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Tag: mondiale

Global Southurday – I fronti sono ormai uniti: la guerra è mondiale – ft. Alberto Fazolo

Torna il consueto appuntamento del sabato con Alberto Fazolo. Oggi con il nostro Gabriele parlano di armi NATO all’Ucraina, dichiarazioni di Putin, fusione dei fronti (dall’Ucraina a Israele, fino allo Yemen e al Sudan), impegno di Macron ad inviare una brigata di 4500 uomini a Kiev, il crescendo di tensioni in Libano e a Gerusalemme e infine l’imminente G7 pugliese e le più anonime elezioni europee degli ultimi decenni. Così, mentre sul mondo incombe lo spettro nucleare e del conflitto generale, i leader dell’Occidente collettivo organizzano una passerella autocelebrativa nell’estivo caldo salentino. Buona visione!

#G7 #Russia #nucleare #Ucraina #Libano #Gerusalemme #Palestina #Israele #guerramondiale

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

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L’insulto al D Day: come l’impero usa la guerra antinazista per preparare la terza guerra mondiale

Fra una notizia e una dritta sul cavallo (o sul tennista) migliore del giorno, torna l’appuntamento del venerdì con il formidabile, imprevedibile ed inossidabile Nencio.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Il Corriere confessa che la guerra mondiale è già iniziata e chiede la sospensione della democrazia

Mission Ukraine: così si chiama il piano che il deep state a stelle e strisce sta preparando e che i vassalli saranno chiamati a sottoscrivere a luglio a Washington, quando si riuniranno i 32 reggenti dei protettorati dell’alleanza feudale atlantica; l’obiettivo, come sottolineava sabato scorso lo storico corrispondente dagli USA del Corriere della serva Giuseppe Sarcina, sarebbe quello di preparare “una specie di polizza anti Trump, una manovra in tre mosse per garantire che il sostegno militare all’Ucraina non verrebbe meno neanche qualora l’ex presidente dovesse tornare alla Casa Bianca”. L’obiettivo, continua Sarcina, sarebbe ovviamente quello di “appoggiare la resistenza fino a quando sarà necessario” che, dopo due anni che questo equivaleva a dire fino a che l’Ucraina non ha riconquistato tutto il territorio perso dal 2014 e fatto crollare il regime del dittatore plurimorto del Cremlino, oggi – molto più modestamente – significa “fino a quando Vladimir Putin capirà che non potrà vincere la guerra che ha scatenato il 24 febbraio del 2022”; e, ovviamente, a dirci con precisione cosa significa vincere o perdere ci penserà Sarcina (appena chi gli paga lo stipendio l’avrà deciso).

