Putin e i BRICS hanno fatto il miracolo: tra Cina e India è scoppiata la pace?
Il plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino ha davvero fatto fare la pace a Xi e Modi? In questo, che si annuncia inevitabilmente come il secolo asiatico, i rapporti bilaterali tra Cina e India sono – almeno nel lungo termine – probabilmente, in assoluto, i più importanti, il gigantesco elefante dentro la stanza che tanto la propaganda atlantista e suprematista quanto il grosso del cosiddetto mondo del dissenso fanno finta di non vedere; e le rare volte che vanno oltre questa rimozione appaiono piuttosto spaesati. Non dovrebbe sorprendere: di fronte a un problema talmente vasto e articolato da apparire sostanzialmente irrisolvibile, la rimozione rimane spesso l’unico escamotage psicologico per non uscire pazzi; accade col rischio di escalation nucleare, come con la crisi climatica. I rapporti tra Cina e India non fanno eccezione; il punto è che se l’ordine globale è stato messo completamente a soqquadro dall’ascesa economica cinese e si sta dimostrando del tutto incapace di assorbire 1,4 miliardi di persone che, in 40 anni, sono passati da vivere di agricoltura di sussistenza ad avere livelli di consumi comparabili con quelli del golden billion dell’Occidente collettivo, immaginare che il popolo indiano possa ambire a raggiungere standard di vita dignitosi rischia di essere platealmente velleitario. Per permettere anche all’India di intraprendere un suo percorso verso una qualche forma di prosperità collettiva, è inevitabile prevedere delle trasformazioni radicali del modello di sviluppo esistente e, quindi, anche del sistema monetario e finanziario globale e del modello di relazioni internazionali che gli fanno da cornice, ma siccome – come affermava Fisher – “È più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo”, di fronte a questo elefante nella stanza si preferisce girare lo sguardo e buttarla in caciara; e una volta che si è persa la capacità di valutare il contesto generale, anche l’analisi dei singoli episodi diventa, sostanzialmente, infattibile. Ed ecco, così, che quando a Kazan la settimana scorsa si è tenuto uno storico bilaterale tra Xi e Modi che, grazie alla sapiente mediazione di Putin, dopo 5 anni di congelamento dei rapporti ha ufficialmente riavviato le normali relazioni diplomatiche tra i due colossi asiatici, la nostra propaganda s’è riscoperta totalmente priva delle parole e delle categorie necessarie per comprendere la portata dell’evento, le sue cause e le sue conseguenze e ha preferito continuare a concentrarsi sul gossip.
Con questo pippone a 6 mani, insieme a Clara e Gabriele abbiamo cercato di ricostruire alcuni degli elementi principali che permettono di contestualizzare questo evento storico e di seguire gli sviluppi futuri del rapporto che, con ogni probabilità, più caratterizzerà il prossimo secolo; ma, prima di procedere, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per permetterci (anche oggi) di combattere la nostra piccola guerra contro la dittatura degli algoritmi al servizio della banalizzazione che la propaganda opera nei confronti delle grandi sfide dell’umanità e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi un direttore di un qualsiasi media mainstream a convincere i suoi giornalisti che l’annoso problema dei parcheggi in doppia fila per le strade della Capitale deve avere la priorità rispetto ai rapporti tra Cina e India, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a provare a capire qualcosa del mondo reale che, fuori dalle conventicole dei pennivendoli, continua a procedere come un caterpillar, incurante dei loro editoriali.
Partiamo da lontano, con una delle imperdibili Fiabe del Germani.
