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La Cina reagisce all’aggressione della NATO e di rimbamBiden con portaerei e crescita economica

Un piano da guerra fredda: così il virgolettato a piena pagina con il quale il Corriere della serva riassumeva il summit NATO di Washington che si è concluso ieri; le parole sono del solito Stoltenberg che prima di lasciare il posto al successore ha voluto ribadire la sua aspirazione a compensare le intemperanze giovanili tra le fila della sinistra antimperialista accennando a quello che ha definito – appunto – il più vasto piano di difesa dalla guerra fredda. Mentre registriamo questo pippone non abbiamo ancora la versione ufficiale della risoluzione finale, ma tutti i media mainstream ieri pomeriggio davano per scontato che il summit sarebbe dovuto servire per mettere un eventuale Trump vincitore delle presidenziali di novembre di fronte al fatto compiuto di una roadmap irreversibile per l’ingresso dell’Ucraina nella NATO; tradotto: come sosteniamo dal febbraio 2022, l’idea che la guerra in Ucraina è soltanto uno dei fronti della guerra globale dell’impero contro il resto del mondo e che non potrà risolversi fino a che non finiscono di incendiarsi anche tutti gli altri fronti, e alla fine qualcuno vince.
L’impegno principale per provare a permettere all’Ucraina di resistere ancora un po’ alla superiorità militare russa riguarda gli F-16: secondo Zelensky ne servirebbero 130; per ora ne hanno promessi una quarantina. E’ un buon inizio, anche se ancora non si capisce chi li piloterà e come faranno a tenere al sicuro le infrastrutture necessarie per farli decollare e per mantenerli operativi. Come ricorda John Helmer sul suo blog, infatti, negli ultimi giorni “Il comando russo ha lanciato una nuova serie di attacchi missilistici contro gli aeroporti ucraini di Voznesensk e Mirgorod dove è previsto lo spiegamento degli F-16”; per aumentare la capacità di proteggerli, al summit sono state promesse diverse altre cose e l’Italia di Giorgia la patriota ha deciso di fare la sua parte: manderemo un altro sistema Samp-T e così rimarremo totalmente in balìa degli eventi, che non è proprio rassicurante perché nel frattempo, a quanto pare, ci staremmo attrezzando per ospitare sistemi missilistici a lungo raggio che la Russia non può che vedere come una minaccia più o meno diretta e che, in caso di ulteriore escalation (che è più facile avvenga che no), potrebbe considerare bersagli diretti. A quel punto, a difenderci ci sarebbero sostanzialmente soltanto – come sottolinea l’ex carabiniere Claudio Antonelli su La Verità – “missili Patriot che” però “non sono nostri ma sono dislocati in alcune basi NATO lungo la penisola”; tradotto: siamo totalmente in balìa di altri, dai quali dipendiamo completamente e dai quali non ci potremmo mai distinguere, pena diventare più vulnerabili di un gatto in tangenziale. Al che uno pensa: chissà i patrioti de La Verità come la prenderanno male ‘sta cosa! Macché: brindano felici. Il punto è che in cambio, a quanto pare, potremmo ottenere la nomina di un inviato speciale speciale per l’Africa e il Medio Oriente e che la scelta potrebbe ricadere su un italiano; insomma: i patrioti de La Verità accettano con gioia di “allinearsi ad est, ma almeno in cambio arriva un primo riconoscimento utile”. Ci riprenderemo l’Abissinia.

F-16

Visto che pretendere di essere uno stato indipendente e sovrano pare troppo, il sovranismo da balera accoglie con entusiasmo l’idea di diventare finalmente davvero la portaerei dell’imperialismo USA nel Mediterraneo e, in cambio, spera di ottenere qualche concessione coloniale; peccato che le colonie la vedano un po’ diversamente: come ricorda Foreign Policy infatti, sabato scorso “Burkina Faso, Mali e Niger hanno annunciato di aver formalizzato la loro Alleanza degli Stati del Sahel, giusto un giorno prima che il blocco regionale della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) tenesse un vertice nella capitale della Nigeria, Abuja, per discutere le modalità per riportarli nell’ovile”.