Giuseppe Sarcina

Al netto della solita sequela di puttanate suprematiste e di doppi standard, l’editoriale di Sarcina, comunque, del tutto involontariamente solleva alcune questioni decisamente interessanti: prima di tutto si lascia sfuggire che i soldi sbloccati dal congresso USA con l’approvazione definitiva, due settimane fa, del pacchetto da 60 miliardi “dovrebbero bastare a puntellare l’esercito ucraino fino al termine del 2024” il che conferma, come abbiamo sottolineato più volte, che in gran parte non servono all’Ucraina, ma agli USA e al comparto militare-industriale USA, visto che se servissero davvero all’Ucraina, in base a quanto speso in media fino ad oggi, basterebbero ad arrivare (come minimo) a fine 2025. Il problema che si pone Sarcina è che, a quel punto, se Trump dovesse vincere, i soldi per la resistenza ucraina potrebbero finire; e visto che, da qui ad allora, il massimo che si può ottenere – appunto – è che Putin non possa dichiarare la vittoria totale, una volta finiti i soldi, nel giro di poco tempo la Russia riaffermerebbe con facilità la sua supremazia militare incontrastata e si avvierebbe a una vittoria certa. Ora – come chi ci segue sa – io a questa favoletta di Trump che si dà da fare per accelerare il declino e permette a Putin di trionfare mettendo così fine, come dice Boris Johnson, all’egemonia dell’Occidente, non ci credo nemmeno se la vedo: mi sembra tutta fuffa per gli appassionati di cultural war secondo i quali le potenze non hanno esigenze vitali oggettive che prescindono dalle inclinazioni ideologiche di ognuno, ma la politica è tutto un conflitto tra opinioni diverse, una sorta di gigantesco bar dove ognuno dice un po’ cosa cazzo gli pare e chi prende più voti ha il potere di stravolgere completamente l’agenda; però, magari, mi sbaglio io e quindi limitiamoci a prendere come dato che, secondo l’internazionale globalista e neoconservatrice, questa minaccia è concreta.
Data questa minaccia, l’obiettivo allora non può che essere impedire che – tramite il supposto voto democratico – i cittadini USA possano decidere liberamente se continuare o meno la guerra; cioè, bisogna trovare i tecnicismi che, anche se a volere la fine della guerra è la stragrande maggioranza degli elettori, la guerra continui inalterata. E lo strumento più adeguato per farlo sarebbe proprio la NATO, che sta alla sovranità, in termini di sicurezza degli alleati, un po’ come l’Unione europea sta alla sovranità dei suoi membri in termini di politica economica e monetaria: la annulla totalmente, sostituendo ai parlamenti e ai governi (più o meno democraticamente eletti) un’istituzione sovranazionale postdemocratica dove a decidere è, appunto, uno Stato profondo che mantiene la sua agenda inalterata a prescindere dalla volontà popolare e che, come sottolinea Sarcina, “si sta adoperando per assumere un ruolo più centrale nel conflitto, introducendo meccanismi strutturali in grado di operare anche nel medio e lungo termine, scavallando, quindi, le scadenze elettorali e l’eventuale cambio di amministrazione a Washington”. In sostanza, anche in caso di vittoria – specifica Sarcina – “Donald Trump, una volta entrato nello studio ovale, si troverebbe di fronte a un fatto compiuto, con risorse destinate a essere spese in un arco di tempo pluriennale”.
Per limitare al massimo il potere di un’eventuale amministrazione Trump di interferire con il regolare proseguimento della guerra poi, ricorda Sarcina, “L’idea è di trasferire direttamente sotto il controllo del quartier generale della NATO a Bruxelles il coordinamento degli oltre 50 paesi che finora hanno partecipato al cosiddetto gruppo di contatto, evitando così di dipendere completamente da un eventuale ministro trumpiano”, che è un altro dettaglio che non sono proprio sicurissimissimo che Sarcina ci volesse svelare e, cioè, che senza questa modifica il gruppo di contatto – e, quindi, la guerra per procura contro la Russia in Ucraina – è completamente diretta dal segretario alla Difesa USA; non tanto, molto, in maniera decisiva: completamente. Queste sono le parole scelte da Sarcina. Ora, ovviamente, anche questo non è che a noi ci sconvolga: che la NATO non sia nient’altro che un braccio armato della politica estera USA è esattamente quello che sosteniamo da sempre, ma è comunque interessante vedere confessato apertamente che è anche l’idea che hanno i pennivendoli della propaganda atlantista che, di fronte a domande esplicite su questo tema, negherebbero anche sotto tortura e, anzi, hanno sempre condannato chi sosteneva questa tesi di complottismo e di essere quinte colonne della propaganda putinista. Ma Sarcina, bontà sua, va anche oltre e svela completamente l’impianto postdemocratico dei propagandisti come lui: Sarcina, infatti, saluta con entusiasmo una terza scelta della massima importanza strategica e, cioè, quella di “attribuire più deleghe operative, e quindi più poteri, al generale americano Cristopher Cavoli, a capo del Comando supremo delle potenze alleate in Europa. Da una parte quindi” sottolinea Sarcina “viene un po’ diluito il ruolo politico del Pentagono” trasferendo, appunto, il coordinamento del gruppo di contatto dei 50 paesi coinvolti nella guerra per procura contro la Russia in Ucraina al comando NATO di Bruxelles, mentre “dall’altra si rafforza la leadership militare di un generale indicato dall’amministrazione Biden e che è anche il comandante di tutte le forze armate statunitensi di stanza in Europa”.