Gabriele
Piccolo approfondimento storico di uno dei rapporti più complicati di sempre: la storia dei rapporti tra Cina e India. Non bastasse il fatto che si è appena conclusa la settimana dei BRICS e che parliamo di due civiltà millenarie complicatissime e poliedriche, ho deciso di imbarcarmi in un ripassone storico per capire di che stiamo parlando, perché non possiamo capire la storia di questo quadrante di mondo senza prima capire i pregressi recenti: anche in Asia orientale, infatti, il colonialismo ha lasciato tracce indelebili, persino negli attori post-coloniali odierni. Questo è anche il caso dei rapporti tra i due giganti che andremo ad approfondire in questo caso. Avete presente quei video che vedete ogni tanto su YouTube di gente che si prende letteralmente a mazzate ad alta quota, per cui ogni volta pensate di avere un po’ le allucinazioni e un po’ di assistere al prossimo sport estremo con cui milioni di hipsters europei ci ammorberanno il feed di Instagram? Ecco, state tranquilli: nulla di instagrammabile; si tratta del fastidioso e lunghetto contenzioso di confine tra Pechino e Nuova Delhi. Il problema ha radici ben profonde e affonda addirittura al secolo precedente, quando Regno Unito e Russia si contendevano l’Asia Centrale (eh sì: se c’è una crisi nei tempi odierni, state pur sicuri che gli inglesi hanno qualcosa a che vederci); l’India era la perla dell’impero di Londra, grazie alla quale poté avviare la sua accumulazione di ricchezza, e la tutela delle vie – marittime e di terra – all’India era priorità per il Regno Unito. Dalla metà dell’Ottocento Londra sviluppò, così, una sorta di paranoia russofoba fomentata dai tentativi dei vari zar di avere uno sbocco ai mari caldi: avendo a disposizione le terre e le risorse russe tramite comode ferrovie collegate ai mari caldi, chi avrebbe più avuto bisogno dell’Inghilterra? pensavano i saggi analisti della corona di sua maestà a Buckingham Palace. Iniziò quindi quello che, con linguaggio poetico, abbiamo chiamato Il Grande Gioco, cioè la rivalità tra Russia e Regno Unito nei territori dell’Asia Centrale, motivo per cui l’Afghanistan diventò una sorta di Stato cuscinetto tra i possedimenti di Londra e Mosca. E indovinate un po’ chi si trovò in mezzo a questo giochino geopolitico dei tempi antichi? Proprio il confine tra India, Tibet e Cina. Non entreremo qui nel merito della questione tibetana, per carità di Dio: basti qui dire che Lhasa e Pechino hanno una dinamica interna plurisecolare e che serve qualcosa di più che aver letto un libro di Richard Gere o aver visto Sette anni in Tibet per esprimersi al riguardo; quindi, per comodità, ci limiteremo a dire che il confine tra India e Tibet è poi la linea di confine tra India e Cina e che al momento della colonizzazione britannica, pur disponendo il Tibet di una larga autonomia, era comunque soggetto all’amministrazione cinese (seppur assenteista e spesso contestata dai locali). Sul Tibet si concentrarono le ambizioni e – più che altro – le paranoie inglesi che, temendo un imminente arrivo russo, decisero di chiedere continue correzioni di confine; questa continua estensione dei confini, anche oltre il reale confine storico e geografico dell’India, portò a una serie di linee di confine diplomatiche (perlopiù fittizie) che gli stessi inglesi, dopo la Rivoluzione russa, lasciarono cadere nel dimenticatoio.
Ma, come si suol dire, rotte le uova, la frittata è fatta, cari ottoliner; e di tante cose, il colonialismo è proprio una stronzata (permettetemi di dirlo) con conseguenze nefaste e pluridecennali, spesso e volentieri. Così rimasero, tra India e Cina, una serie di confini contesi che dopo la seconda guerra mondiale, cacciati finalmente inglesi e giapponesi dai rispettivi Paesi, arrivarono in eredità agli Stati post-coloniali; così l’area settentrionale, al confine triplo tra Pakistan e India (altro enorme casino dell’eredità coloniale britannica) diventò teatro di ciclici scontri, e altrettanto accadde sul confine indiano nord-orientale, grossomodo sopra l’odierno Bangladesh che, all’epoca, era però parte del Pakistan. Il primo conflitto si ebbe sul finire del 1962: i combattimenti furono dalla Cina all’area orientale del Kashmir e morirono circa 2000 uomini, per concludersi con una piccola vittoria cinese; i belligeranti accettarono quella che rimase come la Linea di Controllo Effettivo, il confine di fatto tra Pechino e Nuova Delhi lungo l’Himalaya. La Cina ottenne avanzamenti nella parte occidentale del Ladakh, mentre non ci furono grandi cambiamenti nel segmento più orientale nel Sikkim e nell’Arunachal Pradesh, l’area forse più preziosa in termini economici e geopolitici: in questa zona, un accordo per delimitare in chiave convenzionale il confine, seppur formalmente provvisoria per ambo le parti, è giunto solo negli anni novanta. L’11 settembre del 1967 altri scontri si verificarono lungo i confini e, così, anche nelle settimane a seguire. Negli anni a seguire, la Cina avviò la sua politica di apertura economica e diplomatica al mondo: quando la Cina, nel 1978, sotto Deng Xiaoping introdusse le riforme per il socialismo di mercato, contava un PIL all’incirca pari a quello indiano; a distanza di meno di cinquanta anni non possiamo non notare i diversissimi sviluppi dei due percorsi.
