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Tag: neocolonialismo

L’incredibile regola segreta che impone agli editorialisti del Corriere di NON CAPIRE NIENTE

Carissimi ottoliner, ben ritrovati. Siccome la scorsa settimana sono stato assalito da un forte calo di autostima, per risollevarmi il morale nel weekend ho deciso di immergermi nel variegato club del disagio e oggi sono qui a presentarvi la mia nuova crush: si chiama Danilo Taino ed è l’anonimo editorialista del Corriere a cui viene sbolognata la patata bollente ogni volta che c’è da fare un po’ di propaganda sconclusionata e di mettere il nome su qualche figuretta barbina (tanto lui, sostanzialmente, manco se n’accorge); e venerdì scorso ha dato veramente il meglio di sé. Il nostro pigro fatalismo si intitola l’editoriale (pure un po’ poeta il Taino, con quel ciuffetto sbarazzino); il pigro fatalismo che Taino vuole combattere è quello che spinge “la conversazione in corso nelle democrazie” a vedere un “futuro solo oscuro” e a pensare che tutto andrà per il peggio: “l’Ucraina perderà la guerra di resistenza alla Russia, in Medio Oriente ci sarà un’escalation dei conflitti, Taiwan finirà in mani cinesi, la Jihad tornerà a colpire l’Europa, l’America vacillerà, il 2024 sarà un disastro per le libertà e i commerci e le economie crolleranno”. Insomma: secondo Taino Ottolina Tv, in sostanza, avrebbe stravinto la battaglia per l’egemonia, ma a Danilo Taino non la si fa; tra un video con altri fini pensatori come Scacciavillani e Forchielli e un retweet di Marco Taradash o di Marco Capezzone e l’altro, Taino – infatti – ha sviluppato un’idea tutta sua di come il giardino ordinato possa uscire vincitore dal conflitto con quello che ha definito “l’asse dei despoti contro l’egemonia degli USA”, e la soluzione si chiama una botta di ottimismo. Basterà?

Danilo Taino

Nell’editoriale del Corriere di venerdì scorso, Danilo Taino ci ricorda che il 2024 sarà l’anno della democrazia: mai nella storia umana, infatti, così tante persone in tutto il mondo sono state chiamate alle urne nell’arco di 12 mesi e, sottolinea Taino, è iniziato alla grande, “con uno stop alle pretese della più potente autocrazia”: “Lo scorso 13 gennaio” infatti, ricorda Taino, “Taiwan ha votato a nuovo presidente il candidato inviso a Pechino, nonostante le minacce del partito comunista cinese”; “La situazione nell’isola resta tesa”, concede, “ma il dato di fatto è che le prime elezioni importanti dell’anno non sono andate come il gigante illiberale asiatico voleva”. Quello che Taino, però, dimentica di sottolineare è che il partito democratico progressista – che è, appunto, quello più smaccatamente filo occidentale – rispetto alle scorse elezioni ha perso 3 milioni di voti e pure la maggioranza in parlamento, e la questione indipendenza sembra essere stata totalmente derubricata; non era per niente scontato: nell’agosto del 2022 i democratici statunitensi avevano cercato disperatamente l’escalation con la missione a sorpresa di Nancy Pelosi, la senatrice USA famosa per aver utilizzato il suo ruolo politico per favorire il conto in banca del marito. Un flop totale. Ma a parte la questione taiwanese, nel disperato tentativo di cercare uno sprazzo di ottimismo, le cose che Taino si dimentica di dire di queste prime tornate elettorali sono anche molte altre: Taino si dimentica di dire, ad esempio, che in Senegal il cocco dell’Occidente Macky Sall per non venire completamente asfaltato alle elezioni previste per questo febbraio dal giovane militante anticolonialista Sonko – che si apprestava a trionfare per interposta persona, nonostante sia già stato da tempo rinchiuso in carcere con accuse palesemente infondate – il voto l’ha dovuto proprio rimandare e non di qualche settimana, ma di un anno, e chi ha protestato è stato preso a mazzate e gettato in carcere senza che sui mezzi di produzione del consenso del nostro giardino ordinato se ne facesse menzione. Anzi, tra i millemila leader che hanno tirato il pacco alla Meloni per la sua pantomima del vertice Italia – Africa che doveva inaugurare in pompa magna il piano immaginario Mattei, uno dei pochi ad essersi presentato è stato proprio Macky Sall, che è stato accolto come il sol dell’avvenire mentre, a casa sua, se arriva al 20% dei consensi è oro colato.
Taino sembra aver rimosso anche un altro appuntamento elettorale, ancora più paradigmatico: parliamo, ovviamente, delle elezioni in Pakistan, un vero e proprio spettacolo; anche qui, come in Senegal, il candidato di gran lunga più popolare – il leader populista, sovranista e anti – establishment Imran Khan – dopo essere stato detronizzato con il solito caro vecchio golpe bianco, è stato incarcerato per impedirgli di partecipare alle elezioni. Ma non solo: al suo partito è stato addirittura impedito di presentarsi utilizzando il suo simbolo che, in un paese dove il tasso di analfabetismo supera abbondantemente il 40%, è una mazzata al cubo; ciononostante, oltre ogni più rosea previsione Khan ha fatto il pieno e per impedirgli di ottenere la maggioranza assoluta sono dovuti ricorrere alle peggio schifezze. Dal Senegal al Pakistan, passando per il Sahel, l’ondata populista e sovranista sembra inarrestabile e il bello è che, comunque, all’Occidente collettivo, nonostante le nuove strategie della tensione, non va bene comunque: lo scontro in Pakistan, infatti, non era tra soldatini dell’impero e multipolaristi; anche i golpisti che ora, in qualche modo, accrocchieranno il tutto per tenere Imran Khan fuori dai giochi, infatti, guardano più alla Cina che non al giardino ordinato. Sono loro, infatti, ad aver dato il via al China Pakistan Economic Corridor che, tra tutti i singoli tassellini che compongono la belt and road initiative, è probabilmente il più grande in assoluto.