Insomma: è la conferma del doppio processo che da mesi cerchiamo di descrivere. Da un lato c’è la trasformazione definitiva della NATO in un vero e proprio braccio armato al servizio dell’imperialismo, completamente staccato dalle scelte sovrane e vagamente democratiche dei paesi aderenti: “Per essere chiari” sottolinea Sarcina che, evidentemente, invecchiando ha perso tutti i freni inibitori, “Cavoli guiderà le operazioni militari sul terreno, e deciderà se e come mobilitare le forze di reazione rapida” e, cioè, “circa 300 mila soldati pronti al combattimento”; dall’altro c’è l’estensione di questa macchina bellica unitaria al completo servizio dell’imperialismo ben oltre i limiti del vecchio continente, andando – appunto – a coinvolgere tutti i 50 e oltre paesi che hanno già aderito, ad oggi, al gruppo di contatto nella costruzione di una vera e propria NATO globale pronta a combattere – all’unisono e sotto una catena di comando completamente scollegata ai processi democratici – la guerra esistenziale dell’Imperialismo contro il resto del mondo. L’obiettivo fondamentale di questa macchina distopica unitaria della fase terminale dell’imperialismo sarebbe appunto, fondamentalmente, quello di non permettere al sanguinario dittatore plurimorto del Cremlino di dichiarare vittoria, ma ci pare piuttosto evidente sia soltanto un banco di prova per qualcosa di molto, molto più generale: un po’ perché l’obiettivo di impedire alle potenze emergenti del nuovo ordine multipolare di ottenere una vittoria strategica significativa si estende, ovviamente, anche a tutti gli altri fronti di questa terza guerra mondiale ibrida – dal Medio Oriente al Pacifico, passando anche per l’Africa e probabilmente, molto presto, anche l’America latina; e poi perché si va ben oltre la mera difesa. Ovviamente, questo non significa passare subito esplicitamente all’attacco, ma più semplicemente, comme d’habitude, procedere col solito meccanismo di dominio imperiale fondato sull’accerchiamento e la provocazione; dall’est Europa al Pacifico il giochino, infatti, è sempre lo stesso: impedire il raggiungimento della piena sovranità dei paesi che si ribellano al vassallaggio (dalla Russia alla Cina, passando per l’Iran e compagnia cantante) minacciandone contemporaneamente sia la sicurezza strategica, sia lo sviluppo e l’indipendenza economica e commerciale.
La partita dell’Ucraina e della sua adesione alla NATO – che è una piccola anticipazione di quello che sta avvenendo, in particolare negli ultimi mesi, nel Pacifico, con la fornitura di nuovi sistemi d’arma made in USA a Taiwan e con il rafforzamento dell’asse tra USA, Giappone e Filippine – è appunto il banco di prova ideale; ed ecco così che Sarcina ricorda, appunto, come “Stando alle dichiarazioni pubbliche di Stoltenberg, nel vertice di Washington di luglio i 32 soci fisseranno un percorso definito per l’ingresso dell’Ucraina nel club atlantico”. Tanto per cominciare, continua Sarcina, “Si procederà da subito accelerando l’integrazione, o, come dicono i militari, l’interoperabilità, tra le forze armate di Kiev e quelle della NATO” e quindi, sentenzia senza tanti fronzoli, “togliendo dal tavolo delle trattative l’ipotesi di un’Ucraina neutrale”. Ooh, lo vedi? Dai e dai, anche la propaganda suprematista concorda con noi propagandisti putinisti e complottisti vari della primissima ora: altro che opposti imperialismi di ‘sta cippa, altro che lotta coloniale per il controllo delle risorse, e altro che difesa del diritto sacrosanto degli ucraini a difendere la loro patria; Sarcina ammette candidamente che la famosa invasione russa dell’Ucraina altro non è che una reazione scontata e necessaria a una provocazione architettata meticolosamente dall’imperialismo con l’obiettivo, appunto, di impantanare Mosca in una lunga guerra d’attrito che imponga all’Europa – intesa come semplice costola dell’imperialismo unitario – di abbandonare ogni velleità di integrazione eurasiatica e la costringa a superare gli ostacoli che, fino ad oggi, ne hanno impedito un riarmo adeguato alla nuova fase di guerra totale contro il resto del mondo. Secondo Sarcina “I governi della NATO prevedono che la guerra durerà ancora a lungo”; in realtà, però, non è che lo prevedono: molto semplicemente, hanno lavorato in modo accurato proprio affinché la guerra durasse a lungo e, cioè, il tempo necessario per estenderla a tutti gli altri fronti, a partire – appunto – dal principale, che è quello del Pacifico, e chiudere la partita del conflitto globale dell’imperialismo contro il resto il mondo. Questo, di per se, non significa ovviamente necessariamente attendere una guerra cinetica per procura nel Pacifico contro la Cina come quella che si sta combattendo al confine orientale dell’Europa: gli USA, infatti, continuano a coltivare l’illusione che con la guerra commerciale (e una deterrenza adeguata a proteggerla, che è quella che stanno cercando di costruire oggi non tanto armando Taiwan, quanto – appunto – inglobando Giappone, Corea, Australia, Nuova Zelanda e Filippine nella nuova NATO globale e spingendole a un riarmo massiccio come quello che richiedono ai paesi europei) alla fine potrebbero invertire il processo, in corso da decenni, che ha visto appunto la Cina recuperare, anno dopo anno, il gap tecnologico ed economico che ancora la separa dal centro imperialistico più avanzato (in alcuni casi addirittura superandolo, e manco di poco); ma, appunto, come sembrano dimostrare gli esiti della guerra tecnologica ad oggi – che, per quanto abbiano comportato problemi enormi alla Cina, tutto sommato sembrano averne accelerato invece che rallentato e, tanto meno, interrotto la corsa verso l’indipendenza tecnologica – con ogni probabilità si tratta, appunto, solo di un’illusione, il che significherebbe che, per ottenere risultati concreti, c’è bisogno di una continua escalation, sulla falsariga di quanto effettuato dalla NATO nell’Est Europa, fino a che non si arriva necessariamente a una reazione cinese, sulla falsariga di quanto scatenato con Mosca.