Nel 1981, il pragmatismo cinese spinse Pechino a chiedere una completa normalizzazione dei rapporti lasciando temporaneamente sospesa la questione dei confini, punto che Nuova Delhi accettò di buon grado; anche nel 1987 si verificarono altri scontri lungo i confini orientali sino-indiani e, dopo alcuni scontri, entrambi i governi decisero di gestire le future crisi diminuendo i contingenti militari e stabilendo delle clausole militari a cui, nel tempo, si cumulò il non utilizzo in questi ambienti delle armi da fuoco (da cui le famose mazzate di cui sopra): per non far degenerare un conflitto armato tra potenze nucleari, indiani e cinesi hanno letteralmente deciso di prendersi a mazzate in testa. Ma se l’area del Ladakh era spopolata e così poco rilevante, all’India che importava che la Cina la prendesse? Per cominciare, parliamo di enormi catene montuose con enormi ghiacciai e fonti di fiumi, risorsa non proprio secondaria; ma, al di là di questo, proprio il controllo di questa regione permise alla Cina di avere un confine diretto con il Pakistan, suo migliore amico nella regione ormai da decenni; pensate oggi, con il corridoio sino-pakistano inserito nella nuova via della seta, quanto si è rivelato importante questo lembo di terra di confine. Quando parliamo di aree contese, poco importanti è sempre relativo e ciò che oggi non è rilevante può rivelarsi fondamentale tra qualche decennio. Intanto il Sikkim, la regione che separa il Nepal dal Buthan – anch’essa contesa a inizio millennio – è stata dichiarata come non più un problema tra India e Cina da Wen Jiabao nel 2005; nonostante i due Paesi siano entrambi membri dei BRICS e collaborino a livello internazionale su più livelli e siano ottimi partner commerciali, hanno avuto più volte incidenti di confine nel 2014, 2015 e 2017. Nel 2020, in una schermaglia di confine, pare siano morti oltre venti soldati e quaranta cinesi, ma i dati sono molto discussi, dato il peso politico che la stampa occidentale può decidere di attribuire e strumentalizzare per questi episodi. Oggi Cina e India sono due giganti in piena ascesa e mentre la Repubblica Popolare punta a proporsi come attore di pacificazione e collaborazione, Modi sembra invece voler sfruttare ogni occasione offerta dal nuovo multipolarismo cavalcando i buoni rapporti con l’Occidente senza trascurare il tradizionale ruolo indiano nei Paesi emergenti; non ultima provocazione, l’adesione dell’India al QUAD nel 2017, l’alleanza indo-pacifica con Giappone, Australia e Stati Uniti dalla chiara funzione anti-cinese. Un parziale calo delle tensioni si è proprio verificato nei giorni passati quando il 21 ottobre, esattamente il giorno prima che si aprisse il vertice dei BRICS di Kazan, India e Cina hanno annunciato un nuovo accordo bilaterale sui confini che prevede l’arretramento reciproco degli eserciti e un pattugliamento concordato.
