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Tag: Netanyahu

L’Occidente scarica Netanyahu, ma importa l’apartheid

La guerra di Israele contro i bambini palestinesi è probabilmente arrivata a una svolta: gli avvenimenti sono in rapida e continua evoluzione e quindi, per gli ultimi aggiornamenti, vi rimandiamo alle live che stiamo preparando sul tema; ma mentre registriamo questo video, un paio di considerazioni intanto possiamo farle. Durante tutta la scorsa settimana, Israele, col sostegno di Washington, ha provato a fregare Hamas: avevano proposto un accordo inaccettabile che, sostanzialmente, sarebbe equivalso a una resa incondizionata, mentre il regime genocida di Tel Aviv, dopo aver riscattato i suoi prigionieri, avrebbe avuto carta bianca per finire di radere al suolo Gaza e mettere così definitivamente fine all’ipotesi di uno Stato palestinese autonomo e sovrano; per convincere Hamas a suicidarsi e portarsi nella bara con se l’intero popolo palestinese, Tel Aviv usava il ricatto dell’invasione di Rafah, ma – a ben vedere – lo giocava malino. Sin da subito infatti, per tenere buone le fazioni più fondamentaliste del governo, Netanyahu è stato costretto ad ammettere che in un modo o nell’altro, o prima o dopo, l’invasione di Rafah sarebbe avvenuta comunque; Hamas, quindi, non aveva nessun motivo di firmare l’accordo trappola.
Nel frattempo però, con la mediazione di Egitto e Qatar, si stava lavorando a una riformulazione dell’accordo stesso: questa volta le garanzie erano decisamente più sostanziose; le varie tappe che scandivano lo scambio dei prigionieri avrebbero permesso ad Hamas di verificare, passo dopo passo, che Israele rispettasse i patti e, tra i patti, c’era sin da subito anche il ripristino delle infrastrutture essenziali e – alla fine del percorso – non solo un cessate il fuoco stabile, ma addirittura un’ambiziosa fine totale dell’assedio della Striscia. Insomma: la rivolta degli schiavi del carcere a cielo aperto di Gaza, per quanto tragica, quantomeno avrebbe determinato una riforma del regime carcerario; a queste condizioni, alla fine quindi Hamas ha ceduto. Israele, sostanzialmente, a quanto pare manco è stato coinvolto; come abbiamo detto più volte, a tratti ormai sembra essere universalmente considerato il bimbo scemo e viziato che va trattato con un po’ di tatto perché, nel frattempo, gli abbiamo regalato un’arma automatica bella carica, ma che nel frattempo va tenuto un po’ alla larga dalla stanza dove stanno gli adulti perché non può che fare danni. E infatti i danni, immancabilmente, sono arrivati: poche ore dopo che Hamas aveva pubblicamente dichiarato di accettare l’accordo, Tel Aviv decide di violarlo e di dare un segnale chiaro che è pronta a invadere Rafah; prima con l’intensificarsi degli attacchi aerei e, poi, anche con una piccola incursione via terra che, mentre registriamo questo video, potrebbe essere sia solo l’inizio dell’invasione vera e propria, sia – invece – l’ennesima bizza omicida del bimbo scemo e viziato.

Benjamin Netanhyau

Nel frattempo, la resistenza però non è rimasta a guardare: War Monitor, giusto un’ora fa, ha riportato la notizia (tutta da verificare) di 30 razzi che da Gaza sono partiti alla volta del Consiglio regionale di Eshkol; in precedenza, altri razzi erano usciti da Gaza in direzione Karem Abu Salem. La cosiddetta comunità internazionale pure non ha reagito benissimo alla bravata dei fasciosionisti: Guterres ha intimato a Israele di bloccare immediatamente ogni escalation; anche Borrell ha parlato di una catastrofe umanitaria da evitare a ogni costo e le voci, tutte da confermare, che sostengono che l’amministrazione Biden avrebbe imposto uno stop temporaneo all’esportazione di armi per mandare un segnale politico chiaro si sono continuate a rincorrere. Fatto sta che, al momento di questa registrazione, la situazione sul campo sembra essere in una fase di attesa; nel frattempo, i vertici israeliani sono volati al Cairo per riaprire il dialogo e Kirby, portavoce della Casa Bianca, ha affermato di essere ottimista che l’invasione può essere evitata e un accordo definitivo raggiunto. Insomma: se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno e rimanere cautamente ottimisti, la trappola che Israele aveva teso ad Hamas sembra essere definitivamente fallita e, al suo posto, Tel Aviv si ritroverebbe a dover sottoscrivere un accordo che finalmente, per la prima volta, non le dà carta bianca sul destino del conflitto.
Ciononostante, vista più da lontano, per quanto Israele sia in mezzo a un empasse, però, e per quanto non sia mai stato così isolato rispetto alle opinioni pubbliche di tutto il pianeta, il regime genocidario sionista – da un certo punto di vista – ha anche palesemente ottenuto un successo straordinario: tra le forze antipopolari, infatti, il suo sistema fondato sull’apartheid ha cominciato a esercitare una potente egemonia culturale; se fino a qualche anno fa il problema erano gli USA che esportavano il loro modello oligarchico e finto-liberale a suon di bombe, ora siamo al quadro successivo, con Israele che esporta nel mondo il suo modello fondato sull’apartheid a suon di mazzate, di agguati squadristi, di repressione e anche di minacce in stile mafioso. Le istituzioni dell’Occidente collettivo infatti, senza eccezione, è come se avessero adottato all’unisono una sorta di circolare virtuale universale che garantisce la totale impunità dei suprematisti sostenitori del genocidio, qualsiasi atto di aggressione compiano, e che vieta categoricamente ai media di parlarne. Una piccola preview l’avevamo vista un paio di settimane fa; sicuramente vi ricorderete. Era il 25 aprile e un’inviata della RAI era a Roma, dove si stavano confrontando due manifestazioni contrapposte: una di persone normali che, come inevitabile, avevano pensato di omaggiare gli eroi della resistenza italiana manifestando la loro vicinanza alla resistenza palestinese unite dal contrasto a ogni forma di genocidio; e l’altra di persone confuse che, invece, volevano approfittare delle celebrazioni per rivendicare la legittimità dello sterminio dei bambini palestinesi. Piena zeppa di infiltrati fascisti che, tra governo Meloni e sostegno incondizionato dei governi dell’Occidente collettivo a ogni forma di neonazismo in circolazione – dai lettori di Kant del battaglione Azov ai coloni criminali sionisti – stanno vivendo una vera e propria golden age, la seconda manifestazione ha letteralmente aggredito l’altro gruppo; e la povera inviata che, evidentemente, nonostante lavori per un servizio pubblico totalmente appiattito sulla narrazione della propaganda sionista, anche lei aveva le idee un po’ confuse e non aveva interpretato benissimo l’agenda pro – sterminio dei suoi datori di lavoro, aveva riportato l’accaduto parlando, appunto, di aggressione e dallo studio la sua capa, invece di censurare l’aggressione fascista del fan del genocidio, l’ha redarguita sottolineando che non c’era stata nessuna aggressione, come ovviamente lei, dallo studio in mezzo alle luci sparate a palla e le truccatrici, poteva testimoniare direttamente.
Ma era solo l’antipasto: il lasciapassare alle aggressioni dei sostenitori del genocidio, infatti, ha assunto dimensioni veramente inedite pochi giorni dopo, sull’altra sponda dell’Atlantico, quando delle squadracce di picchiatori suprematisti hanno aggredito un pacifico accampamento di manifestanti anti – sterminio con tanto di spranghe in mano e maschere sul volto: mentre le squadracce aggredivano i manifestanti con spray al peperoncino, bastoni e anche oggetti esplosivi pirotecnici di ogni tipo, le forze dell’ordine rimanevano in un angolo impassibili. Probabilmente erano un po’ stanchine; d’altronde, da tempo ormai erano impegnati giorno e notte a menare ed arrestare indiscriminatamente centinaia di giovani studenti pacifici per aver osato dubitare della missione purificatrice dei fondamentalisti sionisti: erano così anchilosati che non sono intervenuti neanche quando gli squadristi, davanti ai loro occhi, si sono scagliati in massa su uno studente, l’hanno buttato per terra e l’hanno preso allegramente a calci nella testa tutti assieme (immagino per favorire l’apprendimento delle sacre scritture). Come ha dichiarato su al Jazeera il giornalista investigativo Joey Scott (che ha assistito all’attacco squadrista), temporeggiando, le forze dell’ordine hanno voluto mandare un segnale chiaro alle squadracce che si aggirano per il paese che non rischiano ritorsioni ed anzi sono ben viste perché, così, aiutano l’amministrazione nella sua battaglia di civiltà: combattere l’antisemitismo, che viene tirato in ballo anche quando a protestare sono gli stessi ebrei che, nelle mobilitazioni anti – sterminio degli USA, hanno avuto sin da subito un ruolo di primissimo piano.
Negli USA, ormai, sono considerati antisemiti anche ebrei ortodossi come questi che sono stati aggrediti mentre erano tranquilli nella loro auto da questa simpatica signora indemoniata e palesemente alterata che gli è saltata addosso cercando di strappargli la bandiera palestinese e che poi s’è messa pure a minacciare le forze dell’ordine che sono intervenute per separarli, ma che – in base alla circolare sul diritto incondizionato dei sionisti di fare un po’ come cazzo vogliono – l’hanno lasciata andare via serenamente. Questa strumentalizzazione delirante del pericolo antisemita è anche la formula magica che l’amministrazione USA ha cercato di usare per giustificare gli arresti di massa delle ultime settimane, che stanno trasformando la terra della libertà in un regime teocratico filo – sionista, una palese e inquietante involuzione antidemocratica che, pochi giorni fa, è diventata legge grazie all’Antisemitism Awareness Act, approvato dal congresso a larghissima maggioranza; una legge totalmente delirante che impone allo Stato di adeguarsi automaticamente alla definizione di antisemitismo che viene elaborata da un’associazione intergovernativa priva di qualsivoglia legittimità democratica: è la International Holocaust Remembrance Alliance che, ad esempio, considera antisemitismo anche accusare Israele di genocidio o anche genericamente di razzismo. Grazie a questa legge, sostanzialmente si riconosce a una minoranza eletta un diritto che non viene riconosciuto a nessun altro: quello di non essere criticata, a prescindere. E attenzione: non è un diritto che si riconosce agli ebrei, ma è un diritto che si riconosce ai sionisti, quindi non a una minoranza etnica, ma ai sostenitori di una determinata ideologia. In base a questa definizione di antisemitismo, secondo l’amministrazione USA anche la Corte internazionale di giustizia, giusto per fare un esempio, è antisemita e ora rischia di diventarlo anche la Corte penale internazionale che, a differenza della Corte di giustizia – che è comunque un organismo ufficiale dell’ONU e quindi ha sempre avuto un qualche occhio di riguardo anche per il Sud globale – è sempre stata, a ragione, accusata di essere un vero e proprio braccio armato dell’imperialismo e che infatti ha sempre e solo emesso mandati di cattura verso nemici dell’imperialismo – da Putin a Gheddafi – e mai, nemmeno una volta, contro i peggiori criminali che l’agenda imperialista, invece, l’hanno portata avanti a suon di palesi e plateali crimini di guerra.

Yoav Gallant

Ma, evidentemente, è un braccio che comincia a presentare qualche insofferenza nei confronti del cervello impazzito: un paio di settimane fa, infatti, senza che la Corte si sia mai espressa in merito, sui media israeliani è cominciata a circolare l’ipotesi che, a breve, sarebbero arrivati mandati d’arresto internazionali contro figure israeliane di primissimo piano, a partire addirittura proprio da Netanyahu stesso e dal comandante in capo dello sterminio, il ministro della difesa Yoav Gallant; Netanyahu ha reagito subito a questi rumors dichiarando pubblicamente che l’emissione di mandati di arresto equivaleva al tentativo di minare il diritto di Israele all’autodifesa e che questo è inaccettabile perché “costituirebbe un pericoloso precedente che minaccia i soldati e i funzionari di tutte le democrazie”. “Non crediamo che ne abbiano la giurisdizione” ha rincarato subito dopo la portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre, annunciando come gli USA non avrebbero mai sostenuto un’indagine da parte dellaCorte; oggi sappiamo che questo alterco era solo la punta dell’iceberg. Lunedì sera, infatti, il buon vecchio Kim Dotcom ha pubblicato sul suo account X questa lettera: risale al 24 aprile, è indirizzata al procuratore della Corte penale internazionale dell’Aja ed è accompagnata dalla firma di 12 senatori statunitensi (probabilmente il grado più basso dell’evoluzione umana attualmente presente nella politica internazionale). La prima firma è quella di Tom Cotton, già celebre per questa figura di merda epica di fronte al CEO di TikTok; seguono le firme, tra gli altri, del gotha della destra reazionaria e suprematista del Tea Party, da Ted Cruz a Marco Rubio. Insomma: promette benissimo, ma – ciononostante – il contenuto della lettera è superiore anche alle più rosee aspettative. “Caro signor procuratore” scrivono, “le scriviamo riguardo alla notizia che la Corte penale internazionale starebbe valutando l’ipotesi di emettere un mandato di cattura internazionale nei confronti del primo ministro Benjamin Netanyahu e altri ufficiali israeliani”; con un’azione del genere, sottolineano i nostri 12 cavalieri dell’apocalisse, la Corte internazionale “punirebbe Israele per essersi legittimamente difeso contro l’aggressore sostenuto dall’Iran” e questo allineerebbe la Corte “con il principale stato sponsor del terrorismo e il suo proxy”. “Emettere un mandato d’arresto per i leader di Israele” continua la lettera “non sarebbe solo ingiustificato, ma tradirebbe la vostra ipocrisia e i vostri doppi standard” dal momento che “non avete mai emesso un mandato di cattura nei confronti di quel genocida del Segretario Generale della Repubblica Popolare di Cina, Xi Jinping, o di nessun altro funzionario cinese”. Ma il bello deve ancora venire: “Se emetterete un mandato di arresto per la leadership israeliana, lo interpreteremo non solo come una minaccia alla sovranità israeliana, ma anche a quella statunitense”, che è come dire, appunto – come abbiamo sempre sostenuto – che Israele non è altro che un’exclave dell’impero USA incaricata di mantenere l’ordine coloniale in Medio Oriente; e qui, poi, c’è una chicca che, sinceramente, avevo rimosso: “Il nostro paese, con l’American Service-Members’ Protection Act” scrivono “ha dimostrato fin dove siamo disposti ad arrivare per proteggere quella sovranità”.
Ma cosa è l’American Service-Members’ Protection Act? Se non lo sapete, non vi preoccupate; anch’io, che quando c’è da dire male di Washington sono sempre in prima linea, l’avevo completamente rimosso, probabilmente perché è un atto così vergognoso e platealmente criminale che la propaganda ha fatto letteralmente di tutto per tenerlo al di fuori del dibattito pubblico: la legge, approvata dal Congresso nel 2002 ai tempi dell’amministrazione Bush jr che si accingeva, nell’ambito della war on terror, a commettere una serie infinita di crimini di guerra, dà al presidente il potere di usare “tutti i mezzi necessari e appropriati per ottenere il rilascio di qualsiasi membro del personale statunitense o alleato detenuto o imprigionato da, per conto o su richiesta della Corte penale internazionale”. Non a caso l’atto è stato soprannominato The Hague Invasion Act – la legge sull’invasione dell’Aja – perché, appunto, incredibilmente dà automaticamente il potere al presidente anche di invadere l’Olanda, se solo questo venisse ritenuto il modo migliore per liberare dalla grinfie della Corte soldati e funzionari USA – come di qualsiasi altro paese ritenuto alleato. Forse ora è chiaro perché la Corte ha sempre e solo perseguito nemici di Washington; un atto talmente folle che quando ancora l’Europa aveva qualche velleità di autonomia, nei primi anni 2000, lo condannò apertamente. Ora i 12 senatori dell’apocalisse lo ritirano in ballo per minacciare esplicitamente la Corte e non si fermano qui; anche nel linguaggio, l’ultimo paragrafo della lettera sembra scritto direttamente da Totò Riina: “Prendete di mira Israele” minacciano “e noi prenderemo di mira voi”. “Se andate avanti con la vostra azione, sanzioneremo tutti i vostri impiegati e tutti i vostri associati, e bandiremo voi e le vostre famiglie dagli Stati Uniti. Siete stati avvisati”.
Secondo quanto riportato in questa infografica prodotta da Track Aipac, un’iniziativa indipendente che cerca di ricostruire tutti i finanziamenti della lobby israeliana ai membri del Congresso, i 12 senatori dell’apocalisse, per autoconvincersi dell’opportunità di questa loro iniziativa leggermente sopra le righe, hanno ricevuto nel tempo dall’Aipac circa 6 milioni di buone motivazioni; questo episodio, se l’autenticità del contenuto della lettera venisse confermato ufficialmente (cosa che, in cuor mio, tutto sommato voglio ancora nutrire una minima speranza non accada) ci racconta un paio di cose importanti: la prima è che, se ancora avevamo dei dubbi, l’ordine internazionale fondato sulle regole di cui parlano gli imperialisti occidentali e i loro pennivendoli può essere considerato – dalla struttura al retroterra culturale che traspare anche nel linguaggio – un ordine, a tutti gli effetti, di carattere mafioso dove l’unica regola che, quando serve, vale davvero è sempre e solo quella del sopruso e del ricorso alla violenza fisica e al puro arbitrio. La seconda è che aspettarsi che gli USA, di loro sponte, impediscano davvero a Israele di portare a termine il suo genocidio è totalmente velleitario: sarebbe un po’ come pretendere che un serial killer, di sua sponte, si seghi un braccio per impedire alla sua mano di continuare a premere il grilletto; con questo, però, non voglio dire che lo sterminio totale e definitivo del popolo palestinese sia inevitabile e che, quindi, tanto vale smetterla di logorarsi e tornare agli spritz. Anzi! Voglio, invece, dire proprio che se oggi traspare qualche titubanza è solo ed esclusivamente merito delle forze che, nella società, si stanno opponendo al massacro: dall’asse della resistenza agli altri Stati che sono in conflitto con l’imperialismo, ma, soprattutto, alle masse popolari che si stanno mobilitando sempre di più contro la complicità dei rispettivi governi.
La mobilitazione e la lotta contro l’esportazione dell’apartheid, quindi, non sono che all’inizio e per portarle a termine abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece di tappare la bocca ai giornalisti che chiamano aggressione un’aggressione, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Il regime feudale saudita prova a salvarsi abbonando agli USA lo sterminio dei palestinesi

