pure). Il più bello dei dati citati, però, è questo: aumento delle retribuzioni contrattuali nel 2022 dell’1,1%; un successo clamoroso. Per i padroni. Con l’inflazione superiore all’8%, significa una perdita netta del potere di acquisto di circa il 7%, che aumenta mano a mano che si scende nella scala sociale: uno stipendio pieno in meno all’anno. “Le notizie sorprendentemente positive che da qualche tempo arrivano sulla nostra economia” commentava l’editoriale “dovrebbero spingere i catastrofisti di professione a porsi alcune domande”; noi, in particolare, ce ne siamo fatti una: ma com’è che ancora c’è qualcuno che vi paga per scrivere ‘ste vaccate?
Nel frattempo comunque, mentre l’economia italiana viaggiava col vento in poppa, quella russa era sull’orlo del baratro: è quello che risosteneva, per la milionesima volta, La Repubblichina. Putin rischia un golpe” titolava; “Tra un anno” si legge nell’articolo “quando il protrarsi dell’operazione militare speciale in Ucraina avrà portato a un numero ancora maggiore di morti e l’economia della Russia sarà al tracollo, il presidente Vladimir Putin potrebbe vedersi costretto a sospendere le presidenziali previste nel 2024, innescando un colpo di Stato”. D’altronde il collasso è inevitabile, come titolava, il giorno dopo, sempre La Repubblichina; “La guerra non durerà, Putin è in un angolo” è un virgolettato di Oleksey Danilov, il segretario del consiglio nazionale per la sicurezza e la difesa ucraino: una fonte super parte insomma. Attendibilissima! E che – diciamo – non è che faccia proprio di tutto per risultare esattamente credibilissimo: “Per ogni ucraino ucciso” afferma “ci sono sette morti russi. Ma” ovviamente, sottolinea Danilov “a loro non importa, li spediscono all’assalto a ondate”. In un rarissimo sussulto di dignità, il giornalista fa notare che anche tra le loro fila le perdite risulterebbero abbastanza ingenti; macché: “La Russia ha fatto una grande campagna di disinformazione a suon di fake news” risponde l’affidabilissimo Danilov. “Vogliono descrivere la nostra situazione come terribile” e per farlo – sottolinea Danilov – “hanno coinvolto una grande quantità dei mass media occidentali”, anche se poi non cita né Ottolina, né dall’Aglio e manco Alessandro Orsini. Mai una gioia. La strategia suicida della Russia – sostiene Danilov – avrebbe una sola causa: “Sono sicuro che da dieci anni Putin è malato” afferma Danilov; “ha problemi mentali: vive nel suo mondo e non capisce cosa gli succede intorno”. “Perché lei e Zelensky avete detto di non sapere se sia vivo?” chiede il giornalista; ma ovvio, che domande! E’ “Perché non c’è un solo Putin” risponde piccato Danilov; “Non è una tesi cospirazionista” continua Danilov; “Potete fare analisi comparative sulle sue immagini pubbliche. Osservate anche il suo modo di camminare, la paura ad avvicinarsi anche ai suoi stretti collaboratori e poi il bagno di folla il giorno dopo… Sono cose tipiche del KGB”.

Federico “Er bretella” Rampini

In attesa di poter decretare ufficialmente la morte di Putin e il crollo della Russia, ecco che i nostri media si dedicano anima e cuore alla spy story dell’anno: il giallo dei palloni cinesi; è il 4 febbraio, il giorno in cui un pallone gonfiabile sconvolse le sorti del mondo. La storia ovviamente la sapete: stiamo parlando del pallone aerostatico cinese utilizzato per misurazioni e ricerche scientifiche che a febbraio, a causa dei forti venti, era sfuggito al controllo ed era finito sopra i cieli del Montana; “Nella migliore delle ipotesi” scrive Paolo Mastrolillo & Greg su La Repubblichina “l’incidente dimostra l’irresponsabilità e l’inaffidabilità della Cina”. L’apparizione di un pallone bianco gigante sui cieli del Montana sarebbe un “atto di sfida” che rivelerebbe “il vero umore di Xi”; “L’autogol di Pechino” rilancia Er Bretella Rampini dalle pagine del Corriere della serva :“La vecchia regola” sottolinea Rampini “è che tutti spiano tutti, ma non bisogna farsi beccare in flagranza”. Manco a spia’ so capaci ‘sti cinesi! Cioè, sono 20 anni che gli USA sostengono che tutti i progressi tecnologici fatti dalla Cina sono dovuti allo spionaggio industriale e al furto di informazioni riservate, e ora scopriamo che manco a fa’ quello so’ boni. Ma allora è proprio vero che sono in declino o, come dice la sempre equilibratissima e brillantissima Giulia Pompili, “nel pallone”: “La Cina nel pallone” titola il suo articolo su Il Foglio; la Pompili ricorda come la Cina abbia sostenuto si trattasse – come poi è stato confermato ufficialmente – di un dirigibile civile di quelli usati “da quasi tutte le agenzie meteorologiche”. Ma alla Pompili non la si fa: “E’ falso!” tuona; “I palloni sonda meteorologici sono di piccolissime dimensioni, e poi esplodono automaticamente a una certa altezza”. Manco Wikipedia, maremmampestata ladra: i palloni ad alta quota, come sanno tutti, vengono utilizzati da sempre (attualmente in cielo ce ne sono svariate centinaia) e – a seconda della strumentazione – raggiungono dimensioni decisamente importanti. E nessuno li fa saltare per aria, perché possono valere anche svariate centinaia di migliaia di euri. Comunque, nonostante gli sforzi, la Pompili in fatto di vaccate rimane sempre una principiante: per la vera chicca bisognerà aspettare un altro giorno.