La beffa è che, ancora una volta, tutto questo sforzo che facciamo esponendoci senza ottenere niente in cambio con ogni probabilità servirà a poco o niente: “Il pacchetto di armi annunciato dalla NATO” ha commentato David Salvo del German Marshall Fund “aiuterà a mitigare la superiorità aerea russa, proteggendo città e infrastrutture civili, ma non certo a riconquistare territori”; più che a aumentare le possibilità di vittoria in Ucraina, tutta l’operazione in realtà sembra di nuovo volta a rendere l’Europa ancora più vulnerabile e ricattabile e costringerla, così, a contribuire a un altro fronte del quale sinceramente non ce ne potrebbe fregare di meno. Con la partecipazione straordinaria di Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda, il summit per celebrare i 75 anni dell’alleanza atlantica infatti è servito più che altro a formalizzare l’idea che la Cina, insieme all’Iran e alla Corea del Nord, rappresentano “un pericolo per l’Europa e la sicurezza” e l’unico modo per mettersi al sicuro è trasformare definitivamente la NATO, da alleanza difensiva per proteggere l’Europa, in un grande esercito globale a guida USA pronto a dispiegarsi ai 4 angoli del pianeta per ingaggiare una guerra totale contro chiunque si azzardi ad avanzare critiche contro la dittatura suprematista dell’ordine neoliberale: “A medio termine” chiarisce ancora John Helmer “il blocco NATO diventerà globale” e avanzerà “direttamente ai confini della Cina e dell’estremo oriente della Russia”. Peccato, però, che nessuno ce li voglia: il piano per l’accerchiamento della Cina, infatti, non sta riscontrando tutto questo successo. La prova provata è stato il finto summit per la pace in Ucraina che si è tenuto in Svizzera: a parte le semi-colonie USA, i paesi asiatici – nella migliore delle ipotesi – c’hanno mandato qualche funzionario di quart’ordine che voleva andare a respirare un po’ d’aria di montagna e nessuno ha firmato la risoluzione finale; nel frattempo piuttosto, paesi un tempo considerato fedeli alleati – dalla Thailandia alla Malesia – hanno fatto richiesta formale di adesione ai BRICS+. Ma tra tutte le innumerevoli defezioni, ce n’è una in particolare che pesa più di tutte: è quella dell’India di Modi che, ormai, sembra quasi divertirsi a triggerare le ex potenze coloniali; mentre a Washington si celebrava il summit NATO infatti, Modi, per la prima volta per un presidente indiano, ha scelto come destinazione per la sua prima trasferta ufficiale da presidente neoeletto, invece che un paese del sud asiatico, nientepopodimeno che la Russia del plurimorto dittatore e quando è atterrato ci mancava giusto si infilassero la lingua in bocca. Pochi giorni prima, Russia e India si erano sedute fianco a fianco al tavolo della Shanghai Cooperation Organization, dove avevano sdoganato ufficialmente tutti insieme appassionatamente un altro Stato considerato dell’imperialismo unitario uno stato canaglia come la Bielorussia.