Insomma: vista con quest’ottica, non si tratta più nemmeno semplicemente di affermare che il problema della terza guerra mondiale non è se scoppierà, ma quando e come, ma – piuttosto – di prendere atto che è già scoppiata, sempre ricordando che la terza guerra mondiale, nel 2024, è ovviamente una guerra ibrida; e non significa necessariamente scontro cinetico su tutti i fronti e, tantomeno, esclation nucleare, anche se escluderla per fiducia nel buon senso delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità, a questo punto, è ovviamente un atto di fede religiosa che non ha niente a che vedere con l’analisi razionale delle dinamiche concrete. E visto che siamo in guerra, ovviamente, anche la sospensione dei normali diritti democratici delle democrazie liberali è già pienamente in atto anche se anche qui, come per la guerra, ovviamente non si tratta di ricercare la replica esatta degli strumenti e delle dinamiche registrate nel corso delle precedenti due guerre mondiali; si tratta, piuttosto, di capire concretamente gli strumenti concreti che vengono messi in campo per risolvere le contraddizioni concrete che questa fase scatena. Ed ecco così che non c’è bisogno di sospendere le elezioni democratiche nelle democrazie liberali. Basta renderle ancora più inutili: in Europa, rafforzando e accelerando il processo di unione politica che sostituisce, appunto, alle democrazie nazionali la postdemocrazia sovranazionale; negli USA, mettendo i paletti che impediranno a un eventuale presidente – che non fa completamente sua l’agenda politica già decisa dallo Stato profondo – di decidere liberamente se uscire dai binari. “Certo” specifica Sarcina “in teoria Trump se eletto potrebbe provare a smantellare tutta questa impalcatura, ma nella realtà sarebbe estremamente complicato. In un colpo solo il neo presidente dovrebbe reclamare fondi americani già impegnati, sconfessare i vertici dell’alleanza atlantica ed entrare in collisione con le alte gerarchie militari, nonché con l’industria bellica degli Stati Uniti” che, confessa candidamente Sarcina, è “di gran lunga la prima beneficiaria degli investimenti della NATO in missili, cannoni e carri armati”. La cosa interessante del ragionamento di Sarcina – che diamo per scontato rappresenti perlomeno un pezzo importante delle classi dirigenti imperiali alle quali il Corriere della serva fa da megafono – è che se questa totale sospensione della sovranità democratica noi la diamo da sempre per scontata per le periferie dell’impero, qui si estende anche al centro imperialistico stesso: questo ci costringe a rimettere un po’ in discussione alcune delle nostre categorie.
Secondo questo schema, infatti, identificare in Washington e in Wall Street il centro dell’impero, con gli altri vassalli attorno, sarebbe in qualche modo un eccesso di ottimismo perché, per quanto questo schema implichi un ordine internazionale antidemocratico (con un padrone che decide e gli altri che servono ubbidienti), comunque attribuisce un ruolo centrale al governo di un paese e quel governo, per quanto non si possa definire certo propriamente democratico – anzi – è comunque influenzato dalla sua opinione pubblica e deve trovare, comunque, una qualche forma di compromesso con le istanze del suo elettorato. Nel modello che emerge dalle parole di Sarcina, invece, non c’è manco questo: anche il governo di Washington, in soldoni, non sarebbe altro che uno strumento di un centro di potere ancora superiore che è talmente antidemocratico e dispotico che non c’ha manco non dico una sede fisica, ma manco un nome; fino a che il governo di Washington rappresenta fedelmente l’agenda politica di questo centro occulto, si può anche far finta che a guidarlo sia il presidente degli USA. Quando il governo di Washington, ammesso e non concesso che questo sia possibile, non incarna più questa agenda, anche lui può essere marginalizzato: ed ecco, così, che a comandare spunta un fantomatico centro NATO di Bruxelles che, molto banalmente, non significa un cazzo.
L’arrivo della terza guerra mondiale, in soldoni, non solo spinge un organo della propaganda come il Corriere della serva a chiedere più o meno esplicitamente la sospensione dei diritti democratici, ma anche a svelare che quella democrazia – stringi stringi – è sempre stata una gigantesca presa per il culo, un lusso accessorio del tutto velleitario del quale fare serenamente a meno non appena la situazione lo richiede. Contro la dittatura delle oligarchie (più o meno occulte) dell’imperialismo neoliberista è arrivata l’ora della riscossa multipopolare, ma per darle gambe e testa abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Mieli