5 febbraio, Libero: “Il pallone cinese è un’arma”; a firmare l’articolo è il sempre lucidissimo Carlo Nicolato, vice redattore capo della prestigiosa testata filo – governativa. “I palloni” scrive “potrebbero anche trasportare armi biologiche da rilasciare silenziosamente nell’atmosfera. Oppure farlo nel momento stesso in cui vengono abbattuti”; ma non solo, perché “Potrebbero anche trasportare bombe che possono essere rilasciate in qualsiasi momento, come anche lanciare sciami di droni”. Ma soprattutto – conlcude Nicolato – “Potrebbero scatenare un attacco ad impulsi elettromagnetici (EMP) in grado di spazzare via la rete elettrica americana e di rendere così il Paese inoffensivo e non più in grado di difendersi”: fortunatamente, però, sembra che non siano ancora attrezzati di alabarda spaziale. E la tiritera è andata avanti per settimane: 9 febbraio, Il Giornale: “Sonde spia in 5 continenti. L’operazione in mano all’esercito di Pechino”; 10 febbraio, ancora Il Giornale: “Anche l’Italia spiata da Pechino”. “I timori dei nostri Servizi: rischi di incursioni peggiori”, la sonda spia è “solo l’avvisaglia di azioni più sofisticate”; “La domanda che sta agitando il sonno degli italiani è” si legge nell’articolo “che cosa stanno preparando i cinesi?” Boh, non lo so. Due raviolini? Un risino alla cantonese? E ancora, il 13 febbraio, La Repubblichina rilancia: “Palloni spia o Ufo? Il mistero degli oggetti abbattuti in America” e di nuovo, il giorno dopo, La Stampa: “La guerra dei palloni”. “La Casa Bianca: una campagna di spionaggio”.
L’incredibile campagna attorno a questa vaccata epocale finirà soltanto il 17 febbraio – 13 giorni dopo la prima notizia – e solo per essere sostituita da un’altra vaccata sinofoba. Libero: “L’ombra del Cina – gate dietro il bando sulle auto a benzina”; in ballo, ovviamente, c’è la querelle sulla messa al bando dei motori endotermici entro il 2035 che, in effetti, senza politiche industriali adeguate – che in Europa non ci saranno mai perché in Europa politica industriale è considerata una parolaccia – è palesemente una scelta piuttosto demenziale. Ma che c’azzecca il Cina – gate? La pistola fumante di Libero è un vero gioiello di giornalismo investigativo: “Negli ultimi anni” scrivono “la Cina è diventato uno dei paesi che ha invitato con più frequenza a Pechino gli eurodeputati”; a parte che mi piacerebbe sapere chi sono gli altri paesi che invitano gli eurodeputati a Pechino, ma – insomma – a parte l’analfabetismo di ritorno, ma dove dovrebbero andare le nostre delegazioni? In Guatemala? In Papua Nuova Guinea?