Dopo settimane e settimane di pipponi pieni di speranza sulle magnifiche sorti e progressive del nuovo ordine multipolare, l’implosione dell’imperialismo – e, già che ci siamo, pure del lato più feroce e distopico del capitalismo che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni – oggi, invece, è una giornata di lutto; nonostante tutto il nostro wishful thinking e gli sforzi disumani messi in campo dalle diplomazie russe e cinesi, alla fine sembra proprio avesse ragione Matteo Renzi: nei regimi monarchici assolutisti del Golfo spira un vento di rinascimento. E quando un sicario del volto più feroce del capitalismo monopolista finanziario come Renzi parla di rinascimento, per noi e per il 99% può significare una cosa sola: enormi, giganteschi, smisurati cazzi volanti che si insinuano dal buco del culo, risalgono su su lungo tutto l’intestino fino all’esofago e ci sventrano in due.
A conclusione della sessione speciale del World Economic Forum che si è tenuta a Riad nei giorni scorsi, infatti, il segretario di stato USA Anthony Blinken e quello Saudita Faisal bin Farhan hanno annunciato all’unisono che i negoziati per un accordo di sicurezza tra i due paesi sarebbero quasi completati e anche se in cosa consisterebbe questo accordo nel dettaglio nessuno ancora lo sa, i pilastri principali sembrano essere piuttosto chiari e non lasciano presagire nulla di buono: in soldoni, riporta la testata della sinistra antimperialista libanese Al Akhbar, si tratterebbe di un obbligo di difesa del regime assolutista dei Saud da parte di Washington, sulla falsariga di quelli in essere con Corea del Sud e Giappone; un primo passo per arrivare in futuro, magari, a un vero e proprio vincolo di mutuo soccorso come quello in vigore tra i paesi che aderiscono alla NATO, ma non solo. L’accordo prevederebbe, infatti, anche la rinuncia da parte saudita di proseguire sulla strada della cooperazione tecnologica con i nemici degli USA e dell’imperialismo, a partire – ovviamente – dalla Cina. I più schierati, come la testata filo iraniana Al Mayadeen, cercano a tutti i costi di vedere il bicchiere mezzo pieno e sottolineano come si tratti in realtà di un “piano B, che esclude Israele”, ma pur con tutta la buona volontà e con tutti i distinguo dal trionfalismo becero della propaganda suprematista al servizio dell’impero, a questo giro a noi sembra ci sia veramente molto poco da festeggiare. Ma prima di provare a capire per bene perché, vi ricordo di mettere un like a questo video perché, che si vinca o che si perda, ora e sempre algoritmo merda e, se non l’avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche (soprattutto oggi, che non abbiamo molto altro da festeggiare).
Prima che il 7 ottobre scorso l’operazione diluvio di al aqsa riaprisse la partita, molti analisti occidentali davano per quasi fatta l’adesione definitiva della monarchia assoluta saudita agli accordi di Abramo, il piano architettato dall’amministrazione criptofascista di parrucchino The Donald e, dopo alcuni tentennamenti, fatto proprio dal compagno Rimbambiden che cercava di garantirsi l’egemonia imperialista sul Medio Oriente permettendo, allo stesso tempo, agli USA di disimpegnarsi dalla gestione diretta della sicurezza dell’area: l’idea era quella di consolidare l’alleanza strategica tra l’avamposto sionista dell’imperialismo USA e le fazioni più retrograde e reazionarie dell’area, incarnate dai regimi assolutisti premoderni delle petromonarchie del Golfo, in modo da creare un blocco sufficientemente potente da poter contrastare la lotta sovranista e popolare per la decolonizzazione del Medio Oriente – guidata dall’Iran e dall’asse della resistenza – senza dover necessariamente continuare a ricorrere direttamente a Washington. Grazie alla rivoluzione avviata dal compagno Obama che, a costo di devastare completamente gli Stati Uniti manco fossero la Cina dei primi anni ‘80, ha regalato al suo paese l’autosufficienza energetica a suon di fracking, l’interesse concreto diretto degli USA per le ricchezze del sottosuolo mediorientale, ovviamente, è diminuito sensibilmente; quello che ancora non è diminuito – anzi, semmai è aumentato – è l’obiettivo di impedire che altre aree del mondo escano dalla sfera d’influenza dell’imperialismo e vadano a rafforzare le fila di chi cerca spazi di autonomia strategica e contribuisce alla creazione di un nuovo ordine multipolare, soprattutto se, appunto, si tratta di aree che per la ricchezza di materie prime indispensabili per continuare ad alimentare la crescita (in particolare cinese) hanno un valore strategico così rilevante.
Il piano USA, però, era stato ostacolato a più riprese da una lunga serie di avversità: la debacle di USA e alleati che, tramite i loro proxies fondamentalisti, avevano causato la guerra mondiale per procura in Siria, aveva sollevato più di qualche dubbio sulla reale capacità della superpotenza militare a stelle e strisce di garantire la sicurezza agli alleati dell’area, un dubbio che era diventato sempre più concreto mano a mano che si manifestava l’incapacità di arrestare la lotta di liberazione dello Yemen guidata da Ansar Allah. Cosa che, nel tempo, aveva spinto Riad a cercare una qualche forma di distensione, perlomeno temporanea, con l’Iran; una distensione che poi si era evoluta in una vera e propria riapertura ufficiale dei rapporti diplomatici grazie all’intermediazione della Cina che, nel frattempo, è diventata di gran lunga il primo partner commerciale dell’Arabia Saudita, della quale assorbe il grosso del petrolio che agli USA non serve più. Ma non solo; con lo scoppio della fase 2 della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, l’imperialismo ha dato un’ulteriore prova di debolezza: ha intaccato ancora di più il mito dell’invincibilità della macchina bellica USA e ha spinto i sauditi a intensificare le relazioni con i partner impegnati nella costruzione di un nuovo ordine multipolare, fino addirittura ad aderire ufficialmente ai BRICS+.

Jamal Ahmad Khashoggi

Inoltre, c’è anche un aspetto sovrastrutturale che ha spinto Riad sempre più verso est; e la sovrastruttura, quando hai a che fare con un paese premoderno che, quindi, assomiglia davvero alla caricatura che fanno gli analfoliberali alla Rampini di paesi complessi come la Cina o la Russia – dove, secondo loro, c’è uno che si sveglia la mattina e prende decisioni a caso a seconda dell’umore – conta parecchio. L’aspetto in questione è la reazione di Biden all’assassinio (con tanto di spezzettamento in pieno stile pulp) del povero Jamal Khashoggi, che ha visto sleepy Joe impegnato nel tentativo di fare contenta la sua base di ipocriti fintoprogressisti e bombaroli dirittumanisti accusando apertamente gli alleati sauditi e raffreddando platealmente i rapporti; ciononostante, l’ombra dell’accordo di Abramo e, quindi, di un ritorno all’ovile del sostegno al progetto neocoloniale dell’impero continuava a incombere: d’altronde, il regime saudita è un regime premoderno e antistorico che può sperare in una sua sopravvivenza nella sua forma attuale soltanto ancorandosi a un progetto più complessivo di repressione generalizzata delle istanze popolari nel Medio Oriente. Inoltre le oligarchie saudite, come quelle dei fratelli coltelli emiratini, anche se ora si stanno un po’ divertendo a giocare con un po’ di investimenti produttivi per differenziare l’economia ed emanciparla gradualmente dalla dipendenza dalle fonti fossili, sono totalmente integrate nel grande schema Ponzi della speculazione finanziaria globale e, quindi, vedono nella sopravvivenza dell’imperialismo finanziario un loro interesse vitale.
C’è anche un altro aspetto, poi, da tenere in considerazione, che è di nuovo frutto della guerra per procura in Ucraina, ma che spinge in direzione opposta e, cioè, il fatto che la graduale scomparsa del petrolio russo dall’Europa come conseguenza delle sanzioni apriva un’opportunità straordinaria per Riad per emanciparsi dalla dipendenza da Pechino come principale acquirente, variabile di non poco conto soprattutto dal momento che mentre Pechino la transizione ecologica la sta facendo davvero, l’Europa la fa solo a chiacchiere e, fra pochino, manco più con quelle. Poi, però, è arrivato il 7 ottobre e, soprattutto, il genocidio dei palestinesi del quale, ovviamente, a Bin Salman e alla sua cricca di oligarchi non gliene può fregare di meno; ai popoli del Medio Oriente, però, sì e quindi, per non regalare l’egemonia su tutta l’area all’Iran e all’asse della resistenza, Riad ha dovuto far finta di essere indignata. Certo, non che abbia mosso mezzo dito per contrastare la pulizia etnica, ma, per lo meno, ha dovuto rimandare ogni possibile trattativa con Israele a sterminio completato.
Ed ecco che, finalmente, siamo arrivati a oggi: Stati Uniti e Arabia Saudita si avvicinano al patto di difesa inteso a rimodellare il Medio Oriente titolava ieri entusiasta Bloomberg; “Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita” commenta l’articolo “si stanno avvicinando a un patto storico che offrirebbe garanzie di sicurezza al regno e traccerebbe un possibile percorso verso legami diplomatici con Israele”. “L’accordo” concede Bloomberg “deve affrontare numerosi ostacoli, ma equivarrebbe a una nuova versione del piano che è stato affondato quando l’attacco di Hamas del 7 ottobre contro Israele ha innescato il conflitto a Gaza. I negoziati tra Washington e Riad infatti hanno subito un’accelerazione nelle ultime settimane, e molti funzionari sono ottimisti sul fatto che potrebbero raggiungere un accordo entro poche settimane”; “Un simile accordo” continua l’articolo “rimodellerebbe potenzialmente il Medio Oriente e oltre a rafforzare la sicurezza di Israele e dell’Arabia Saudita, rafforzerebbe la posizione degli Stati Uniti nella regione a scapito dell’Iran e persino della Cina”. Secondo Bloomberg l’accordo garantirebbe ai sauditi l’accesso a sistemi d’arma USA prima preclusi, in cambio del quale il principe Bin Salman sarebbe disposto a limitare l’ingresso di tecnologia cinese a patto che gli USA aiutino il regno a sviluppare tecnologia nei campi dell’intelligenza artificiale, del quantum computing e dell’energia nucleare, un aut aut che ha già portato a un successo USA negli Emirati dove g42, l’azienda leader dell’intelligenza artificiale, ha accettato di porre fine alla cooperazione con la Cina in cambio di un investimento da parte di Microsoft; “Una volta raggiunto l’accordo” continua Bloomberg, l’ipotesi è che venga presentato a Netanyahu che, a quel punto, potrà decidere “se aderire, e quindi stabilire per la prima volta legami diplomatici con l’Arabia Saudita, e approfittare di maggiori investimenti e di maggiore integrazione economica regionale, o essere messo da parte”.
“Le condizioni poste a Netanyahu però non sarebbero roba da poco” e cioè “porre fine alla guerra di Gaza e accettare un percorso verso uno Stato palestinese”: “Si tratta di un atto strategico tra l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti che ha lo scopo di proteggere e consolidare la posizione dell’America in Medio Oriente in un momento in cui il regno stava diversificando le sue opzioni di politica estera e allontanandosi da Washington” ha affermato Firas Maksad del Middle East Institute; le condizioni che i sauditi imporrebbero a Netanyahu sono sicuramente complicate per Israele, soprattutto se considerato che fino a pochi mesi fa “se non fossero stati attaccati con il diluvio di al aqsa” come sottolinea Al Akhbar “erano quasi riusciti a farla franca con un accordo simile del tutto gratuitamente” e, cioè, senza nessuna richiesta aggiuntiva. A ben vedere, però, il problema del cessate il fuoco, molto banalmente, non fa che rimandare l’estensione dell’accordo a Israele a quando avrà completato la sua opera di sterminio e di pulizia etnica e quello di “accettare un percorso verso uno stato palestinese” non sarebbe altro che una riproposizione ancora più farsesca della gigantesca presa per il culo che è stata Oslo, con in più la Palestina ormai sostanzialmente ridotta a due grandi campi profughi che non hanno nessunissima possibilità concreta di formare uno Stato minimamente autonomo; in sostanza, sottolinea Al Akhbar, USA e Israele sembrano considerare il regno una sorta di “moglie che cerca di migliorare le sue condizioni di vita nella sua casa coniugale, ma non ha alternative al marito anche se non le dà ciò che chiede, il che potrebbe significare che l’Arabia Saudita alla fine potrebbe scegliere di accettare la normalizzazione accontentandosi delle garanzie americane, ma senza ottenere alcuna concessione da parte del nemico israeliano”.
Alla fine, il sanguinario regime distopico sionista e quello feudale saudita sembrano essere uniti da un’esigenza comune che sovrasta tutte le altre: che gli USA non abbandonino l’area, per garantire con la sua superpotenza militare che i loro regimi contrari agli interessi del 99% non vengano travolti dalle lotte popolari e anticoloniali – che è l’unico aspetto a cui, a questo giro, ci possiamo attaccare per vedere comunque le difficoltà che gli USA incontrano per perpetrare il loro sistema imperialistico nonostante il declino; dall’Ucraina al Medio Oriente, il loro impero, per rimanere in piedi, non si può affidare interamente ai proxies, ma richiede il loro impegno diretto. E l’impegno diretto su tutti i fronti caldi della guerra dell’imperialismo contro il resto del mondo è un compito che, comunque, va oltre le loro possibilità. Per chi, proprio a causa della ferocia imperialista, è costretto a fare lo slalom tra le bombe o a rischiare di essere fucilato mentre è in fila nella speranza di ricevere un tozzo di pane, potrebbe non essere una consolazione sufficiente; la grande battaglia di liberazione globale per mettere fine all’imperialismo e costruire un nuovo ordine multipolare più equo e democratico è un’esigenza storica inaggirabile. Pensare che sia un percorso lineare che porta verso il sol dell’avvenire sarebbe puerile: la battaglia è appena cominciata e, forse, l’unica nota veramente positiva di oggi è che sappiamo che a combatterla ormai siamo in parecchi.
A partire dalle migliaia di manifestanti che nelle università americane, nonostante una morsa repressiva che se fosse avvenuta in Russia, in Cina o in Iran sarebbe bastata agli analfoliberali per chiedere di raderle al suolo, continuano a occupare strade e piazze in nome di un sogno concreto che non ci faremo rovinare dai capricci di un principe multimiliardario. Prepariamoci a una lunga battaglia e armiamoci adeguatamente per vincerla, a partire da un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Matteo Renzi

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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SAMIR AL QARYOUTI: perchè lo sterminio di Gaza sarebbe avvenuto anche senza l’attacco di Hamas

Ottoliner buongiorno e bentornati all’appuntamento con le interviste di OttolinaTv.

