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Tag: power

¡Desaparecinema! ep. 15 – La guerra fredda culturale in USA e in Europa (parte 2)

Premessa importante a questa seconda parte dedicata al soft power statunitense: il cinema dei grandi registi rimane grande cinema anche se quei registi lo hanno fatto per imporre ideologie e propaganda. Rimane cinema quello di John Ford che, come vedremo, era contiguo alla CIA; rimane cinema quello di Chaplin, comunista convinto; rimane cinema quello di Stanley Kubrick, a cui di fascismo e antifascismo non importava nulla. La dico meglio: non smette di essere cinema con la C maiuscola il cinema di parte, altrimenti dovremmo buttare nel cesso (come per esempio ha fatto certa ignorante sinistra italiana con Stanley Kramer o Howard Philips Lovecraft) Luigi Magni e Gian Maria Volonté, Fernando Solanas e Sergej Ejzenstein, Clint Eastwood e David Wark Griffith (quest’ultimo è il padre del cinema narrativo, del montaggio e del lungometraggio con Nascita di una nazione del 1915: un film profondamente razzista). L’imparzialità non è necessariamente un valore nel cinema, anzi! Sempre che non si tratti di cinema sfacciatamente propagandistico, didascalico, agiografico, manicheista, retorico e, soprattutto, partitico invece che politico, tipo Ennio Doris – C’è anche domani e declinazioni titolistiche varie. D’altro canto è sempre importante sapere che cinema stiamo guardando e come è stato finanziato: è l’unico modo per essere liberi di non farci fregare; è sempre importante sapere quale operazione politico-culturale c’è dietro perché La cinematografia è l’arma più forte dicevano, giustamente, i fascisti. Forse oggi è superata dai social e dalla Tv, ma rimane ancora un’arma potente. Come Dom Cobb, il protagonista di Inception di Nolan: è capace di farti credere il contrario di ciò in cui credi, di farti odiare il tuo amico e di convincerti pure che sia una tua idea: per esempio, è capace di farti credere che l’eroe del mondo occidentale sia chi è in grado di vincere secondo le regole del neoliberismo, della competizione a discapito degli altri, dell’auto-schiavismo (come ne La ricerca della felicità di Gabriele Muccino con Will Smith) invece che chi, questo paradigma, decide di ribaltarlo. Oppure è capace di farti credere che a odiare i comunisti fossero solo il partito repubblicano e il senatore McCarthy. E, invece, “Ci sono oggi in America molti comunisti. Sono dappertutto. Nelle fabbriche, negli uffici, nelle macellerie, negli incroci, nel mondo degli affari. E ognuno di essi porta in sé, in germe, la morte della nostra società”: questo era il democratico Truman, lo stesso che dopo che la guerra contro il nazismo era stata vinta in Europa, aveva deciso che fosse necessario sterminare più di 250.000 innocenti a Hiroshima e Nagasaki solo per mostrare i muscoli a Stalin; sotto la sua presidenza, nel 1951, J. Edgar Hoover, il direttore dell’FBI, poteva ritenere possibile, in caso di guerra, la deportazione in campi di concentramento di mezzo milione di cittadini statunitensi sospettati di contiguità col comunismo. L’anno dopo la fine della presidenza Truman, il 19 agosto del 1954 – 70 anni fa secchi – il partito Comunista americano veniva messo fuori legge.

Meloni privatizza tutto! Ferrovie, porti, rete, Poste: il piano suicida della Thatcher de’noantri