Giuliano
In questo contesto di competizione strategica, con l’imperialismo a guida USA che ha tutto l’interesse a soffiare sul fuoco, le dispute territoriali al confine tra India e Cina sono il classico esempio di uno dei tanti fronti possibili dove finiscono per scaricarsi tensioni sistemiche di ben altra portata, naturalmente e inesorabilmente alla ricerca di qualche valvola di sfogo; per affrontarle, allora, c’è bisogno di allargare lo sguardo e di costruire una vera e propria nuova modalità di affrontare le relazioni internazionali e le controversie che, inevitabilmente, emergono continuamente. E l’istituzione che, al netto di tutte le contraddizioni che abbiamo sottolineato millemila volte nei giorni scorsi, si sta affermando (in assoluto) come la più promettente da questo punto di vista, è proprio quella dei BRICS+, come ci racconta la nostra Clara.
Clara
Gli atlantisti, come al solito, hanno preso in maniera molto matura la nascita ed il consolidamento del blocco di economie emergenti costituito dalle loro ex colonie e, anziché tentare un dialogo o un’opportunità di crescita economica e della democrazia, hanno costituito (grazie ad un esercito di fedeli intellettuali e think tank) il Club degli scettici dei BRICS attraverso cui le tentano tutte per gettare discredito sul gruppo: l’asse Pechino-Mosca è un’alleanza forzata e mal digerita tra nemici naturali, Putin e Xi Jinping non sono veri best friends foreva, il gruppo BRICS non può funzionare poiché accozzaglia di Paesi unlike minded addirittura in conflitto fra loro, come Cina ed India; anche questa volta, i nostri amici dovranno aver fatto una bella scorta di Maalox dopo il vertice di Kazan. I BRICS sono come l’universo: in continua espansione; altri 13 Stati hanno preso il biglietto per la prossima adesione al gruppo (tra questi Turchia, Cuba e Bolivia). Non solum, sed etiam: anziché esplodere per le controversie interne, il blocco risolve i problemi; non come il signor Wolf, ma con la diplomazia e l’intermediazione degli stessi membri i BRICS diventano il consesso internazionale per affrontare e risolvere i conflitti (anche militari) tra nazioni, oltre che potenziare gli interessi in comune con l’approccio multilaterale. A Kazan, il presidente russo Vladimir Putin ha ospitato un incontro bilaterale cruciale tra il presidente cinese Xi Jinping e il primo ministro indiano Narendra Modi: i rapporti fra i due leader si erano raffreddati a causa delle gravi tensioni sul confine dell’Himalaya, sfociate nel 2020 negli scontri mortali della valle del Galwan; da allora, le due nazioni hanno vissuto costanti attriti lungo la Linea di Controllo Effettivo (LAC), una linea di demarcazione di quasi 3.500 km che separa il territorio controllato da Pechino da quello sotto controllo indiano.
A Kazan si compie il disgelo fra Pechino e Nuova Delhi: l’incontro ha siglato l’accordo approvato lunedì tra India e Cina sul pattugliamento e il disimpegno lungo la Linea di Controllo Effettivo nel Ladakh orientale; i nuovi patti mirano a rilanciare i rapporti diplomatici e garantire la pace, in prospettiva di un mondo multipolare. Incontro di grande significato, commenta con diplomatica soddisfazione Pechino: il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Lin Jian ha dichiarato che Xi e Modi “Hanno raggiunto importanti intese comuni sul miglioramento e lo sviluppo delle relazioni Cina-India e hanno tracciato la rotta per riportare le relazioni bilaterali sulla strada di uno sviluppo costante”. La Cina è pronta a collaborare con l’India per considerare e gestire le relazioni bilaterali da una prospettiva strategica e a lungo termine; la Cina è pronta a intensificare la comunicazione e la cooperazione, a rafforzare la fiducia reciproca strategica, a gestire adeguatamente le divergenze e a riportare le relazioni bilaterali sulla strada dello sviluppo costante il prima possibile. L’accordo è stato immediatamente implementato: venerdì è iniziato il ritiro delle truppe schierate una di fronte all’altra in due punti della frontiera nella regione indiana del Ladakh; il processo si concluderà entro fine mese, hanno riferito a Reuters le autorità indiane e i pattugliamenti riprenderanno come prima dello stallo. E’ stata tracciata la via diplomatica per la risoluzione della disputa sui confini attraverso il meccanismo dei rappresentati speciali, guidato dal consigliere per la sicurezza nazionale Ajit Doval dell’India e dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi; questi passi sono la condizione chiesta dall’India per la normalizzazione dei rapporti fra i due giganti asiatici, fortemente compromessi dallo stallo: in seguito agli scontri sulla Linea di Controllo Effettivo, Nuova Delhi aveva imposto restrizioni agli scambi, aumentando il controllo sugli investimenti cinesi nel Paese. Inoltre sono state bloccate diverse app mobili cinesi popolari, tra cui TikTok, e i voli passeggeri diretti per la Cina; nonostante ciò, la Cina è il principale Paese di importazione dell’India: dal 2020 ad oggi il volume delle importazioni indiane dalla Cina è quasi triplicato.