Oggi torniamo a parlare dell’operazione diluvio di Al Aqsa e lo facciamo con una tesi piuttosto radicale: anche senza l’attacco di Hamas, lo sterminio dei bambini arabi di Gaza sarebbe avvenuto comunque.

in foto: Samir Al Qaryouti

A sostenerlo non è ammiocuggino, ma Samir Al Qaryouti, giornalista di vecchio corso, e uno degli esponenti più autorevoli della comunità palestinese in Italia. Secondo Al Qaryouti infatti, mentre la fantomatica intelligence israeliana era in tutt’altre faccende affaccendata e s’è lasciata cogliere clamorosamente impreparata, nonostante le svariate segnalazioni provenienti in particolare dal regime collaborazionista di Al Sisi, quella di Hamas e della resistenza palestinese avrebbe funzionato benissimo.
Secondo Al Qaryouti, infatti, Hamas stava lavorando da tempo alla preparazione di un’operazione eclatante che sarebbe dovuta avvenire nell’arco di uno, due anni. Nel frattempo però, come confermerebbero alcuni documenti riservati israeliani dei quali la resistenza sarebbe entrata in possesso proprio durante il diluvio di Aqsa, sostiene sempre Al Qaryouti, anche il Governo Netanyahu stava preparando un’operazione in grande stile su Gaza, a prescindere dai fatti del 7 ottobre. approfittando magari di un casus belli qualsiasi. tanto il mainstream internazionale un modo per sostenere i crimini di israele alla fine lo trova sempre. Hamas però avrebbe scoperto questo disegno, e avrebbe deciso di anticipare l’azione, cogliendo così di sorpresa l’intelligence e l’esercito israeliano che erano si stati informati sui preparativi di Hamas, ma appunto si aspettavano che l’attacco sarebbe arrivato mesi e mesi dopo.

Ovviamente noi non abbiamo minimamente gli strumenti per confermare questa tesi e tutto sommato, le dietrologie ci appassiona fino a un certo punto. Il punto però è che i sostenitori del genocidio sin dall’inizio hanno cercato di imporre la narrazione gisutificazionista secondo la quale lo sterminio dei bambini arabi a Gaza non sarebbe altro che un inevitabile, per quanto drammatico, effetto collaterale dell’esercizio del sacrosanto diritto alla difesa e invece, come la giri la giri, altro non è che il tentativo disperato dell’ultima vera esperienza coloniale di rimandare il suo inesorabile appuntamento con la storia, sulla pelle di bambini e civili.

GAZA E IL TABU’ DEL 7 OTTOBRE – Perché la propaganda continua a mentire sull’attacco di Hamas

“Il massacro del 7 ottobre come la Shoah”: così titolava la sua ennesima, lunga sbrodolata inconcludente Fiamma Nirenstein qualche giorno fa su Il Giornale; “non ci sono eventi storici più comprovati della Shoah e della mostruosa strage del 7 ottobre scorso” scriveva nell’articolo. “Ambedue” continuava “sono stati programmati con passione distruttiva verso gli ebrei: uno a uno, bambini, genitori, nonni” anche se – concedeva – “con dimensioni diverse”. Meno male, dai… qualche differenzina ce la vede pure lei. E’ già qualcosa.
Imporre all’opinione pubblica una ricostruzione di quanto accaduto il 7 ottobre la più drammatica e inquietante possibile è una parte essenziale del meccanismo genocida messo in moto da Israele; per giustificare lo sterminio indiscriminato di migliaia di bambini indifesi e il perseguimento della soluzione finale attraverso la pulizia etnica, il mito fondativo deve essere solido, indiscutibile, sconvolgente. Ma siamo davvero proprio sicuri che c’abbiano detto tutta la verità, nient’altro che la verità?

Ehud Olmert

“Comunque vada, Hamas ha riportato una vittoria”: a dirlo non è qualche leader dell’asse della resistenza, ma nientepopodimeno che un ex premier israeliano di persona personalmente. Il riferimento, ovviamente, è all’esito della trattativa sullo scambio di prigionieri e a pronunciarsi è Ehud Olmert che così, a occhio, sa di cosa parla: sindaco di Gerusalemme durante la seconda intifada di inizi anni 2000 e a capo del governo durante l’operazione Piombo Fuso che, come oggi, si poneva l’obiettivo dichiarato di annichilire Hamas, di scambi di prigionieri se ne intende. Era stata proprio una faccenda di prigionieri, infatti, nel 2006 a dare il via all’operazione Piombo Fuso; ad essere rapito, in quel caso era stato, il giovane carrista franco – israeliano Shalit Gilad. Verrà rilasciato solo 5 anni dopo, in cambio della bellezza di 1.027 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane; per l’entità sionista, non esattamente un trionfo, diciamo. Ma cosa c’entra tutto questo con la ricostruzione dei fatti del 7 ottobre?
C’entra, c’entra. L’operazione diluvio di Al-Aqsa infatti, con ogni probabilità, aveva sostanzialmente due obiettivi: il primo, di carattere politico, consisteva nel riportare l’attenzione della comunità internazionale sulla questione nazionale palestinese che, fino ad allora, ci si illudeva fosse ormai sostanzialmente risolta con una vittoria schiacciante dell’occupazione israeliana; il secondo, di carattere strettamente militare, consisteva – appunto – nel fare incetta di prigionieri da barattare con la liberazione del maggior numero possibile di palestinesi detenuti, appunto, nelle carceri israeliane, a partire dai 700 minori e dagli oltre mille che non sono mai stati sottoposti a un processo e vivono nel limbo di quel crimine conclamato che è la detenzione amministrativa. Ed è proprio la dottrina elaborata dalle forze armate israeliane per impedire alle forze della resistenza di catturare prigionieri e ricattare Tel Aviv che sta alla base di tutto quello che ancora non torna nelle ricostruzioni ufficiali della propaganda giustificazionista del genocidio su quanto realmente avvenuto il 7 ottobre, un giallo in tre atti.
Il primo: siamo sul valico di Erez, che non è solo – semplicemente – la principale porta d’ingresso per il carcere a cielo aperto di Gaza, ma anche il principale avamposto militare e la sede dell’amministrazione civile del carceriere e il primo obiettivo del diluvio di Al-Aqsa. I militanti della resistenza attaccano le infrastrutture militari del varco a partire dalle prime ore dell’alba; poco dopo entrano in scena gli Apache delle forze armate israeliane, armati di missili Hellfire, che bombardano a tappeto. Bisogna imporre la ritirata alla resistenza e impedirle di fare prigionieri, a costo di causare vittime anche tra gli israeliani. Non è una scelta estemporanea: è una procedura formale adottata dalle forze armate israeliane sin dal lontano 1986. Si chiama Direttiva Annibale – dal nome del generale cartaginese che si avvelenò piuttosto che essere catturato dai romani – e che prevede che “Il rapimento deve essere fermato con ogni mezzo, anche a costo di colpire e danneggiare le nostre stesse forze” (Eyal Weizman, Goldsmith College di Londra), ed è la chiave di volta per provare a capire cos’è successo, da lì in poi, in quella drammatica giornata.
E siamo al secondo atto del nostro giallo: la location, a questo giro, è il kibbutz di Be’eri, ad appena 5 chilometri dal confine; con un bilancio di oltre 100 vittime, è il luogo di uno dei massacri che ha destato più indignazione in assoluto, ma su chi abbia ucciso chi ci sono più dubbi di quanto non si voglia far trapelare. Pochi giorni dopo gli avvenimenti, infatti, una delle pochissime sopravvissute, Yasmin Porat, aveva rilasciato un’intervista a una radio israeliana: dichiarava di essere stata rinchiusa in una stanza con altri 12 prigionieri, controllati a vista da una quarantina di membri della resistenza. “Ci hanno trattato molto umanamente” ha dichiarato; “eravamo spaventati a morte e hanno provato a tranquillizzarci. Il loro obiettivo era rapirci e portarci a Gaza, non ucciderci”. Esattamente quello che le forze armate israeliane avevano il mandato di evitare con ogni mezzo necessario, ed ecco così che, quando arrivano nel villaggio, inizia uno scontro violentissimo: uno dei rapitori prende Yasmin ed esce allo scoperto, usandola come scudo umano; la donna grida ai soldati israeliani di fermare il fuoco, senza risultati. Attorno a sé vede corpi di persone morte ovunque: “Erano stati uccisi dai terroristi?” chiede l’intervistatore: “No” risponde Yasmin “sono stati uccisi dal fuoco incrociato”. “Quindi potrebbero essere stati uccisi dalle nostre forze di sicurezza?” chiede l’intervistatore: “Senza dubbio” risponde Yasmin.

Max Blumenthal

Ma è solo la punta dell’iceberg: come riporta un giornalista del media israeliano i24 “Case piccole e pittoresche sono state bombardate o distrutte” e “prati ben tenuti sono stati divelti dalle tracce di un veicolo blindato, forse un carro armato”. Ancora, dopo 11 giorni dall’attacco, in mezzo alle macerie di una casa sono stati ritrovati i corpi di una madre e di suo figlio e – sostiene Max Blumethal in un lungo articolo pubblicato su GrayZone – “Gran parte dei bombardamenti a Be’eri sono stati effettuati da equipaggi di carri armati israeliani”. Tuval Escapa è uno dei responsabili della squadra incaricata di garantire la sicurezza del kibbutz Be’eri; durante l’attacco, avrebbe improvvisato una specie di linea diretta per coordinare i residenti del kibbutz e l’esercito israeliano, ma non è andata come sperava: “I comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili, incluso bombardare le case dei loro occupanti per eliminare i terroristi insieme agli ostaggi”, e a effettuare i bombardamenti non sarebbero stati solo i carri armati.
E qui siamo al terzo atto del giallo: la location, questa volta, è l’ormai tristemente arcinoto festival di musica elettronica Nova, a pochi chilometri dal kibbutz; secondo Blumenthal, è qui che gli Apache delle forze armate israeliane armati di missili Hellfire avrebbero concentrato la loro potenza di fuoco nel tentativo di impedire alle auto dei membri della resistenza – che, con ogni probabilità, stavano trasportando anche prigionieri da portare a Gaza – di portare a termine la loro missione e che, sottolinea la stessa stampa israeliana, è molto probabile non fosse stata poi neanche più di tanto programmata: “Tra i funzionari della sicurezza” riporta infatti Haaretz “in molti sostengono che i terroristi che hanno compiuto il massacro del 7 ottobre non sapevano in anticipo del festival”. Blumethal riporta un’intervista a un pilota di uno di questi elicotteri Apache presenti nell’area, rilasciata al notiziario israeliano Mako: il pilota avrebbe ammesso di non avere la minima idea di quali fossero i veicoli che potevano trasportare prigionieri israeliani, ma di aver comunque ricevuto l’ordine di aprire il fuoco lo stesso. Blumenthal riporta anche un articolo del quotidiano israeliano Yeditoh Aharanoth dove si sottolineava come “i piloti si sono resi conto che c’era un’enorme difficoltà nel distinguere all’interno degli avamposti e degli insediamenti occupati chi era un terrorista e chi era un soldato o un civile”, “E così” commenta Blumenthal “senza alcuna intelligenza o capacità di distinguere tra palestinesi e israeliani, i piloti hanno scatenato una furia di colpi di cannoni e missili sulle aree israeliane sottostanti”. “Le forze di sicurezza israeliane” continua Blumethal “hanno anche aperto il fuoco su israeliani in fuga che hanno scambiato per uomini armati di Hamas. Una residente di Ashkelon di nome Danielle Rachiel ha descritto di essere stata quasi uccisa dopo essere fuggita dal festival musicale Nova: “Quando abbiamo raggiunto la rotonda, abbiamo visto le forze di sicurezza israeliane!” Rachel ha ricordato; “Abbiamo tenuto la testa bassa [perché] sapevamo automaticamente che avrebbero sospettato di noi, a bordo di una piccola macchina scassata… dalla stessa direzione da cui provenivano i terroristi. Le nostre forze allora hanno iniziato a spararci, mandando in frantumi i finestrini”.
Per quanto fondate principalmente su articoli apparsi sui media israeliani, Haaretz ha subito etichettato le ricostruzioni di Blumenthal come “tesi cospirazioniste”, che è l’etichetta che ormai si affibbia con una certa facilità a qualsiasi cosa metta in questione la narrazione dominante, fino a quando però – pochi giorni dopo – Haaretz stesso non ha dato la notizia di un rapporto della polizia che confermerebbe che i partecipanti al festival sono stati uccisi – almeno in parte – proprio dall’esercito israeliano: “Secondo una fonte della polizia” scrive Haaretz “un elicottero da combattimento dell’IDF avrebbe sparato ai terroristi e apparentemente avrebbe colpito anche alcuni dei ragazzi che stavano partecipando al festival”; “Quello che abbiamo visto qui era una Direttiva Annibale di massa” avrebbe dichiarato il pilota di uno degli elicotteri Apache ad Haaretz. Il punto, però, è che a questo giro la Direttiva Annibale avrebbe ampliato a dismisura il numero di vittime tra la popolazione civile israeliana, ma senza ottenere grossi risultati: la resistenza palestinese è rientrata a Gaza col più grande bottino di prigionieri della storia del conflitto, e così oggi si ritrova in mano una potente arma di ricatto. “Questa tregua permetterà ad Hamas di riorganizzarsi” ammette Olmert nell’intervista al Fatto Quotidiano, ma “è un rischio che dobbiamo correre per forza”.