“Pronti alla privatizzazione dei porti”; ecco: ci mancava. Pochi giorni prima era stato il turno delle Ferrovie: “FS, l’ad Donnarumma: quotazione? Allo studio apertura capitale”; fresco fresco di nomina, Stefano Donnarumma, per il suo debutto in società, ha deciso di giocarsi subito il poker d’assi e di fronte alla crème crème delle oligarchie parassitarie, riunite nel salotto buono di Cernobbio, ha presentato in anteprima la cuccagna del prossimo monopolio naturale pronto per essere spolpato. Nei mesi precedenti la stessa sorte era toccata alla rete delle telecomunicazioni, il sistema nervoso dell’economia del presente e, soprattutto, del futuro; un po’ come la rete elettrica negli anni d’oro del boom economico che infatti, nel 1962, venne nazionalizzata e – una volta sottratta alla rendita parassitaria dei prenditori – rese possibile consolidare il periodo di maggior sviluppo produttivo della storia di questo paese: roba da maledetti comunisti avrà pensato Giorgiona che, infatti, ha adottato la strategia opposta e la rete l’ha regalata a un fondo speculativo americano, alla faccia del patriottismo. A fine luglio, poi, sempre lo stesso fondo USA KKR ha confermato l’acquisto di un altro pezzo di Paese: il 25% di Enilive, la controllata di ENI da 15 miliardi di fatturato l’anno che gestisce una trentina di impianti di produzione di biometano in tutto il mondo, oltre a cinquemila stazioni di servizio in tutta Europa che servono ogni giorno oltre 1,5 milioni di clienti. D’altronde, produce dividendi: perché mai dovrebbero andare nelle casse dello Stato invece che nelle tasche dei soliti noti? Cosa siete, eh? Comunisti? Per sancire il sacrosanto diritto delle oligarchie di mettersi in tasca il grosso della ricchezza prodotta dal resto della società, la Meloni – nonostante sia costretta a fare i salti mortali per far quadrare i conti – è disposta a rinunciare anche a un bel po’ di soldi sicuri; come nel caso delle Poste, che quest’anno hanno registrato un miliardo di utili: l’occasione giusta per passare dal 65% al 35% delle quote. Come dice il nostro Alessandro Volpi fare cassa perdendo soldi, una vera e propria moda che sta tornando a diffondersi in tutto il vecchio continente.