Joko Widodo (Jokowi)

Nei giorni scorsi, poi, si è votato anche in Indonesia e qui il famoso asse delle autocrazie – con il quale Taino indica tutti i paesi che si sono definitivamente rotti i coglioni del colonialismo occidentale – ha vinto ancora prima che si cominciassero a contare i voti: nel 2019, infatti, la carta anticinese aveva giocato un ruolo di primissimo piano nella contesa elettorale, diventando l’arma retorica per eccellenza dell’opposizione reazionaria e filo – occidentale che si batteva per negare a Joko Widodo un secondo mandato. Fortunatamente allora quell’opzione venne battuta alle urne; questa volta, invece, non ci s’è nemmeno presentata: durante il suo secondo mandato, infatti, Jokowi non solo ha cominciato a raccogliere tutti i frutti della sua azione riformatrice fatta di welfare state, sviluppo economico e rafforzamento della sovranità nazionale – grazie a un forte processo di sempre maggiore integrazione economica con la superpotenza manifatturiera cinese – ma è addirittura riuscito a includere in questa nuova prospettiva di liberazione e sviluppo nazionale anche l’opposizione. Il candidato che risulterebbe di gran lunga vincente alle elezioni, infatti, è proprio il leader della vecchia opposizione, Prabowo Subianto, che Jokowi decise di assoldare nel suo governo come ministro della difesa per tentare una sorta di percorso di unità nazionale. Un’operazione riuscita: a questo giro, infatti, l’ex oppositore Prabowo è stato direttamente da Jokowi; della fantomatica minaccia cinese in campagna elettorale non ha parlato nessuno, e l’opzione dell’indipendenza nazionale e la volontà di tenersi al di fuori dalla contrapposizione per blocchi è diventata sostanzialmente unanime. E non è certo solo questione di ideologie: nel sottofondo, infatti, c’è la solita vecchia guerra tra borghesie nazionali e borghesie compradore; le seconde, ovviamente, guardano con maggior simpatia alle oligarchie occidentali e vorrebbero continuare a imprigionare l’Indonesia nel vecchio sistema neocoloniale, limitando l’economia indonesiana alla sola esportazione di materie prime non lavorate che non necessitano investimenti. Vuol dire che i latifondisti e i grandi proprietari si limitano a incassare rendite senza avviare nessun percorso di sviluppo, che è la precondizione per la nascita e la crescita di un vero movimento dei lavoratori e, quindi, di una vera democrazia; la borghesia nazionale, invece, si vuole arricchire come gli altri, ma non è pregiudizialmente contraria all’idea che per farlo si debba investire e permettere all’economia nel suo insieme di crescere, anche se comporta ritrovarsi di fronte lavoratori più attrezzati per far valere i loro diritti. Prabowo, originariamente, apparterrebbe più alla borghesia compradora che a quella nazionale, ma l’ottimo lavoro portato avanti da Jokowi in 10 anni di presidenza sembrerebbe aver spostato definitivamente i rapporti di forza a favore delle borghesie nazionali, con il sostegno della stragrande maggioranza della popolazione: Jokowi, infatti, gode di una popolarità senza precedenti, e invertire il processo che ha avviato – e che ha avuto il suo culmine assoluto nella messa al bando totale dell’esportazione di nickel come materia prima, imponendo che almeno una parte della lavorazione avvenga in Indonesia – potrebbe non essere alla portata delle forze della reazione; Prabowo – che è un opportunista, ma non è scemo – lo sa benissimo e ha deciso di porsi in piena continuità con l’amministrazione Jokowi, che l’ha sostenuto – come l’hanno sostenuto anche i cinesi. Per la borghesia compradora potrebbe essere la sconfitta definitiva.
Insomma: nel Sud globale, ormai, lo scozzo è tra due sfumature diverse di multipolarismo; quella più soft e paracula dei vecchi establishment che cercano di adeguarsi al mondo che cambia senza perdere i loro privilegi e quella più strong delle forze politiche emergenti che cercano di approfittare del mondo che cambia per cambiare tutto anche in casa. E al giardino ordinato, intanto – tutto in subbuglio per il grande anno delle elezioni globali – non rimane che interpretare le poche elezioni che si svolgono davvero regolarmente capovolgendo la realtà e stendere un velo pietoso su tutte le altre. E anche fare un po’ di sano vittimismo, come quando a Davos, il mese scorso, la crème de la crème delle oligarchie parassitarie del pianeta si è riunita per lanciare all’unisono un allarme accorato sul rischio fake news e disinformazione; cioè, gli azionisti di maggioranza di tutti i mezzi di produzione del consenso dell’Occidente collettivo ci volevano convincere che il problema non sono gli eserciti di Danili Taino sul loro libro paga e il monopolio delle piattaforme social in mano loro, ma Ottolina Tv e il fantasma di Giulietto Chiesa.