In un recente video, il nostro amico Dazibao spiega che solo nel periodo del secondo e terzo trimestre di quest’anno fiscale, il volume delle importazioni cinesi è di 56.29 miliardi di dollari, secondo il ministero del Commercio indiano; in particolare, i dati del commercio fra i due Paesi suggeriscono una forte dipendenza dell’industria indiana dalle produzioni cinesi con alto valore aggiunto, come la componentistica: nel 2023 la Cina ha rappresentato circa un terzo delle importazioni indiane di elettronica, macchinari e prodotti chimico-farmaceutici. La quota di importazioni dalla Cina raggiunge il picco di due terzi per le componenti ad alta tecnologia, come dispositivi a semiconduttore: più l’India aumenta la sua produzione di elettronica, rinnovabili e farmaceutica, più aumenta la sua dipendenza dalla Cina. Dall’altro lato, l’India è diventato un partner irrinunciabile per Pechino, necessario per aggirare il derisking (dazi e sanzioni imposte dalla Casa Bianca); entrambe le potenze hanno dunque interesse a normalizzare i rapporti per velocizzare (ancor di più) gli scambi e i flussi di investimenti necessari a rafforzare le rispettive industrie interne. Le parti dell’accordo non sono state rese note, ma sono state emanate direttive per rilanciare i vari meccanismi di dialogo bilaterale attraverso colloqui tra i funzionari del ministero degli Esteri a vari livelli, per rafforzare la comunicazione e la cooperazione e accrescere la fiducia reciproca strategica; nelle prossime settimane e mesi si svolgeranno una serie di visite ad alto livello per migliorare le relazioni su tutti i fronti.
Con il patto di Kazan si conclude una lunga situazione di stallo e si apre una nuova pagina delle relazioni tra Pechino e Nuova Delhi: la ratio sta nella priorità assegnata alla strategia e al lungo periodo rispetto alle questioni regionali nella gestione dei rapporti tra i due Paesi; Xi e Modi “hanno concordato di vedere e gestire le relazioni Cina-India da un punto di vista strategico e da una prospettiva a lungo termine, per impedire che specifici disaccordi influenzino la relazione complessiva e contribuire a mantenere la pace e la prosperità regionali e globali e a far progredire la molteplicità nel mondo” recita il comunicato cinese. “Relazioni bilaterali stabili, prevedibili e amichevoli tra Cina e India avranno un impatto positivo sulla pace e sulla prosperità regionali e globali. Contribuiranno inoltre ad un’Asia multipolare e ad un mondo multipolare” affermano Xi e Modi, secondo il comunicato indiano: Cina e India hanno capito che è necessario abbandonare la competizione regionale e cooperare per competere a livello globale; la costruzione di un mondo multipolare e la democratizzazione delle relazioni internazionali valgono più di una striscia di terra sull’Himalaya. La Russia ha avuto un ruolo di pacificatore, offrendo il luogo dove si è svolto il primo incontro ufficiale tra Xi Jinping e Narendra Modi; Mosca si propone come naturale intermediario strategico – forte del suo rapporto profondo e privilegiato con l’India e dell’amicizia sconfinata e strategica con Pechino – sullo sfondo di un comune obiettivo: la costruzione di un mondo multipolare. Si avvale della sua leva energetica (in quanto fornitore di gas di entrambi i Paesi) e del dialogo trilaterale all’interno di organismi come lo SCO, per mantenere un complesso equilibro, nella consapevolezza che la stabilità della regione e la cooperazione tra Cina e India sono cruciali non solo per gli interessi russi, ma – soprattutto – per l’assetto geopolitico globale. La città multiculturale di Kazan, ponte di civiltà, è il simbolo del nuovo equilibrio, un nuovo equilibrio che non ha bisogno dell’apporto occidentale, un equilibrio fatto di Stati che si sono emancipati da quelle potenze che tracciavano i confini delle loro ex colonie a tavolino: è il simbolo dello spostamento ad Est del centro di gravità del mondo.