Con l’India che fa i capricci e segna platealmente i paletti della sua indipendenza e sovranità, la strategia nell’est asiatico degli USA è costretta a una cambio di rotta piuttosto imponente; una volta esisteva il concetto inventato ad hoc dell’impero dell’Indo-Pacifico e il QUAD, la rete delle alleanze a guida USA incentrata – appunto – sull’India. Di questo passo, di Indo-Pacifico finalmente, come per magia, non sentirete più parlare: tutta la partita si sposterà ancora più verso est e, al posto del QUAD, come l’ha ribattezzato Andrew Korybko, sentirete parlare dello SQUAD, con un colosso come l’India sostituito da un peso piuma come le Filippine: non esattamente un progresso, diciamo. D’altronde, come ricorda anche (in un momento di rara lucidità) il sempre pessimo Stefano Stefanini su La Stampa, “Modi sta al gioco americano nel contenimento della Cina, ma non su questioni nelle quali ritiene che l’interesse nazionale indiano sia diverso dalle posizioni USA e europee. Ed è ormai abbastanza chiaro che questo atteggiamento sull’Ucraina sia condiviso da molti Paesi del Sud globale. Facciamocene una ragione” sottolinea realisticamente; tutto questo “non cambierà”, dall’India, all’Arabia Saudita. Secondo Bloomberg infatti, nonostante il vento di rinascimento renziano che spira dalla petromonarchia, i sauditi “avrebbero lanciato un altolà: se G7 e Ue sequestrano le ricchezze della Russia, l’Arabia Saudita potrebbe rifiutarsi di comprare titoli del debito francese e di altri Paesi europei (Italia inclusa)”; e la Cina dà più di un segnale di essere in grado di approfittare di questo allontanamento di tanti paesi considerati amici fino a ieri dal centro imperiale: in questi giorni, infatti, a largo dell’Isola giapponese di Miyako si sta tenendo una grande esercitazione internazionale capitanata dagli USA e che vede l’impiego di 40 navi di superficie, 3 sottomarini, 150 aerei e oltre 25 mila uomini in uniforme. Lo scopo dell’esercitazione – hanno affermato ufficialmente gli USA – è quello di “scoraggiare e sconfiggere l’aggressione da parte delle maggiori potenze in tutti i settori e livelli di conflitto” e il tutto si dovrebbe concludere col tentativo di affondare una nave statunitense in pensione da 40 mila tonnellate: un monito esplicito verso la Cina, visto che è l’unico paese (oltre gli USA) a possedere navi da guerra di questo tipo in quell’area di Pacifico, ma che non sembra aver spaventato troppo Pechino; in concomitanza con l’esercitazione imperiale, l’esercito di liberazione popolare infatti ha deciso di rilanciare e ha avviato un’altra esercitazione che vede coinvolta la portaerei Shandong scortata dal cacciatorpediniere lanciamissili Type 055 Yanan, dal cacciatorpediniere Type 052D Guilin e dalla fregata lanciamissili Type 054A Yuncheng.
Che prima o poi qualcosa vada storto è piuttosto verosimile e, con il clima che corre, evitare reazioni eccessive potrebbe essere piuttosto complicato; e in Giappone in diversi cominciamo a esprimere più di qualche perplessità: ovviamente l’insofferenza verso i venti di escalation, come sempre, parte da Okinawa, dove gli oltre 30 mila effettivi delle forze armate americane hanno una lunga tradizione di soprusi e di incomprensioni con la popolazione locale. Ultimamente la faccenda, però, rischia di sfuggire di mano un po’ come ormai quasi 30 anni fa, quando (nonostante i tentativi di censura) venne a galla la notizia dello stupro di gruppo da parte dei Marines di una bambina di 12 anni e i locals non la presero esattamente benissimo, diciamo: l’ultimo episodio risale al 25 giugno scorso, quando i media locali hanno pubblicato la notizia di un altro tentativo di stupro risalente a qualche mese prima; 3 giorni dopo è emersa la notizia di un altro tentativo di stupro. In entrambi i casi, i vassalli USA hanno cercato di nascondere la notizia e quando emersa è scoppiato un macello: “Ci hanno detto per decenni che l’esercito americano è qui per proteggerci” avrebbe affermato una delle leader delle mobilitazioni al South China Morning Post, “ma è vero il contrario. La gente è furiosa e spero che questo possa essere il punto di svolta per le basi di Okinawa”; e non è certo l’unico ostacolo alla militarizzazione del Giappone: “Le forze armate giapponesi non hanno mai combattuto una vera guerra” scrive Grant Newsham su Asia Times, “ma lo scorso anno sono riuscite comunque a subire una sconfitta schiacciante: hanno mancato del 50% gli obiettivi di reclutamento. L’anno prima, del 35%. E si sono confermate una forza vecchia, a corto di personale e oberato di lavoro”.
