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Tag: potere

¡ Desaparecinema ! (ep. 4) – Luigi Magni, l’uomo che non serviva a nessuno

“Ho concentrato tutto il mio cinema su Roma e sul potere temporale che è stato uno dei più assurdi e dei più inconcepibili della storia umana. E siccome questo potere stava a Roma, questo mi ha dato modo di usarlo come simbolo del potere”. Ve lo immaginate oggi un regista italiano de sinistra fare film cattivissimi e politicamente scorretti contro il vero potere, rigorosamente mai su commissione, come li faceva l’autore italiano di queste parole? Ve lo immaginate Nanni Moretti dire finalmente davvero qualcosa di sinistra? Io no.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Antrop8lina – Stregoneria: donne contro il potere – ft. Alessandra Ciattini

Nuovo appuntamento con Antrop8lina, la rubrica di antropologia, storia e archeologia di Ottolina Tv. Torna, insieme al nostro Gabriele Germani, la mitica Alessandra Ciattini per parlare di stregoneria e magia nel passato e nel presente, fuori e dentro il contesto occidentale. Non vi rimane che guardare questa bella puntata. Buona visione!

INFLAZIONE: come la speculazione sta distruggendo il tuo salario – ft. Marco Veronese Passarella

Per la rubrica intervist8line, torna un volto noto agli ottoliner più sfegatati. Parleremo di economia ed in particolare di inflazione e di come, specialmente in Italia, questa ha corroso il potere d’acquisto negli ultimi 30 anni. Ne abbiamo parlato con Marco Veronese Passarella, professore associato dell’Università degli studi dell’Aquila (qui il suo sito).

PIAZZE PIENE: gli italiani si stanno finalmente rivoltando?

In questi giorni abbiamo tutti davanti agli occhi le immagini degli agricoltori che mettono a ferro e fuoco la piazza del Parlamento Europeo: la ragione è protestare contro le politiche comunitarie che da decenni danneggiano le produzioni agricole nazionali. E non è certo un caso isolato: dalla Francia alla Germania agli Stati Uniti, negli ultimi due anni stanno finalmente tornando le mobilitazioni e le proteste di piazza. È da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, infatti, che la storia sembra essersi rimessa in moto e che anche i popoli occidentali sembrano essersi come risvegliati dallo spaesamento generale e dalla passività generalizzata; anche gli italiani, alla faccia dei disfattismi snob e del pessimismo di maniera, dalle manifestazioni femministe a quelle contro il massacro del popolo palestinese – passando per la rivolta dei trattori di questi giorni – sembrano finalmente essersi rimessi in marcia. Certo, siamo ancora lontani dalle proteste e dalle mobilitazioni sociali a cui eravamo abituati nel Novecento, ma l’impressione è che una fiamma sia finalmente rinata da sotto le ceneri e – la nostra convinzione – è che sia destinata solamente a ingrandirsi.