Ferrovie dello Stato

Venerdì scorso, infatti, in Germania si è conclusa la vendita ai danesi di DVS da parte di Deutsche Bahn di Schenker, la controllata specializzata nella logistica: secondo Bloomberg si tratta “di una delle più grandi vendite di un’azienda statale in Germania da anni”; ovviamente, come sottolinea La Verità, Schenker “era l’unica società del gruppo in grado di portare un utile significativo: un miliardo l’anno”, come Poste. E, come in Poste, oltre al buco nelle entrate dello Stato ecco che si affaccia una bella ristrutturazione: “Nell’ambito dell’integrazione” riporta sempre Bloomberg “l’azienda danese prevede di tagliare tra 1.600 e 1.900 posti di lavoro in Germania”. Ed è solo l’antipasto: nonostante l’economia del vecchio continente stia andando completamente a scatafascio – tanto da far rivedere, anche a questo giro, al ribasso le previsioni sulla già più che striminzita crescita futura – la BCE ha deciso (di nuovo) di tirare il freno a mano sulla riduzione dei tassi d’interesse, che è l’occasione d’oro per i governi nazionali al servizio delle oligarchie di fare appello all’insostenibile costo degli interessi sul debito per riprendere a svendere in grande stile i gioielli di famiglia e aggravare, così, ulteriormente la crisi. Privatizzazione, infatti, è sinonimo di ristrutturazione e di tagli e, quindi, di perdita di quei pochi posti di lavoro retribuiti dignitosamente che rimangono, ma è anche sinonimo di rendita parassitaria, con le oligarchie che approfittano delle posizioni di monopolio per imporre al sistema produttivo una gigantesca tassa che, invece che a finanziare investimenti e servizi, finisce direttamente nelle loro tasche; e i risultati si vedono. Il Sole 24 Ore: Metalmeccanica, frenata più forte. Rischio stop per quattro imprese su 10. La Verità: Boom di fallimenti. La Germania sprofonda nel baratro. Repubblichina: La crisi tedesca rallenta l’industria italiana. Senza investimenti l’Italia non cresce. Ma prima di entrare nei dettagli di questo piano diabolico per trasferire quel pochissimo di ricchezza che ci rimane nelle tasche delle oligarchie e finire di devastare l’economia del vecchio continente, vi ricordo di mettere un like a questo video e consentirci così (anche oggi) di combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi Giancazzo Giorgetti per regalare a Vanguard e a BlackRock un’altra infrastruttura strategica del Paese, ma per noi fa davvero la differenza.
Re Carlo inaugura il nuovo parlamento promettendo una legge per la ri-nazionalizzazione delle Ferrovie e l’istituzione della Great British Railway: il governo laburista di Keir Starmer, che si è insediato a Downing Street lo scorso 4 luglio dopo le elezioni più antidemocratiche della storia del Regno Unito, rappresenta gli ultimi mohicani della religione ultra-liberista. Eppure la realtà gli ha imposto di fare una cosa di sinistra: ri-nazionalizzare le Ferrovie . La storia recente delle Ferrovie britanniche, infatti, è forse in assoluto l’esempio più eclatante di come le privatizzazioni non mantengano mai nessuna delle promesse propagandate per imporle all’opinione pubblica: nonostante l’accetta che, inevitabilmente, si abbatte sulla forza lavoro – sia in termini di numeri che di diritti – il servizio non fa che peggiorare, mentre i costi per gli utenti aumentano e, paradossalmente, aumenta pure la spesa pubblica; gli unici che ci guadagnano sono una manciata di parassiti. E, infatti, tutti gli altri non vedevano l’ora di tornare indietro: secondo un sondaggio del 2018 condotto da BMG, soltanto il 19% dei cittadini britannici si sarebbe dichiarato contrario alla ri-nazionalizzazione. L’egemonia neoliberale, per quanto in declino, grazie alla macchina propagandistica è ancora in piedi, ma solo fino a quando le persone non sbattono il muso contro le sue conseguenze concrete: c’era arrivato, addirittura, anche Boris Neurone Solitario Johnson che, già due anni fa, aveva annunciato la ri-nazionalizzazione almeno di alcuni pezzetti. Ora ad opporsi è rimasto soltanto il Financial Times: La ri-nazionalizzazione delle Ferrovie non stimolerà la crescita del Regno Unito titola, ma si rende talmente conto di quanto sia impopolare questa posizione da appaltare l’articolo a un esterno a caso; Andy Bagnall, il direttore di Rail Partners, l’associazione di categoria degli operatori ferroviari privati del Regno Unito. Un caso paradigmatico del conflitto tra il 99% e l’1%.
Non è un caso, quindi, che anche da noi, quando s’è trattato di lanciare la bomba a mano di una possibile privatizzazione delle Ferrovie, si sia scelto di farlo davanti alla crème crème dell’1%: il Forum Ambrosetti di Cernobbio, l’annuale rappresentazione teatrale della subordinazione totale della nostra classe politica agli interessi di una manciata di oligarchi. La faccenda è talmente delicata che, per affrontarla, il neo-nominato Roberto Donnarumma ha fatto un rigirìo di parole che nei corridoi dell’Accademia della Crusca ha causato almeno una decina di trombosi cerebrali: “Apro a un’ipotesi di valutazione di una possibile apertura del capitale laddove possa essere vantaggiosa da un punto di vista finanziario per lo sviluppo degli investimenti dell’azienda”. Ora me la segno ‘sta formula, da riusare tutte le volte che non so che granchi prendere: apro a un’ipotesi di valutazione di una possibile apertura. Per quanto l’italiano sia raccapricciante, comunque, rispetto al contenuto è pura poesia: tradotto, infatti, significa (molto banalmente) cari amici oligarchi, la greppia dell’Italia in svendita arriverà presto anche ai binari. Ovviamente la scusa è sempre la solita: aumentare gli investimenti; è un meccanismo ultra-rodato, lo stesso