Giuliano
Lo spostamento ad Est del centro di gravità del mondo, sottolinea giustamente Clara; che, in buona parte, significa soprattutto una cosa: il fatto che la Cina si è andata affermando come l’unica vera superpotenza manifatturiera del pianeta, una rivoluzione macroscopica dei rapporti di forza globali che agisce a livello di struttura profonda e, alla resa dei conti, è impermeabile all’impatto della propaganda che si riempie la bocca di formulette magiche poco realistiche – dal decoupling al friend-shoring. Uno scollamento tra narrazione e realtà che l’India ha imparato a conoscere a sue spese; mentre Washington provava a convincere i Paesi non allineati – e alla continua ricerca di una strada per perseguire il loro interesse nazionale – che chi si allontanava da Pechino sarebbe stato premiato con un’ondata enorme di capitali occidentali che l’avrebbero trasformato in una nuova Cina, nella realtà, infatti, accadeva sistematicamente il contrario: i Paesi in via di sviluppo che hanno visto crescere di più gli investimenti diretti proveniente dall’Occidente collettivo (e, in particolare, dagli USA), infatti, sono in realtà proprio quelli che hanno accelerato di più l’integrazione economica con Pechino, dal Marocco alla Malesia, passando per il Messico e il Vietnam. Il motivo è molto semplice: essendo, appunto, la Cina l’unica vera superpotenza manifatturiera del pianeta, l’unico modo per essere davvero competitivi nei mercati globali è integrarsi il più possibile con la catena del valore cinese.
Il caso del Marocco è, probabilmente, uno dei più emblematici: prima è diventato una delle principali destinazioni degli investimenti esteri diretti cinesi, che l’hanno eletta a capitale del Mediterraneo dell’industria legata alla transizione ecologica con una lunga serie di investimenti destinati alla produzione di batterie; compreso l’ultimo – gigantesco – da quasi 20 miliardi di dollari, annunciato dalla Huayou Cobalt che dovrebbe portare alla produzione addirittura di 50.000 tonnellate l’anno di materiali catodici, sufficienti per alimentare fino a 500 mila veicoli elettrici. L’interesse cinese, poi, si è portato dietro anche i capitali occidentali, a partire proprio da quelli USA: il Marocco, infatti, nel 2023 è stato il Paese in via di sviluppo che ha registrato la maggior crescita in assoluto di investimenti diretti statunitensi che hanno raggiunto la cifra esorbitante di 34 miliardi, in gran parte destinati a progetti greenfield; quindi di costruzione da zero di nuovi impianti produttivi, ovviamente quasi tutti nel settore delle energie rinnovabili e degli autoveicoli elettrici, una traiettoria diametralmente opposta a quella che, invece, ha vissuto l’India. A partire dalla prima ondata protezionistica inaugurata da Trump – che, tra l’altro, era legato a Modi da ottimi rapporti personali – l’India è cominciata ad emergere nella propaganda come la regina della cosiddetta alt-Asia e, cioè, la parte di continente che avrebbe attratto i capitali USA in fuga dalla Cina a seguito dei dictat politici del decoupling e del friend-shoring; e inizialmente, effettivamente, i capitali sono arrivati: dai 42 miliardi di investimenti diretti esteri del 2018, al record di quasi 85 miliardi nel 2021. Dopodiché, però, la crescita s’è arrestata e, negli ultimi due anni, si è registrata una contrazione che ha riportato sotto quota 70 miliardi; ma non solo, perché, nel frattempo, è cambiata anche la natura di questi 70 miliardi che, invece che servire a costruire nuovi impianti produttivi, sono stati destinati sempre di più a scalare la proprietà dei gruppi già esistenti e, invece che nel settore manifatturiero, si sono concentrati prevalentemente in quello finanziario (dalle banche, alle assicurazioni, ai servizi di telecomunicazione). Il motivo è semplice: proprio a partire dall’incidente di Galwan tra Cina e India del giugno 2020, l’India ha sostanzialmente bloccato