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Terza guerra mondiale in comode rate – ft. Benedetta Sabene

Oggi per il consueto appuntamento del sabato di Ottolina, abbiamo come ospite Benedetta Sabene, scrittrice e divulgatrice riguardo a questione politiche e sociali. Nel suo libro Ucraina. Controstoria del conflitto. Oltre i miti occidentali l’autrice ricostruisce la storia del conflitto ucraino, indagando anche la rete di estrema destra che da Kiev si dipana fin nel cuore dell’Unione Europea e della NATO. Non mancano i riferimenti alla situazione di Gaza, cuore pulsante dello scontro in atto tra realtà post – coloniali e vecchio impero sulla via del tramonto. Buona visione.

L’Europa lascia cadere l’ultimo tabù e dichiara apertamente guerra alla Russia

“E’ tempo di adottare misure radicali e mettere l’Unione Europea sul piede di guerra”; la lettera di invito di Charles Michel ai leader del vecchio continente per il Consiglio Europeo iniziato ieri a Bruxelles non poteva essere più esplicita: “A due anni dall’inizio della guerra” aveva anticipato con un editoriale pubblicato dalla crème de la crème della propaganda guerrafondaia europea “è ormai chiaro che la Russia non si fermerà in Ucraina. Dobbiamo quindi essere pronti a difenderci e passare a una modalità di economia di guerra”.