D’altronde l’odio di Taino per la democrazia ha radici antiche: era il luglio del 2015 e con la scusa del feticcio dell’austerity la Germania si apprestava a ridurre in cenere la povera Grecia; dieci anni dopo, tutti i principali protagonisti di quella stagione hanno fatto il mea culpa e hanno ammesso pubblicamente che la stagione dell’austerity a tutti i costi è stata un gigantesco errore, da Mario Draghi a Mario Monti, passando per Angelona Merkel. All’epoca, però, chi s’azzardava a dubitare finiva immediatamente nelle liste di proscrizione, esattamente come i fantomatici propagandisti putianiani negli ultimi due anni – almeno fino a quando anche Limes non ha cominciato a dire quello che tutti noi, a libro paga di Putin, sommessamente sostenevamo sin dall’inizio; allora come ora, a guidare la campagna per l’adeguamento forzato al pensiero unico confuso, era il Corriere della Sera e tra i cani da guardia più feroci dell’ortodossia analfoliberista non poteva che esserci il suo corrispondente dalla Germania e, cioè, proprio Danilo Taino, una vera e propria bimba di Wolfgang Schauble e dell’ordofascismo allora tanto in voga e che, in suo nome, si scagliava come un mastino inferocito contro la deriva scandalosa intrapresa dal governo Tsipras: chiedere il parere del popolo. Contro il pacchetto lacrime e sangue imposto dalla troika, infatti, Tsipras aveva avuto la terrificante idea di indire un referendum; apriti cielo! “A meno di un colpo a sorpresa ad Atene, ad esempio la caduta del governo di sinistra” scriveva Taino “domenica prossima i greci voteranno”: “Nominalmente” continua Taino, si tratta di un voto “sul programma di aiuti proposto dai creditori del Paese” e cioè, appunto, la ricetta lacrime e sangue della troika per punire l’indisciplinata Grecia e far arricchire le oligarchie; “in pratica” però, continua scandalizzato Taino, si voterà “sulla permanenza o meno della Repubblica ellenica nell’Unione monetaria”. Con il ricorso al voto popolare, rincara Taino, “il governo di sinistra” sta cercando di usare “il popolo greco come un’arma” cercando di “schierarlo contro gli avversari, che sarebbero rappresentanti del capitalismo europeo che ricatta i greci, come ama dire Tsipras”: “Convocando il referendum” continua Taino “più che dare la parola al popolo lo hanno chiamato a dare l’assalto al Palazzo d’Inverno dell’eurozona”. Come poi si scoprirà, purtroppo, avevano anche dei difetti.
Danilo Taino, comunque, non si limita a denunciare la pigrizia dell’Occidente collettivo solo nei tentativi di ribaltare i risultati delle urne: anche in Ucraina, con un po’ di fatalismo in meno, “le prospettive di una vittoria ucraina nel fermare l’aggressione russa sarebbero migliori”. Per rinfocolare un po’ del pensiero magico che ha occupato i media mainstream per due anni e che ora sembra aver perso un po’ di slancio, Taino si appiglia all’ultima trovata dell’internazionale Iacobona e Molinara: abbandonate con 6 mesi di ritardo le speranze totalmente infondate sulle magnifiche sorti e progressive della controffensiva immaginaria, il nuovo tormentone della propaganda suprematista infatti è che “si dimentica, però, che la Russia sta perdendo la battaglia del Mar Nero”; una vera e propria ossessione. E Taino ha recepito il messaggio: La Russia sta perdendo la battaglia per il Mar Nero titolava il 28 gennaio entusiasta l’Economist; La vittoria dell’Ucraina in mare rilanciava con un lunghissimo articolo Foreign Affairs la settimana dopo; “L’Ucraina afferma di aver affondato un’altra nave da guerra” replicava gasatissima la CNN giusto un paio di giorni fa. Come ha commentato laconicamente il nostro Francesco dall’Aglio: “Poverini, fagli festeggiare qualcosa…”. Nel frattempo, infatti, nel mondo reale il nuovo capo dell’esercito ucraino Oleksander Syrski annunciava il ritiro definitivo delle truppe ucraine da Adveevka: probabilmente è il vero motivo dell’avvicendamento alla testa delle forza armate ucraine e anche la ragione per la quale, alla fine, Zaluzhny ha incassato il defenestramento senza montare chissà quale cagnara; il nuovo capo si dovrà fare carico della debacle definitiva e Zaluzhny ha colto al volo la possibilità di abbandonare la nave, prima che affondasse definitivamente, per poi imporsi come il più autorevole dei leader possibili per la mini Ucraina che rimarrà dopo il conflitto. Festeggiare per qualche successo in mare durante una guerra di terra dove vieni preso a schiaffi un giorno sì e l’altro pure è un po’ come se mentre dalla lotta per lo scudetto ti ritrovi a lottare contro la retrocessione, ti metti a festeggiare perché hai vinto i Goal Awards che premiano la divisa più bella.