Insomma: anche a questo giro gli eredi del mascellone dimostrano di aver un fiuto infallibile per la cause perse e per le scorciatoie che portano inesorabilmente il paese allo scatafascio e non è certo questione di sinistra ZTL o finto-sovranisti, come dimostra il paese che – forse più in assoluto – sta vivendo un declino di una rapidità inimmaginabile, il capostipite di ogni colonialismo, il Regno Unito. Contro l’avanzata in tutto il vecchio continente delle destre reazionarie, in Inghilterra la settimana scorsa s’è affermato il labour, depurato da quello sprazzo di speranza che era stato per tutti noi il caro vecchio Jeremy Corbyn: alla faccia della democrazia, col 35% scarso dei voti ha conquistato il 65% dei seggi, che consegnano il paese a uno dei personaggi più repellenti della politica contemporanea, l’insostenibile Keir Starmer, persecutore di Assange in combutta con i servizi USA, fervente sostenitore dello sterminio dei bambini palestinesi, fiero oppositore di ogni ipotesi di tassazione dei super-ricchi e che ha inaugurato il suo nuovo incarico con un video super-cringe sui social dove si vede lui al telefono con Biden confabulare su cos’è necessario fare per ingaggiare la guerra contro la Cina nel Pacifico e che, nel suo debutto al vertice NATO, ha dato l’autorizzazione ufficiale a utilizzare missili inglesi per attaccare direttamente la Russia.
Il più pulito c’ha la rogna e sarebbe il caso di provare seriamente a mandarli tutti a casa prima che sia troppo tardi; per farlo, prima di tutto, ci serve un vero e proprio media che ribalti come un calzino la loro patetica propaganda e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Tony Blair

Gli USA convincono Giappone e Filippine a immolarsi per la sua Grande Guerra contro la Cina

“Stati Uniti e Giappone pianificano il più grande aggiornamento del patto di sicurezza da oltre 60 anni”; manco il tempo di fare un minibrindisino per la risoluzione che Cina e Russia, finalmente, sono riusciti a imporre agli amici del genocidio della Casa Bianca al Consiglio di sicurezza dell’ONU che ecco un altro fronte che si avvia inesorabilmente verso l’escalation, il fronte per eccellenza: “Biden e Kishida” annuncia il Financial Times “annunceranno una mossa per contrastare la Cina alla riunione della Casa Bianca del mese prossimo”. Quello che è in ballo è, appunto, il più importante aggiornamento del patto di sicurezza tra i padroni di Washington e il loro principale vassallo del Pacifico da quando, nel 1960, USA e Giappone firmarono il trattato di mutua difesa: un trattato edulcorato, almeno rispetto alle ambizioni dell’allora premier Nobusuke Kishi, il sanguinario amministratore della colonia della Manciuria ai tempi dell’impero, che venne salvato dagli USA in cambio della garanzia di trasformare il Giappone in un protettorato a stelle e strisce. La mobilitazione popolare lo costrinse alle dimissioni e il trattato venne rivisto al ribasso; e, così, il Giappone si rassegnò ad avere forze armate dedicate esclusivamente alla difesa e gli USA rinunciarono all’idea di avere il pieno controllo della catena di comando dell’alleato del Pacifico. Dopo 60 anni abbondanti di lavoro certosino, nel dicembre del 2022, intanto, è saltato in buona parte il primo tabù e il Giappone ha approvato una riforma radicale delle sue forze armate in chiave offensiva, che le dota – finalmente – di armi di attacco all’altezza della sfida cinese e che prevede di portare la spesa militare dall’1 al 2% di PIL.

Shinzo Abe

E’ l’eredita lasciata – prima di venire barbaramente assassinato – dalla buonanima di Shinzo Abe, nipote del gerarca Nobusuke Kishi e leader del Nippon Kaigi, la potente organizzazione clericofascista fondata dal nonno e che da decenni influenza profondamente la politica giapponese. Nonostante il riarmo, però – come sottolineava a suo tempo l’ex direttore per l’Asia orientale nel Consiglio per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden su Foreign Affair – il problema della catena di comando rimaneva: “Il Giappone” sottolineava, “per massimizzare l’efficacia di questa sua nuova postura, deve rafforzare la sua alleanza con gli USA”; ci è voluto un anno, ma ora, finalmente, ci siamo arrivati. E non è tutto, perché il Giappone sarà, a breve, più potente e aggressivo che mai e totalmente sotto controllo USA, ma è lontano.