Pierre Schill

Dalle dichiarazioni sull’invio di truppe NATO in Ucraina di Macron in poi, l’escalation verbale non ha fatto che procedere inesorabile e i vecchi tabù stanno rapidamente crollando uno dopo l’altro; giovedì Le Monde ha pubblicato un editoriale del capo delle forze armate francesi Pierre Schill (che non si capisce bene se c’è o ci fa): “La Francia” ha annunciato “ha la capacità di impegnare una divisione, ovvero circa 20.000 uomini, nell’arco di 30 giorni” e potrebbe “comandare un corpo fino a 60 mila uomini in coalizione, combinando una divisione francese e capacità nazionali all’estremità superiore dello spettro militare con una o più divisioni alleate”. Due ore dopo, su TF1 il colonello Vincent Arabaratier era già intento a spiegare nei dettagli dove andrebbero impiegate; le opzioni, sostiene, sarebbero sostanzialmente due: la prima che, con ogni probabilità, a breve ci verrà presentata come il male minore, prevede di posizionarle al confine con la Bielorussia per liberare truppe ucraine che potrebbero, così, raggiungere la linea di contatto sul fronte. La seconda, invece, più spregiudicata, prevede di posizionarle direttamente sulla sponda occidentale del fiume Dnepr: “Ma colonnello” gli chiede la giornalista, “il solo fatto di ammassare delle truppe lungo il Dnepr, anche se chiariamo che non spareremo mai per primi, non potrebbe essere considerata dalla Russia come una provocazione?”; “Assolutamente no” risponde il colonnello. Eh già, quando mai… “Si tratta solo di forzare la Russia a discutere, garantendo però l’equilibrio sul campo”; “I nostri soldati” ribadisce poi il colonnello a sostegno delle dichiarazioni del suo superiore a Le Monde “possono essere impiegati rapidamente, ed è uno dei vantaggi principali delle nostre forze armate rispetto ad altre, a partire dalla Germania. E non è solo una questione di qualità dei nostri soldati, ma anche perché il presidente ha i potere di dispiegare le forze immediatamente, cosa che invece non può fare il cancelliere Scholz, che deve riferire al parlamento e raccogliere il consenso del parlamento”, particolare non da poco – direi – dal momento che, ovviamente, in entrambi i casi l’invio di truppe rappresenterebbe un vero attentato alla volontà popolare: secondo un sondaggio di Elab, infatti, il 79% dei francesi si sarebbe detto contrario all’invio di truppe da combattimento in Ucraina e il 57% riterrebbe che il presidente Emmanuel Macron abbia fatto un errore madornale anche solo a esternare questa ipotesi.
Discorso diverso, invece, per le élite di svendipatria al governo in tutti i vari protettorati di Washington del vecchio continente: in soccorso a Macron, ad esempio, è arrivato subito Ben Wallace, l’ex ministro della difesa britannico del governo Johnson, quello responsabile del naufragio dei primi negoziati subito nella primavera del 2022; imitando la formula di Macron, ha affermato che l’invio di truppe britanniche in Ucraina “non può essere escluso” e, nel frattempo, ha invitato i leader di tutte le forze politiche a unirsi al suo appello per far crescere la spesa militare oltre il 3% del PIL, e di farlo subito. “Non si investe quando mancano 5 minuti a mezzanotte” ha affermato; “devi cominciare a farlo subito”. “Putin” ha sottolineato “si deve rendere conto subito che questa volta facciamo sul serio” perché, ha concluso, “credo sia la persona più vicina ad Adolf Hitler che abbiamo avuto in questa generazione”. Gli ha fatto eco l’ex capo dell’MI6, un novello dottor Stranamore di fatto e di nome: si chiama Richard Dearlove, Riccardo Stranamore, e su Politico ha tuonato “Se fermassi qualcuno per strada qui nel Regno Unito e gli chiedessi se pensa che la Gran Bretagna sia in guerra, ti guarderebbero come se fossi pazzo. Ma noi siamo in guerra, siamo impegnati in una guerra grigia con la Russia, e io non faccio altro che provare a ricordarlo alla gente”.
Per gli altri leader, invece, stringi stringi il problema è esclusivamente di public relation; in soldoni, si tratta solo di capire modi e tempi per comunicare a una popolazione che, di questo suicidio, non ne vuole più sapere, quello che ormai in molti ritengono sostanzialmente inevitabile: la grande guerra dell’Occidente collettivo contro il resto del mondo per impedire che si metta finalmente termine a 5 secoli di dominio dell’uomo bianco sul resto del pianeta è appena all’inizio. Nella complicata gestione contemporaneamente di 3 fronti, per liberare energie da impiegare per il fronte principale del Pacifico gli USA hanno delegato ai servitori obbedienti del vecchio continente il fronte occidentale della Russia e, da bravi cagnolini obbedienti, non c’è valutazione razionale possibile che possa condurli a desistere dal portare avanti la loro missione: un tempo era fino all’ultimo ucraino; ora, però, gli ucraini sono finiti e tocca a noi. Siamo davvero disposti a far trucidare i nostri figli per permettere a questi svendipatria di assolvere ai loro doveri? Prima di continuare questo racconto, però, come sempre vi invito a mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro la dittatura degli algoritmi e anche ad attivare le notifiche ed iscrivervi a tutti i nostri canali, compreso quello in lingua inglese.