identico adottato nel Regno Unito e, in generale, ogni volta che si vuole privatizzare qualcosa per arricchire l’1% sulla pelle del 99. Prima si tagliano scientemente gli investimenti pubblici, si trasforma il servizio pubblico in uno schifo intollerabile e, a quel punto, si tira fuori la carta della necessità di ricorrere a un po’ di capitali privati che purtroppo, però – come dimostra il caso britannico – non arrivano mai. Ora, siccome ormai i casi sono talmente tanti (e sempre identici a se stessi) che la gente, nonostante la potenza di fuoco della propaganda, se n’è abbastanza ammoscata, tocca prenderla un po’ larghina; e, quindi, l’idea è di procedere per step: invece di andare subito in borsa, intanto ci si limita ad “aprire a un’ipotesi di valutazione di una possibile apertura” ai capitali privati e poi il resto, piano piano, verrà da se. La quotazione, all’inizio, sempre col pubblico con quote di maggioranza e, poi, la vendita della maggioranza ai privati con la scusa del golden power che manterrebbe in mano pubblica il controllo sulle cose principali anche in assenza della maggioranza delle quote; peccato che poi quel golden power non venga esercitato mai, a meno che non si tratti di impedire a quei barbari dei cinesi di fare la stessa identica cosa che fanno gli oligarchi di tutti gli altri paesi.
Insomma: esattamente quello che, ad esempio, è successo con la rete autostradale o, appunto, a quello che sta succedendo con Poste. La prima parte da aprire al capitale privato sarebbe, ovviamente, quella più redditizia e, cioè, la gestione del servizio dell’alta velocità, un’operazione che, a onor del vero, non è tutta farina dell’ultima governo di svendi-patria e di Donnarumma; a mettere nero su bianco una prima roadmap verso la svendita delle Ferrovie italiane c’aveva pensato, infatti, l’ex amministratore delegato: si chiama Luigi Ferraris e indovinate cosa fa di mestiere oggi? Il fondo USA KKR l’ha chiamato alla guida di FiberCop, il gestore privato della rete in fibra dismessa da TIM col benestare del governo. I registi della svendita del Paese sono una combriccola che passa di poltrona in poltrona e fanno tutti capo a un unico centro di potere che, in particolare, si dipana attraverso l’oligopolio dei quattro colossi della consulenza: Price Waterhouse Coopers, Deloitte, Ernst & Young e KPMG, un esercito di oltre un milione e duecentomila consulenti sparsi su tutto il globo che passano con nonchalance dalle big corporation private alle istituzioni pubbliche, cercando di incastrare sempre i tasselli a favore delle oligarchie; la vera tecnocrazia transnazionale al servizio dell’1%. Ferraris, ad esempio, ha mosso i suoi primi passi in PriceWaterhouseCoopers che, tra le quattro, da un po’ di tempo a questa parte è la più chiacchierata in assoluto. Prima, infatti, è stata travolta dallo scandalo tasse in Australia; giocava su due tavoli: aiutava il governo a scrivere la riforma fiscale e poi passava le informazioni alle big corporation per aiutarle a eludere le tasse. La cosa divertente è che il ruolo di PWC come consulente di primo piano per il governo era stato il risultato di un altro processo di privatizzazione: l’Australia, infatti, a inizio anni ‘10 ha introdotto un tetto massimo al numero di dipendenti pubblici; da allora, le consulenze esternalizzate alle quattro grandi – e, in particolare, a PWC – è cresciuto nell’arco di 10 anni del 400%, fino a pesare sulle casse dello Stato per qualcosa come 20 miliardi l’anno. In questi anni i consulenti hanno gestito un’altra bella dose di privatizzazioni, a partire da quella dell’energia; e così PWC aiutava a svendere un pezzetto di infrastrutture strategiche e, poi, diceva alla nuova società privata cosa fare per eludere le tasse che avrebbe dovuto pagare sulla rendita garantita dalla gestione di un monopolio. Poi, ti serve altro? Una fettina di culo? Una fettina di culo è probabilmente l’unica cosa che, seguendo le indicazioni di Ferraris, forse (e dico forse) non dovremo garantire ai privati che ci fanno la grazia di mettere qualche soldino nella privatizzazione delle Ferrovie; il piano messo a punto da Ferraris, ricorda infatti La Repubblichina, “suggeriva al governo di confezionare un’esca per incoraggiare i privati a entrare nel capitale di Ferrovie. L’esca si chiama Rab, che sta per Regulatory asset base e che, in sostanza, fornisce un’assicurazione sulla vita ai privati disposti a travasare capitali propri in un’azienda pubblica come FS. Grazie al Rab, viene messo a punto un tasso di rendimento certo e i soci possono così contare su una remunerazione in linea con quella che avrebbero ottenuto per investimenti in settori con un profilo di rischio simile”. Siamo all’apoteosi del derisking: compito del governo è svendere le infrastrutture strategiche del Paese e garantire una rendita predeterminata a chi se le compra, una dittatura dei rentier pre-capitalistica vera e propria che, ribadiamo, non solo trasferisce ricchezza dal basso verso l’alto, ma – alla fine – impone anche all’intero sistema economico un pizzo che gli impedisce di investire nelle attività produttive e di crescere. E poi quando perdono la guerra si lamentano… Belle mi’ labbrate, maremmampestataladra. Fortunatamente, però, l’Italia è stretta e lunga e circondata dal mare; e quindi anche se svendiamo le Ferrovie, perlomeno potremo sempre fare affidamento sui porti, fino a che non privatizzano pure quelli: “Siamo a buon punto” ha affermato giovedì scorso, durante un incontro nella sede di Fincantieri di Genova, il viceministro delle infrastrutture Edoardo Rixi. “Appena il governo ci darà il via libera, procederemo”; anche qui il copione è sempre il solito: prima si è tirata la