gli investimenti diretti cinesi. Insomma: al contrario del Marocco, ha scelto di separarsi sempre di più dalle catene del valore cinesi; il risultato è che ha perso competitività ed è diventata enormemente meno promettente e attrattiva anche per i capitali occidentali che, più che alla propaganda di Washington, mirano – molto banalmente – a fare quattrini. Per l’India s’è trattato di una fregatura al quadrato perché, nel frattempo, ha pure aumentato le importazioni dirette dalla Cina; insomma: svincolarsi dalla superpotenza manifatturiera si è rivelato impossibile, ma almeno prima questa relazione veniva sfruttata anche per avviare un po’ di industrializzazione. Ora si riduce, banalmente, a comprare prodotti finiti. Con questa riappacificazione l’India tenta, così, di invertire la rotta e di recuperare il tempo perso, ma la cosa che sorprende ancora di più è che la Cina, invece che tenere la barra dritta e fare leva sulle difficoltà del vicino, pur di riappacificarsi sembra essere quella che ha fatto le concessioni maggiori: come si spiega?
In realtà, per capirlo basta abbandonare la logica predatoria e aggressiva tipica dell’imperialismo a guida USA e adottare il punto di vista della diplomazia cinese e della centralità che vi riveste la sfera economica e commerciale rispetto a quella finanziaria e militare: tornando a lavorare in direzione di una maggiore integrazione economica con l’India, infatti, la Cina lega il destino economico del vicino al suo; e che questo contribuisca ad accelerare anche lo sviluppo di un Paese che, visto con la nostra ottica, non può che essere considerato (nel lungo periodo) un competitor, agli occhi dei cinesi non sembra rappresentare un pericolo. Per capire come sia possibile, basta capire la profonda differenza che corre tra le finalità cinesi e quelle dell’imperialismo statunitense: fine ultimo dell’imperialismo statunitense, infatti, è garantire a una ristrettissima oligarchia la capacità di rapinare il grosso della ricchezza prodotta da tutti gli altri; il fine ultimo del Partito Comunista Cinese, al contrario, è garantire la maggior prosperità generale possibile attraverso la liberazione delle forze produttive. E se per rapinare è fondamentale mantenere gli altri a un livello di subordinazione tale da non riuscire a opporsi alla rapina, per garantire la liberazione delle forze produttive e la prosperità generale la strada maestra è quella della cooperazione e dello sviluppo; ovviamente, il tutto, a condizione che questa cooperazione (e lo sviluppo che permette di accelerare) non venga poi utilizzato come arma contro il tuo, di sviluppo. E la Cina è convinta che il modo per proteggersi da questi risvolti indesiderati sia, appunto, legare il più possibile la sorte economica dei diversi Paesi tra loro senza eccedere nell’ottimismo e, quindi, procedendo contemporaneamente ad armarsi a sufficienza per garantire la propria sicurezza. Se l’India, rigidamente classista e in preda agli interessi delle sue oligarchie, riuscirà a tenere fede a questa nuova modalità di concepire i rapporti economici (e, quindi, anche diplomatici e di sicurezza) è tutto da vedere; quello che conta, però, è che nel frattempo, a differenza di Washington e della propaganda atlantista, la smetta di vivere in un mondo immaginario parallelo e scenda a compromessi con la realtà concreta che procede, inesorabilmente, verso un nuovo ordine multipolare e, grazie alla Cina, verso un sistema di collaborazioni economiche – per quanto imperfetto e pieno di contraddizioni – sicuramente meno conflittuale e meno avverso alla crescita e allo sviluppo di quello a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie finanziarie USA, un nuovo sistema che – duole dirlo – non saranno gli organi di propaganda delle oligarchie e i media mainstream ad aiutarci a capire.
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E chi non aderisce è Federico Rampini