“È questa primavera, quest’estate, prima dell’autunno che si deciderà la guerra in Ucraina”: a sottolineare l’urgenza della situazione, la settimana scorsa, era stato il compagno Josep Borrell; “I prossimi mesi saranno decisivi” aveva affermato, e “qualunque cosa debba essere fatta, deve essere fatta rapidamente”. E’ il mandato che ha ricevuto dal suo superiore diretto, il segretario di stato USA Antony Blinken, che era andato a omaggiare mercoledì scorso: ormai, in piena campagna elettorale, è ormai palese che – almeno da qua a novembre – gli USA non saranno più in grado di assistere l’Ucraina non dico tanto per invertire le sorti del conflitto (che è sempre stata, e continua ad essere, una chimera buona solo per gli allocchi analfoliberali), ma manco per evitare il collasso definitivo e la vittoria a tutto campo di Mosca.
A metterci una toppa dovranno essere le nostre élite contro il volere dei loro cittadini, una missione particolarmente ardua: decenni di dipendenza dall’apparato militare industriale USA non si invertono in pochi mesi, soprattutto dopo due anni di guerra economica a tutto campo degli USA contro l’Europa che hanno polverizzato tutte le risorse; e, infatti, il nocciolo principale ora sembra essere proprio quello. Michel parla di “economia di guerra”, ma chi sarà a finanziarla – e come – rimane un mistero; finanziarla a debito, dopo 30 anni che non fai altro che dire che ogni forma di debito, qualsiasi sia la finalità, è un peccato mortale, potrebbe non essere così banale: se ripeti continuamente una formuletta magica per decenni, inevitabilmente va a finire che poi la gente ci crede e quando, di punto in bianco, devi confessare che era tutta una messinscena per permettere alle oligarchie di fottere la gente comune, potresti incontrare qualche resistenza – soprattutto se, di lì a poco, devi pure tornare a chiedere di votarti. E’ esattamente il nodo che potrebbe impantanare le farneticazioni di Michel sull’economia di guerra ancora prima di partire: l’idea di Michel, infatti, è di emettere debito comune europeo per finanziare il riarmo, ma i frugali che, da decenni, basano il loro consenso sulla religione dell’austerity, di perdere voti per fare un favore a Washington non sembrano avercene particolarmente voglia.
In cima all’agenda, allora, torna l’idea della supertassa sui profitti che derivano dagli asset russi congelati per le sanzioni: peccato che, nella più ottimistica delle stime, potrebbe fruttare al massimo 10 miliardi l’anno, lo 0,05% del PIL; ne servirebbero almeno 10 volte tanti. L’unica soluzione allora, come sempre, rimane provare a richiamare all’ordine i capitali privati che in cambio, ovviamente, chiedono una cosa molto semplice: una garanzia a lungo termine che gli ordini continueranno ad arrivare copiosi per molti anni a venire. E l’unico modo per garantire davvero che gli ordini continueranno a venire a lungo è convincerli che, d’ora in poi, l’Europa sarà in guerra a tutto campo; dichiarare apertamente che l’Europa si sta attrezzando per mandarci tutti al macello, però, dal punto di vista dell’opinione pubblica non è esattamente una carta vincente e, quindi, riecco la favola della deterrenza: “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra” cita Michel nel suo editoriale, ma ovviamente è una vaccata, sia perché non è che puoi accumulare arsenali all’infinito (a un certo punto, qualcosa con le armi che compri ce lo dovrai fare, e le armi non è che abbiano tanti utilizzi alternativi, diciamo), sia anche perché, se ti armi fino ai denti, quello che ti sta a un tiro di schioppo magari non è che si senta esattamente rassicurato. Soprattutto se, per giustificare proprio il fatto che ti stai armando fino ai denti, sei costretto a dire ai 4 venti che quello ti sta per invadere e che per te è una minaccia esistenziale e, allora, magari va a finire che la tua diventa una delle classiche profezie che si autoavverano (soprattutto se il tuo nemico, in quel momento, ha un vantaggio che – mano a mano che ti riarmi – potrebbe diminuire): ora, è anche vero che le nostre classi dirigenti sono formate da scappati di casa inadeguati a qualsiasi altra attività, ma – sinceramente – che siano così dementi da non capire questa banale sequenza logica mi sembra un po’ improbabile; cioè, Lia Squartapalle o Maurizio Gasparri magari sì, ma che siano messi tutti così non ci credo. E quindi non ne possiamo che dedurre che quando Michel parla di un’Europa sul piede di guerra non sia solo uno scivolone: l’Occidente collettivo sta premendo volontariamente e consapevolmente l’acceleratore verso la terza guerra mondiale e a noi tocca occuparci della Russia, tanto che sarà mai… “Putin porta avanti una narrazione fondata sulla paura” ha sottolineato il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron, ma noi “Non dobbiamo lasciarci intimidire” perché, in realtà, “di fronte, non abbiamo una grande potenza”: “La Russia” sottolinea infatti “è una potenza media il cui PIL è molto inferiore a quello degli europei”; il problema quindi, molto banalmente, è superare le divisioni politiche che rimangono al nostro interno e, soprattutto, smetterla di fare i paciocconi e la Russia non avrà scampo, anche senza il supporto degli USA. Anzi: per noi è un’opportunità da cogliere al balzo, un incentivo a costruire finalmente l’unità politica del continente troppo a lungo rimandata.