Ehud Barak

Attenzione, però, a non cedere ai sentimentalismi: posizioni come queste non rappresentano, come si sente spesso sostenere, una fazione più moderata e dialogante all’interno dell’establishment israeliano. Per entrambi, il fine rimane esattamente lo stesso: la distruzione di una prospettiva nazionale per il popolo palestinese che presuppone l’annichilimento della resistenza, che oggi è guidata da Hamas, che quindi va annientata. Whatever it takes. Il più grande rimpianto di Olmert, infatti, è ai tempi di Piombo Fuso aver fatto solo un decimo dei morti fatti in questo ultimo mese e mezzo, e di aver lasciato il lavoro a metà: “In quel frangente” riflette nostalgico Olmert “non avevo più la forza di proseguire fino all’annichilimento di Hamas”, ma “se potessi tornare indietro, farei l’opposto: terrei duro”. Ma contro chi? Chi è che lo spinse a demordere? Olmert è chiaro: furono “l’allora ministro della Difesa Ehud Barak e il capo di stato maggiore Gabi Ashkenazi”. Ci risiamo: i vertici militari che spingono alla prudenza e alla mediazione la politica sono di animo gentile? Macché: semplicemente, a differenza di Olmert, sanno di cosa parlano. Il punto infatti è che, allora come oggi, dal punto di vista militare gli obiettivi che rimpiange Olmert e che oggi rivendica Netanyahu – molto semplicemente – non sono raggiungibili.
Un film che abbiamo, in qualche modo, visto in Ucraina: la politica si nutre di pensiero magico, spera di ottenere risultati militari oggettivamente non raggiungibili, li persegue per un po’ di tempo sulla pelle dei soldati ucraini come dei bambini palestinesi e alla fine, quando il fallimento diventa palese anche ai lettori de la Repubblichina o del Giornale, ecco che arriva l’editoriale di turno che ribalta la realtà e dipinge la sconfitta come una vittoria. Gli innumerevoli motivi per i quali l’annichilimento di Hamas è una chimera li ricorda magistralmente, in un lungo articolo di ieri su Foreign Affairs, Audrey Kurth Cronin, direttrice del prestigioso Carnegie Mellon Institute for Strategy and Technology: “Il vantaggio asimmetrico di Hamas” si intitola. “Gli Stati e gli eserciti tradizionali” ricorda la Cronin “hanno sempre penato parecchio nel tentativo di sconfiggere i gruppi terroristici, ma la guerra tra Israele e Hamas dimostra perché oggi è diventato quasi impossibile”; “molti progressi tecnologici” ricostruisce la Cronin “hanno portato benefici sproporzionati ai gruppi terroristici” tanto che la Cronin attribuisce la nascita stessa del terrorismo proprio a una novità tecnologica: la dinamite.
Era il 1867; fino ad allora “i proiettili che usano polvere da sparo, come le granate, erano delicati e pesanti. La dinamite invece si nasconde facilmente sotto i vestiti e può essere accesa rapidamente e lanciata agilmente contro un bersaglio. Il risultato fu un’ondata di azioni terroristiche portate avanti da piccoli gruppi e da singoli individui, compreso l’assassinio con la dinamite nel 1881 dello zar russo Alessandro II”. La seconda tappa di questa avvincente cronistoria delle azioni terroristiche arriva nel 1947 con l’introduzione dell’AK-47, che “cambiò di nuovo l’equazione a favore degli attori non statali”; “Le statistiche parlano chiaro” sottolinea la Cronin: “tra il 1775 e il 1945 gli insorti hanno vinto contro gli eserciti statali circa il 25% delle volte. Dal 1945 questa cifra è balzata a circa il 40%. E gran parte di questo cambiamento può essere attribuito all’introduzione e alla diffusione globale dell’AK-47”.
Ora le rivoluzioni tecnologiche che rendono Hamas un nemico sostanzialmente impossibile da debellare sono parecchie: razzi Qassam auto – costruiti che, dai 15 chilometri di gittata che avevano nel 2005, ora ne hanno 250, i droni suicidi Zouari che evitano le difese aeree israeliane, i piccoli droni commerciali che trasportano granate o mitragliatrici da azionare a distanza, ma ancora la comunicazione social, che sta permettendo ad Hamas di contrastare efficacemente la propaganda sionista. E poi i tunnel, i benedetti tunnel di cui parliamo dall’inizio e che – anche se presi dall’entusiasmo verso la propaganda israeliana ogni tanto facciamo il tentativo di rimuovere – in realtà stanno sempre lì, e Israele non sa minimamente cosa farci. Ma a parte la tecnologia, sottolinea la Cronin, “Il più importante vantaggio asimmetrico di Hamas è di carattere strategico: lo sfruttamento della risposta di Israele al suo attacco. Poiché l’obiettivo dell’attacco di Hamas” continua la Cronin “era quello di provocare una reazione eccessiva e controproducente da parte di Israele, la risposta violenta dell’IDF ha infiammato l’opinione pubblica nella regione contro Israele esattamente come Hamas voleva”; “In parole povere” continua la Cronin “Israele ha abboccato rispondendo all’attacco di Hamas con la repressione violenta, un metodo di antiterrorismo popolare ma raramente efficace che funziona meglio quando i membri dei gruppi terroristici possono essere distinti e separati dalla popolazione civile: un compito impossibile a Gaza”.

Ebrahim Raisi

“Israele non ha raggiunto nessuno dei suoi obiettivi” ha ribadito ieri il presidente iraniano Ebrahim Raisi: “Ciò che ha fatto il regime sionista dimostra che è diventato disperato di fronte alla resistenza palestinese. Ma l’uccisione di donne e bambini non si traduce in vittoria” e, anzi “ha creato un’atmosfera senza precedenti di odio anti – sionista in tutto il mondo”. Pure in Vaticano: “Questa non è guerra” ha affermato papa Bergoglio, “è terrorismo”. Insomma, per dirla con la Cronin “Israele ha pochi modi per eliminare i vantaggi asimmetrici di Hamas. Il Paese non può invertire il cambiamento tecnologico o eliminare completamente la simpatia che attira la resistenza palestinese”. Per indebolire Hamas, l’unica arma a disposizione di Israele è la moderazione: “Dato che Hamas ha progettato il suo attacco per alimentare una reazione eccessiva da parte di Israele” conclude la Cronin “la cosa migliore che Israele può fare ora è rifiutarsi di fare il gioco di Hamas”.
Insomma: nel mondo suprematista c’è un gran dibattere sulle strategie più giuste per continuare il business as usual del colonialismo e dell’occupazione illegittima fondata sull’apartheid; abbiamo bisogno come il pane di un vero e proprio nuovo media che affermi ogni giorno che dopo il 7 ottobre non ci potrà mai più essere business as usual e che l’unico modo per sconfiggere la resistenza è eliminare la ferocia imperialista alla quale sta resistendo. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Fiamma Nirenstein

STERMINIO DEI GIORNALISTI: come Israele impone la sua visione eliminando fisicamente i giornalisti

Diecimila mila uomini armati di tutto punto che avanzano senza problemi; la bandiera israeliana esposta in bella mostra in un selfie celebrativo di gruppo dentro il parlamento di Gaza city; il quartier generale di Hamas circondato e assediato e i vicini arabi costretti a fare spallucce – asse della resistenza compreso – che, al di là delle minacce, sarebbe sostanzialmente del tutto impotente: il trionfo militare di Israele, da tutti i punti di vista, non potrebbe essere più schiacciante e plateale, o almeno così ci viene raccontata. E graziarcazzo: se la cantano e se la suonano.
Sia chiaro: per quanto ne sappiamo, potrebbero anche avere ragione eh? Il problema, però, appunto è: quanto ne sappiamo? Ogni fonte di informazioni indipendente – semplicemente – è stata abbattuta, proprio fisicamente intendo: secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, infatti, dall’inizio del conflitto si contano 9 giornalisti feriti, 13 arrestati, 3 scomparsi e la bellezza di 42 brutalmente assassinati, alcuni insieme anche a tutta la loro famiglia, che non si sa mai. Sostanzialmente tutti erano palestinesi e non erano proprio convintissimi dell’affidabilità delle fonti israeliane; per capire l’entità, in quasi due anni di conflitto in Ucraina i giornalisti morti risulterebbero in tutto 12. E così tutto quello che sappiamo oggi, sostanzialmente, è propaganda israeliana, spesso un po’ cringe: dalla copia magica del Mein kampf incredibilmente intonsa, nonostante sia stata ritrovata in mezzo alle macerie, alla famosa lista dei terroristi carcerieri trovata dentro all’ospedale di al Shifa e ostentata in pompa magna da tutti i media internazionali, a partire da quei geniacci della CNN. Peccato che quelli che indicavano come nomi dei carcerieri, in realtà, fossero i giorni della settimana; il documento scottante era un calendario. S’arrampicano sugli specchi: devono, in tutti i modi, giustificare il fatto di assistere entusiasti a un plateale crimine di guerra e – visto che di prove concrete che l’ospedale nascondesse nei suoi sotterranei nientepopodimeno che il quartier generale di Hamas al momento, stranamente, non ne hanno – s’attaccano a tutto. D’altronde non è la prima volta; è la modalità standard con la quale il giornalismo del mondo libero ha raccontato tutti gli stermini dell’asse del male negli ultimi 20 anni, da quando l’unico giornalismo tollerato è diventato solo ed esclusivamente quello embedded, totalmente controllato dalle forze di occupazione. Tutti i giornalisti occidentali che ora sono a Gaza, infatti, sono al seguito delle forza armate israeliane e hanno come unico mandato quello di fare da megafono alle loro vaccate, e sono l’unica fonte di informazioni che abbiamo. Una bella overdose di post – verità.
In questo video cercheremo di portarvi il punto di vista della parte opposta; ovviamente non è che sia necessariamente più affidabile di una Repubblichina o di una Radio genocidio radicale qualsiasi. In guerra, nessuna delle parti in causa, ovviamente, è molto affidabile: per questo esistono gli osservatori indipendenti. O meglio esistevano, prima che le bombe democratiche e liberali di Israele li sterminassero; l’obiettivo, appunto, era impedire all’altra campana di esistere tout court, e che la propaganda del genocidio diventasse magicamente LA REALTA’. Riusciremo a impedirlo?
Oltre ai pochi giornalisti che non sono a libro paga dell’apparato egemonico israeliano e dei suoi collaboratori, a minacciare di riuscire a portare al grande pubblico informazioni diverse da quelle sciorinate dalla propaganda genocida sionista ci sono le fonti aperte e cioè quell’infinita selva di dati che, nella guerra per procura della Nato contro la Russia in Ucraina, hanno permesso – giorno dopo giorno – di smontare sistematicamente la ridicola propaganda suprematista occidentale, e che in Israele sono stati scientificamente eliminati; lo riporta in un lungo articolo il sito libanese Al-Akhbar: “Sabotaggio GPS sulla Palestina occupata” titola; “i satelliti rivelano la sconfitta di Israele”. L’articolo ricorda come “dopo l’operazione diluvio di al-aqsa del 7 ottobre, Israele ha cercato di impedire agli account di open source intelligence di ottenere informazioni sabotando la tecnologia che fornisce i dati”. Come riportava lo stesso Bloomberg pochi giorni prima l’inizio dell’operazione di terra da parte di Israele, infatti, su richiesta del regime genocida di Tel Aviv Google aveva “interrotto il traffico di dati di Google Maps” su tutta l’area interessata; poco dopo è stato il turno anche dell’applicazione di mappe di Apple. Il Big Tech USA è al servizio del genocidio, senza se e senza ma. Nel caso non bastasse, come riportava Politico il 23 ottobre scorso, l’esercito di occupazione – comunque – aveva provveduto anche a sabotare i satelliti del sistema GPS sopra il confine che separa Israele dal Libano “nel tentativo di impedire ai missili di precisione o ai droni della resistenza libanese di raggiungere i loro obiettivi” (Al-Akhbar).

Ma era solo l’inizio; nei giorni successivi, infatti, Associated Press prima e New York Times dopo erano entrate in possesso di alcune immagini satellitari ad alta definizione che svelavano i movimenti delle forze armate israeliane. A fornirle, due aziende americane: Planet Labs e Maxar Tecnologies, che sono state prese immediatamente per le orecchie; come rivelato dal sito Semafor, il 6 novembre infatti – dopo la pubblicazione di quelle immagini – le due aziende “hanno iniziato a limitare le immagini di Gaza, e Planet Labs ha persino rimosso alcune immagini della Striscia di Gaza dalla galleria scaricabile su abbonamento dal sito web”. Da allora, le poche immagini che le due aziende forniscono esclusivamente ai media di fiducia arrivano comunque con giorni di ritardo: “non è chiaro” scrive Al-Akhbar “il motivo per cui queste aziende hanno interrotto e ritardato i loro servizi e chi ha esercitato pressioni a questo riguardo. Quello che è chiaro, però, è che è nell’interesse dell’entità occupante e del suo esercito”. E allora, giusto per controbilanciare un po’ la propaganda filo – genocidio, vi riportiamo un po’ di informazioni non verificate (e, al momento attuale, non verificabili) della propaganda avversa, e cioè quella dell’asse della resistenza che a tutta questa gloriosa avanzata senza ostacoli delle forze armate israeliane non sembra credere molto: “Da questa mattina” ha dichiarato ad esempio ieri sera in un comunicato ufficiale Abu Ubaida, portavoce delle Brigate al-Qassan, “i nostri mujaheddin sono stati in grado di uccidere 9 soldati sionisti e distruggere completamente o parzialmente 22 veicoli”. Con “questo tributo, che potrebbe essere il più grande sul campo dall’inizio della battaglia” commenta Al-Akhbar “il numero di carri armati e veicoli presi di mira sale a circa 200. Quello che è emerso negli ultimi due giorni” continua Al-Akhbar “è che le brigate Al-Qassam si sono prese il tempo necessario per preparare piani e tattiche, il cui impatto aumenterà nei prossimi giorni”.
“Stiamo combattendo contro i fantasmi” si lamentano gli analisti israeliani: il riferimento, appunto, è alla modalità di combattimento che – come prevedibile – hanno adottato i guerriglieri, in particolare delle brigate Al-Qassam, ma non solo. “Pertanto” sottolinea Al-Akhbar “anche l’obiettivo dell’umiliazione e della sottomissione attraverso il combattimento è impossibile” e, a parte i selfie nel parlamento e l’assedio degli ospedali, la lista degli obiettivi militari che al momento mancano all’appello, secondo la resistenza, sarebbe piuttosto lunghina: nessun pezzo grosso di Hamas, infatti, è stato tratto in arresto; nessuna sala di comando è stata individuata e neutralizzata; non ci sono scese di resa di guerriglieri a favore di telecamere; non c’è un caso di uno qualsiasi dei famosi tunnel liberato e portato sotto il controllo delle forze armate israeliane. “Per questo motivo” commenta Al-Akhbar “Israele non si accontenta dell’azione militare, ma ricorre all’uso di crimini palesi come la distruzione totale di ogni struttura civile e il tentativo di far morire di fame e di malattie il maggior numero di persone”; per trasmettere un’”immagine vittoriosa” un po’ pochino. Per fare qualche passo avanti, continua Al-Akhbar, “l’esercito di occupazione dovrebbe scendere dai mezzi blindati, sgomberare edifici, vicoli e quartieri e confrontarsi direttamente con i combattenti, di strada in strada, cosa che le forze avanzate nel settore occidentale della città non hanno ancora fatto, mentre procedono molto lentamente, dando la massima priorità alla protezione dei soldati dagli attacchi”. “In conclusione” scrive sempre Al-Akhbar “ciò che sinora si può comprendere è che l’operazione di terra non raggiungerà in alcun modo direttamente i suoi obiettivi operativi, e che la ricerca dell’“ago” della vittoria nel “pagliaio” di Gaza si scontrerà, col tempo, con il muro della frustrazione e della futilità, mentre la resistenza avrà riconquistato quasi interamente la posizione e l’iniziativa”.
Nel frattempo, dopo giorni di silenzio da parte dei soliti famigerati razzi provenienti dalla Striscia, negli ultimi due giorni si sono tornate a registrare raffiche significative: “Alcuni video” riporta sempre Al-Akhbar “hanno mostrato migliaia di persone determinate nel nord della Striscia che accompagnavano l’intenso lancio di razzi con applausi e invocazioni ad Allah”. Poche ore prima, Netanyahu aveva cercato di flexare importanti successi militari invitando gli insediamenti produttivi intorno a Gaza a ricominciare il business as usual, dal momento che l’avanzamento dell’iniziativa di terra sarebbe riuscita a smantellare le postazioni da cui venivano lanciati i razzi.
Il ritorno agli attacchi dei razzi da Gaza, oltre alle difficoltà dell’operazione via terra, dipenderebbero anche da un altro fattore: gradualmente, ma inesorabilmente, si starebbero intensificando gli attacchi da nord da parte di Hezbollah, tanto da costringere il ministro della difesa Gollant a spostare una bella fetta delle capacità antiaeree verso nord, e potrebbe essere solo l’inizio. Nel lungo discorso di sabato scorso, Nasrallah infatti ha detto una cosa importante: “Le parole restano sul campo” ha affermato. “La nostra politica attuale è che è il campo a parlare, e poi arriviamo noi a spiegare l’azione”; in soldoni, significa che a valutare quello che dal punto di vista militare è fattibile, da lì in poi saranno direttamente quelli che combattono in prima linea. La direzione politica è quella di sostenere la resistenza palestinese e di obbligare Israele ad essere occupato su più fronti: con che tempi e quali modalità saranno i militari a deciderlo. Poche ore dopo, le azioni sul confine settentrionale di Israele subivano un’accelerazione significativa e “ciò spiega la decisione della leadership sionista di mobilitare un terzo del suo esercito, circa la metà dei suoi sistemi di intercettazione e gran parte della sua aviazione sul confine con il Libano” (Al-Akhbar).
Ma il confine con il Libano non è certo l’unica zona che si sta incendiando: negli ultimi giorni ad essere presa particolarmente di mira, ad esempio, è stata la località turistica di Eilat, la Miami d’Israele; in questo caso, a tenere alta la tensione sarebbero le forze yemenite, che hanno sferrato numerosi attacchi ricorrendo all’utilizzo, come ricorda al Mayadeen, di “droni a lungo raggio, missili da crociera e missili balistici”. A prendere di mira Eilat, poi, ci si sono messe pure le milizie sciite di stanza in Iraq che non si sono limitate ad Eilat; ad essere prese di mira negli ultimi giorni, infatti, sarebbero state alcune basi USA. Solo giovedì scorso, la base di Ain Al Assad in Iraq sarebbe stata raggiunta da 3 diversi attacchi che hanno visto l’impiego sia di missili che di droni.
Per carità, niente di ché. Ma sono gli stessi che quando a compierli sono gli ucraini in Russia, per tre giorni poi i giornali parlano delle falle nella sicurezza del Cremlino e di allargamento della controffensiva in territorio russo. Noi vorremmo evitare di essere così cringe, ecco, però anche far finta di niente con la complicità della propaganda forse non è la strategia migliore, sopratutto se all’Iraq aggiungiamo anche la Siria. In tutto – confermano anche dal Pentagono – si arriva a poco meno di una cinquantina di attacchi. E’ vero: non causano migliaia di vittime civili e non radono al suolo scuole, asili e ospedali, ma se dal gusto per la vendetta e per la carneficina passiamo ai veri obiettivi militari, così a occhio anche Israele non è che abbia ottenuto poi tantissimo di più e se c’è una cosa che negli scorsi 20 anni di stermini indiscriminati in nome della war on terror abbiamo imparato, è che tendenzialmente questi focolai è abbastanza difficile che, a un certo punto, si spengano come per magia. Gli eserciti regolari – che costano una vagonata di soldi e sono composti, in buona parte, da gente che non aspetta altro che tornare a fare qualche rave sulle spiagge della Florida o di Tel Aviv – tendono a perdere piuttosto rapidamente il loro slancio iniziale; i popoli sottoposti alla furia colonialista e all’occupazione, un po’ meno. Anche a 20 anni di distanza, anche quando – con la complicità dei media che chiudevano un occhio – hai fatto finta di scordarteli, ecco che rispuntano sempre fuori, più incazzosi che mai. Che è esattamente quello che, secondo numerosi analisti, era il succo del messaggio di Nasrallah: non ci facciamo illusioni; per la resistenza il tributo di sangue da versare è ancora gigantesco, ma Israele s’è infilato in un vicolo cieco.
Per ora, bisogna ammetterlo, a non averlo capito non è solo Tel Aviv: anche in gran parte dei paesi arabi si fa un po’ finta di niente. La prova è arrivata dalla riunione di sabato della Lega araba; sul tavolo c’era una proposta di risoluzione piuttosto ambiziosa, vista l’assise: si chiedeva di impedire l’utilizzo delle basi della regione agli USA, di congelare il dialogo con Israele e anche di cominciare a mettere un freno alle relazioni economiche. Gli alleati storici degli USA della regione non ne hanno voluto sapere e la resistenza palestinese, comprensibilmente, ha gridato al tradimento.
Per chi sperava in un’alzata di scudi del mondo arabo – almeno di fronte a un genocidio di queste dimensioni e sotto la pressione delle opinioni pubbliche locali – sicuramente si è trattato di una battuta d’arresto significativa. Tra le classi dirigenti reazionarie delle petromonarchie, evidentemente, nonostante i recenti sviluppi – a partire dal ritorno al dialogo tra sauditi e iraniani mediato dalla Cina – sull’indignazione per lo sterminio dei bambini arabi continua a prevalere la diffidenza nei confronti della minaccia che l’Iran e l’asse antimperialista della resistenza rappresenta per la tenuta dei loro regimi feudali e antipopolari. Sono tentennamenti che ovviamente gridano vendetta perché, nel frattempo, lo sterminio procede sostanzialmente indisturbato, ma chi nel nord globale canta vittoria – magari perché, a suon di leggere i reportage embedded della propaganda, s’è fatto un’idea un po’ idilliaca a trionfalistica dei risultati dell’avanzata di terra – potrebbe tutto sommato rimanere deluso (soddisfazione per lo sterminio gratuito di bambini a parte, si intende). Sebbene la Lega araba non abbia adottato la risoluzione di cui sopra, infatti, ne ha comunque adottata un’altra più blanda ma che comunque, in modo unitario, condanna senza se e senza ma il genocidio e chiede un immediato cessate il fuoco, e la partita per spostarla su posizioni più radicali è appena iniziata; per quanto si tratti spesso di regimi dispotici, un certo peso le opinioni pubbliche lo svolgono comunque, sia a livello interno che, più in generale, a livello regional, e nell’insieme della Umma Islamica, la comunità dei fedeli che va oltre ogni confine. E le opinioni pubbliche sono, in maniera schiacciante, solidali con la martoriata popolazione palestinese, e per non consegnarle interamente all’egemonia dell’Iran – che è il vero incubo delle petromonarchie del Golfo e che, come ha sottolineato maliziosamente Nasrallah stesso, è la potenza regionale che rende possibile l’azione dell’asse della resistenza – continueranno ad essere costretti perlomeno a far finta di contrapporsi al piano genocida di Israele.

Justin Trudeau e Emmanuel Macron

Una tensione che ha cominciato a far scricchiolare anche l’asse dei vassalli di Washington – da Macron a Trudeau – che sono stati costretti a dire parole abbastanza chiare sulla totale sproporzione della reazione israeliana, mentre la breaking news che leggo in un’agenzia mentre chiudo questo pippone è che il consiglio di sicurezza dell’ONU (dopo 4 tentativi naufragati) con 12 voti favorevoli e soli tre astenuti avrebbe adottato una risoluzione che imporrebbe una “pausa umanitaria urgente ed estesa e corridori umanitari che attraversino la striscia di Gaza”.
Lo sconvolgimento messo in moto dal diluvio di al-aqsa il 7 ottobre ha portata epocale, un evento storico dentro un mondo che cambia a una rapidità a cui non eravamo più abituati da 70 anni, e tutti i segnali ci continuano a dire che non vada esattamente nella direzione auspicata dall’egemone USA e dai suoi innumerevoli proxy regionali. E se il mondo nuovo avanza, farselo raccontare dai vecchi media suprematisti e dai giornalisti embedded al seguito dell’asse del male potrebbe non avere tantissimo senso.
Forse è arrivato il momento di spegnerli e di accendere Ottolina Tv: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Benyamin Netanyahu

I nuovi Hitler: o come compiere un massacro ergendosi a paladini dell’Umanità

Negli ultimi anni, in caso di conflitto tra l’occidente americano e i suoi nemici sono emerse due tecniche fondamentali di manipolazione mediatica: la censura qualificata e la reductio ad Hitlerum

Joe Biden: “siamo dalla parte di Israele per annientare i nemici della democrazia”.

Ci risiamo. Il copione è sempre lo stesso.

Un giorno ci svegliamo, scopriamo che dei cattivi hanno attaccato in maniera ingiustificata il mondo libero, viene dichiarata l’impossibilità di avviare trattative in quanto ad essere in gioco sono i valori dell’occidente e della democrazia, e infine assistiamo gaudenti alla distruzione totale dell’avversario.
La fase storica che stiamo vivendo è caratterizzata da una profonda crisi, forse terminale, dell’impero americano.
Ma con l’indebolirsi della presa USA sul mondo, i suoi i processi di controllo sull’informazione hanno subito un’accelerazione, e la propaganda si fa sempre più capillare e stingente.
Negli ultimi anni, in caso di conflitto tra l’occidente americano e i suoi nemici sono emerse due tecniche fondamentali di manipolazione mediatica: la prima è la censura qualificata, fondata sul controllo e sulla selezione dei flussi di opinione pubblica. La seconda è quella che con il filosofo tedesco Leo Strauss possiamo chiamare la reductio ad Hitlerum: tutti i nemici politici occidentali vengono identificati come nuovi Hitler, in modo da squalificarli ontologicamente, impedire ogni forma di diplomazia, e giustificare preventivamente ogni crimine e mezzo di distruzione che verrà perpetrato nei loro confronti. Purtroppo, chi ci rimette di più in questa guerra alla ragione e al pensiero critico siamo proprio noi europei, che assisteremo succubi e impotenti alla destabilizzazione del mondo intorno a noi e ad un un’ulteriore restrizione delle nostre libertà democratiche.

Scrive il professore di Filosofia morale Andrea Zhok: “Essendo i paesi del blocco di alleanze americano tutte liberaldemocrazie, il problema del controllo dell’opinione pubblica è centrale. Si è avviata così una fondamentale battaglia per le anime delle popolazioni occidentali, e questa battaglia ha il suo epicentro non in America, ma in Europa, dove la tradizione di una cultura critica e plurale era assai più vigorosa che negli USA”. Naturalmente, questa battaglia non avviene più attraverso i metodi di eliminazione fisica o di censura sistematica visti un secolo fa; oggi si possono infatti manipolare, censurare e filtrare selettivamente le informazioni per il tempo sufficiente a creare un certo effetto irreversibile.

Per comprendere questo processo possiamo tranquillamente guardare a quanto successo in Italia durante queste due settimane di guerra calda della lotta indipendenza palestinese. Sono state demonizzate e accusate di connivenza con il terrorismo tutte le manifestazioni pro-Palestina. La trasmissione di Fabio Fazio, punto di riferimento dei progrediti italiani, ha deciso di non ospitare più Patrick Zaki dopo che questo aveva espresso la sua pessima considerazione del governo israeliano. L’ebreo Moni Ovadia, da sempre critico contro le politiche imperialiste israeliane, è stato praticamente accusato di antisemitismo e invitato a lasciare il posto di direttore del teatro comunale di Ferrara.
Nel mentre, i manganellatori dell’informazione di Repubblica e del Corriere della Sera, hanno lanciato strali e organizzato agguati mediatici contro la povera ambasciatrice Elena Basile, rea di aver espresso semplicemente la sua opinione frutto di anni di lavoro diplomatico.

Fortunatamente però, a difendere il pluralismo e la libertà di espressione ci sono sempre le istituzioni europee. Con l’inizio dei bombardamenti israeliani su Gaza, l’UE ha infatti chiesto a META di rimuovere dalle loro piattaforme tutti i contenuti ritenuti “disinformazione”, pena sanzioni fino al 6% del fatturato mondiale, e il commissario europeo Thierry Breton è intervenuto ufficialmente presso Elon Musk per sollecitare interventi di controllo e censura sulle “fake news”. Possiamo solo rabbrividire all’idea di cosa intendano i mozzi di Washington con i termini “fake news” e “disinformazione”. La reductio ad Hitlerum, invece, funziona pressappoco così: ogni volta che scoppia un conflitto, il nemico dell’occidente americano viene immediatamente bollato come nuovo Hitler, e da semplice antagonista degli interessi strategici americani si trasforma in minaccia esistenziale per la democrazia e per i valori dell’ occidentale: lo abbiamo visto con Milosevic, Saddam Hussein, Putin e adesso con Hamas, definita organizzazione terroristica e paragonata a più riprese ai nazisti.
È quanto emerge esemplarmente dall’articolo di Roger Abravanel pubblicato in questi giorni sul Corriere: “Non si tratta” scrive “di una lotta politica per liberare un Paese occupato ma di una lotta contro la civiltà occidentale e Israele è solo il primo passo di questa lotta. I terroristi non gridavano «morte a Israele», ma «morte agli ebrei» (di tutto il mondo) e il passo successivo è già in atto: portare il califfato ovunque, anche in quella Europa cristiana che però continua a finanziare Hamas-Isis, illudendosi che questi fondi arrivino alla popolazione palestinese. Gli attentati terroristici in Francia e in Belgio di questi giorni sono una prova che la guerra non è contro gli israeliani e gli ebrei, ma contro il mondo occidentale”. La lotta di indipendenza palestinese quindi, non è come pensano gli sciocchi un conflitto regionale legato ad una disputa di territori ed interessi strategici. No, è una dichiarazione di guerra totale a tutto l’occidente.
Questo spaventoso artificio retorico non è solo un modo per compattare internamente la società prospettando una sorta di nuova invasione barbarica, ma soprattutto per squalificare ontologicamente il nemico così da giustificare preventivamente tutte le atrocità che verranno commesse per sconfiggerlo.
“Dichiaro il blocco totale della Striscia” ha dichiarato infatti il ministro della Difesa israeliano Yoav Galant quando è cominciato il massacro di Gaza. “Non ci sarà elettricità, né cibo, né carburante, tutto sarà tagliato fuori. Siamo in guerra con dei subumani e agiamo di conseguenza”. Ci stanno dicendo; visto che non abbiamo a che fare con degli uomini, ma con neo-sub-umani neonazisti odiatori del bene e dell’umanità, e quindi tutto è lecito, e tutte le morti civili che faremo in questa guerra saranno giustificate, come giustificate furono durante la seconda guerra mondiale la distruzione di Dresda e le bombe atomiche americane sganciate sui civili giapponesi.
È sostanzialmente questo il ragionamento anche del giornalista del corriere Jacopo Iacoboni, che in un tweet del 10 ottobre, esprimendosi sul massacro di Gaza dimostra una straordinaria padronanza della reductio ad Hitlerum: “Era giusto colpire di fatto tutti i tedeschi, per colpa dei crimini commessi dalla cricca nazista?” Si chiede Jacoboni “Certamente no, ma nelle fasi finali della guerra questa distinzione finì per sfumare, perché bisognava distruggere i nazisti e impedire che continuassero a fare del male all’umanità”. Ma oltre alla manipolazione e all’amore per il napalm, anche l’ipocrisia dell’occidente americano non sembra conoscere limiti. In questi giorni infatti, leggiamo un po’ ovunque sia nei giornali dei suprematisti che in quelli dei progrediti, un altro argomento utilizzato in questi anni per legittimare i bombardamenti occidentali dei propri nemici: “il benessere futuro dei palestinesi di Gaza”, scrive sempre l’oplita della libertà Roger Abravanel sul Corriere, “dipende dall’annientamento di Hamas da parte di Israele e coloro ai quali esso sta a cuore debbono appoggiarlo”.
Insomma, così come nel 2003 il vero nemico degli iracheni non erano gli americani, ma Saddam Houssein, e l’America come è noto distrusse il loro paese per salvarli da se stessi, in questi giorni scopriamo che il vero nemico dei palestinesi non sono gli israeliani, ma Hamas, cioè i palestinesi stessi, e che i massacri compiuti dagli Israele sono mossi dall’amore per la popolazione di Gaza. Come diceva Gaber l’occidente americano non fa mai la guerra per prendere, ma solo per dare, perché è generoso. E se anche tu ti auguri che l’italia e l’europa possano prima o poi svegliarsi da questo sonno della ragione e ricominciare a rispettare la propria storia e i propri principi, aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolinatv su pay pal e gofoundme, e aiutaci a costruire un media libero e indipendente che contrasti la propaganda.

E chi non aderisce, è Jacopo Jacoboni.

Il genocidio di Gaza: se per risolvere il rebus la propaganda non basta più

“BREAKING: L’aeronautica israeliana ha colpito una base terroristica di Hamas dentro un ospedale a Gaza”: a scriverlo su Twitter è Hananya Naftali, giovane influencer israeliano diventato ultra-popolare a suon di boutade islamofobe e suprematiste e che da poco è entrato ufficialmente a far parte del team digitale preposto alla propaganda online del governo più reazionario della storia del paese. Pochi minuti prima, una gigantesca esplosione aveva letteralmente raso al suolo l’ospedale Al-Ahli Arab di Gaza. Non era la prima volta: come ha rivelato alla BBC il prete della diocesi anglicana proprietaria dell’ospedale, infatti, “sabato scorso un missile aveva già colpito l’ospedale, causando gravi danni alla struttura e ferendo 4 persone”. Il prete ha anche affermato che, per quanto ne sapeva lui, si trattava ovviamente di un missile israeliano: “era un avvertimento”, ha dichiarato, “volevano fosse chiaro che non si trattava di un posto sicuro”. Il timore delle forze armate israeliane, non privo di fondamento, è che Hamas utilizzi in modo spregiudicato luoghi come scuole e ospedali per mettere al riparo uomini e attrezzature. Ovviamente escluderlo è impossibile; in tutte le guerre asimmetriche,. l’utilizzo spregiudicato degli scudi umani è spesso una componente essenziale, esattamente come facevano i lettori di Kant dei battaglioni Azov durante la battaglia di Mariupol. Colpire questi bersagli, per quanto cinico e spregiudicato possa apparire, non è sadismo ingiustificato, ma serve a mettere in chiaro che non ci sarà scudo umano in grado di ostacolare la forza distruttrice della vendetta sionista.
D’altronde è una storia antica: durante i bombardamenti del 2014, ad esempio, vennero rase al suolo numerose scuole dell’Agenzia per i rifugiati palestinesi delle Nazioni Unite che venivano utilizzate come rifugio dai civili. Le vittime furono in tutto 44 e oltre 200 i feriti; le indagini successive rivelarono che effettivamente 3 delle 7 strutture rase al suolo erano state utilizzate come deposito di armi da parte delle milizie della resistenza. Negli altri 4 casi, invece, si erano sbagliati e avevano bombardato civili inermi senza nessunissimo motivo. Insomma, in questo contesto qualche decina di vittime innocenti non sarà particolarmente educato, ma da parte di Israele non viene considerato comunque niente di particolare di cui vergognarsi, tanto comunque la verità – se mai si saprà – arriverà mesi se non anni dopo e l’imbarazzo per l’ennesima carneficina degli israeliani avrà già bell’e che lasciato lo spazio all’ammirazione per i bellissimi pride e il rispetto per le minoranze sessuali.
Ma a questo giro però qualcosa deve essere andato storto; dopo poco, infatti, Naftali – il genocida mattacchione – decide improvvisamente di cancellare il suo tweet e la rivendicazione di Israele di un atto di guerra certo feroce, ma indispensabile, sparisce. Il punto è che l’ospedale di Al-Ahli è un ospedale piccolino (poco più di 80 posti letto); quante vittime vorrai che faccia mai un bel razzetto… 50, 60? Rispetto agli oltre 1000 bambini che sono stati trucidati in questa settimana, dettagli. Purtroppo, però, a questo giro i calcoli non tornano: dentro il piccolo ospedale infatti si erano rifugiati in oltre 1000 e il bilancio è disastroso. Il grosso dei resoconti parla di almeno 500 vittime; secondo l’organizzazione umanitaria MedGlobal è “il peggior attacco a una struttura sanitaria del 21esimo secolo”. Giustificarlo con la possibile presenza di qualche razzo Qassam, potrebbe risultare un po’ difficile, ed ecco allora che magicamente il copione cambia completamente. Al posto del vecchio tweet, Naftali pubblica questo

“La misteriosa esplosione a Gaza” scrive. “Hamas incolpa Israele per questo” e invece, procede arrampicandosi, “credo che si tratti di un razzo fallito che ha colpito l’ospedale o di qualcosa che è stato fatto apposta per ottenere il sostegno internazionale”. Da lì in poi la linea della propaganda sarà quella: l’efficiente missile israeliano che aveva sgominato l’ennesima base nascosta di Hamas, si trasformerà magicamente in una false flag architettata dagli untermensch, dai subumani. D’altronde avete visto tutti di cosa sono capaci: “tutto il mondo ha visto Hamas tagliare teste di bambini” ha affermato in un’intervista su Skynews l’ambasciatrice israeliana nel Regno Unito. Ma che davvero? Cioè, gli avete visti tutti e a me non mi avete detto niente? Vatti a fidare. D’altronde, forse, non è una fonte proprio affidabilissima: sempre nella stessa intervista, infatti, ha dichiarato che “a Gaza non c’è nessuna crisi umanitaria”.
Chi di sicuro aveva detto di averli visti di persona personalmente i bimbi decapitati comunque era stato Joe Biden che poi aveva costretto a una smentita addirittura il suo stesso staff. E a questo giro ci risiamo; costretto a trovare una giustificazione ragionevole al fatto di aver deciso di portare la sua solidarietà a un regime terrorista poche ore dopo averlo visto commettere un atto genocida di dimensioni epiche, da Tel Aviv – più rimbambiden che mai – ecco che gioca di nuovo la carta della post-verità. “In base a quello che ho visto, è stato fatto dall’altro team, non da voi” ha dichiarato a un compagno Netanyahu evidentemente compiaciuto. Che poi io, ormai, mi son fatto questa idea: che zio Joe sia rimbambiden secondo me è una messa in scena. Fa finta, così la può sparare grossa quanto gli pare, e al limite poi con una piccola smentita si aggiusta tutto.
E’ un po’ la strategia che ha deciso di adottare anche Naftali.

“Oggi”, ha scritto in un tweet, “ho condiviso un rapporto pubblicato su @reuters sull’attentato all’ospedale di Gaza in cui si affermava falsamente che Israele aveva colpito l’ospedale. Ho erroneamente condiviso queste informazioni in un post cancellato in cui facevo riferimento all’uso di routine degli ospedali da parte di Hamas per immagazzinare depositi di armi e condurre attività terroristiche. Mi scuso per questo errore. Dato che l’IDF non bombarda gli ospedali, ho pensato che Israele stesse prendendo di mira una delle basi di Hamas a Gaza”. Geniale! L’IDF non bombarda gli ospedali – dice – a parte quando li bombarda, tipo 94 volte dall’inizio di questo conflitto, e in tal caso però fa bene perché potrebbero nascondere armi di Hamas, anche quando non le nascondono. Ma sopratutto: cioè, te fai parte del team digitale per la propaganda online di un governo che in quanto a propaganda non teme confronti al mondo, e su una cosa così delicata ti basi su un articolo a cazzo della Reuters, che tra l’altro si basa sulle dichiarazioni di funzionari di Hamas? Quello di Naftali non è stato l’unico epic fail della blasonatissima propaganda israeliana; per sostenere la pista del razzo della contraerea palestinese fuori rotta, l’account Twitter ufficiale dello Stato israeliano martedì sera infatti pubblica questo post: “Secondo informazioni di intelligence provenienti da diverse fonti in nostro possesso”, scrivono, “l’organizzazione terroristica della Jihad islamica è responsabile della fallita sparatoria che ha colpito l’ospedale”. A prova di questa tesi allegano un video dove si vede la contraerea di Gaza in azione proprio in quell’area, ma gli è sfuggito un piccolo dettaglio: il video è stato registrato 40 minuti dopo il massacro. Soluzione? Semplice: si cancella il video, ma rimane il testo. Tanto ai sostenitori del genocidio gli basta. Ed ecco infatti che, subito dopo, arriva la nostra Ursulona a metterci il suo carico da 90: a “causare immense sofferenze al popolo palestinese” – afferma con sicurezza Ursolona 7cervelli – è stato “il terrorismo di Hamas”.
Se, per risolvere il rebus, la propaganda non basta più e la prova provata di chi fosse in definitiva il missile che ha sterminato oltre 500 civili inermi martedì sera probabilmente non ce l’avremo mai, di chi è la responsabilità morale – invece – lo sappiamo benissimo. Lunedì scorso, infatti, la Russia aveva presentato al consiglio di sicurezza dell’ONU una risoluzione per imporre immediatamente il cessate il fuoco; i rappresentanti dell’occidente globale l’hanno respinta in blocco e a Tel Aviv hanno brindato. Era il semaforo verde: qualunque azione decidiamo di intraprendere per portare a termine il genocidio, il sostegno degli alleati non si discute. Il giorno dopo, ecco che la pioggia di bombe cade più fitta che mai, tanto se la situazione poi sfugge di mano, la propaganda una toppa sicuro la trova.
Sterminare e terrorizzare il maggior numero possibile di civili non è un atto di puro sadismo: fa parte di una precisa strategia militare che, tanto per iniziare, prevede che in tutta la parte nord della striscia non rimanga sostanzialmente nessun civile. Sgomberare completamente il terreno attraverso questa democratica pulizia etnica è indispensabile perché, prima di entrare via terra, è necessario radere Gaza completamente al suolo. “Il concetto”, ricorda Seymour Hersh in un lungo articolo sul suo profilo Substack, “risale ai primi anni della guerra del Vietnam in America, quando l’amministrazione del presidente John F. Kennedy autorizzò il Piano Strategico Amleto che prevedeva il trasferimento forzato dei civili vietnamiti in aree ritenute essere controllate dai vietnamiti del sud. Le loro terre deserte furono poi dichiarate zone di fuoco libero dove chiunque fosse rimasto avrebbe potuto essere preso di mira dalle truppe americane”. La differenza, a questo giro, è che radere tutto al suolo potrebbe non bastare; bisognerà andare più giù, molto più giù.
Uno dei punti di forza principali della resistenza palestinese a Gaza, infatti, è lo sterminato reticolo di tunnel e magazzini sotterranei costruiti negli ultimi anni, “la metropolitana di Gaza”, come è stata ribattezzata. Un “campo di battaglia chiave per Israele” scrive l’Economist,che sottolinea: “La guerra sotterranea è terrificante, claustrofobica e lenta. Individuare, ripulire e far crollare diverse centinaia di chilometri di cunicoli sotterranei”, continua l’Economist, “sarà un lavoro di anni, non di settimane o mesi”. A meno, appunto, che non si faccia prima dall’alto: come scrive Seymour Hersh, una volta rasa al suolo Gaza Nord, “Israele” infatti “inizierà a sganciare bombe da 5.000 libbre di fabbricazione americana note come “bunker busters” o JDAM, nelle aree rase al suolo dove è noto che i combattenti di Hamas vivono e fabbricano i loro missili e altre armi sottoterra. Gli attuali pianificatori di guerra israeliani sono convinti, mi ha dichiarato un insider, che la versione aggiornata dei JDAM con testate più grandi penetrerebbe abbastanza in profondità nel sottosuolo prima di esplodere – da trenta a cinquanta metri – con l’esplosione e la conseguente onda sonora in grado di uccidere tutti entro mezzo miglio”. A quel punto, continua Hersh, “nello scenario dei pianificatori, la fanteria israeliana sarà assegnata alle operazioni di rastrellamento: ricercare e uccidere quei combattenti e lavoratori di Hamas che sono riusciti a sopravvivere agli attacchi della JDAM”.
In realtà, però, potrebbe essere più semplice da dire che da fare. Primo ostacolo: nonostante vengano impiegate pratiche genocide per imporla, la pulizia etnica del nord di Gaza potrebbe non essere così semplice da portare a termine; a pesare, il fatto che persone che sono state rinchiuse per 20 anni in gabbia tendenzialmente pensano di non avere poi tantissimo da perdere, e consapevoli del fatto che, una volta sfollate, con ogni probabilità a casa non ci potranno tornare più, sembrano quasi più propense ad andare incontro alla morte che non a soddisfare i desiderata di Tel Aviv. Ma, sostiene Hersh, c’è anche dell’altro: una fonte interna al governo israeliano, infatti, avrebbe confidato ad Hersh che Israele sta cercando di convincere il Qatar a finanziare una tendopoli per i rifugiati subito oltre il valico di Rafah. Nello specifico, il vecchio sito di Yamit, colonizzato da Israele dopo la guerra dei 6 giorni del 1967 e poi evacuato e raso al suolo dagli israeliani stessi nel 1982, subito prima che il Sinai venisse restituito all’Egitto. Ma come potrebbero mai riuscire a convincere l’Egitto ad accollarsi un milione e più di profughi palestinesi? “Teniamo gli egiziani per le palle”, avrebbe dichiarato ad Hersh la sua fonte. “Si riferiva” – specifica Hersh – “alle recenti incriminazioni del senatore democratico Bob Menendez del New Jersey e di sua moglie, accusati di corruzione in seguito a vari rapporti d’affari con alti funzionari egiziani, e alla presunta trasmissione di informazioni su persone in servizio presso l’ambasciata americana al Cairo”.
Per convincere le persone ad evacuare, comunque, la strategia più convincente rimane quella di bombardarli ovunque senza pietà, come non ci fosse un domani. Cosa che Israele sicuramente sta facendo con un certo impegno; però anche qui, forse, c’è un limite. Qualche prima timida avvisaglia si è avuta proprio ieri, con le reazioni al massacro dell’ospedale: in tutto il mondo arabo la gente è scesa per strada a decine di migliaia, costringendo i paesi arabi a una rara dimostrazione di unità. Ad Amman le proteste hanno preso di mira l’ambasciata israeliana e hanno imposto al re Abdullah II di cancellare l’incontro previsto con Biden. A Beirut, visto che l’ambasciata israeliana non c’è, le proteste si sono indirizzate contro quella francese prima e, sopratutto, il consolato statunitense poi, che è stata dato alle fiamme. Anche ad Istanbul i manifestanti hanno preso di mira l’ambasciata USA e a Ramallah, invece, l’oggetto delle proteste è stata direttamente l’autorità palestinese, con le forze di polizia accusate di essere al soldo delle forze di occupazione che sono state attaccate con le care vecchie sassaiole e qualche botto non meglio identificato. Insomma: la carneficina che serve a Israele per sgomberare il campo è la stessa che sta riaccendendo la fiaccola della solidarietà filo-palestinese in tutta la regione, nonostante la cautela dei vari governi che, alla causa palestinese, hanno sempre preferito accordi commerciali generosi con Washington. Il ruolo diplomatico che stanno provando a svolgere gli USA sembrerebbe in buona parte consistere proprio in questo: garantire agli interlocutori regionali che, se collaborano, riuscirà a tenere a freno la ferocia del regime sionista e quindi evitare altri scoppi d’ira delle popolazioni che metterebbero a repentaglio la stabilità dei governi stessi. Peccato che per ora, però, la strategia di Biden non stia dando grandi risultati e la sete di sangue del governo più reazionario della storia di Israele non sembra conoscere mediazioni.
Ma i problemi non finiscono qua perché, nella remota ipotesi che in qualche modo la campagna aerea alla fine permetta di portare a termine la pulizia etnica senza che, nel frattempo, qualche vicino arabo perda definitivamente la pazienza, anche la fase due – quella della distruzione dall’alto della “metropolitana di Gaza” – potrebbe non essere esattamente una passeggiata. “Sembra quasi”, scrive sempre Hersh, “che Hamas non stia aspettando altro. D’altronde l’operazione diluvio di Al-Aqsa è stata pianificata nei minimi dettagli, e Hamas sapeva esattamente quale sarebbe stata la reazione israeliana. Il problema” sottolinea Hersh “è che le bombe anti-bunker israeliane potrebbero non essere in grado di penetrate abbastanza in profondità. Secondo la mia fonte infatti Hamas starebbe operando in tunnel costruiti a 60 metri di profondità che sarebbero in grado di resistere agli attacchi dei JDAM”. Per quanto devastante, quindi, la campagna aerea potrebbe non essere in grado di danneggiare Hamas quanto necessario, il che significa che – per quanto preparata nei dettagli – l’invasione via terra comporterebbe comunque da parte delle forze armate israeliane uno sforzo notevole di uomini e di mezzi, che se gli impieghi tutti da una parte, poi ce n’è un’altra che rimane scoperta. Sicuramente la Cisgiordania.
Ma – quel che sarebbe ancora più devastante – il confine a nord con il Libano dove, secondo alcuni, le milizie di Hezbollah non starebbero aspettando altro. Una bella rogna, come ricorda Hasan Illaik su The Cradle; infatti “Hezbollah potrebbe contare su circa 100 mila uomini” e “gli analisti regionali e occidentali stimano che abbia un arsenale di oltre 130 mila missili. Per la maggior parte sarebbero non guidati, ma il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, avrebbe dichiarato in un intervista del febbraio del 2022 che Hezbollah avrebbe la capacità di convertirne una buona parte in missili di precisione”. E potrebbero non essere da soli: nonostante il bordello che era scoppiato a Gaza, infatti, nell’ultima settimana Israele s’è preso la briga di bombardare per ben due volte l’aeroporto di Aleppo, in Siria. L’obiettivo sarebbero le milizie filosciite legate a doppio filo a Teheran, che starebbero spostando uomini e mezzi in quantità dalle regioni più orientali. Insomma: se l’obiettivo di Israele, come dichiarato più volte, è quello di annientare totalmente Hamas, ogni tentativo di evitare di allargare il conflitto potrebbe alla fine risultare velleitario. Un contributo importante da questo punto di vista è arrivato dallo zio Sam, che ha pensato bene di mandare subito ben due portaerei e anche di rinforzare la flotta di caccia presenti nelle sue numerose basi nell’area; lo scopo, appunto, è quello di funzionare da deterrenti nei confronti di attori terzi che si fossero messi in testa strane idee. Da questo punto di vista, un incentivo diretto nei confronti di Israele a perpetrare il genocidio senza doversi troppo curare delle conseguenze, perché alle conseguenze ci penserebbero – appunto – gli USA, se ci riescono: come titola il Financial Times, infatti, “La guerra tra Israele e Hamas mette alla prova il settore della difesa statunitense già messo a dura prova dal conflitto in Ucraina”. Secondo il Times, “I produttori di armi statunitensi si stanno preparando ad accelerare le forniture di armi a Israele in un momento in cui sono già sotto pressione per armare l’Ucraina e ricostituire le scorte esaurite del Pentagono. Una sfida” sottolinea il Times “che secondo gli analisti metterà a dura prova una base industriale della difesa già estesa”. Al momento, in realtà, si tratta principalmente di fornire “bombe di piccolo diametro, munizioni di precisione aria-terra e proiettili per carri armati calibro 120 millimetri” e cioè roba diversa da quella spedita in Ucraina, “ma se il conflitto dovesse estendersi” sottolinea il Times “le forze di difesa israeliane potrebbero aver bisogno dello stesso tipo di sistemi missilistici guidati che attualmente scarseggiano in Ucraina, compresi droni armati e proiettili di artiglieria da 155 mm”.
Biden ostenta sicurezza: “Siamo gli Stati Uniti d’America, per l’amor di Dio” ha dichiarato enfaticamente domenica scorsa durante una lunga intervista. “La nazione più potente della storia – non del mondo, nella storia del mondo. Possiamo occuparci di entrambi questi aspetti e mantenere comunque la nostra difesa internazionale complessiva”. Per tenere fede a questa volontà di potenza, Biden sarebbe in procinto di presentare al Congresso l’autorizzazione per un pacchetto gigantesco di aiuti che tenga insieme il sostegno all’Ucraina, quello ad Israele e anche una montagna di soldi per rafforzare la sicurezza al confine col Messico, come richiesto dai Repubblicani. Peccato che al momento, dopo la defenestrazione dello speaker McCarthy, l’attività del Congresso sia sospesa, e per ora non siano stati neanche in grado di fare il nome del potenziale successore. Probabilmente, alla fine, una quadra magari la trovano pure; quando si tratta di difendere gli interessi imperiali la trovano sempre. Solo che, grazie alla dittatura globale del dollaro, la fanno pagare sempre agli altri e a questo giro gli altri potrebbero essersi scocciati; mentre Biden, infatti, pagava il suo sostegno incondizionato al genocidio sionista con l’isolamento – almeno temporaneo – rispetto anche agli alleati arabi più storici, dall’altra parte del mondo, a Pechino, atterrava Putin per partecipare al summit che festeggia i dieci anni di vita della Belt and Road Initiative, da dove la nuova “partnership senza limiti” tra Russia e Cina lanciava al mondo un messaggio piuttosto chiaro: di fronte all’arroganza unilaterale del vecchio impero, è arrivata l’ora di non arretrare di un millimetro.
Il rebus del nuovo ordine globale per Washington e il nord globale è un vero rompicapo; l’unica cosa certa è che se sperano di risolverlo semplicemente a suon di propaganda stantia, buona solo per rafforzare l’autostima suprematista della piccola tribù dell’uomo occidentale, a questo giro il fallimento potrebbe essere inevitabile.
Contro la propaganda del nord globale che giustifica i genocidi e ci trascina nel baratro, abbiamo bisogno di un media che racconti il mondo per quel che è e non per quello che vorrebbero fosse un manipolo di suprematisti scollegati dalla realtà. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Benjamin Netanyahu








Palestina come Haiti: le rivolte degli schiavi che non piacciono alla sinistra imperiale

Omar è un ormai non più giovanissimo giornalista e vive nella più grande prigione a cielo aperto del globo, il lager più amato dai democratici di tutto il pianeta: la Striscia di Gaza.

Sono le 6 di sabato mattina, quando una serie di boati lo svegliano di colpo: è un rumore che conosce fin troppo bene. Era il giugno 2006; gli israeliani si erano ritirati da Gaza da meno di un anno. Troppo rischiosa. Vuoi mettere un caro vecchio assedio? Massimo risultato col minimo sforzo e sostanzialmente senza pericoli, a parte i famigerati razzi Qassam.

Da quando le forze armate israeliane si erano ritirate, le milizie di Hamas ne avevano sparati oltre 700, fortunatamente – e ovviamente – senza grosse conseguenze, ma abbastanza per scatenare l’ira dell’occupante.

Inizia così la campagna Pioggia d’estate. Gli israeliani, alle loro campagne, danno spesso nomignoli. Nell’arco di pochi giorni la reazione israeliana causerà oltre 400 morti e 1000 feriti; uno di loro era appunto il nostro Omar, che capisce subito che a questo giro c’è qualcosa di anomalo.

Si ricordava ancora di quando, nel febbraio del 2008, gli israeliani avevano ucciso 115 palestinesi nell’operazione Inverno caldo: a provocarli, 200 Qassam lanciati nell’arco di una notte.

Pochi mesi dopo, a dicembre, le milizie di Hamas avevano deciso di fare le cose in grande: 360 razzi nell’arco di qualche giorno. La risposta, a questo giro, venne ribattezzata Piombo fuso: oltre 1500 vittime palestinesi, contro 10 israeliane.

Questa volta però Omar non riusciva a tenere il conto. Quelli che sentiva partire non erano decine di razzi, nemmeno centinaia. Erano migliaia. Non era mai successo prima e nessuno sospettava stesse per accadere adesso.

Omar decide subito di prendere la macchina e andare a vedere di persona: si dirige verso il valico di Erez, il passaggio obbligato per quei pochi fortunati che hanno ottenuto il permesso di uscire dalla prigione Gaza per l’ora d’aria, e quando arriva si trova di fronte a una scena incredibile.

Era aperto”, racconta Omar al Middle East Eye, “e un gran numero di persone lo stavano attraversando con ogni mezzo a disposizione. Chi su una macchina scassata, chi in moto, chi a piedi”. Proprio mentre Omar sta attraversando il valico, ecco che arrivano i primi aerei israeliani;

aprono il fuoco, per disperdere la folla “ma alla gente non importava”, racconta Omar, “continuavamo ad attraversare il confine come se nulla fosse” e, una volta attraversato, Omar viene sopraffatto da una sensazione indescrivibile.

Ho provato gioia e ho iniziato a piangere”, ha raccontato Omar. “Anche la gente attorno a me ha cominciato a piangere e a prostrarsi perché era entrata nella terra da cui era stata sfollata nel1948. Eravamo in uno stato di stupore mentre giravamo, liberi, nelle nostre terre, fuori dalla prigione che è Gaza. Sentivamo di avere il controllo delle nostre terre”.

Di fronte a Omar scene sconcertanti, di una violenza che ti lacera il cuore, o almeno lo lacererebbe a chi ormai di violenze di ogni genere ne ha viste troppe, e da lacerare non c’è rimasto più niente:

giovani soldati israeliani, “quelli che eravamo abituati a vedere di vedetta sul confine, e che avevamo visto innumerevoli volte aprire il fuoco contro i nostri bambini e i nostri giovani amici”, ora venivano sopraffatti con violenza dai combattenti palestinesi, e si presentavano “nella loro forma più debole”.

Morte e distruzione erano ovunque, eppure Omar, “per la prima volta nella sua vita, si sentiva profondamente felice”, commenta l’articolo; “aver messo piede su quelle terre ed essere uscito anche se solo per un attimo dall’enclave assediata dove era stato recluso per gran parte della sua vita è stata una forma di liberazione” anche se, in quelle poche ore, “alcuni dei miei amici e uno dei miei cugini”, ha raccontato Omar, “sono scomparsi, e un altro è stato ucciso”.

Quando ti strappano via con la violenza ogni forma di normalità, la tua nuova normalità – per qualsiasi persona che non abbia condiviso le tue sofferenze – è necessariamente incomprensibile.

Ho vissuto tutta la mia vita sotto assedio”, ha raccontato Omar, “e questa era la prima volta in assoluto che mi sentivo libero”.

Poche ore dopo Omar è tornato nella sua minuscola casa dentro la prigione di Gaza, e il giorno dopo è andato a scattare qualche foto ad una famiglia che si era vista distruggere completamente la casa dagli attacchi aerei israeliani: “Il padre di famiglia”, racconta Omar, “mi ha detto: anche se ci uccidono, a questo giro moriremo a testa alta. lasciate pure che ci uccidano quanto vogliono”.

Tutte le altre volte erano loro a venire da noi: ci uccidevano, uccidevano i nostri figli, giustiziavano intere famiglie”, ha raccontato Omar. E a loro non era concesso che assistere inermi, rinchiusi nella loro gabbia. “Questa è la prima volta che resistiamo e riusciamo a entrare, anche se solo per un momento, nelle terre dalle quali siamo stati cacciati

E’ il racconto più realistico, complesso e straziante che ho sentito fino ad oggi di questa incredibile nuova fase dell’eterna guerra di resistenza che l’occidente democratico globale ha imposto a questi ultimi della terra. Riusciremo, dall’alto della nostra supponenza perbenista di privilegiati e anche un po’ conniventi, a farci veramente i conti?

Che la controrivoluzione neoliberista non si fosse limitata a renderci tutti più poveri e meno liberi, ma che ci avesse anche imposto una gigantesca involuzione culturale e anche antropologica, noi lo abbiamo sempre sostenuto, ma lo spettacolo messo in scena in questi giorni dai benpensanti di ogni colore politico supera di slancio anche la più catastrofista delle previsioni.

Il primo dato è la vittoria egemonica dell’idea postsfascista delle responsabilità di ogni forma di resistenza; per 70 e passa anni, l’idea comune di ogni democratico antifascista, anche il più moderato, è stata che la responsabilità delle rappresaglie degli occupanti non possa mai essere attribuita ai resistenti.

I resistenti conducono una guerriglia con tutti i mezzi a loro disposizione, compresi i più cruenti, e le razzie che inevitabilmente provocano sono conseguenze inevitabili che non ne mettono in discussione la legittimità morale.

A pensarla diversamente, fino a poco tempo fa, era solo la marmaglia fascistoide che oggi, evidentemente, è diventata egemone: l’idea è che lo schiavo se ne deve fare una ragione e non deve fare niente che possa scatenare l’ira funesta del padrone. Tanto in schiavitù ci vive lui, mica noi.

Nell’occidente del pensiero unico e dell’encefalogramma piatto, l’idea che qualcuno – come la famiglia di Gaza descritta da Omar – sia disposto a mettere a repentaglio la sua vita e quella dei suoi cari per tentare una volta nella vita di alzare la testa e rivendicare la sua dignità è tabù.

Viviamo in una realtà così radicalmente separata da non avere proprio gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi, senza troppi calcoli, costi quel che costi, è l’unica opzione veramente razionale per chi vive in determinate condizioni.

International Journalism Festival from Perugia, Italia / Ph. Alessandro Migliardi

Un vero e proprio capolavoro da questo punto di vista è l’articolo di Francesca Mannocchi su La Stampa di ieri: “Hamas condanna Gaza a restare una prigione”, scrive il volto più amato dal popolo dei teleaperitivi romani di Propaganda Live.

Li mortacci loro: proprio ora che insieme a Zoro e Makkox stavano preparando una petizione che gli avrebbe portati, dopo 16 anni di prigionia, a una sicura liberazione.

Ricordate sempre: con la giusta dose di galateo, basta chiedere.

Ma la retorica astratta e benpensante della Mannocchi è roba da principianti di fronte ai livelli apicali raggiunti dalla Maestra: Lucia Annunziata, che come ci si aspetta che gli schiavi si debbano comportare lo spiega a tutto il mondo grazie all’azione illuminante dell’Aspen Institute, finanziato con i soldi dei Rockefeller e della famiglia Gates.

Annunziata, sempre dalle pagine de La Stampa, ci spiega come “Hamas ci sta regalando una delle peggiori pagine di sempre del conflitto Israele-Palestina”.

Che sia il popolo palestinese”, spiega la Annunziata, “a vendicarsi con gli strumenti del terrore, della violenza, della violazione delle donne, dei bambini, dei vecchi, rompendo lo spazio di ogni diritto umano, lo stesso che ha sempre invocato per la propria difesa, è un atto indegno, repellente, che sporca la dignità delle stesse sofferenze dei Palestinesi”.

Contessa, sapesse…

Studiano una vita, conquistano incarichi di prestigio e poi non sanno far altro che ripetere le stesse identiche formule che gli schiavisti illuminati impiegavano già nel 1700.

Quando gli schiavi di Haiti si ribellarono ai loro padroni ormai tre secoli fa, dando vita alla prima repubblica guidata da ex schiavi del pianeta, per giorni e giorni si dilettarono a razziare ogni abitazione incontrassero sulla loro strada, prendere donne e bambini, seviziarli, mozzargli la testa, e poi attaccarla a dei pali esposti in bella mostra. Gli schiavi purtroppo spesso son fatti così: i padroni illuminati si dimenticano, tra una frustata e l’altra, di impartirgli adeguate lezioni di galateo, e così diventano difficilmente presentabili in società.

Una cosa a dir poco disdicevole, e che ora sembra porci di fronte a un dilemma insolvibile: che requisiti devono avere gli schiavi per essere degni di pretendere di liberarsi dalla loro schiavitù?

Perché non introdurre dei test standardizzati formulati dalle cancellerie dell’occidente democratico che certifichino chi ha diritto a liberarsi e chi invece, per il bene suo e di chi gli sta accanto, deve invece rimanere in cattività? Lanciamo una petizione su change.org?

Ora, intendiamoci, chiunque abbia anche solo un minimo di umanità, di fronte ad alcune delle scene a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni non può che rimanere ovviamente sconcertato, come d’altronde chiunque non fosse rimasto sconcertato di fronte alle teste mozzate dei bambini bianchi nella Haiti del ‘700 celava in se un piccolo cucciolo di serial killer.

Ma è proprio la prospettiva ad essere completamente distorta: è il mondo visto da chi la schiavitù non l’ha mai assaporata sulla sua pelle. Il punto ovviamente non è fare la graduatoria degli atti più efferati; il punto è che nel mondo esistono cause ed effetti, azioni e reazioni.

Se uno schiavo ti taglia la testa, il punto non è la moralità dello schiavo, ma la schiavitù; chi dà pagelle agli schiavi è tra le fila degli schiavisti, a meno che sia uno schiavo a sua volta.

Loro le pagelle non solo hanno il diritto di darle: hanno il dovere. Il punto però è che gli schiavi palestinesi quelle pagelle – mi duole dirglielo, signorina Annunziata – le hanno già date

e per quanto le possa sembrare aberrante, quelli che dal suo punto ci stanno regalando “una delle peggiori pagine di sempre del conflitto israelo-palestinese”, in realtà sono stati promossi a pieni voti: chieda al nostro amico Omar, se non mi crede.

A mio modestissimo avviso, che le azioni di Hamas non possano essere tacciate superficialmente di avventurismo, ma che affondino le loro radici in un consenso popolare solido e ampio, si deduce anche da un’altra cosa: da giorni la domanda che ci tormenta un po’ tutti, da noi complottisti sfegatati fino alle più autorevoli firme del baraccone mainstream, è come minchia sia possibile che l’onniscente intelligence israeliana si sia fatta cogliere così impreparata.

In molti sospettano una qualche forma di connivenza, un po’ in stile strategia della tensione, diciamo; sinceramente, non mi sento di escluderlo. Sennò che complottista sarei?

In mancanza di elementi concreti, però, proporrei un’altra chiave di lettura: li hanno fregati sul serio.

Ovviamente hanno pesato una serie infinita di concause: la spaccatura politica interna a Israele, l’essersi focalizzati sulla difesa dei coloni in Cisgiordania, e chi più ne ha più ne metta. Ma c’è un altro aspetto che, a mio avviso, non è stato adeguatamente sottolineato: per mettere in piedi un’operazione del genere, senza farsi fregare, c’è bisogno del sostegno di tutti. Non che tutti siano direttamente coinvolti, ovviamente, ma il sostegno deve essere, se non unanime, perlomeno molto diffuso, trasversale, e anche parecchio solido. Non ci possono essere crepe che permettano al nemico di insinuarsi e ci devono essere amici fidati ovunque: così a occhio, è l’idea che si sono fatti anche gli israeliani che stanno agendo di conseguenza, perché se il problema non è un’avanguardia di avventurieri, ma il sostegno unanime che godono in una popolazione esasperata che non ha più niente da perdere, allora il nemico non è più semplicemente un’organizzazione militare, è il popolo tutto. Senza distinzione.

Ecco così che, da questo punto di vista, la reazione terroristica israeliana – che mira proprio a colpire indiscriminatamente tutta la popolazione senza troppi distinguo – è cinicamente razionale,

e il moralismo stucchevole dei benpensanti non fa altro che offrirgli una solida giustificazione.

E’ un altro esempio del classico cortocircuito che unisce sinistra imperiale e criptofascisti: la sinistra imperiale sparge giudizi moralistici a destra e manca convinta che la vera aspirazione di tutti i popoli sia essere guidati dalla Emma Bonino di turno, e i criptofascisti poi ci mettono il carico da 40 del realismo politico. Sostengono, non senza ragioni, che in realtà alla fine il popolo è complice delle classi dirigenti che si ritrova, e quindi se di animali si tratta – come li definiscono gli stessi pidioti per primi – l’unica soluzione è sterminare tutti e così si fa pari e patta.

Che le posizioni ufficiali del nord globale portino dritte in quella direzione mi sembra piuttosto evidente: gli USA hanno già promesso una ventina abbondante di nuovi caccia tra F-16 e F-35

e al confine col Libano la situazione si fa di ora in ora più incandescente.

Ovviamente, in tutto questo, che al governo in Israele attualmente ci siano i fascisti veri, dichiarati, e non quelli immaginari di Hamas, passa ovviamente in secondo piano; d’altronde, dopo che hai spacciato per partigiani i neonazisti di Azov e pure quelli vecchio stile della 14esima divisione delle SS, vale tutto, diciamo.

Fortunatamente però, nel frattempo, il mondo ha smesso di sperare nelle sorti umane e progressive della sinistra imperiale del nord globale e si è cominciato ad attrezzare diversamente: ed ecco così che, anche in questo caso, l’unica speranza che l’armageddon possa essere almeno rimandato arriva di nuovo da quello che pidioti e criptofascisti, come un sol uomo, definiscono “l’asse del male”, e cioè tutti i paesi che non sostengono acriticamente l’agenda imperiale di Washington e di Tel aviv, a prescindere dalle forme concrete di governo che si sono dati. Una strana accozzaglia, fatta spesso di regimi impresentabili che, ciò nonostante, anche in questo caso dimostrano di essere più allineati con gli interessi generali della specie umana di quanto non lo siano le democrazie liberali del mondo sviluppato e i loro eccentrici cantastorie.

Per restare umani, come minimo, dobbiamo costruire un media che impedisca che rimangano l’unica voce in circolazione.

Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Lucia Annunziata.

La controffensiva palestinese: come Hamas ha asfaltato il mito dell’invincibilità di Israele

Contessa sapesse, gli schiavi hanno osato addivittuva vibellavsi
Questa, in estrema sintesi, la reazione dei media occidentali ai fatti di Gaza di sabato scorso; di tutti, all’unisono, a partire da quelli che negli ultimi due anni hanno provato a infinocchiare la maggioranza silenziosa pacifista e democratica sollevando qua e là qualche critica alla guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina.

Gli amici della sinistra distruggono Israele”, titolava ieri ad esempio la Verità; “ci siamo svenati per Kiev, ora che faremo con l’unica democrazia dell’area?”

La realtà ovviamente è che destra e sinistra, che ormai sono solo etichette che svolgono una funzione di puro marketing per spartirsi il mercato elettorale, fanno finta di dividersi sulle cazzate, ma tutte insieme appassionatamente sostengono senza se e senza ma un regime di apartheid fondato sull’occupazione militare e la discriminazione su base etnica, e lo fanno a partire dall’assunto condiviso che la comunità umana è divisa in due categorie: gli uomini liberi, e i sub-umani, gli unter-mensch, come li definivano i nazisti. La differenza, rispetto ad allora, consiste nella definizione di chi appartiene all’una o all’altra categoria e nella retorica ideologica con la quale si cerca di legittimare ogni forma di violenza e sopruso: dalla pagliacciata antiscientifica della teoria della razza, alla pagliacciata della retorica democratica.

Da questo punto di vista il suprematismo bipartisan contemporaneo altro non è che una nuova declinazione del nazifascismo che, nel frattempo, ha preso qualche lezione di galateo e che ha incluso tra le sue fila una nuova piccola minoranza che prima era stata esclusa.

Son progressi.

Anche nelle modalità attraverso le quali si esercita questo dominio violento degli umani sui subumani non si possono non registrare alcuni importanti progressi: ai vecchi campi di concentramento, organizzati scientificamente per lo sterminio senza se e senza ma, si è sostituita una forma moderna di campi di concentramento democratici e progressisti, dove i reclusi sono lasciati liberi anche di sopravvivere. Se ci riescono: in un’area che è circa un quarto di quella del solo comune di Roma, nella striscia di Gaza oltre 3 milioni di persone vivono recluse per la stragrande maggioranza con meno di due dollari al giorno di reddito. La mistificazione della realtà però in queste ore ha raggiunto un nuovo livello: “Ai residenti di Gaza dico”, ha scritto Netanyahu su twitter, “andatevene adesso, perché opereremo con la forza ovunque”.

Eh, è ‘na parola; come in ogni buon campo di concentramento che si rispetti, infatti, i residenti di Gaza sono a tutti gli effetti prigionieri, e “andarsene”, molto banalmente, non gli è concesso.

Come denuncia da mesi Save the children, manco per andarsi a curare.

E non dico in Israele: manco negli altri territori palestinesi, manco se sono bambini, manco se rischiano la vita. “Nel solo mese di maggio”, si legge in un comunicato della pericolosa organizzazione bolscevica Save the children pubblicato lo scorso settembre, “quasi 100 richieste per bambini ammalati presentate alle autorità israeliane sono state respinte o lasciate senza risposta”. Tre sono morti solo quel mese. “Tra questi, un bambino di 19 mesi con un difetto cardiaco congenito e un ragazzo di 16 anni affetto da leucemia”.

La Verità, Repubblica e Pina Picierno del PD però c’avevano judo e si sono dimenticati di denunciarlo

Adesso, si rifanno con gli interessi: “L’Europa è con Israele e il suo popolo”, ha affermato la vicepresidente piddina del parlamento europeo. “La sua lezione di libertà e progresso”, ha sottolineato con enfasi, “non sarà spenta dalla violenza e dalla barbarie”.

L’apartheid come lezione di libertà e progresso: dopo i neonazisti russi spacciati come partigiani, i nazisti vecchio stile ucraini acclamati come eroi nei parlamenti democratici e l’idea che non bisognava per forza essere nazisti per combattere contro l’Armata rossa durante la seconda guerra mondiale, il capovolgimento totale della realtà ad opera dei sacerdoti di quest’era di post verità può dirsi completamente compiuto. Li lasceremo fare senza battere ciglio?

Lo stato di Israele è fondato su un regime di apartheid. Lo è sempre stato, ma prima lo sostenevamo in pochi, i pochi militanti antimperialisti nell’occidente del pensiero unico suprematista e ovviamente tutti i leader che l’apartheid l’avevano combattuto davvero a casa loro: da Nelson Mandela a Desmond Tutu. Per tutti gli altri, era un tabù.

Oggi, però, non più; dopo decenni di tentennamenti, a chiamare le cose con il loro nome da un paio di anni ci s’è messa pure un’organizzazione umanitaria mainstream come Amnesty International. “L’apartheid israeliano contro i palestinesi”, si intitola un famoso report del febbraio del 2022, “un sistema crudele di dominio, e un crimine contro l’umanità”.

Sempre in prima linea a fare da megafono alle denunce di abusi contro i diritti umani in giro per il mondo per giustificare tentativi di cambi di regimi a suon di bombe umanitarie e svolte reazionarie in ogni paese non perfettamente allineato all’agenda dell’impero USA, pidioti e criptofascisti di ogni genere, quando è uscito questo rapporto, erano curiosamente tutti assenti.

Poco male: anche fossero stati seduti buoni ai primi banchi, non lo avrebbero capito.

Quella che definiscono ossessivamente come “l’unica democrazia del Medio Oriente” infatti, in realtà, è sin dalle sue origini nient’altro che un progetto coloniale, come lo definiva esplicitamente Theodore Herzl stesso, il padre nobile del sionismo, e affonda le sue radici nella pulizia etnica di massa della Nakba nel 1948, che ancora oggi costringe circa 6 milioni di palestinesi a vivere in una miriade di miserabili campi profughi sparsi in tutta la regione.

Nella striscia di Gaza è un apartheid al cubo: più propriamente, infatti, si tratta del più grande carcere a cielo aperto del pianeta, come lo ha definito ormai quasi 15 anni fa lo stesso premier britannico David Cameron.

D’altronde, è una cosa abbastanza visibile: i confini terrestri di Gaza infatti sono interamente ricoperti da una doppia recinzione in filo spinato, con un’area cuscinetto nel mezzo totalmente presidiata da forze armate israeliane che, di tanto in tanto giusto per ammazzare un po’ il tempo, si dilettano nel tiro al bersaglio direttamente oltre il confine. Come quando – come dimostrato da un’indagine condotta da una commissione internazionale indipendente nominata dalle Nazioni Unite – nell’arco di tutto il 2018 presero di mira le proteste note col nome di grande marcia che si svolgevano settimanalmente proprio per chiedere la fine dell’assedio di Gaza: in tutto, ferirono oltre 6000 persone e ne uccisero 183, compresi 35 bambini.

E come sottolinea il sempre ottimo Ben Norton, essendo Gaza a tutti gli effetti una prigione a cielo aperto, “in base al diritto internazionale, hanno il diritto riconosciuto dalla legge alla resistenza armata”: il riferimento in particolare è una risoluzione dell’ONU del 1977 approvata da una schiacciante maggioranza dei paesi presenti che, proprio relativamente alla causa palestinese, riconosce esplicitamente “la legittimità della lotta popolare per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e dalla sottomissione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”.

La retorica suprematista dei sacerdoti del dominio dell’uomo libero sui subumani oggi non potrebbe apparire più ridicola e infondata. Come per l’Ucraina, pidioti e criptofascisti si accorgono di una guerra sempre e solo quando arriva. Sono gli uomini liberi a subire una sconfitta da parte dei subumani e, a questo giro, la sconfitta è stata eclatante, clamorosa.

Dotato dei servizi segreti più efficienti e spregiudicati del pianeta e di un apparato militare ultramoderno e ipersofisticato, adeguatamente addestrato in oltre settant’anni di feroce occupazione militare e di militarizzazione totale del territorio, l’invincibile gigante israeliano ha subìto una ferita difficilmente rimarginabile da parte degli ultimi tra gli ultimi. Se in Ucraina il suprematismo del nord globale è stato messo davanti alla sua impotenza di fronte alla determinazione di uno stato sovrano, considerato fino ad allora nient’altro che un pigmeo economico pronto a crollare su se stesso da un momento all’altro, in Israele ieri lo choc è stato di un ordine di grandezza superiore, tanto superiore quanto superiore era la sproporzione tra le forze in campo.

Mentre scriviamo questo pippone, il bilancio delle vittime israeliane supererebbe le 650 unità: non ci è possibile verificare le informazioni, ma secondo Ramallah News, mentre gli israeliani parlano di liberazione degli insediamenti conquistati da Hamas, in realtà le forze palestinesi continuerebbero ad avanzare e i territori ad est di Gaza sarebbero soltanto una delle linee del fronte.
Secondo quanto riportato da Colonelcassad, i palestinesi avrebbero bruciato un posto di blocco all’ingresso di Jenin, e in Cisgiordania molti temono possa esplodere finalmente la tanto paventata terza intifada di cui si parla ormai da tempo.
Secondo poi quanto riportato da Middle East Eye, i palestinesi con cittadinanza israeliana si starebbero preparando per respingere gli attacchi annunciati dai gruppi dell’estrema destra sionista.
A nord, al confine col Libano, si intensificano gli scontri con Hezbollah che, secondo quanto riportato da Al Jazeera, rivolgendosi ai ribelli palestinesi avrebbe dichiarato che “la nostra storia, le nostre armi e i nostri missili sono con voi”.
E le ripercussioni del conflitto sarebbero arrivate addirittura fino ad Alessandria di Egitto, dove un agente di polizia avrebbe aperto il fuoco contro due turisti israeliani, uccidendoli.

Il gabinetto politico-militare israeliano ha ufficialmente decretato lo stato di guerra per la prima volta dalla guerra dello Yom Kippur, della quale si celebra proprio in queste ore il cinquantesimo anniversario, e sono in corso evacuazioni sia nell’area che circonda Gaza che a nord, al confine con il Libano.

A confermare che, a questo giro, per il gigante israeliano potrebbe non trattarsi esattamente di una gita di piacere, ci sarebbero poi le dichiarazioni di Blinken, secondo il quale Israele avrebbe richiesto nuovi aiuti militari. Probabilmente quando leggerete questo articolo, sapremo già qualcosa di più su questo aspetto. Qualsiasi siano i dettagli però, un punto è chiaro: la resistenza di un gruppo di militanti che vivono in carcere da 15 anni ha costretto una delle principali potenze militari del pianeta a chiedere aiuto. Non so se è chiaro il concetto.

A complicare ulteriormente la faccenda, la questione degli ostaggi: il Guardian parla di oltre 100
e di qualche nome eccellente
. Un altro elemento inedito e un deterrente importante; abituati a combattere una guerra totalmente asimmetrica, gli israeliani non digeriscono molto facilmente qualche perdita tra le loro fila. L’esempio che salta subito alla mente è quello di Gilad Shalit: carrista israelo-francese, venne rapito da Hamas nel 2006 e 5 anni dopo, pur di ottenere il suo rilascio, il governo israeliano fu costretto a concedere la liberazione di addirittura 1000 prigionieri politici.

Insomma, a questo giro potrebbe non trattarsi semplicemente di un gesto disperato dall’esito scontato compiuto da avventurieri che non hanno niente da perdere, anche perché si inserisce in un contesto globale piuttosto incandescente, diciamo così, dove molto di quello che piace alla propaganda suprematista e che fino a ieri davamo per scontato, scontato comincia a non esserlo poi più di tanto.
Inquadrare dal punto di vista geopolitico quanto successo in questi due giorni al momento potrebbe rivelarsi un po’ ozioso e infondato; limitiamoci per ora quindi a sottolineare alcuni aspetti e a porci qualche domanda.

Il mio primo pensiero, ovviamente, è andato ai sauditi. A nostro modesto avviso, infatti, la riapertura dei canali diplomatici con l’Iran avvenuta sotto la sapiente mediazione cinese, e addirittura l’adesione a un organo multilaterale come i BRICS+, proprio fianco a fianco con l’Iran, è probabilmente il singolo evento geopolitico in assoluto più importante di questo intero anno, la cui portata, però, continua ad essere messa a dura prova dall’apertura che i sauditi sembrano aver fatto ad USA e Israele in direzione della loro adesione al famigerato accordo di Abramo. Che però appunto continua a faticare a concretizzarsi proprio a causa del nodo della questione palestinese.

Tweet del ministero esteri Saudita

Il mio primo pensiero è stato: e se l’obiettivo di Hamas fosse proprio impedire il concretizzarsi di questa fantomatica nuova distensione? Ovviamente la risposta non la sappiamo; questo però è il comunicato ufficiale del ministero degli esteri saudita a poche ore dall’inizio dell’operazione Diluvio di Al-Aqsa.
I sauditi parlano di “situazione inedita tra numerose fazioni palestinesi e le forze di occupazione israeliane”, quindi, da una parte numerose fazioni e dall’altra forze di occupazione.
Sempre i sauditi ricordano “i numerosi avvertimenti di pericolo di esplosione della situazione come risultato dell’occupazione, la negazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese e le sistematiche provocazioni contro i loro luoghi di culto”.
“Il reame”, conclude il comunicato, “rinnova l’appello alla Comunità Internazionale ad assumersi le sue responsabilità e ad attivare un processo di pace credibile che conduca alla soluzione dei due stati per raggiungere pace e sicurezza per tutta l’area e proteggere i civili”.
Nessuna condanna dell’azione di Hamas. Manco l’ombra. Non so se alla Casa Bianca l’abbiano presa proprio benissimo, diciamo.

L’altro aspetto è appunto la posizione degli USA e di questo strano annuncio sull’estensione degli aiuti militari perché che Israele ne abbia bisogno per combattere la guerriglia di Hamas, o anche di Hezbollah, sembra comunque piuttosto strano. E sopratutto: da dove se li tirerà fuori Biden i quattrini per finanziare un altro pacchetto di aiuti, quando giusto la settimana scorsa ha dovuto rinunciare a 6 miliardi di nuovi aiuti da inviare all’Ucraina?
Qualquadra non cosa, ma è decisamente troppo presto anche solo per speculare su cosa sia esattamente.
Proveremo a farlo in modo più fondato nei prossimi giorni perché è quello che un media indipendente può fare liberamente: osservare, riflettere, riportare.
A quelli a libro paga dell’imperialismo e delle oligarchie finanziarie, diciamo che gli risulta un po’ più complicato e saltano di puttanata suprematista in puttanata suprematista, senza soluzione di continuità, e senza temere contraddizioni e ribaltamenti della realtà.

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E chi non aderisce è Maurizio Belpietro.