Ed ecco allora la soluzione: facciamoci prestare le Filippine; dopo la parentesi multipolare e sovranista dell’amministrazione Duterte, con la presidenza Marcos le Filippine sono tornate alla loro vecchia condizione di portaerei dell’imperialismo USA nel cuore del Pacifico e hanno rimesso in moto l’EDCA, l’Enhanced Defense Cooperation Agreement – l’accordo di cooperazione rafforzata in materia di difesa che, sostanzialmente, permette alla marina militare a stelle e strisce di fare un po’ cosa cazzo gli pare. Siglato nel 2014 durante la presidenza filocolonialista di Aquino, prevedeva inizialmente 5 location dove far scorrazzare armi, navi e uomini USA a volontà e nessuna nella parte settentrionale dell’arcipelago, quella più utile per un’eventuale guerra con epicentro Taiwan; ora, fatto fuori Duterte, il piano torna in grande stile con 4 nuove location, tutte a un tiro di schioppo da Taipei e con anche un extra bonus: un nuovo porto nelle minuscole isole Batanes, a meno di 200 chilometri dalle coste di Taiwan. E visto che la flotta giapponese sarà, a breve, sostanzialmente eterodiretta da Washington, ecco che la relazione si allarga e diventa una bella threesome: a partire da novembre, infatti, Filippine e Giappone hanno avviato i negoziati per un accordo di accesso reciproco per le rispettive truppe: l’11 aprile prossimo i rispettivi leader sono entrambi attesi alla Casa Bianca per il primo trilaterale USA – Giappone – Filippine.
Nel frattempo, le provocazioni USA su Taiwan – con la vendita del sistema di telecomunicazioni militari Link 16 e la fuga di notizie sugli addestratori americani nell’isola di Kinmen, a 10 chilometri dalla repubblica popolare di Cina – continuano ad aumentare; ora rimane solo da convincere definitivamente i vassalli europei ad accollarsi la guerra di logoramento contro la Russia in Ucraina e dintorni e assicurarsi che il massacro dei bambini a Gaza non si trasformi in una dispendiosa guerra regionale, obiettivo talmente importante da obbligare gli USA, per la prima volta, addirittura a non mettere il veto in Consiglio di sicurezza, dopodiché, finalmente, gli USA si potranno concentrare a tempo pieno nella vera partita del secolo: la grande guerra del Pacifico contro il primo paese che ha osato superare la potenza economica del padrone del mondo. Prima di procedere con i dettagli di questo racconto inquietante, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola, ma vitale, battaglia contro gli algoritmi e anche di aiutarci a crescere iscrivendovi a tutti i nostri canali, compreso quello Youtube in inglese, e attivare le notifiche: non riusciremo a bloccare l’armageddon, ma almeno proveremo a dare un contributo affinché, mentre ci preparano la tomba, non ci prendano anche impunemente per il culo.
“La Cina ha continuato e intensificato i suoi tentativi di modificare unilateralmente lo status quo con la Forza” e nel contesto “più grave e complesso” scaturito da questa aggressività “dobbiamo rafforzare la collaborazione con le nazioni che la pensano allo stesso modo”: la bozza del Diplomatic Bluebook 2024, il documento che descrive le linee guida della politica internazionale del Giappone per l’anno venturo e che è stata anticipata alla stampa nei giorni scorsi, è una vera e propria bomba incendiaria, soprattutto perché anticipa lo spirito col quale il premier Kishida ha deciso di affrontare lo storico trilaterale dell’11 aprile organizzato da Rimbambiden e che, oltre a USA e Giappone, vedrà la presenza delle Filippine. Ma perché un’alleanza solida tra Filippine e Giappone è così fondamentale per la strategia USA? Ma come perché! Sembrano nate l’una per l’altra!