Babbo Natale

Come per le elezioni a Taiwan, però – diciamo – Taino è di bocca buona e si accontenta di poco; dall’Ucraina, al Medio Oriente: “L’uscita dalla guerra nel Medio Oriente” ammette “è molto complicata, ma la possibilità che dalla tragedia nasca un equilibrio più stabile non è irrealistica”. Per Taino, infatti, “se le democrazie ci credono”, congelando il conflitto e l’estensione degli insediamenti in Cisgiordania, tornando a discutere dei due Stati in cambio del riconoscimento diplomatico da parte dell’Arabia Saudita e, magari, anche invocando l’intervento di Babbo Natale per far dimenticare a suon di regali ai bambini di Gaza i loro amichetti sterminati sotto le bombe, si infliggerebbe una sconfitta epocale all’Iran che in Medio Oriente diventerebbe “isolato”: Ansar Allah riconsegnerebbe Sana’a ai proxy sauditi, l’Iraq si consegnerebbe alle cellule del Mossad attive nel Kurdistan e invece di cacciare gli ultimi americani rimasti ne chiederebbe i rinforzi, Nasrallah si convertirebbe al protestantesimo, Bashar Assad trasformerebbe la Siria in una gigantesca Rojava e le masse arabe, da idolatrare Abu Obeida, Abdel Malek Al Houthi e l’ayatollah Kamenei, si convertirebbero al culto di Ernesto Galli della Loggia. D’altronde, sottolinea Taino, “siamo in un’era in cui l’impensabile può materializzarsi” e, quindi, perché non sognare? E il sogno di Taino, infatti, procede inesorabile ignorando ogni contatto con la realtà: il raggiungimento di questo nuovo ordine pacifico, continua infatti Taino, “sarebbe la testimonianza che gli Stati Uniti sono ancora l’unica potenza in grado di non far esplodere un conflitto”; nel mondo incantato di Taino sostanzialmente la carneficina di Gaza non solo non è un genocidio, ma proprio non esiste, come non esistono tutte le guerre scatenate dagli USA nella regione negli ultimi 30 anni. E, quindi, che ci vorrà mai a rilanciare l’immagine degli USA portatori di pace? Basta, appunto – come dice Taino – farla finita col nostro pigro fatalismo e, a quel punto, si “darebbe modo ai paesi del Sud globale di considerare quali sono le forze che favoriscono la stabilità che aiuta lo sviluppo”: quindi, nella realtà parallela di Taino, il superimperialismo statunitense ha garantito la pace e lo sviluppo del Medio Oriente e dell’Africa, che poi sono state messe a ferro e fuoco dalla Russia e dalla Cina.
Il problema, sostiene Taino in soldoni, è solo che non facciamo abbastanza propaganda per affermare questa incontrovertibile verità: “La pigrizia dei chierici occidentali e dei loro governi” afferma polemicamente “rischia di essere la quinta colonna” non solo – si badi bene – “degli autocrati”, ma addirittura anche “dei terroristi”; “I migliori” scrive ancora, citando il poeta inglese William Butler Yeats, “mancano di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di fervente energia”. “Quei peggiori” sottolinea Taino per chi, a fine articolo, non l’avesse ancora capito “sono oggi i Putin, gli Xi Jinping, gli ayatollah e i loro sodali” e cioè, appunto, Ottolina Tv e tutti quelli che, come noi, sono a libro paga delle DITTATUREEHH!!, rigorosamente scritto in caps lock con 2 H finali e 6 punti esclamativi, mentre i Danilo Taino sacrificano la loro vita per gli ideali della democrazia e della libertà. Ma la pacchia è finita, avverte Taino, perché chi come noi fa propaganda ruzzah si sente forte perché “convinto della mancanza di volontà e di convinzione delle democrazia” e invece, minaccia Taino, “possiamo ancora deluderli”.
Tranquillo Danilo: per ora, diciamo, te e i pennivendoli analfoliberali amici tuoi non ci avete mai deluso; ogni volta che abbiamo un calo di autostima o siamo assaliti da un qualche dubbio, basta riguardare le puttanate che scrivete e il morale torna alle stelle. E quindi, buona settimana antimperialista a tutti, ma ricordatevi, però, che per quanto la propaganda sia strampalata e venga smentita continuamente dai fatti, i mezzi di produzione del consenso sempre in mano loro rimangono e ,quindi, bullizzarli è giusto e sacrosanto, ma non basta: per dargli il benservito definitivo, abbiamo bisogno di contrapporre ai loro mezzi di produzione del consenso un mezzo di produzione del senso critico; ci serve subito un vero e proprio media che, invece che dalla parte delle oligarchie suprematiste, stia dalla parte del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Danilo Taino

“Cambieremo le regole del gioco”: Il G77 e la rivolta del Sud Globale contro il neocolonialismo

Fermi un attimo, fermi un attimo perchè qui veramente siamo di fronte a un capolavoro da manuale della propaganda suprematista occidentale.