Filippo Barbera

Non sarà un processo né semplice né scontato: tre decenni abbondanti di cultura neoliberista hanno infatti minato alla radice la portata di quel grande dispositivo democratico che è la mobilitazione popolare di massa; è quello che sostiene anche Filippo Barbera, professore di sociologia all’Università di Torino, nel suo Le piazze vuote, ritrovare gli spazi della politica dove, però, ci vengono indicate anche alcune ricette pratiche per invertire definitivamente questa tendenza. Una riflessione più che mai necessaria proprio in questo periodo, ora che il dominio incontrastato delle oligarchie mostra ogni giorno di più tutte le sue contraddizioni e tutta la sua insostenibilità; senza un ritorno al conflitto sociale non potrà mai esserci nessun autentico risveglio democratico e il futuro, per quanto incerto, rimarrà proprietà dei sempre più pochi che potranno comprarselo.
“Peccare di silenzio, quando bisognerebbe protestare, fa di un uomo un codardo” affermava una volta la poetessa americana Ella Wheeler Wilcox: in questi giorni, decine di migliaia di agricoltori e piccoli imprenditori del settore agricolo si stanno riversando per le strade di tutta Europa per protestare contro le politiche suicide che da decenni, in nome del libero mercato, i governi stanno conducendo contro le produzioni agricole nazionali. In Italia, martedì scorso sono arrivate persone da tutta la Lombardia a Melegnano dando il via a un presidio, durato 5 giorni e 5 notti, per rivendicare una reale tutela dei prodotti nazionali e per opporsi all’aumento del prezzo del gasolio; sia i governi nazionali che l’Unione Europea, spaventati dalla portata di queste proteste, si stanno adoperando in fretta e furia per capire come arginare la rivolta venendo incontro alle loro richieste. Tutto questo ci dovrebbe essere di grande insegnamento, perché se la stessa forza e determinazione degli agricoltori fosse stata dimostrata negli scorsi anni da tutti per protestare contro l’abolizione del reddito di cittadinanza, il taglio delle pensioni e, in generale, contro lo smantellamento dello stato sociale e della nostra sovranità democratica, probabilmente non ci troveremmo nel disastro attuale. Ma come mai questo non è avvenuto?
Come ha scritto più volte anche la filosofa Donatella di Cesare, da anni il pensiero dominante neo -liberale di destra e sinistra cerca di demonizzare le mobilitazioni di piazza facendole apparire intrinsecamente inutili, così da scoraggiare qualsiasi forma di protesta anche contro le riforme più profondamente antidemocratiche e antipopolari; in verità, invece di ascoltare i soliti inni alla resilienza e all’inutilità dell’azione, dovremmo ficcarci in testa che nella storia sono da sempre solo e soltanto le rivolte popolari ad aver creato le occasioni di una vera rigenerazione politica. Rispetto al Novecento, però, oggi ci troviamo di fronte ad alcune difficoltà tutte nuove e difficilmente aggirabili e la prima, fondamentale, è la capacità di individuare con chiarezza chi sia concretamente il nemico sociale e il giusto bersaglio delle nostre potenziali mobilitazioni. Una prima domanda che ci dobbiamo porre è: chi detiene davvero oggi il potere? “Siamo abituati a concepire la rivoluzione in termini molto novecenteschi, in cui si cerca un luogo, un Palazzo d’inverno, dove prendere il potere” scrive, appunto, su Jacobin Italia Donatella di Cesare, “ma oggi” continua “c’è una difficoltà a individuare il potere perché non ha volto e indirizzo. Come va attaccato il potere? Oppure non va attaccato ma destituito? O il punto è tentare di sottrarsi al potere?”