Per affrontare la Grande Guerra del Pacifico contro il Nemico Esistenziale del loro modello imperiale unipolare, gli USA – infatti – prima di tutto devono risolvere un problemino piuttosto impattante: in una lunga guerra convenzionale contro una potenza industriale delle dimensioni della Cina, alla lunga – dopo 40 anni di finanziarizzazione e di deindustrializzazione, infatti – sono inevitabilmente destinati a soccombere; gli USA, infatti, hanno smesso di produrre tante cose, ma – in particolare – hanno smesso di produrre navi. Cioè, continuano – ovviamente – a produrre navi da guerra, ma a un ritmo e a costi che vanno bene solo per tempi di pace; in caso di guerra, per affrontare le quantità richieste c’è solo un modo: convertire la produzione civile a militare. Cioè, non è che ti puoi inventare i porti, le banchine, la manovalanza, le linee produttive e tutta la filiera da zero; ci devi avere la produzione civile già sviluppata e convertirla alla produzione militare e, molto banalmente, quella produzione gli USA non ce l’hanno – non nel senso che non ne hanno abbastanza: proprio che non ce l’hanno del tutto. In tutto, in un anno, producono imbarcazioni per 73 mila tonnellate; la Cina per 26 milioni e, come abbiamo ricordato diverse volte, alla fine quello è l’unico parametro che conta davvero. Hai voglia te di convincerti delle vaccate dei suprematisti sui primati tecnologici e segate varie: una grande guerra del mare la vince chi produce più navi. Punto. Il resto e fuffa. E la Cina, da sola, produce metà delle navi prodotte nel mondo.
Fortunatamente per gli USA, però, l’altra metà è concentrata in due paesi amici: Giappone e Corea del sud, insieme, coprono sostanzialmente l’altra metà della produzione mondiale; al resto rimangono gli spiccioli. Quindi, il primo scoglio da superare è fare in modo che Corea del sud e Giappone siano senza se e senza ma nella partita. Facile, direte. Fino a un certo punto, perché una cosa è essere amici e volesse bene, un’altra è essere così amici che – non dico per vincere, ma anche solo per poterci sperare – dipendo interamente da te: siccome in ballo non c’è la coppa del dopolavoro ferroviario per un torneo di calcetto babbi contro figli, se io dipendo da te per vincere devo essere sicuro al 100% che fai tutto quello che dico io quando lo dico io e, tradotto in termini militari, significa che la catena di comando, alla fine, fa riferimento a me e soltanto a me – che, per la Corea del sud, in buona misura è già così.
Per il Giappone, paradossalmente, un po’ meno: nonostante il trattato tra i due paesi preveda il mutuo soccorso, le forze armate giapponesi, tutto sommato, sono sempre rimaste nella loro bolla, con una catena di comando a se; il primo punto, quindi, è superare questo ostacolo e rivedere il patto in modo che le forze armate giapponesi diventino, a tutti gli effetti, un braccio interamente gestito dalla testa a stelle e strisce e questo è quello che, appunto, si vuole ottenere con il più grande aggiornamento del patto di sicurezza da oltre 60 anni a cui accennavamo all’inizio. Per il Giappone si tratta di una scelta epocale, che lo destina a un futuro e di incertezze; e il bello è che a prendere questa scelta sarà un primo ministro che ha una percentuale di consensi di poco superiore al 20% (le grandi magie del mondo libero e democratico…). Comunque, dal momento che l’altro 80% non s’è saputo organizzare adeguatamente, per quanto schifato anche dai parenti, Kishida sembra poter portare a casa questo risultato senza troppi problemi.

Fumio Kishida

Facciamo quindi conto che il problema della produzione delle navi e della catena di comando sia risolto; rimane, però, il problema della geografia perché con gli arcipelaghi meridionali – fino ad arrivare a Taiwan inclusa – un pezzo di accerchiamento alla Cina è fatto, ma rimane tutta la parte più a sud: ed ecco qua che entrano in ballo le Filippine. Che le Filippine rappresentino una pedina fondamentale per il dominio del Pacifico occidentale, gli USA lo sanno da sempre e, infatti, da sempre hanno fatto in modo di tenerle sotto controllo e nel 2014, durante la presidenza Aquino, l’avevano scritto nero su bianco: in 5 località sparse per le Filippine gli USA possono manovrare di tutto e di più, a loro piacimento. Poi però, appunto, era arrivato Duterte, che questa storia di essere una colonia USA non è che l’apprezzasse tanto, ma quell’epoca sembra tristemente tramontata; il nuovo presidente, all’inizio, aveva promesso di continuare sulla linea di avvicinamento a Cina, Russia e Sud Globale del predecessore – anche perché, altrimenti, non avrebbe mai vinto – ma dal giorno dopo il suo insediamento ha cambiato linea. Le malelingue dicono sia ricattabile: durante il regime del padre, infatti, si mormora che la sua famiglia abbia imboscato, col sostegno USA, in vari paradisi fiscali sparsi per il mondo una decina di miliardi; “Alcuni osservatori” riporta Asia Times “sospettano che Washington possa aver allentato il controllo sull’enorme ricchezza illecita dei Marcos, in cambio di un maggiore accesso alle basi militari e una più profonda cooperazione in materia di sicurezza”. Ed ecco così che, come per magia, dalle promesse elettorali si passa alla consegna chiavi in mano del paese agli americani per trasformarlo nella testa di ponte per la grande guerra contro la Cina, cosa che sembra Duterte non abbia gradito particolarmente: “Abbiamo un presidente tossicodipendente e figlio di puttana” avrebbe dichiarato col suo solito rispetto del politically correct al limite della pedanteria.