La scelta europea era così dettata dalla lobby cinese che, da qualche mese, l’Unione Europea non fa altro che cercare una scusa per imporre nuovi dazi: l’accusa è che la Cina si sarebbe addirittura azzardata a fare politiche industriali per rendere la sua industria dell’automotive elettrico ultra competitiva sui mercati globali. Insomma: un Cina – gate c’è eccome, solo che a fare lobbying sono sempre e solo le nostre oligarchie che vogliono impedire ai cinesi – che hanno investito una montagna di quattrini – di venire a fare concorrenza alle case automobilistiche autoctone che i loro profitti, invece che reinvestirli, se li sono intascati (di solito dopo essere passati da qualche paradiso fiscale). O almeno, questa è l’analisi che abbiamo sempre fatto noi gufi catastrofisti e che però – spiega Il Foglio – era tutta sballata: secondo Il Foglio, infatti, in realtà siamo di fronte e un vero e proprio nuovo miracolo economico fatto di “crescita, export, investimenti e occupazione”, la famosa “girandola di record che ha stordito i catastrofisti” (anche perché gli altri, forse, erano storditi già da prima). “Gufi e catastrofisti” scrive Il Foglio “sono andati avanti imperterriti fino all’ultimo a pronosticare dinamiche negative imminenti della manifattura che non si sono mai verificate”. No, mica: 10 mesi dopo – come puntualmente anticipato e ampiamente previsto – la crescita tendenziale dell’industria italiana segna un -2% abbondante.

Un’alabarda spaziale

E, a questo punto, non ci rimane che chiudere con una bella carrellata sui trionfi ucraini immaginati nelle redazioni dei nostri giornali; 12 febbraio, La Repubblichina: “I dubbi dei servizi sull’offensiva di Putin. “Non ha più risorse””; 13 febbraio, La Stampa: “Strage di russi”. “In questi giorni” scrive La Stampa “il numero dei caduti tra le file russe è il più alto dalla prima settimana di guerra”. La fonte? Il ministero della difesa britannico; e come fa il ministero della difesa britannico a saperlo? Semplice: riporta il comunicato della difesa ucraina. Non fa una piega; d’altronde a cosa ti servono i numeri affidabili quando la realtà è così evidente? E’ quello che spiega Lorenzo Cremonesi sul Corriere della serva appena 3 giorni dopo: “La trappola di Vuhledar” titola; “Un cimitero dei russi”. “Ancora una volta” – spiega Cremonesi nel trecentesimo articolo in un anno che annuncia avanzate e trionfi inimmaginabili per la resistenza ucraina – “abbiamo visto scontrarsi due filosofie della guerra opposte”. Da un lato, sogna Cremonesi, “quella russa, che è ferma alle tattiche e strategie della seconda guerra mondiale” mentre, dall’altro, “quella ucraina”, cioè dei popoli evoluti e civili che, ovviamente, “è proiettata nella tecnologia della futura terza guerra mondiale”. Ecco perché Zelensky può affermare a cuore leggero che “Il golia russo? Può perdere entro l’anno” e chi legge Cremonesi, alla fine, ci crede pure. E pure chi dà retta a Biden che, di lì a poco, vola a Kiev – e Paolo Mastrolillo & Greg è in brodo di giuggiole: “Un anno fa” scrive con i lucciconi “il capo del Cremlino si aspettava di conquistare Kiev nel giro di una settimana, adesso deve testimoniare impotente la passeggiata davanti alla cattedrale del capo della Casa Bianca”.
Dopodiché i giornalisti di professione – evidentemente – hanno chiesto qualche giorno di pausa perché inventarsi sempre una puttanata nuova, alla fine, è logorante, e per inventare puttanate nuove di pacca hanno chiamato i rinforzi, come il celebre scrittore franco – americano Jonathan Littell, che non ha dubbi: “Putin ha perso” è il titolo a 12 colonne della sua doppia paginata; il problema ora, sottolinea Littell, è farlo capire a Putin stesso. “Non stiamo facendo tutto ciò che è necessario per obbligarlo ad accettare di aver perso la guerra”: ad esempio, immagino, costringerlo a leggere i giornali italiani. E invece niente, “e la colpa” sostiene Littell “ è da ricercare indubbiamente in quella nostra vena di insicurezza e vigliaccheria, che questo ex agente del KGB sa fiutare benissimo sotto tutti i nostri interventi, per quanto robusti, a favore dell’Ucraina”; dovremmo invece mandargli un messaggio chiaro: “Hai perso, metti fine a questa guerra e siediti al tavolo dei negoziati, se non vuoi che le tue forze in Ucraina vengano travolte e annientate senza pietà, con tutti i mezzi disponibili”. Come? Smettendo di combattere “con una mano legata dietro la schiena”. Artisti democratici per l’escalation militare e l’armageddon – che però, in compenso, non capiscono un cazzo né di guerra né di politica – per farsi dare due paginate intere sul Corriere della serva: un curriculum esemplare.
Noi ci rivediamo presto per il terzo appuntamento con il calendario dell’avvento ottolino;nel frattempo, se 12 mesi di post verità ti sono bastati, forse anche te cominci a sentire il bisogno di un vero e proprio media che provi a raccontare il mondo per quel che è, e non per quello che vorrebbero fosse Mastrolillo & Greg e Cremonesi. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giulia Pompili