Donatella di Cesare

Con la crisi della sovranità democratica degli stati nazionali che, nel novecento, hanno rappresentato il teatro per eccellenza dei conflitti sociali, e con l’avvento di un’oligarchia transnazionale abilissima a nascondersi dietro presunti anonimi meccanismi di mercato, negli ultimi anni era diventato sempre più difficile per la gente comune individuare il reale potere da combattere, ma con lo scoppio della guerra in Ucraina e le nuove prospettive multipolari che si stanno affacciando, sta diventando sempre più chiaro ai popoli europei che sono l’imperialismo americano con l’esportazione della sua cultura neoliberista e il potere economico delle sue oligarchie finanziare a dover essere considerate oggi come il nemico principale, così come sempre più chiara si fa la necessità di abbattere o trasformare radicalmente le istituzioni internazionali strumentali a questo dominio. Oltre a queste trasformazioni del potere, il sociologo Filippo Barbera dà un’ulteriore spiegazione dell’impoverimento della partecipazione politica attiva e della mancanza di conflittualità sociale dal basso: nel suo ultimo libro Piazze vuote, Barbera fa infatti un’analisi della contrazione degli spazi pubblici in Italia, sia mentali che – soprattutto – fisici; un tema, quello degli spazi e dei luoghi fisici dove la politica democratica può concretamente svolgersi, costantemente sottovalutato dal dibattito pubblico.
Nell’epoca fordista il capitalismo industriale era incorporato dalla fabbrica e questo spazio, costruito per controllare e sfruttare in maniera scientifica il lavoro umano, ha incubato il movimento operaio e ha portato questo gruppo sociale a sviluppare forme di riconoscimento, solidarietà, e identificazione politica; le trasformazioni tecnologiche e organizzative del capitalismo neoliberista hanno mutato profondamente questo scenario frammentando il processo di produzione e, di fatto, impedendo la creazione di una coscienza collettiva comune nei nuovi dominati. Ma le sofferenze e le rivendicazioni individuali, riflette Barbera, non potranno mai tradursi in un senso politico comune se mancano gli spazi che creano condivisione e legami sociali. Viviamo nell’epoca in cui tutto, anche la politica, sembra oramai poter vivere in dimensioni immateriali e digitali, ma il senso comune che si crea in questi spazi è inevitabilmente creato artificialmente e manipolato da chi media e social media li controlla: “Se manca l’intermediazione politica, la narrazione unificante, gli spazi pubblici e organizzativi – in altre parole se manca la politica -“ afferma Barbera in un’intervista rilasciata alla testata Esquire “il bisogno di futuro rimarrà inevaso o, al meglio, imposto da chi ha verso chi non ha”. E sinceramente, conclude Barbera “ un mondo dove il futuro prende la forma dei desideri solo di Elon Musk… non mi piacerebbe”; intendiamoci – precisa Barbera – oggi non è che non ci si veda più dal vivo, ma tuttavia la nostre interazioni in presenza hanno sempre meno una finalità politica, consistono cioè sempre meno in un rituale dove si esprime un noi collettivo e una volontà condivisa di trasformare la realtà in cui si vive. “Dalla movida al deserto il passo è stato breve” continua Barbera; si è passati cioè in modo quasi automatico “dalla privatizzazione degli spazi in forma di birrette e spritz come argine a una generazione angosciata da prospettive future nerissime, alla teorizzazione dello spazio digitale quale unico vero spazio di partecipazione” e questo processo ha comportato “un’individualizzazione estrema che diviene un abbandono del corpo, del proprio come di quello collettivo.”
Ad andare in crisi, oltre agli spazi pubblici come centri sociali, case del popolo, consigli di fabbrica, etc. etc., sono stati anche partiti, associazioni, gruppi e centri di ricerca, ossia gli spazi organizzativi intermedi in cui si formavano e selezionavano anche le classi dirigenti e questo, oltre che scoraggiare la partecipazione attiva e creare un senso comune completamente artificiale, ha comportato un generale impoverimento e abbassamento della qualità delle classi dirigenti. Il confronto tra il presente e quanto accadeva al tempo della Prima Repubblica è impietoso: allora, scrive Barbera, “il discorso politico era il terminale ultimo di un lungo percorso preparatorio di elaborazione dove politici, intellettuali e pezzi della classe dirigente lavoravano alla messa a punto di temi e argomenti in tempi e spazi dedicati”. Ma cosa resta, quindi, della partecipazione al potere dei cittadini quando la si priva di relazioni, spazi comuni e corpi intermedi? “Rimane solo la possibilità di comprarsela” risponde Barbera: rimane l’idea astratta del cittadino liberale e cosmopolita, dove le appartenenze culturali e il rapporto con la comunità circostante devono essere abbandonati. Dopo questa analisi severa ma senz’altro giusta, Barbera cerca poi di capire le condizioni per rendere possibile una nuova ondata di cittadinanza attiva e per la costruzione di un noi collettivo orientato al conflitto sociale: anzitutto, dunque, serve la fisicità; lo stare fisicamente insieme crea infatti obiettivi e ruoli condivisi tra persone che non si limitano a esercitare il conflitto come pura rivendicazione di diritti individuali – come avviene in gran parte oggi – ma si attivano collettivamente per l’innovazione sociale.