In sostanza, le Filippine con Marcos hanno concesso agli USA 4 nuove basi; siccome la costituzione, sostengono molti, in realtà lo vieterebbe, hanno trovato questo escamotage: uomini e attrezzature non potranno essere stabili, ma dovranno ruotare (come se, di solito, non ruotassero e come se ci fosse qualcuno a controllare): una controllatina l’hanno data gli analisti dell’ATMI, l’Asia Maritime Transparency Initiative, e hanno trovato un sacco di sorpresine. Tutte le basi presenterebbero un’attività frenetica per lo sviluppo delle infrastrutture: “A quanto pare” scrive Asia Times “le Filippine stanno rafforzando in modo proattivo la loro deterrenza contro l’espansione della Cina nel Mar Cinese Meridionale a ovest, mentre si preparano anche a potenziali imprevisti nella vicina Taiwan a nord” e dall’11 aprile, appunto, tutto questo potrebbe diventare pienamente accessibile anche agli amici giapponesi; “La cooperazione trilaterale” scrive diplomaticamente il Global Times “potrebbe diventare una routine fissa e normalizzata in futuro, prevedendo esercitazioni militari, esercitazioni di sbarco sulle isole, pattugliamenti marittimi congiunti con altri paesi, e sfruttando la posizione delle Filippine nell’ASEAN per cercare di influenzare gli altri paesi dell’organizzazione multilaterale regionale”.
Al grande appuntamento per la threesome dell’anno, comunque, le Filippine hanno tutta la volontà di presentarsi il più agghindate possibile: “Oltre a fare affidamento sugli aiuti militari statunitensi” ricorda infatti Asia Times “le Filippine mirano a procurarsi moderni aerei da combattimento, sottomarini e sistemi missilistici strategici nell’ambito di un programma di modernizzazione militare da” – udite udite – “36 miliardi di dollari”; 36 miliardi di dollari per un paese che ha un PIL che non arriva a 450. Per capire l’entità: negli ultimi 2 anni abbiamo spalancato gli occhi di fronte al programma tedesco di riarmo da 100 miliardi di euro; ecco, in proporzione, le Filippine è come se ne avessero annunciato uno da poco meno di 400 miliardi. Oltre ai caccia F16 dagli USA e Saab Gripen dalla Svezia, Manila sta trattando per comprarsi pure i sottomarini; e non uno, ma tre, perché “Tre” hanno affermato pubblicamente “è un numero magico: uno in funzione, uno in addestramento e uno in riparazione/manutenzione” e, il tutto, rivolto minacciosamente contro la Cina. Le Filippine, infatti, hanno da pochissimo approvato una nuova strategia di difesa nazionale denominata CADCComprehensive Archipelagic Defense Concept – che sta per concetto globale di difesa arcipelagica e che, in soldoni appunto, vuol dire concentrare il grosso delle risorse verso la Cina e verso Taiwan; pronti per raggiungere le isole più settentrionali ci dovrebbero essere anche i nuovi missili da crociera supersonici BrahMos acquistati dall’India e che hanno una gittata di circa 900 chilometri e, sempre a partire dalle isole settentrionali, il prossimo mese USA e Filippine dovrebbero dare il via a un’esercitazione denominata Balikatan che dovrebbe coinvolgere circa 12 mila soldati americani e vedere in veste di osservatori la presenza, appunto, del Giappone e anche dell’Australia.