Venerdi scorso all’Havana si è tenuta una piccola riunioncina, na cosa ‘e niente, proprio.

Appena centotrentaquattro Paesi, che rappresentano l’80% della popolazione mondiale e che all’unisono hanno detto una cosuccia che forse non è proprio esattamente irrilevante: il vecchio ordine globale è morto, finito.

È arrivato il momento di Cambiare alla Radice le Regole del Gioco, e porre fine una volta per tutte a secoli e secoli di dominio attraverso la violenza e lo sfruttamento economico da parte di una piccola minoranza su tutto il resto del pianeta.

Ripeto. raissumendo: l’80% della popolazione mondiale si è riunita e ha detto all’unanimità che l’occidente ha rotto il cazzo.

A me sembra una notizia che dovrebbe occupare paginate su paginate nei quotidiani, e ore e ore di palinsesto e invece…

Ora, quello che mi chiedo è: quanto a lungo permetteremo ancora alla propaganda suprematista di sfrucugliarci le gonadi con la descrizione di un mondo vecchio che ormai esiste soltanto nelle fantasie psichedeliche di un esercito di pennivendoli analfoliberali? 

Non è certo la prima volta che l’eroica Repubblica rivoluzionaria cubana ottiene un clamoroso successo diplomatico. Nonostante le innumerevoli e impacciate operazioni propagandistiche della propaganda suprematista di ogni colore politico come la gigantesca merda che pestò il sempre pessimo Roberto Saviano un paio di anni fa.

Non so se vi ricordate. Stremate dalle conseguenze dell’utilizzo politico che gli USA stavano facendo della crisi pandemica per infliggere un’altra mazzata alla popolazione cubana, vi furono alcune mobilitazioni contro il Governo rivoluzionario. Sempre tutte cose ultraminoritarie, che il sostegno popolare alla rivoluzione cubana, nonostante le gigantesche difficoltà economiche dovute all’embargo illegale da parte dell’imperialismo USA, rimane quasi unanime.

Ma evidentemente, abbastanza per far arrapare il suprematismo analfoliberale, che è convinto che a Cuba non ambiscano ad altro che poter leggere liberamente la repubblichina e a eleggere presidente Lia Quartapelle. Tra loro, appunto, il nostro Robertino:

“Cuba finalmente insorge contro la dittatura del partito comunista cubano”, avevo twittato. “Cuba merita democrazia e la conquisterà”. D’altronde, è un’affermazione coerente col Saviano pensiero: uno che decanta le lodi e definisce democrazia il regime di apartheid di Tel Aviv, non può che coerentemente spregiare l’eroica resistenza popolare antimperialista del popolo cubano.

Basta però, per lo meno, che si scelga i testimonial giusti. Nel tweet di Saviano infatti c’era allegata anche questa foto

secondo Saviano, un’icona della rivolta democratica e filooccidentale contro il regime.

Insomma…

La persona ritratta nella foto infatti si chaima Betty Pairol Quesada e come la stragrande maggioranza dei suoi concittadini, è una sostenitrice accanita del Governo rivoluzionario cubano, e quando è stata scattata questa foto, stava partecipando a una manifestazione contro El Bloqueo, contro l’embargo illegale imposto a Cuba dalle potenze democratiche che tanto piacciono a Saviano.

La nostra Betty s’è accorta della cosa, e ha diffidato i suprematisti analfoliberali alla Saviano dall’utilizzare la sua immagine per legittimare le proteste di quelle che lei definisce apertamente “delinquenti e vandali”.

Saviano, senza scusarsi, ha sconigliato quatto quatto e ha rimosso l’immagine. Due anni dopo, il suo account twitter è sempre attivissimo e seguitissimo, ed è l’ennesimo importante strumento della peggiore propaganda woke imperiale. Quello della povera Betty invece appare temporaneamente limitato.

Non fosse mai che si azzardasse a far fare qualche altra colossale figura di merda a qualche propagandista.

Nonostante la potenza di fuoco della propaganda suprematista comunque, Cuba non è nuova ai successi diplomatici. Negli ultimi trenta anni ogni anno l’assemblea generale delle Nazioni Unite mette ai voti una mozione per chiedere agli USA la fine dell’embargo. La prima volta fu il 1992, e votarono a favore in appena 59. Anno dopo anno quei voti sono progressivamente sempre aumentati, e da una quindicina di anni abbondanti ad approvare la mozione è sempre invariabilmente sostanzialmente la totalità dei 193 Paesi rappresentati alle nazioni unite. A votare contro infatti sono sempre e solo in due: Stati Uniti e Israele, i due stati canaglia della comunità Internazionale. A loro si affiancano sempre due o tre Paesi che optano per l’astensione. Prima erano gli Stati fantoccio insulari del Pacifico, come Palau e le Isole Marshall. Poi si sono rotti il cazzo pure loro, ma sono stati sostituiti per un periodo dal Brasile del presidente fascioterrapiattista Jair Bolsonaro e da un paio di anni dall’Ucraina, che vale la pena sottolineare, visto che la propaganda suprematista Occidentale parla sempre del presunto isolamento di Putin: l’Ucraina all’ONU vota da sola con altri 3 paesi contro tutto il resto del mondo. Dal punto di vista dell’autonomia geopolitica, l’Ucraina appunto, è come erano Palau e le Isole Marshall una decina di anni fa. Questa volta però Cuba è andata oltre, perchè a questo giro non si trattava semplicemente di votare contro un embargo palesemente criminale e illegale. Questa volta si trattava di andare all’Havana, e non solo dimostrare simbolicamente la propria doverosa solidarietà nei confronti della rivoluzione castrista, ma di sedere al fianco di Cuba in un’organizzazione multilaterale che, proprio a partire dall’appello di ormai una ventina di anni fa di Fidel Castro in persona, ha deciso di marciare unita per porre fine al dominio del nord globale.

“Una vittoria diplomatica contro il bloqueo”, la definisce senza mezzi termini People dispatch, che sottolinea come la storica riunione dell’Havana si sia tenuta giusto pochi giorni dopo la proroga di un altro anno da parte della democratica amministrazione Biden non solo dell’embargo criminale che è in piedi da oltre sessant’anni, ma anche dell’ulteriore ondata di sanzioni aggiuntive introdotte dall’amministrazione ultrareazionaria ed esplicitamente suprematista di Donald Trump.

Ma lo straordinario successo diplomatico di Cuba è soltanto un pezzetto della storia.

Per capirne il resto, non rimane che leggere attentamente i 47 punti della dichiarazione finale sottoscritta all’unanimità da tutti i paesi partecipanti. Il primo fondamentale punto è la richiesta di democratizzazione delle Nazioni Unite come istituzione. Ma attenzione, non contro lo spirito della carta delle Nazioni Unite e del diritto Internazionale, ma proprio nell’ottica di una loro reale attuazione.

“Riaffermiamo il pieno rispetto degli scopi e dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale”, sottolineano esplicitamente nel comunicato. Chi non li rispetta, evidentemente, sono le Nazioni Unite stesse, per come sono oggi. L’assemblea generale infatti non ha nessun potere reale che è tutto esclusivamente nelle mani del consiglio di sicurezza, che però è di un’altra epoca. Appena cinque potenze, o meglio tre. Tra i cinque infatti ci sono Gran Bretagna e Francia, che ormai sono piccole potenze subregionali a sovranità limitata, e completamente allineati agli USA. In pratica, quindi, il consiglio di sicurezza è composto da tre paesi, con uno che conta più degli altri due messi assieme. Che nel 2023 non vengano rappresentati in nessun modo l’Africa, l’America Latina, il sud ed il sud est asiatico è una cosa semplicemente ridicola e da sabato è chiaro che gli unici che tentano di ostacolare quello che è evidentemente ineluttabile, sono i rappresentanti di quel 20% scarso della popolazione globale che continuano a vivere in una bolla anacronistica tutta loro.

Il continuo richiamo da parte di tutte le organizzazioni multilaterali del sud globale alla riaffermazione dello spirito della carta delle Nazioni Unite ricorda molto da vicino il continuo richiamo delle forze popolari dell’Europa occidentale alle carte Costituzionali emanate dopo la seconda guerra mondiale.

D’altronde, sono i due lati della stessa medaglia. Le carte Costituzionali nazionali e la carta delle Nazioni Unite, nascono nel momento di massima affermazione della democrazia moderna, ed hanno lo stesso identico impianto concettuale. Cinquant’anni di controrivoluzione neoliberista le hanno trasformate entrambe in lettera morta. Compito delle forze realmente democratiche è riaffermarne lo spirito sia a livello dei singoli Paesi, sia su scala internazionale. Questa rivendicazione assume un significato ancora più urgente proprio oggi, mentre a New York si scaldano i motori per il principale evento annuale nell’agenda delle Nazioni Unite: l’assemblea generale che avrà inizio tra poche ore e dove sarà difficile riuscire a ottenere qualche risposta concreta: dei cinque Paesi del consiglio di sicurezza, soltanto i padroni di casa, gli USA, hanno garantito la partecipazione del presidente, che è anche il principale bersaglio delle critiche del G77.

“Rigettiamo tutti i tipi di misure economiche coercitive”, si legge nella dichiarazione dell’Havana, “a partire dalla sanzioni unilaterali contro i paesi in via di sviluppo, per le quali chiediamo l’eliminazione immediata”.

Come dimostra in modo evidente questo grafico,

il ricorso allo strumento illegale dal punto di vista del diritto internazionale delle sanzioni economiche unilaterali negli ultimi anni è diventata una vera e propria barzelletta. Sostanzialmente ormai è sufficente non essere completamente allineati agli obiettivi strategici di Washington per vedersi applicare una qualche forma di sanzione, alla quale poi il resto del mondo è costretto ad adeguarsi. Se fino a qualche anno fa si cercava per lo meno di confondere un po’ le acque, tirando in ballo qualche fantomatica violazione dei diritti umani che vale sempre e solo per gli altri, ma che almeno fa dormire tranquilli i fintoprogressisti suprematisti delle ztl di tutto il nord globale, con l’acuirsi del conflitto tecnologico con la Cina ormai il Re è completamente nudo, e le sanzioni vengono utilizzate sistematicamente anche solo per ostacolare lo sviluppo economico altrui. Ed è proprio il contrasto a questo utilizzo arbitrario dello strumento delle sanzioni per impedire l’autonomia tecnologica della Cina e di tutto il sud globale, a nostro avviso, a rappresentare l’aspetto più importante della risoluzione dell’Havana.

I paesi del g77, schierandosi apertamente con la Cina nella guerra tecnologica a forza di sanzioni con l’impero USA, affermano infatti di rifiutare categoricamente “i monopoli tecnologici e altre pratiche sleali che ostacolano lo sviluppo tecnologico dei paesi in via di sviluppo. Gli Stati che detengono il monopolio e il dominio nell’ambiente delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione non dovrebbero utilizzare i progressi delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione come strumenti per contenere e reprimere il legittimo sviluppo economico e tecnologico di altri Stati”

È la critica fondamentale al cuore pulsante del neocolonialismo. Durante la fase coloniale infatti i paesi del nord globale, e cioè i difensori della democrazia di sto cazzo riuniti oggi nel g7, hanno accumulato un vantaggio tecnologico enorme sul resto del pianeta attraverso il semplice esercizio della forza bruta. Quando il dislivello è diventato sufficentemente ampio, dalle politiche coloniali, che comunque comportavano anche una lunga serie di costi e di disagi, sono passati a quelle neocoloniali che consistono semplicemente nello sfruttare questo gap per impedire strutturalmente al sud globale di recuperare terreno. Fino a che il sud globale è totalmente dipendente tecnologicamente dai Paesi ricchi, si può anche far finta di essere per il libero mercato, che non fa che aumentare il vantaggio di partenza dei paesi più sviluppati. Con loro grande disappunto però c’è chi non è fatto infinocchiare, e quando ha messo a disposizione dei capitali stranieri la forza del suo stato, la manodopera a basso costo della sua popolazione e anche la salubrità del suo ambiente naturale, ha chiesto però una cosa in cambio: il trasferimento di tecnologia.

È esattamente quello che ha fatto la Cina. Col tempo, grazie a questo trasferimento iniziale di tecnologia, la Cina è stata in grado di ridurre il gap con l’Occidente, e quindi di guadagnare la sua indipendenza, che è esattamente quello che adesso chiedono di fare tutti i Paesi del sud globale, mutuando completamente da questo punto di vista il modello di sviluppo del dragone. Contro questa prospettiva, ecco allora che per il nord globale diventa prioritario ostacolare con ogni mezzo necessario la capacità del sud del mondo di emanciparsi tecnologicamente dai paesi più avanzati, anche a costo nell’immediato di rimetterci economicamente. Un po’ come succede anche con l’austerity: la priorità è mantenere i rapporti gerarchici di forza tra capitale e lavoro, e per riaffermare il dominio del capitale sul lavoro la stagnazione economica, se non addirittura la recessione, sono un costo che vale la pena affrontare. Per ostacolare l’autonomia tecnologica del sud globale, gli USA e i suoi vassalli non si limitano a introdurre sanzioni unilaterali contro la Cina, che è il competitor diretto, ma tentano di impedire a tutti gli altri di usufruire degli sviluppi tecnologici che la CIna ha già conseguito.

La gigantesca e ipercompetitiva capacità produttiva cinese infatti sta permettendo anche ai Paesi più poveri di cominciare a intraprendere la strada dello sviluppo tecnologico, ad esempio attraverso la infrastrutture di rete di Huawei.

Le sanzioni contro Huawei quindi hanno una doppia valenza: ostacolare il superamento della Cina come produttore di tecnologia da un lato e ostacolare i primi passi del resto del sud globale come acquirenti di tecnologia cinese. Una strategia che però forse non sta funzionando alla perfezione. Huawei ha continuato a sviluppare tecnologia autoctona colmando sempre più gap, prima con lo sviluppo di infrastrutture 5g e l’implementazione a livello industriale dell’intelligenza artificiale su una scala che l’Occidente manco si sogna, e ultimamente anche con i microchip. Dall’altro lato, l’atteggiamento punitivo e predatorio del nord globale non ha fatto che saldare ulteriormente l’alleanza tra la Cina e il resto del sud globale. La risoluzione dell’Havana è proprio il risultato di questo completo allineamento tra gli interessi di Paesi che nella realtà hanno livelli di sviluppo molto diversi tra loro.

“Ai paesi in via di sviluppo”, si legge infatti chiaramente nella risoluzione, “non dovrebbero essere imposte restrizioni all’accesso ai materiali, alle attrezzature e alla tecnologia delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione al fine di mantenere uno sviluppo sostenibile”

Da questo punto di vista, il g77 dell’havana oltre ad essere un piccolo capolavoro diplomatico della Repubblica rivoluzionaria cubana, è un ulteriore capolavoro anche della diplomazia cinese, ed è anche una piccola speranza per la pace. Ultimamente, infatti, parlando della creazione di un nuovo ordine realmente multipolare, abbiamo posto l’accento sulla dedollarizzazione. Eppure di dollaro nella risoluzione non si parla. Si parla di riforma dell’architettura finanziaria e di democratizzazione delle istituzioni finanziarie globali, ma c’è una bella differenza. La democratizzazione delle istituzioni finanziarie, come la banca mondiale e il fondo monetario internazionale infatti, si riferiscono semplicemente a una maggiore rappresentanza del sud globale e a un uso meno predatorio dei finanziamenti allo sviluppo, che fino ad oggi sono stati utilizzati per imporre l’agenda della globalizzazione neoliberista in lungo e in largo. Ma a differenza della dedollarizzazione, queste riforme non rappresentano una minaccia esistenziale immediata per gli USA. La fine del dollaro come valuta di riserva globale infatti significa di per se la fine dell’imperialismo finanziario USA per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi cinquant’anni, che si fonda proprio sulla necessità da parte dei paesi esportatori di accumulare dollari come riserve, sotto forma di titoli di stato USA. Sostanzialmente obbliga tutto il Mondo che produce, a finanziare il debito crescente e anche le bolle speculative che sole giustificano questo livello di ricchezza in un Paese che ormai sostanzialmente produce poco o niente. Da questo punto di vista l’egemonia del dollaro per gli USA rappresenta una redline invalicabile, e la minaccia di un suo declino non può che spingere gli USA verso il conflitto, a prescindere da quali siano le possibili conseguenze, con buona pace del pacifismo più moralista e naif.

La riforma graduale delle istituzioni finanziarie multilaterali invece, ovviamente comporta un ulteriore spinta al graduale declino dell’egemonia USA, ma non una minaccia esistenziale. Aver spostato in questa fase il focus della rivolta del sud globale contro il vecchio ordine unipolare dalla dedollarizzazione alla guerra tecnologica, rappresenta quindi un importante gesto distensivo. La Cina e il sud globale sono convinti in questa fase di poter continuare a colmare il gap con il mondo sviluppato anche nell’ambito di un’architettura finanziaria globale ancora incentrata sul dollaro, proprio come d’altronde la Cina ha già fatto negli ultimi trent’anni, a patto però di rimuovere gli ostacoli introdotti per impedire il loro ulteriore sviluppo tecnologico. Il processo della dedollarizzazione è inarrestabile e nel frattempo proseguirà, ma il suo ritmo dipenderà anche molto dalle prossime mosse statunitensi: se continueranno ad utilizzare le sanzioni contro chiunque in modo sistematico, il processo si velocizzerà, se invece faranno un bagno di realtà e realizzeranno di non avere più il coltello dalla parte del manico, il processo potrebbe proseguire anche molto lentamente.

Da questo punto di vista, la risoluzione dell’Havana e il rafforzamento di un organo come quello del g77 non rappresentano soltanto una presa di coscienza della forza che il sud globale se davvero unito può avere e dei diritti che può rivendicare, ma anche la speranza, per quanto flebile, che questa unità possa allontanare lo spettro di una guerra totale che continua a sembrare allo stesso tempo tanto inconcepibile, quanto ineluttabile. Che questa dialettica fondamentale per il destino stesso dell’umanità non trovi minimamente spazio nel nostro ecosistema mediatico, a me non sapete quanto mi fa girare il cazzo!

Allo stesso tempo però mi fa anche credere che quello che stiamo provando a fare non è solo utile, ma necessario anche se, ovviamente, del tutto insufficiente.

Contro la putrescenza dei vecchi media, per raccontare il nuovo mondo che avanza, mai come adesso abbiamo bisogno di un nuovo media che stia dalla parte della pace e del 99%

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Fonti:

Discorso del Presidente Cubano Díaz-Canel alla sessione inaugurale del G77+Cina: https://www.presidencia.gob.cu/es/presidencia/intervenciones/discurso-pronunciado-por-el-presidente-de-la-republica-en-la-sesion-inaugural-del-grupo-de-los-77-y-china/?_x_tr_sl=auto&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it

Relazione finale del G77+Cina: https://cubaminrex.cu/en/declaration-summit-heads-state-and-government-group-77-and-china-current-development-challenges

Tweet Roberto Saviano e Betty Pairol Quesada: https://www.ilprimatonazionale.it/esteri/cuba-cosi-saviano-ha-diffuso-una-clamorosa-fake-news-201809/?noamp=mobile

Grafico delle sanzioni: http://www.globalsanctionsdatabase.com/