A questa descrizione corrispondono, ad esempio, le esperienze del collettivo di fabbrica GKN che, oltre ad essere diventato un vero e proprio laboratorio sociale, ha anche scritto un piano industriale assieme a un gruppo di accademici solidali e insieme alle comunità nelle aree abbandonate dalle multinazionali energetiche: queste esperienze sono esempi di come una domanda di futuro possa costituirsi al di fuori dei meccanismi politici ed economici neoliberisti. Tuttavia la domanda non basta: le piazze piene sono condizione necessaria ma non sufficiente per il cambiamento e quello che serve, in altre parole, è la politica rappresentativa – partiti, sindacati, ma anche movimenti e strutture che non si limitano all’azione dimostrativa, ma praticano il conflitto in forme costruttive e che siano in grado di costruire concretamente quel contrasto del quale gli ultimi hanno sempre avuto bisogno per trasformare le loro rivendicazioni in una progettualità concreta. E precondizione per tutto questo: un vero e proprio media, indipendente ma di parte, che dia voce concreta alla lotta 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Elon Musk

PER UN FEMMINISMO POPULISTA

Femminismo populista: è questa la formula che potrebbe forse sancire una fondamentale alleanza tra le battaglie femministe e quelle popolari per l’emancipazione del 99 per cento. E questo nuovo movimento rivoluzionario potrebbe partire proprio dal Sud America, dove il femminismo liberal occidentale non ha mai veramente attecchito e dove il popolo ha da sempre subìto – con ancora più violenza che da noi – l’imperialismo militare e culturale nordamericano e le rapine delle sue oligarchie finanziarie.

Luciana Cadahia

O almeno questo è quello che si augura Luciana Cadahia, filosofa femminista argentina che nel suo libro Per un femminismo populista si augura un cambio di paradigma politico nel campo popolare e nel campo femminista che porti ad unire battaglie sociali e civili e a creare un nuovo soggetto politico comune; una proposta ambiziosa che vede come ostacoli tanto l’eurocentrismo e il liberismo delle correnti femministe occidentali, tanto una tradizione socialista e populista che ha finora sempre rifiutato valori storicamente femminili come la cura, l’empatia e l’intelligenza affettiva. Una proposta che farebbe contenta anche Nancy Fraser – la più importante femminista americana contemporanea – che da anni si lamenta della deriva di alcuni movimenti femministi che invece di combattere il sistema neoliberale fondato sullo sfruttamento e la discriminazione di tutti, hanno alle volte dato l’idea di voler ridurre l’emancipazione della donna ad una mera competizione di genere per le migliori poltrone e posti di comando.
Un femminismo efficace – ci avvertiva infatti Fraser nel suo celebre libro Un femminismo per il 99 per cento – ha il dovere di “coordinare i suoi reclami e le sue proposte con il resto dei movimenti, i quali dovrebbero anche essi andare nella direzione del 99 per cento. Non dobbiamo considerare il movimento femminista, forzatamente, come la posizione privilegiata per l’azione politica, né come il nuovo soggetto storico di emancipazione. Il femminismo è essenziale, ma deve essere parte di qualcosa di più grande, di un progetto politico ancora più ampio”; e un populismo efficace, aggiungiamo noi, ha il dovere di liberarsi dai propri residui maschilisti e patriarcali e interiorizzare le battaglie e le visioni del mondo femminile per creare un grande campo politico comune.
Nel nostro dibattito pubblico sembrerebbe esistere solo il femminismo liberista alla Elly Schlein o alla Von Der Leyen, ma le cose non stanno affatto così: diffusosi a partire dalla Rivoluzione Francese ed essendo ormai presente quasi in tutto il mondo, questo straordinario fenomeno di emancipazione politica ha infatti assunto, in questi secoli, tante forme diverse e spesso anche in conflitto tra loro. A dominare però il nostro immaginario politico, soprattutto quello giovanile, è esclusivamente il cosiddetto femminismo liberal, diffusosi prima in America e poi Europa in concomitanza con la controrivoluzione neoliberista e che, come ci aveva già spiegato Letizia Lindi in un video di Ottosofia dedicato a Nancy Fraser, è fortemente criticato da altre correnti femministe. Nel loro libro/manifesto del 2019 Un Femminismo per il 99%, Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser ci spiegavano, ad esempio, come il femminismo liberal oggi dominante in Occidente, tradendo le sue ambizioni originarie, fosse diventato sostanzialmente un’ancella culturale del capitalismo: “Come femminista” scrive Fraser “ho sempre pensato che, combattendo per l’emancipazione delle donne, stavo anche costruendo un mondo migliore – più egualitario, più giusto, più libero. Ultimamente ho cominciato a temere che gli ideali ai quali le femministe hanno aperto la strada vengano utilizzati per scopi molto diversi”; “Una volta” specifica Fraser “il movimento delle donne aveva come priorità la solidarietà sociale, oggi” conclude amaramente “festeggia le imprenditrici”. Se prima si valorizzavano “la cura e l’interdipendenza umana”, oggi ci siamo ridotti a incoraggiare il mero “successo individuale”.
A partire dagli anni ’80, da componente essenziale della battaglia universale per l’uguaglianza, il femminismo europeo si sarebbe trasformato, secondo le autrici del manifesto, in semplice battaglia per le “pari opportunità di dominio” e concentrandosi solo sulla discriminazione di genere avrebbe, di fatto, taciuto e favorito forme ancora più universali e feroci di discriminazione economica. Per superare questa contraddizione, ci avverte ora Luciana Cadahia nella sua nuova opera, il femminismo europeo non dovrà arrovellarsi in nuovi convegni accademici da cui tirare fuori qualche astratta formula magica, ma contaminarsi con altre tradizioni femministe provenienti da tutto il Sud globale, a partire da quella sudamericana; in quanto militante femminista, ma in una prospettiva dichiaratamente popolare, la filosofa argentina Cadahia si pone quindi l’obiettivo di coniugare populismo e femminismo, due tradizioni politiche di contestazione sociale che giocano un ruolo preminente in quell’area geografica. Piccola parentesi: come si sarà già capito, per Cadahia il termine populismo non ha affatto quella accezione dispregiativa che ha assunto nella maggior parte dei nostri salotti televisivi: la filosofa argentina, in compagnia di sempre più intellettuali e forze politiche in ogni parte del mondo, non usa populismo per delegittimare tutte le forze realmente critiche nei confronti dello status quo, ma anzi per indicare quei movimenti ancora caotici e disordinati – ma potenzialmente emancipativi – che si pongono l’obiettivo di sostenere la lotta popolare contro le élites.
Ma perché, fino a questo momento, il campo populista e quello femminista hanno quasi sempre colliso senza dare vita a un soggetto politico comune e, quindi, molto più capace di incidere nella vita politica? Per due motivi fondamentali: per prima cosa, risponde Cadahia, la cultura patriarcale ha posto delle barriere culturali alla femminilizzazione del campo popolare, mettendo in secondo piano le rivendicazioni femministe o, comunque, non accogliendo e non interiorizzando molte delle sue riflessioni; riflessioni che non hanno a che fare solo con l’emancipazione femminile, ma con nuovi modelli politici tout court, ossia nuove visioni complessive e strutturali della società e del potere. La seconda ragione è che c’è stata una tendenza, da parte del femminismo, a separare la propria battaglia dagli altri conflitti che attraversano la società, come se esistesse solamente la discriminazione di genere e come se i nemici sociali delle donne discriminate e sfruttate fossero maschi economicamente altrettanto discriminati e sfruttati: “Non c’è qualcosa di narcisista” si chiede Cadahia “nel tentativo di svincolarsi simbolicamente dalle altre lotte contro l’oppressione? Partendo dallo slogan che il patriarcato permea tutto, finiscono per promuovere narrative che creano conflitti all’interno degli stessi settori popolari”; secondo Cadahia, in soldoni, il femminismo liberal europeo – autore di questo distaccamento – non vuole affatto emancipare le donne, ma piuttosto strumentalizzare le battaglie femministe per poi gettarle meglio tra le logiche dello sfruttamento capitalista, delle logiche disumane per maschi e femmine che vogliono ridurre l’uomo ad un indifferenziato atomo consumatore e che solo dosi da cavallo di propaganda e pubblicità fanno apparire come desiderabili. “Spesso il femminismo” riflette Cadahia “interiorizzando la mentalità patriarcale e rifiutando i propri valori ha pensato di emanciparsi adottando l’approccio competitivo ed individualistico dello spazio pubblico neoliberale”; il punto di forza dei movimenti femministi sudamericani invece, secondo Cadahia, sta in buona parte proprio nel voler valorizzare capacità e valori storicamente femminili per trasformare radicalmente la politica e il potere – e cioè spazi, ahinoi, storicamente maschili. Invece che demonizzare e disconoscere in toto la tradizione domestica della donna, il femminismo sudamericano, secondo Cadahia, vuole mettere al centro il riconoscimento pubblico di doti umane come l’empatia o di fattori politico – sociali come la cura, da sempre relegati in secondo piano dalla società patriarcale. Ed è proprio quindi sul tema della cura che Cadahia insiste, in alcuni dei passaggi più densi del libro, chiedendosi in che modo queste dimensioni tradizionalmente femminili possano uscire dallo spazio domestico e promuovere una trasformazione materiale della res publica; la funzione di cura, sostiene ad esempio Cadahia, non può più essere pensata come disgiunta a quella della vita politica, ma anzi ne deve plasmare le logiche fino a addirittura a trasformare lo Stato liberista in uno Stato, appunto, della cura.

Nancy Fraser

È dunque solo attraverso questa futura alleanza tra populismo e femminismo, capace di arricchire entrambe le lotte in una sintesi comune, che le battaglie popolari per l’emancipazione collettiva possono tornare ad avere successo; fino a quel momento, infatti, ha ragione la filosofa argentina a dire che si dovrebbe più giustamente parlare di plebe che non di popolo, mancando completamene una consapevolezza politica comune. Le èlite – e i media a loro servizio – cercano di ridurre il femminismo a una mera guerra di genere per le poltrone più comode e le posizioni di dominio migliori nel sistema neoliberale: l’audacia di Fraser, Cadahia e tante altre sta nel riconoscere che il femminismo è un fondamentale tassello della battaglia a tutto campo che dobbiamo condurre contro la cultura neoliberista e le ristrettissime oligarchie del nord globale. Un femminismo, appunto, per il 99 per cento, come il media di cui abbiamo bisogno se davvero vogliamo dare il nostro contributo affinché finalmente la plebe diventi popolo. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Hillary Clinton

Femminismo e rapporti di potere

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*pill8lina* Femminismo e rapporti di potere | Durante la rassegna stramba (link per la puntata completa: urly.it/3yncb), Giuliano dice la sua riguardo i fatti di cronaca di questi giorni e che sta alzando (e inasprendo) il conflitto sul tema femminicidio e patriarcato #femminismo #femminismointersezionale #patriarcato #giulia #filippoturati #questionedigenere #femminicidio #femminicidiostop

♬ suono originale – OttolinaTV – OttolinaTV

Durante la rassegna stramba, Giuliano dice la sua riguardo i fatti di cronaca di questi giorni e che sta alzando (e inasprendo) il conflitto sul tema femminicidio e patriarcato.

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