Insomma: si stanno scaldando i motori in attesa di essere un po’ meno affaccendati in altre faccende; intendiamoci, non che manchino gli ostacoli: prima che l’Europa – ammesso e non concesso riesca mai a farcela – possa, in qualche modo, essere autosufficiente nell’assistere l’Ucraina oggi e, magari, gli altri paesi dell’est europeo domani nella lunga guerra di logoramento della Russia, ancora ce ne manca e svincolarsi, per gli USA – se mai sarà possibile – sicuramente non sarà immediato. Basti considerare che mentre si cercavano di risolvere tutti i colli di bottiglia del Pacifico, a un certo punto gli USA si son accorti di essere messi così male da chiedere nuove armi per rimpinzare gli arsenali allo stesso Giappone, in particolare le batterie di Patriot; il Giappone ha obbedito immediatamente e siccome, in realtà, non poteva inviare i suoi missili Patriot negli USA, ha addirittura cambiato la legge in fretta e furia per far contento il padrone di Washington – che quindi, da un lato, significa che sulla fedeltà ci possono essere pochi dubbi, dall’altro però, appunto, significa che fino a che a provvedere ad armare l’Ucraina non ci penserà qualcun altro, anche col supporto di Tokyo la grande alleanza del mondo libero di tenere testa, sul piano industriale, al colosso produttivo cinese nel Pacifico potrebbe non essere in grado.
Qualche altro problemino potrebbe arrivare dai fronti interni in Giappone e anche in Corea del sud, due paesi che, ovviamente, hanno nella Cina – di gran lunga – il primo partner commerciale (la Corea del sud addirittura, caso più unico che raro, vantando addirittura un piccolo surplus commerciale): un giro di affari enorme messo fortemente a rischio dalla guerra commerciale scatenata dalla Casa Bianca e sul quale la Cina tenta di fare leva. A partire già dal lontano 1999, i 3 paesi tengono regolarmente degli incontri trilaterali – o meglio, tenevano: nel 2019, infatti, questa abitudine è stata interrotta; ma il bello è che è stata interrotta non a causa della Cina, ma per tensioni tra Giappone e Corea del sud. Inutile, comunque, farsi troppe illusioni: i rapporti tra i due paesi sono spesso tesi e i due popoli non è che si stiano proprio simpaticissimi, diciamo; ciononostante, gli USA hanno ancora una leva sufficiente a superare le divisioni e quando, nell’agosto scorso, li ha richiamati entrambi all’ordine con un incontro trilaterale sempre alla Casa Bianca, con la coda tra le gambe i due hanno fatto buon viso a cattivo gioco e hanno obbedito senza troppi distinguo. Più che ai mal di pancia di paesi che, comunque, si riconoscono pienamente nel capitalismo globalizzato e finanziarizzato garantito da Washington, conviene allora forse guardare altrove per trovare le vere debolezze di questo piano USA, a partire da Ansar Allah, che continua a tenere alta la preoccupazione per un’estensione del conflitto in Medio Oriente che rovinerebbe alla base tutti i piani di Washington – che è uno dei motivi che, appunto, lunedì ha portato gli USA a compiere probabilmente la più grande rottura nei confronti del fedele alleato sionista di sempre: per la prima volta dall’inizio della fase terminale del piano di pulizia etnica di Israele nei confronti dei gazawi, gli USA non hanno posto il veto al Consiglio di sicurezza a una risoluzione presentata dall’Algeria e sostenuta da tutti gli altri 13 membri (Regno Unito incluso) che impone un cessate il fuoco immediato e che gli USA si sono limitati a non votare astenendosi; ne è seguito il più importante scontro tra leadership USA e israeliana di cui ho memoria, con Israele che ha cancellato la visita programmata a Washington e Kirby che si è dichiarato molto deluso.
Gli USA, da dettare la linea senza troppi intoppi all’intera comunità internazionale, sono ormai sempre di più costretti a scegliere quale guerra ritengono essenziale per i loro interessi; e non è detto che gli basti: è il vero, grande, epocale segnale non solo che il Mondo Nuovo avanza, ma che, al netto di tutto, è già avanzato e che non saranno i vecchi media a darci gli strumenti per capirci qualcosa e attrezzarci per prendere le contromisure. Per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media tutto nuovo e che sia indipendente, ma di parte: quella del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini