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Tag: poveri

DOVETE RIDARCI IL DENARO – il Rapporto Oxfam sul furto dei Super Ricchi che inchioda gli USA

Disuguaglianza, il potere al servizio di pochi: il titolo dell’ultimo rapporto di Oxfam dedicato al furto sistematico di ricchezza da parte degli uomini più ricchi dell’impero non poteva essere più chiaro; “Dall’inizio di questo decennio” sottolinea il rapporto “la ricchezza dei cinque miliardari più ricchi del mondo è più che raddoppiata, mentre quella del 60% più povero, non ha registrato nessuna crescita”. Ancora peggio è andata ai più poveri in Italia, dove “La ricchezza detenuta dal 20% più povero della popolazione” sottolinea il rapporto “nell’ultimo anno si è addirittura dimezzata” con il risultato che oggi l’1% dei più ricchi da solo possiede 84 volte il loro patrimonio. La conclusione di Oxfam è da veri ottoliner: “Siamo davanti a un bivio” scrivono; da una parte “un’era di incontrollata supremazia oligarchica” e dall’altra un “potere pubblico che riacquista centralità promuovendo una società più equa e coesa ed un’economia più giusta e inclusiva”. Il rapporto è stato presentato durante la giornata inaugurale dell’appuntamento annuale del World Economic Forum a Davos, dove era presente anche il nostro ministro Giorgetti col piattino in mano nel tentativo di convincere quelle stesse oligarchie a comprarsi un pezzetto di paese che hanno deciso di mettere in svendita; secondo voi, per quali delle due opzioni stanno lavorando?

Le “elevate e crescenti disuguaglianze di ricchezza che si riscontrano in tanti Paesi, a partire dal nostro” scrive Oxfam nell’introduzione al rapporto “rappresentano un tratto tristemente distintivo dell’epoca in cui viviamo”, ma non ci sarebbe niente di più erroneo – sottolineano – che “considerarle un fenomeno causale ed ineluttabile”. Piuttosto, continuano, sono la conseguenza ineluttabile di “scelte politiche” precise: da bravi ottoliner gli amici di Oxfam vanno dritti al cuore della questione e senza perdersi in moralismi astratti puntano il dito contro “la dinamica del potere”, quel potere materiale e concreto che ha accompagnato, attraverso la finanziarizzazione, una concentrazione mai vista della ricchezza che, a sua volta, ha inesorabilmente “incrementato le rendite di posizione e indebolito il potere contrattuale dei lavoratori”. “Una vera e propria redistribuzione alla rovescia” scrive ancora Oxfam “con un trasferimento continuo di risorse da lavoratori e consumatori a titolari e manager di grandi imprese monopolistiche, con conseguente accumulazione di enormi fortune nelle mani di pochi”. Pensavamo fosse il rapporto di una ONG; era uno dei nostri pipponi: la gallina dalle uova d’oro dei super-ricchi, spiega Oxfam, sono le grandi corporation che “in media, nel biennio 2021-2022 hanno registrato un aumento dei profitti addirittura dell’89% rispetto al periodo 2017-2020” e non era che un antipasto. I “nuovi dati relativi ai primi mesi del 2023” ricorda infatti Oxfam “mostrano come l’anno appena conclusosi sia destinato a superare ogni record, attestandosi come il più redditizio di sempre”. Complessivamente, infatti, 148 tra le più grandi società del mondo – e cioè quelle per le quali si hanno i dati – avrebbero realizzato circa 1.800 miliardi di dollari di profitti tra giugno 2022 e giugno 2023, un bel 52,5% in più rispetto al profitto medio registrato nel quadriennio che va dal 2018 al 2021.
Tra queste, in particolare, spiccano “Undici aziende farmaceutiche che hanno aumentato i propri profitti di quasi il 32% nel 2022 rispetto alla media del periodo 2018-2021, registrando profitti in eccesso per 41,3 miliardi di dollari nel 2022; ventidue società del settore finanziario che hanno aumentato i propri profitti del 32% rispetto alla media del periodo 2018-2021 e hanno realizzato profitti in eccesso per 36 miliardi di dollari nel 2023; due marchi di lusso i cui profitti hanno visto un incremento del 120% rispetto alla media del periodo 2018-2021 e quattordici compagnie petrolifere e del gas i cui profitti sono aumentati del 278% rispetto alla media del periodo 2018-21, registrando profitti in eccesso per 144 miliardi di dollari nel 2022 e 190 miliardi di dollari nel 2023”. Questa impennata senza precedenti proprio mentre l’economia cadeva a pezzi e l’inflazione dava una mazzata definitiva al potere d’acquisto dei comuni mortali – come prova a spiegare da due anni Isabella Weber – è stata resa possibile proprio “dalla concentrazione del mercato, che assicura posizioni monopolistiche, consentite dai governi”; il rapporto ricorda infatti come “A livello globale, nel corso di appena due decenni, tra il 1995 e il 2015, 60 aziende farmaceutiche si sono fuse in 10 colossi del Big Pharma. Due multinazionali controllano oggi più del 40% del mercato globale delle sementi (25 anni fa erano 10)”, e a dominare il mercato digitale sono una manciata di Big Tech con i “tre quarti dei ricavi globali dalla pubblicità online che arrivano nelle casse di Meta, Alphabet e Amazon, e oltre il 90% delle ricerche online che viene effettuato tramite Google”. Risultato: “Appena lo 0,001% delle imprese più grandi incamera quasi un terzo di tutti i profitti societari globali”. Lo 0,001%, e lo chiamano libero mercato.
Da un certo punto di vista, però, è libero davvero; di non pagare le tasse. Come ricorda il rapporto infatti “L’aliquota legale media sui redditi societari nei Paesi OCSE è a passata dal 48% del 1980, al 23,1% del 2022”: meno della metà (quando le pagano); come ricorda il rapporto, infatti, “Si stima che circa 200 miliardi di dollari vengano persi ogni anno a causa dell’elusione fiscale delle imprese multinazionali, con i paesi del Sud del mondo che tendono ancora una volta a subirne in maniera prevalente i contraccolpi”. I patrimoni sterminati dei supermegaricchi arrivano esattamente da qui: “nel 2022” ricorda infatti il rapporto “i 50 miliardari statunitensi più ricchi detenevano il 75% della propria ricchezza in azioni delle società da loro guidate”, vale a dire tutte; “L’1% più ricco al mondo” sottolinea infatti il rapporto “possiede attualmente il 59% dei titoli finanziari a livello globale”. Alla faccia dell’azionariato popolare.
I grandi azionisti, poi, hanno approfittato di questa gigantesca ondata di profitti da rendita di posizione monopolistica per aumentare la loro presenza nell’azionariato delle big corporation in modo spropositato: “Per ogni 100 dollari di profitti realizzati tra luglio 2022 e giugno 2023 da 96 tra le più grandi società al mondo” riporta infatti Oxfam “82 dollari sono andati agli azionisti sotto forma di dividendi o buyback azionari, consolidando così le posizioni di persone che occupano già, nella stragrande maggioranza dei casi, le posizioni apicali nelle nostre società”.
Nel frattempo, vista dall’altra estremità della piramide, la situazione appariva decisamente meno florida: secondo Oxfam, infatti, 791 milioni di lavoratori distribuiti su 52 paesi, nel biennio 2021 – 2022 “hanno visto un calo del monte salari in termini reali di 1.500 miliardi di dollari, equivalenti a poco meno di una mensilità per ciascun lavoratore”. Il rapporto poi si concentra sul caso italiano, ma la dinamica è esattamente la stessa: “Dall’inizio della pandemia” sottolinea Oxfam “il numero di italiani presenti nella lista dei miliardari di Forbes è passato da 36 a 63”; 63 persone che hanno visto il loro patrimonio passare da 149 a 217 miliardi, un bel +46%. Ma i più ricchi tra i super-ricchi potrebbero non essere gli unici a pensare che pandemia, guerre e inflazione hanno fatto anche cose buone: il numero di italiani titolari di un patrimonio superiore ai 5 milioni, infatti, è passato da poco meno di 81 mila a quasi 93 mila, e tutti insieme hanno visto il loro patrimonio crescere di 178 miliardi di dollari in termini reali; loro, l’urgenza di far ripartire la crescita e di riportare la pace in Europa mi sa che non l’avvertono poi più di tanto.
Il processo comunque è in corso già da prima, in particolare – te guarda a volte il caso – proprio dal 2008, la data ufficiale di inizio di quella che abbiamo imparato a definire la Terza Grande Depressione del Capitalismo Globale: prima di allora infatti, per un decennio – riporta Oxfam – “la quota di ricchezza del percentile più ricco degli italiani aveva registrato un calo” come, d’altronde, aveva subito una diminuzione consistente anche il famoso coefficiente di Gini, il più classico tra i misuratori della disuguaglianza. Dopodiché il disastro: lo 0,1% più ricco degli italiani, poco più di 50 mila persone, ha visto la sua quota di ricchezza – rispetto al totale nazionale – passare dal 5,5 al 9,4% e lo 0,01 addirittura dall’1,8 al 5. Triplicata. Nel frattempo, i redditi reali delle famiglie italiane si riducevano in media di un bel 5,3%; chissà perché non mi stupisce per niente…

E qui ecco che riparte la ramanzina del Marru; d’altronde, vi ho avvisato più volte: questa cosa la ripeterò all’infinito, fino a che non la capiscono anche i muri – o meglio, probabilmente non si tratta tanto di capirla (che non c’ho da insegnare niente a nessuno, e ci mancherebbe pure); si tratta di cominciare a darle tutto il risalto che merita perché è la chiave per capire tutto, senza la quale si continua a brancolare nel buio. Il grande furto delle oligarchie e l’era della diseguaglianza, infatti, hanno senz’altro millemila concause – e anche Oxfam ne elenca una lunga serie, tutte importanti; dalle politiche fiscali, al welfare, alle politiche del lavoro, ma ce n’è una che non cita e che invece, a nostro avviso, sovradetermina tutte le altre: la strategia che il superimperialismo USA ha adottato per contrastare il suo declino relativo a partire dall’inizio della Terza Grande Depressione. A quel punto – come ha dovuto ricordare anche uno non particolarmente sveglio come Federico Fubini sul Corriere della Serva la settimana scorsa – la quota di ricchezza globale detenuta dai paesi dell’Europa a 27 era più o meno allo stesso livello di quella USA; oggi l’economia USA è più grande di quelle europee di oltre il 50%, e il grande trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto in Italia e negli altri paesi europei – e quello epocale dall’Europa agli USA – non sono due fenomeni distinti e paralleli. Non sono nemmeno, semplicemente, collegati; sono letteralmente, almeno in buona parte, LA STESSA IDENTICA COSA, e messi insieme sono esattamente la risposta al più grande dei misteri che ci attanaglia da due anni a questa parte: come è mai possibile che le élite europee si facciano prendere a calci nei denti da quelle di oltreoceano senza proferire parola? Ecco perché: perché con la protezione del superimperialismo USA i capitali li portano negli USA via paradisi fiscali e poi li moltiplicano a dismisura senza fare assolutamente una seganiente, affidandoli ai giganti del risparmio gestito a stelle e strisce che li usano per gonfiare a dismisura le bolle speculative dello schema Ponzi della finanza USA; quindi noi che campiamo del nostro lavoro – e i capitali li possiamo esportare al massimo da Grottaferrata a Monte Porzio Catone – paghiamo le conseguenze dell’economia che ci collassa davanti. Quello scioperato del figlio cocainomane del nostro datore di lavoro, invece, via Isole Vergini Britanniche dà i suoi soldini a un fondo predatorio di private equity e accumula profitti – più o meno detassati – su profitti; quindi non è lui a prendere i calci nei denti dalle élite di oltreoceano: a prendere i calci nei denti siamo solo noi.
Certo, nel grande gioco del capitalismo globale anche lui non è altro che il bimbo scemo ma viziato da tenere buono con tanti bei regalini milionari, ma tutto sommato mi ci cambierei, come dire… E, soprattutto, non posso certo aspettarmi che sia lui ad alzare la testa al posto mio, che non solo come lui non conto e non posso contare una seganiente politicamente, ma che invece che regali milionari continuo a ricevere buste paga da terzo mondo. Ecco: fissarsi bene in testa il funzionamento del grande meccanismo complessivo che spiega tanto il rapporto di Oxfam come l’articolo di Fubini, come i tedeschi che si fanno radere al suolo un’infrastruttura strategica da un atto terroristico senza battere ciglio, come la Meloni che giocava a fare la sovranista e ora manda Giorgetti col cappello in mano a fare l’elemosina a Davos, di per sé ovviamente non cambia niente, ma magari ci aiuta a chiarire cos’è che esattamente dovremmo cominciare a pretendere, e cioè che ci restituiscano il nostro denaro, niente di più, niente di meno. Noi rivogliamo il nostro denaro. Se lo rivuoi anche te, aiutaci a costruire il primo media che dà voce a tutti quelli che sono stati derubati e ora pretendono di riavere indietro il maltolto: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Lorenzo Tosa (sì, cioè lo so, non c’entrava un cazzo qui Tosa, ma ho realizzato che in due anni non l’abbiamo praticamente mai offeso e ci siamo detti che era arrivato il momento di rimetterci un po’ in pari).

Cambiamento climatico: Chi sono gli eco-imperialisti?

Il disastro delle Marche è soltanto l’ultimo degli eventi atmosferici catastrofici che hanno caratterizzato questi ultimi mesi. La cronostoria degli eventi climatici che hanno travolto l’Africa centrale durante l’estate è un vero e proprio bollettino di guerra: dai 100 mila sfollati a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, ai 150 mila del Sudan. Secondo il coordinamento degli affari umanitari dell’ONU, il doppio rispetto soltanto all’anno scorso. In Kentucky ad agosto le inondazioni hanno causato 30 vittime, in Iran, a fine luglio, nell’arco di una settimana, 80.

Quisquilie: in Pakistan 8 cicli monsonici contro i soliti 3,4, hanno stravolto la vita di oltre 30 milioni, inondando circa un terzo dell’intero paese, e causando oltre 1500 vittime: “La peggior catastrofe umanitaria degli ultimi 15 anni” – ha dichiarato Sherry Rehman, ministro del cambiamento climatico. Perché ovviamente il tema è quello: il cambiamento climatico.

Perché se è vero che nessun evento atmosferico catastrofico può essere linearmente e semplicemente ricondotto all’innalzamento di 1,1 gradi della temperatura media globale, mettendo in fila i puntini ad un certo punto anche al ragionier Fantozzi venne un leggero sospetto.

Il bello è che il problema non è che piove troppo: è che piove troppo poco! Terna ha comunicato che la produzione idroelettrica ad agosto è calata di oltre il 40%. Idem in Cina, dove il corso principale del fiume Yangtze, che da solo da da bere a 400 milioni di persone, è arrivato ad essere il 50% più basso della media degli ultimi 10 anni e dove il calo della produzione idroelettrica ha costretto alla chiusura fabbriche-città come quella della Toyota e della Foxconn. In Germania la siccità ha reso sostanzialmente impossibile utilizzare il fiume Reno per i trasporti commerciali. Henry Ford nel 1930 aveva deciso di aprire la prima fabbrica Ford in Europa a Colonia proprio perché poteva trasportare le auto via fiume verso il porto di Anversa. Per decenni 5 navi hanno fatto la spola, trasportando 500 veicoli a volta: hanno dovuto ridurli a 150, altrimenti le navi si incagliavano. I problemi di navigabilità del Reno da soli si stima costeranno alla Germania mezzo punto di PIL tondo tondo. È la peggiore siccità da 500 anni, si stima e il record non risaliva a 50 anni fa, ma a 4, al 2018.

D’altronde, ha fatto caldino: secondo il centro europeo di monitoraggio climatico, l’estata più calda mai registrata, + 0,8 gradi rispetto anche all’anno scorso, che già aveva fatto registrare temperature record. L’unica soluzione realistica l’hanno adottata a Bajardo, in provincia di Imperia: hanno assoldato un rabdomante. “Di scientifico non c’è nulla, lo so – ha spiegato il sindaco – ma due delle nostre cinque sorgenti si sono seccate negli ultimi mesi. non sapevo dove sbattere la testa. Un po’ come quando si ha una malattia e si è disperati: si provano tutte”.

Sarebbe meglio concentrarsi sulle cose che sappiamo possono dare qualche risultato a partire da mettere in sicurezza il territorio. 

Torniamo alle Marche e a quel maledetto fiume Misa. A maggio 2018 erano state bandite due gare d’appalto per la manutenzione del fiume per complessivi 2,5 miliardi. C’erano da rifare gli argini, da togliere i detriti, da adeguare gli scarichi e le paratie, ma ad oggi i lavori sono terminati solo su una porzione minuscola rispetto al previsto. I quattrini hanno preso altre vie. Per la gestione degli appalti a giugno erano scattate le manette per ben 8 funzionari. Capi d’accusa: corruzione e turbativa d’asta. 
Più in generale è il “piano nazionale per la mitigazione del rischio idrogeologico”, che, letteralmente, fa acqua da tutte le parti. Lo ha certificato l’ottobre scorso la relazione di Rossanna Rummo, consigliera della corte dei conti: “la capacità progettuale delle regioni e la scarsa pianificazione del territorio restano criticità non risolte”. Secondo Massimo Gargano dell’associazione nazionale dei consorzi di bacino: “per ogni euro che si potrebbe spendere in prevenzione, se ne spendono cinque in interventi di emergenza”. 

Senza contare il costo inestimabile delle vittime.

I soldi, in teoria, ci sarebbero. 14,3 miliardi, stanziati ormai 4 anni fa e da spendere entro il 2030, ma ad oggi siamo al palo. In Italia quando si dice che una cosa è da fare entro solitamente significa alla cazzo di cane la settimana dopo la scadenza. Con i fondi europei, ad esempio, è la regola. È andata comunque meglio che al piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici: è stato completato nel 2017, ma è ancora in attesa di autorizzazione. Nel 1984 frane e alluvioni costarono al nostro paese 87 milioni, aggiustati al valore di oggi. Dal 2011 non si è quasi mai rimasti al di sotto del miliardo. Conto complessivo: 51 miliardi; campioni d’Europa, davanti ai 36 della Germania e ai 35 della Francia.
Insomma, al di là dei massimi sistemi ci mettiamo sempre del nostro, ma le due cose, ritardo nella lotta ai cambiamenti climatici e incapacità di adattarsi e prendere le cautele necessarie, non sono così separate come appare: entrambe sono frutto di una sistematica e in parte fisiologica sottovalutazione di cosa siamo chiamati ad affrontare. Non ci arriviamo e ancora meno ci arrivano le istituzioni delle quali la specie umana ad oggi è riuscita a dotarsi: la mano invisibile del Mercato, da un lato, e la competizione geopolitica o alleanze militari tra Stati nazionali, dall’altro, molto semplicemente non sono all’altezza e rischiano di fare buchi più grandi della toppa. In un mondo caratterizzato da disuguaglianze intollerabili, le nostre classi dirigenti, che piano piano stanno realizzando come il contrasto al cambiamento climatico non sia più rinviabile, più che ad affrontare il problema in sé, sembrano occupate a trovare il modo per scaricare tutti i costi su chi se la passa già maluccio ed aumentare i guadagni e il potere di chi se la passa già alla grande.
Poi si dice che la gente comune si rifugia nel complottismo e non accetta la verità della scienza! Ma te guarda: se strumentalizzi la scienza per trovare un altro modo per fregarci, ti dovrei dire anche bravo? Le conseguenze le abbiamo viste chiaramente noi di Ottolina. Un paio di giorni fa abbiamo pubblicato un estratto dell’intervista che avevamo fatto a luglio al climatologo Luca Mercalli.  Apriti cielo!
“Che schifo! Ma sto tipo non si rende conto di quello che dice?”; “pessima trasmissione e pessime domande”; “dal World Economic forum è tutto, a voi la linea”; “perché non dite delle scie chimiche dei jet?”; “Ottolina, state abbracciando il gretinismo e l’élite satanica del new world order?”.
Certo, uno potrebbe limitarsi a puntare il dito contro i complottismi che ostacolano le sorti progressive della scienza e del buon governo delle democrazie liberali illuminate, ma per quello c’è già Carlo Calenda.  Noi invece vorremmo provare a fare un passetto in più, perché a differenza di Carlo Calenda questa roba ci riguarda da vicino. Il punto è che la totale irresponsabilità di chi detiene il potere rischia di essere in assoluto l’ostacolo più grande in questa sfida esistenziale per la specie umana anche perché una sfida del genere non può essere vinta soltanto imponendo qualche cambiamento dall’alto, ha chiaramente bisogno di una rivoluzione copernicana nello stile di vita di ognuno, ma chiedere sacrifici a chi di sacrifici ne ha sempre fatti, mentre dall’altro lato riempi le tasche di chi le ha già stracolme e magari mi percula pure perché si nutre solo di prodotti bio a chilometro zero che costano 15 volte di più quelli del supermercato e si muove solo in bici perché tanto vive di rendita e non ha mai lavorato mezz’ora in vita sua, non solo è ingiusto, ma è proprio poco realistico.

Idem sul piano internazionale. È inutile che in campagna elettorale mi presenti il tuo libro dei sogni per la transizione ecologica, con l’impegno a tappezzare il paese di pale eoliche e pannelli fotovoltaici, e poi ti arrapi di fronte alla guerra. Se non esiste il socialismo in un solo paese, figurarsi la transizione ecologica. La lotta ai cambiamenti climatici può ottenere qualche risultato se la fanno tutti, ma se te a tutti fai la guerra commerciale, la vedo dura.

Lo hanno sottolineato chiaramente i leader dei paesi che si sono riuniti la settimana scorsa a Samarcanda per il summit annuale della Shanghai Cooperation Organization e che rappresentano metà popolazione mondiale. Hanno riconosciuto le implicazioni catastrofiche del cambiamento climatico e hanno ribadito il bisogno di adottare misure urgenti straordinarie, ma hanno anche detto che – cito -: “misure unilaterali coercitive minano seriamente la cooperazione multilaterale e indeboliscono la capacità dei singoli paesi di affrontare i cambiamenti climatici”. Tradotto: se pensate di sfruttare la catastrofe climatica per imporci misure che fanno comodo a voi e impediscono a noi di ridurre il divario nei vostri confronti, accomodatevi! 

Senza questa cooperazione multilaterale, i libri dei sogni degli ambientali imperialisti si trasformano come d’incanto in carta da cesso. Lo sa bene il ministro dell’economia e della protezione climatica tedesco, Robert Habeck, presidente del partito ambientalista e uno dei più convinti sostenitori del coinvolgimento europeo nella guerra ucraina, a causa del quale ha dovuto dare il via libera al ritorno del carbone e anche della lignite, che è la fonte energetica di gran lunga più inquinante del pianeta.
Per ripartire col piede giusto c’è solo un’opzione sensata: andare a prendere le risorse laddove ci sono, a partire dall’industria fossile, a partire dall’Italia. In Italia ad oggi Eni, Shell e Total estraggono ogni anno dal nostro sottosuolo 4,8 milioni di tonnellate di petrolio e 3,5 miliardi di metri cubi di gas, su cui dovrebbero pagare delle royalties, ma dal 1998 ad oggi lo Stato ha incassato in tutto poco più di 5 miliardi. Niente. Lo Stato italiano applica infatti royalties che vanno dal 4 al 10%. In Germania, nello Schleswig-Holstein, il principale territorio tedesco per estrazione di fonti fossili, l’aliquota è del 21, nonostante i costi di produzione siano sensibilmente superiori a quelli medi italiani. Se avessimo fatto altrettanto, oggi avremmo in cassa poco meno di 13 miliardi e ai prezzi attuali, con 13 miliardi, ci fai nuovi impianti per 15 GW, il 12,4% della potenza lorda attualmente installata.

Che ci fanno un po’ schifo si può dire o anche quello è complottismo?