Umiliata in Ucraina e impantanata nel Pacifico, Kabala Harris dichiara guerra all’Iran
Intervistatore: “Quale paese straniero considera sia il nostro principale nemico?”
Kabala Harris: “Credo ovviamente ne venga subito uno in mente, che è l’Iran. l’Iran ha sangue americano sulle sue mani“
Ottoliner buondì. Dopo due anni e mezzo vi cominciavate ad annoiare a sentir sempre parlare degli schiaffi che quotidianamente l’Occidente collettivo raccatta nella guerra per procura in Ucraina? Nessun problema: la guerra mondiale dell’imperialismo a guida USA contro il resto del mondo è pronta ad arricchirsi di un nuovo, entusiasmante capitolo! Per mesi, un po’ tutti (e noi per primi) ci siamo fatti mille pippe su come a volere una regionalizzazione dello sterminio di Gaza fosse Israele, mentre gli USA erano titubanti; la motivazione è nota e a chi ci segue ormai gli uscirà dalle orecchie: aprire un altro fronte, oltre a quello caldo in Ucraina e a quello in via di preparazione nel Pacifico, non è alla portata della superpotenza USA e dei suoi alleati. E visto che – da quando hanno raso al suolo l’intero paese per diventare energeticamente indipendenti e da quando la Cina è diventata la leader globale indiscussa delle rinnovabili – il Medio Oriente aveva cominciato a perdere la sua centralità, indebolire la deterrenza su uno dei due fronti principali per rimettere a ferro e fuoco l’Asia occidentale non sembrava avere molto senso, fino a quando qualcosa non è cominciata a cambiare piuttosto rapidamente. Le prime avvisaglie le abbiamo cominciate a registrare a inizio estate quando, mano a mano che Biden rincoglioniva sempre di più, Trump, da underdog ostracizzato dal sistema, cominciava a incassare il sostegno di pezzi sempre più consistenti di Stato profondo (a partire dai peggio sociopatici miliardari della Silicon Valley) e addirittura, cosa più unica che rara, cominciava a surclassare in donazioni la campagna dem. Ad attrarre su The Donald le luci della ribalta del partito unico neo-conservatore, l’idea che potesse riuscire a congelare (almeno temporaneamente) il conflitto in Ucraina scaricando tutta la responsabilità su quei bolliti dei democratici e limitare, così, la gigantesca figura di merda che gli USA stanno raccattando nel primo conflitto con un quasi pari tecnologico da 80 anni a questa parte. Ma non solo; The Donald infatti, col suo impeccabile curriculum da suprematista fascio-sionista senza peli sulla lingua, sembrava essere l’uomo in grado di dare maggiori garanzie per un netto e radicale cambio di strategia: ingaggiare una guerra contro l’Iran e riportare il fronte più caldo della guerra mondiale a pezzi in Medio Oriente.
Ma perché lo Stato profondo avrebbe mai dovuto cambiare così drasticamente i suoi piani e tornare a soffiare sul fuoco di un conflitto regionale in grande stile nell’Asia occidentale? Il punto è che la guerra per procura in Ucraina si è rivelata una disfatta oltre ogni più pessimistica previsione: sul terreno, la Russia ormai sembra non avere rivali; il regime del sanguinario dittatore plurimorto è più solido che mai ed è isolato soltanto nella mente malata di qualche sociopatico NAFO. E invece che ostacolare le alleanze tra i Paesi che si oppongono all’unilateralismo USA, ad oggi la guerra non ha fatto che accelerarle e fortificarle, a partire dalla più importante di tutte: l’asse Cina – Russia, che nessuno ha mai contribuito così tanto a rinsaldare come rimbamBiden e soci. D’altro canto, gli USA possono perlomeno vantare un successo piuttosto eclatante e, cioè, quello di aver imposto (in realtà senza mai riscontrare particolari ostacoli) l’abbandono definitivo da parte dell’Europa del processo di integrazione del super-continente eurasiatico e di aver completamente azzerato ogni velleità europea di autonomia strategica: a partire dalla Germania, unico capitalismo produttivo dell’Occidente collettivo a non essere stato ancora interamente fagocitato dal capitalismo finanziario USA e che ora, finalmente, ha accettato supinamente di diventare una semplice colonia economica, oltre che politica. Nonostante questo importante successo, però, la conversione dell’economia europea (e tedesca in primis) in una vera e propria economia di guerra in grado di fornire la base industriale necessaria per tenere a bada da sola nel medio e lungo periodo il gigante russo, sembra ancora lontana dal concretizzarsi materialmente; l’unica possibilità, quindi, è cercare in qualche modo di congelare – almeno parzialmente – il conflitto per evitare che continui a fagocitare, senza risultati, le poche risorse che il nostro sistema industriale ridotto al lumicino è in grado di offrire e sperare che la nostra conversione verso un’economia di guerra proceda più speditamente di quanto non stia avanzando lo sviluppo industriale di Mosca (e, magari, provare a riparlarne fra un po’).
Ma la disfatta ucraina non è l’unico ostacolo che ha costretto l’imperialismo USA a stravolgere totalmente i suoi piani perché anche sul fronte per eccellenza – quello del Pacifico, dove si tratta di fronteggiare l’unico vero competitor sistemico degli USA, la Cina – i preparativi vanno a rilento; il problema, ovviamente, è che se la grande macchina bellica dell’Occidente collettivo ha visto la sua base industriale bellica surclassata da una potenza produttiva media come quella della federazione russa, figurarsi cosa potrebbe succedere se si mettessero in testa di fare a gara con l’unica vera superpotenza manifatturiera del pianeta. La necessità di passare dal fioretto della guerra economica e commerciale ai missili, alle portaerei e ai sottomarini a propulsione nucleare è resa sempre più esplicita e urgente dal totale fallimento delle sanzioni e della strategia del decoupling. Ma alla necessità, per ora, non sembra corrispondere la possibilità: ognuno dei 13 principali cantieri navali cinesi è in grado di produrre più di tutti i cantieri navali USA messi assieme, e la scorciatoia che dovrebbe portare ad appaltare la produzione delle navi da guerra agli alleati giapponesi e sudcoreani (che invece una base industriale ce l’hanno ancora, eccome) si sta rivelando più lunga e tortuosa del previsto. Insomma: il mondo libero e democratico, prima di affrontare sul serio i pezzi grossi dopo essersi privato di una base industriale consistente per arricchire a dismisura le tasche delle sue oligarchie senza trovarsi in mezzo ai piedi quella gran rottura di coglioni della classe operaia, ha bisogno ancora di tempo. Ma durante questo tempo non può rimanere a guardare perché la storia, inesorabilmente, va esattamente nella direzione che devono in ogni modo scongiurare: il declino dell’impero, l’ascesa delle potenze emergenti e l’affermazione di un nuovo ordine multipolare; è fondamentale, quindi, imbarcarsi in una nuova guerra abbastanza grossa e complessa da creare una destabilizzazione globale che impedisca il naturale incedere verso un nuovo ordine multipolare, ma abbastanza piccola da essere alla portata dell’Occidente collettivo che ancora non ha trovato il modo di convertirsi all’economia di guerra. E il Medio Oriente, da questo punto di vista, rappresenta senz’altro un’ottima opportunità; e lasciate perdere che, probabilmente, anche quella contro l’Iran e l’asse della resistenza tutto sommato è un’altra guerra che (a meno di un olocausto nucleare) comunque gli USA e Israele, in quanto manifestazioni del colonialismo in putrefazione, alla lunga non possono vincere. Alla lunga, si vedrà. Intanto si può dare una dimostrazione al mondo che l’Occidente collettivo è ancora in grado di vincere una guerra convenzionale e, soprattutto, che chiunque si azzardi a seguire Russia e Cina in modo chiaro ed esplicito pagherà conseguenze gravissime. Ma prima di addentrarci nei dettagli di come e perché i preparativi alla grande guerra del Pacifico vanno a rilento, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per permetterci (anche oggi) di combattere la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi (che è l’unica guerra che, a quanto pare, gli USA sono davvero attrezzati per vincere) e, se non lo avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi la Casa Bianca ad abbandonare un fronte al collasso per riaprirne un altro nuovo di pacca, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di provare a capire e raccontare la terza guerra mondiale per quello che è davvero (e non per la caricatura che ne fanno gli amici NAFO afflitti da gravi deficit cognitivi).
Per dichiarare la guerra nel Pacifico alla Cina e avere almeno qualche remota chance di non capitolare a stretto giro servono parecchie cose, ma sopra ogni altra cosa serve che gli alleati/vassalli regionali facciano tutto quello che è in loro potere per cercare di colmare l’abisso che, al momento, li separa dalla superpotenza manifatturiera cinese e dalla gigantesca base industriale che sarebbe in grado di mettere a disposizione dello sforzo bellico. Insomma: oltre ad assicurarsi la definitiva trasformazione delle Filippine nella principale portaerei USA nel cuore del Mar Cinese Meridionale, deve riuscire ad assicurarsi il coinvolgimento totale di Giappone e Corea del Sud e la trasformazione delle loro economie in economie di guerra. Sulle Filippine diciamo che siamo un pezzo avanti: il presidente Marcos junior è un vero e proprio fantoccio USA, totalmente ricattabile; il padre, feroce dittatore, con l’assistenza di Washington negli anni ha nascosto un tesoretto gigantesco (nell’ordine di oltre 10 miliardi di dollari) in giro per il mondo, che ora Washington può usare per ricattare il figlio. E i risultati si vedono: la legge filippina impedirebbe ai Paesi stranieri di insediare basi stabili in territorio filippino e, invece, gli USA fanno cosa cazzo gli pare e ci fanno le basi; e ci mettono pure dentro in pianta stabile potenti sistemi missilistici come il Typhon, che avevano portato dicendo che servivano giusto per una breve esercitazione e poi – ça va sans dire – è rimasto lì (nelle colonie non si usa chiedere il permesso). Avere una gigantesca portaerei nel cortile di casa del tuo avversario, ovviamente, facilita molto il lavoro, però le armi e tutto il resto – a meno che non lo produci lì – ce lo devi portare e, per portarcelo, devi avere il controllo delle rotte marine, che quando entri in guerra con una potenza che produce un’enormità di navi in più di te, alla lunga potrebbe risultare piuttosto complicato.
Ed è qui che entrano in ballo i due pesi massimi regionali: la Corea del Sud e il Giappone. Corea del Sud e Giappone, infatti, sono gli unici due paesi dell’Occidente collettivo che hanno una cantieristica di tutto rispetto: messi insieme, producono un po’ meno della Cina, ma manco tanto. Per gli USA una vera manna, ma (purtroppo per Washington) non senza ostacoli: il punto è che il grosso delle navi che vengono prodotte, fortunatamente, servono a spostare merci o persone – e non a ucciderle. La Cina, allora, s’è inventata una cosa piuttosto caruccia: produzione civile e militare sono quasi indistinguibili; stessi cantieri, stesse aziende, stesso personale. Significa che, di volta in volta, può decidere quanto produrre di uno o dell’altro con pochissimo preavviso; insomma: convertirsi, all’esigenza, a un’economia di guerra è un attimo, anche perché sono parecchio allenati. Corea del Sud e Giappone insieme, negli ultimi dieci anni, hanno prodotto sì e no 50 navi militari; la Cina da sola, negli ultimi 5, 150. E convertire la cantieristica civile giapponese e sudcoreana alla costruzione di navi da guerra potrebbe non essere così semplice: al contrario dei cinesi che, infatti, utilizzano infrastrutture e tecnologie comuni per settore civile e militare, in Corea del Sud e in Giappone le due parti sono nettamente separate; per imitare la Cina servirebbero investimenti enormi che, essendo Corea del Sud e Giappone Stati dove ha stravinto la controrivoluzione neoliberista, possono arrivare soltanto a fronte di commesse enormi e stabili nel tempo, altrimenti i privati – da Hyundai a Mitsubishi, da Daewoo a Kawasaki – non ti cacano. Queste commesse dovrebbero arrivare in gran parte dalla marina militare USA, che è l’unica che ha una capacità di spesa di dimensioni tali da indurre a una rivoluzione totale del settore, ma le leggi USA, al momento, sostanzialmente impediscono di appaltare la costruzione di navi a Paesi terzi ed è piuttosto improbabile che queste leggi siano stravolte a breve. La scelta strategica di riportare un po’ di cara, vecchia industria sul suolo americano dopo decenni di ubriacatura da finanziarizzazione sta consegnando (fortunatamente) un potere contrattuale enorme in mano agli operai americani, che non hanno intenzione di lasciare che quel che rimane della loro industria venga delocalizzato altrove senza dare battaglia. E se decidono di dare battaglia, sono guai: giusto la settimana scorsa, 25 mila portuali distribuiti in quattordici grandi porti statunitensi – da New York a Miami, passando per Boston – hanno inscenato uno sciopero collettivo che, dopo appena tre giorni, è stato sospeso perché era stato raggiunto un accordo; e l’accordo prevedeva un aumento del salario medio – udite udite – di oltre il 60% nei prossimi 6 anni; ora, provate un po’ a dirgli che i soldi delle loro tasse vanno a pagare il lavoro di qualcun altro…
Ma gli enormi ostacoli concreti che rendono difficile immaginare di riuscire a colmare il gap con la Cina, in termini di produzione navale militare, sono solo uno dei tanti problemi che gli USA si trovano ad affrontare prima di riuscire a coronare il loro sogno di una specie di grande NATO del Pacifico in grado di affrontare, come un sol uomo, la minaccia cinese. In Giappone i problemi, fondamentalmente, sono due: il primo è che l’industria bellica giapponese è piuttosto limitata; a limitare il suo sviluppo, 80 anni di Costituzione smaccatamente pacifista imposta proprio dagli USA per evitare di replicare le spiacevoli sorprese del passato. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato, ma l’export del settore militare giapponese, ad oggi, vale appena qualche milione di euro. Il secondo è che le principali corporation giapponesi devono una fetta enorme del loro fatturato al mercato cinese e hanno investimenti diretti in Cina per oltre 150 miliardi di dollari; qui, però, gli USA hanno pensato bene di allungare la loro longa manus, che è quella del loro braccio finanziario: BlackRock e Vanguard che, negli ultimi 15 anni, sono diventati gli azionisti di maggioranza di tutte le principali corporation giapponesi che campano di affari con la Cina (da Toyota a Sony, da Hitachi a Panasonic). Riusciranno a convincerle ad allinearsi agli interessi strategici del centro imperiale a costo di rimetterci una marea di quattrini? Di sicuro sono in una buona posizione per farlo, e si vede: in Giappone, infatti, sostanzialmente non esiste nessuna opposizione; le scaramucce sono tutte interne allo stesso partito. E non nel senso figurato – che sottolineiamo sempre – del partito unico della guerra e degli affari; proprio nello stesso partito, letteralmente, che governa ininterrottamente dal 1955, a parte alcune brevissime parentesi che non arrivano a 5 anni in tutto. Quindi il governo è sempre e solo espressione dello stesso gruppo di interessi e, in cima alla gerarchia di quel gruppo di interessi, da 15 anni a questa parte ci sono sempre e solo i monopoli finanziari a stelle e strisce. Si chiamano, addirittura, quasi in modo identico: l’ultimo avvicendamento, infatti, ha visto uscire di scena Kishida ed entrare in gioco Ishiba; pare che prendano addirittura per il culo…
Discorso completamente diverso, invece, per la Corea del Sud; ed è un vero peccato perché, invece, la Corea del Sud un’industria militare ce l’ha (eccome) ed è tra i principali esportatori di armi al mondo, che fornisce allegramente a tutti i Paesi che contribuiscono allo sforzo bellico USA contro l’ascesa del nuovo mondo multipolare, dalla Polonia alle Filippine. Ma, ciononostante, sulla sua volontà di assecondare del tutto i piani bellici che gli USA hanno in serbo per il Pacifico ci sono parecchie perplessità: come il Giappone (più del Giappone) la Corea del Sud, infatti, campa di relazioni commerciali con la Cina, ma – a differenza del Giappone – la catena di comando è saldamente in mano alle principali famiglie della grande borghesia sudcoreana e ai loro chaebol, i mega-agglomerati tipici, appunto, della Corea del Sud che fanno capo a singole famiglie; ovviamente, BlackRock e Vanguard hanno iniziato la loro scalata anche a queste peculiari forme di strutture capitalistiche, ma (per ora) ancora con ruolo marginale. Risultato: in Corea del Sud una voce critica alla totale subordinazione ai disegni imperiali statunitensi esiste eccome e potrebbe rappresentare un ostacolo di non poco conto; questa voce critica non ha solo parecchi dubbi sul disaccoppiamento dalla Cina, ma anche sui rapporti col Giappone. Anche le famiglie più ricche, infatti, si ricordano del feroce regime coloniale imposto sulla penisola dal fascismo nipponico e non è un bel ricordo; le stesse famiglie, inoltre, non hanno mai visto particolarmente di buon occhio la provincia ribelle taiwanese che vedono, più che altro, come un competitor, a partire dal settore dei chip dove Taiwan, col sostegno dei capitali finanziari USA, s’è mangiata una fetta enorme del mercato che prima era in mano a colossi nazionali come Samsung. Queste famiglie, inoltre, fanno parte di un blocco sociale molto più ampio e composito che, al contrario che in Giappone, una loro rappresentanza politica ce l’hanno (eccome) ed è tutt’altro che minoritaria, anzi: a rappresentarli è il Partito Democratico, che esprimeva la presidenza fino a due anni fa; poi, nel 2022, le elezioni hanno coronato l’ultraconservatore Yoon Suk-yeol che ha inaugurato una stagione di riavvicinamento al Giappone e di totale asservimento agli interessi USA, manco fosse una Meloni qualsiasi. Risultato: oggi Yoon Suk-yeol nel Paese ha un sostegno che supera di poco il 20%, la metà degli avversari all’opposizione, che hanno priorità piuttosto diverse da quelle che vorrebbero imporre gli USA e i suoi vassalli politici locali; il Partito Democratico, infatti, non ha nessuna intenzione di sfidare gli interessi strategici cinesi relativi alla provincia di Taiwan. Anzi: piuttosto scettico sul reale contributo che gli USA possono dare alla sua sicurezza nazionale, vede nella Cina un interlocutore fondamentale, in particolare per riaprire i negoziati con i cugini del Nord, avviare un processo di denuclearizzazione della penisola e porre le basi per un futuro processo di riunificazione; secondo il Partito Democratico (e l’ampio e potente blocco sociale che lo sostiene), una guerra nel Pacifico contro la Cina sarebbe da scongiurare in ogni modo. Il punto è che a proteggere la Corea del Sud dalla minaccia nucleare dei cugini del Nord ci pensa l’ombrello garantito dai 28 mila soldati statunitensi di stanza nel Paese e il loro potente arsenale, fatto di B-52 e sottomarini a propulsione nucleare: un impegno di queste forze in un conflitto diretto contro il gigante cinese nel Mar Cinese Meridionale li lascerebbe in balia dell’arsenale nucleare dei cugini del Nord che, fino ad oggi, sono stati in buona parte tenuti a bada proprio dalla Cina che però, in caso di conflitto, avrebbe tutto l’interesse a lasciargli mano libera proprio per impedire – sia alle forze sudcoreane che a quelle statunitensi di stanza nella Penisola – di partecipare all’offensiva bellica nei suoi confronti. Insomma: il sostegno incondizionato della Corea del Sud, che agli USA serve come il pane per pensare di poter vincere la grande guerra del Pacifico, sembra piuttosto complicato da ottenere; come in Ucraina, non rimane che prendere tempo e sperare che, mettendo in campo tutti gli strumenti che rimangono in mano agli USA per convincere gli alleati a sacrificare definitivamente i loro interessi per assecondare le strategie dell’impero, piano piano si riescano a cambiare i rapporti di forza e, nel frattempo, fornire sostegno incondizionato all’avamposto imperiale sionista nella speranza che, attraverso lo sterminio indiscriminato di bambini, si riesca in qualche modo a rallentare la creazione di un nuovo ordine multipolare.
Disperazione e genocidio: gli ultimi sussulti dell’impero in putrefazione non sarebbero potuti essere più degradanti e anti-umani e, molto probabilmente, anche del tutto inefficaci; gli unici beoti che sembrano non accorgersene sono i nostri pennivendoli e la nostra classe politica, dagli analfoliberali agli analfosovranisti, che sacrificano l’interesse nazionale inviando la Cavour nel Pacifico col solo fine di dimostrare al padrone a Washington di essere sempre pronti all’obbedienza. Come sottolinea lo stesso JAPCC, il think tank della NATO dedicato alle forze aeree e spaziali, infatti, il fatto che la Cavour abbia una stazza che è un terzo della cinese Shandong e sia in grado di ospitare al massimo meno di un quarto dei suoi caccia, la rende un semplice gregario al seguito dei capofila statunitensi, dai quali dipenderebbe del tutto e per tutto. L’unico ruolo che vecchi e nuovi fascistelli da strapazzo hanno sempre ritagliato per l’Italia: un umile gregario della potenza imperialista più feroce, sempre e comunque dal lato sbagliato della storia. Sarebbe arrivata l’ora di mandarli tutti a casina a zappare l’orticello; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Ignazio La Russa