cinghia per decenni – ovviamente solo per gli investimenti produttivi. Per la greppia delle clientele le risorse non mancano mai; anzi, sono fondamentali: è solo grazie alla prebende che tieni tutti più o meno buoni mentre gli devasti l’attività economica che gli dovrebbe dare da vivere davanti agli occhi. Dopo decenni di sotto-investimenti, il servizio è una zozzeria tale che tutti chiedono a gran voce una bella riforma; la riforma, ovviamente, va sempre in senso aziendalista e privatistico perché – si sa – solo il mercato crea valore: quella riforma è arrivata nel 2015 per mano di Delrio, il ministro alle infrastrutture dei pessimi governi Renzi, prima, e Gentiloni, poi, che aveva come obiettivo introdurre intanto un paio di precondizioni necessarie per un’eventuale futura privatizzazione. La prima era abolire quell’organo (di odore quasi sovietico) che erano i comitati portuali, dove – orrore degli orrori – al fianco dei dirigenti e delle aziende sedevano addirittura i sindacati; la seconda era dotare queste nuove autorità portuali riformate di sempre maggiore autonomia che però, incredibile ma vero, non sempre hanno usato proprio al meglio: delle quindici autorità portuali rimaste dalle ventiquattro iniziali, ben quattro sono state commissariate. Nel 2021, poi, ecco un’altra chicchina: viene eliminato il cosiddetto divieto di cumulo e, cioè, quella regola pensata per evitare che un singolo operatore avesse a disposizione spazi eccessivamente ampi all’interno dello stesso scalo portuale e stabilisse, così, una condizione di monopolio (o almeno di semi-monopolio). “La cancellazione di questo divieto” scrive Roberto Bobbio sul Faro di Roma “ha favorito i grandi armatori e ha danneggiato le piccole imprese e anche la posizione dei lavoratori. In una situazione di concentrazione delle concessioni in mano di pochi, tutelare i diritti diventa ancora più difficile”. Fatto 30, ora si trattava di fare 31.
Ed ecco, così, che arriva la proposta shock della premiata ditta Rixi/Salvini: fondiamo una grande Megaporti SPA; inizialmente ci teniamo la maggioranza (sennò la gente si stranisce) e poi, alla prima manovra che arriva dove ci tocca raschiare un po’ il fondo del barile (e cioè, d’ora in avanti, letteralmente ogni anno) ne vendiamo un altro pezzo per volta. Come con l’ENAV, l’Ente Nazionale per l’Assistenza al Volo, che gestisce in regime di monopolio tutti i servizi alla navigazione aerea civile nello spazio aereo di competenza italiana, anche qui prima c’era un commissariato, quindi un pezzo dello Stato. Poi è diventato un’azienda autonoma, che però era sempre un ente pubblico non economico; poi è diventata un ente pubblico economico e, infine, una società per azioni. Anche qui, inizialmente, tutte le azioni erano del ministero dell’economia e delle finanze fino a quando, nel 2014, il governo Letta la quota in borsa, ma ne mantiene comunque il 51%; fino ad oggi che, per raschiare il barile, l’ipotesi è cederne un altro 20% e incassare qualche spicciolo, con la differenza che ENAV – alla fine – comunque è un giocattolino da quattromila dipendenti e un miliardo scarso di fatturato, e con un mandato piuttosto circoscritto: garantire la sicurezza dei voli. L’entità dei porti è un ordine di grandezza superiore; già oggi, nonostante gli scarsi investimenti e la gestione spesso più che discutibile, generano poco meno di 10 miliardi e hanno una quantità di funzioni infinita, tutte strategiche: dai porti italiani, ricordiamo, passa infatti il 60% dei seicento miliardi del nostro export e, come scrive la rivista di settore Logistica News, “La privatizzazione potrebbe comportare l’ascesa di operatori portuali dominanti che, una volta consolidati, potrebbero imporre tariffe e condizioni” mettendo a repentaglio “la competitività globale del sistema portuale italiano”. D’altronde, come ci viene spiegato continuamente ovunque dagli analfoliberali, sempre meglio questo che gli insostenibili sprechi che si registrano ovunque ci sia anche solo l’odore della gestione pubblica; e il viceministro Edoardo Rixi è uno che a combattere gli sprechi ci tiene sul serio, soprattutto da quando, nel 2019, il tribunale di Genova l’ha condannato a tre anni e cinque mesi per aver distribuito, in veste di capogruppo al consiglio regionale ligure, “diverse centinaia di migliaia di euro” ai colleghi per rimborsare “cene, viaggi, gite al luna park, gratta e vinci, ostriche e fiori”, tutte certificate con ricevute “con importi modificati a mano”: “Le pezze giustificative” continua l’ANSA “si riferivano a periodi festivi come Natale, Capodanno, Pasqua e Pasquetta, 25 aprile e primo Maggio, giorni per l’accusa sospetti per svolgere attività istituzionale”. Tre anni dopo Rixi verrà assolto in via definitiva perché “il fatto non sussiste”.
Fintanto che i politici garantiscono di combattere gli sprechi regalando le infrastrutture agli oligarchi, a Capodanno si possono ingozzare coi soldi nostri di tutte le ostriche che vogliono; ed ecco, così, che la svendita di quel poco che ci rimane procede a grandi passi, spinta all’unisono da una lunga serie di scelte prettamente politiche: dalla reintroduzione del Patto di stabilità alle politiche monetarie restrittive della Banca Centrale. Il tutto rigorosamente spacciato dalla propaganda come inevitabile e ineluttabile buonsenso; peccato che, casualmente, sia sempre e solo il buonsenso dell’1% che detiene anche gli stessi mezzi di informazione. Per organizzare la resistenza a questa ennesima rapina organizzata, abbiamo bisogno di un mezzo di informazione tutto nostro che, invece che agli interessi delle oligarchie, dia voce a quelli del 99%; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Gentiloni

¡Desaparecinema! ep. 14 – La guerra fredda culturale in USA e in Europa (parte 1)

Vista la complessità e l’importanza dell’argomento – il soft power statunitense come non l’ho ancora mai affrontato prima – questa volta la puntata sarà divisa in due parti. Perciò iniziamo senza indugi.
Secondo molti dizionari il termine complottista sta anche a significare, ovviamente, “organizzatore di complotti”. E cos’è un complotto? Secondo la Treccani è un’ “intesa segreta tra poche persone, volta a rovesciare un potere”. Bene: oggi parliamo del complotto dei complotti perché è formato non da poche persone, ma da decine di migliaia – alcune delle quali neppure si rendevano conto di esserne complici (forse). Perché è stato ed è tuttora volto a imporre il potere dei poteri, quello imperialista statunitense sull’Europa e sul mondo, ma soprattutto perché, come il migliore dei complotti possibili, soddisfa in pieno questa ovvia massima di Richard Crossman, un politico laburista del secolo scorso e quindi figura centrale di un ramo segreto del Ministero degli Esteri britannico dedicato alla disinformazione durante la Guerra Fredda: “Il modo migliore per fare buona propaganda è non far mai apparire che si sta facendo propaganda”.

La battaglia controegemonica sui social

La battaglia per un’informazione libera è una battaglia cruciale. Il vecchio soft power attraverso cui gli americani, a suon di film e serie Tv, hanno addomesticato e colonizzato le menti delle classi popolari europee, non sembra più bastare e stiamo tornando alla censura vecchio stile e, in generale, ad un controllo senza precedenti sul web e social media. Cosa possiamo fare per contrastare questa deriva? E quali mezzi alternativi abbiamo per cadere trappola della svolta neo-autoritaria? Con Lorna Toon, Alessandro Monchietto (Idee Sottosopra) e Francesco Mizzau (Poets & Sailors).

L’Italia sta tornando fascista? Il soft power non basta più’!

Sempre più repressione e violenza caratterizza il regima neoliberista italiano di destra e di sinistra degli ultimi anni. Ne abbiamo parlato con Andrea Legni e Valeria Casolaro dell’Indipendente. Magistratura, parlamento e governi sono tutti coinvolti nella nuova deriva autoritaria del XXI secolo.