E’ esattamente questa incrollabile fiducia sul proprio potenziale inespresso che permea tutto l’editoriale del capo delle forze armate francesi Pierre Schill su Le Monde: per Schill, infatti, il nostro problema è che veniamo da diversi anni di pace “punteggiati qua e là da limitati dispiegamenti di forze di spedizione in missioni di gestione delle crisi”; è il sogno che abbiamo coltivato dalla fine della guerra fredda, sottolinea Schill, “marginalizzare la guerra fino a metterla fuori legge, concentrare gli eserciti sulla gestione della crisi e mettere da parte della violenza” perché – si sa – fino a che a morire sono i popoli delle colonie, le guerre si chiamano gestione di crisi, e gli stermini sono umanitari e non violenti. Ora però, sottolinea Schill, “Contrariamente alle aspirazioni pacifiche dei paesi europei” dove per pace, ovviamente, si intende l’incapacità dei popoli inferiori aggrediti di opporre troppa resistenza, “i conflitti che si stanno diffondendo ai margini del nostro continente testimoniano il ritorno alla guerra come modalità di risoluzione dei conflitti”; il più grande rammarico di Schill è che “La fantasia di una guerra moderna combattuta interamente a distanza” – dove l’uomo bianco sta comodamente seduto al sicuro da una stanza di controllo e comando e, con la semplice pressione di un ditino, stermina interi villaggi – “si è dissipata” e “sono finiti i giorni in cui si poteva cambiare il corso con 300 soldati”.
Poco male, però: alla fine, si tratta – appunto – solo di cambiare atteggiamento; in particolare, la Francia “ha una serie di importanti vantaggi per quanto riguarda l’equilibrio di potere e le nuove forme di guerra. A causa della sua geografia e prosperità all’interno dell’Unione Europea” sottolinea “nessun avversario minaccia i suoi confini continentali” e “al di fuori della Francia continentale, le sfide alla sovranità dei territori francesi rimangono marginali”. Ciononostante, “La Francia ha la capacità di impiegare nell’arco di 30 giorni” nientepopodimeno che un’intera divisione, “ovvero circa 20 mila uomini” e senza contare che, poi, c’è sempre “la deterrenza nucleare” che “salvaguarda gli interessi vitali della Francia”; l’unica cosa che le manca, sostiene Schill, è un po’ di spavalderia in più: “Per difendersi dalle aggressioni e difendere i propri interessi” sottolinea Schill “l’esercito francese” non solo si deve preparare “agli scontri più duri”, ma lo deve dimostrare e far sapere al mondo intero. Non per rompere le uova nel paniere al simpatico Schill, ma ho come l’impressione che le caratteristiche elencate, per incutere timore sulla Russia potrebbero non essere esattamente sufficienti: i suoi 20 mila uomini non sembrano poter troppo intimorire gli oltre 600 mila che Putin ha dichiarato di aver mandato in Ucraina e le sue 290 testate nucleari potrebbero non essere esattamente sufficienti a disincentivare la Russia, che ne ha oltre 6000.
Anche sul fronte della potenza economica, la storiella trita e ritrita della Russia stazione di servizio con la bomba nucleare si è abbondantemente rivelata essere poco più di una leggenda metropolitana – e la spettacolare resilienza di fronte a due anni del più vasto regime di sanzioni di sempre dovrebbe avercelo abbondantemente dimostrato; d’altronde, in qualche misura, era prevedibile: a parità di potere d’acquisto, la Russia – come ha ricordato recentemente lo stesso Putin – è la quinta economia mondiale. Ora, su quanto pesi il calcolo del prodotto interno lordo a parità di potere d’acquisto ci sono molte scuole di pensiero diverse (e tutte hanno una parte di ragione, anche quelle che lo considerano un parametro poco significativo), a meno che un paese non abbia un surplus commerciale significativo: nel caso un paese esporti, nel complesso, molto più di quello che importa, il prodotto interno nominale in dollari significa poco o niente e, guarda caso, è esattamente il caso della Russia; una prova su tutte? Quando, nel 2014, scoppiò la guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, nell’arco di pochi mesi il rublo precipitò: se prima, per comprare un dollaro, bastavano 37 rubli, ora ne servivano oltre 70; risultato? il PIL nominale in dollari passò dagli oltre 2.000 miliardi del 2014 a meno di 1.400 nel 2015, per poi diminuire ancora sotto soglia 1.300 nel 2016, dimezzato. Ora, immaginatevi se domani, dal giorno alla notte, si dimezzasse il PIL italiano: sarebbe una catastrofe; eppure, in Russia, praticamente manco se ne accorsero. Il loro PIL, a parità di potere d’acquisto, era rimasto inalterato e se sei un paese che esporta più di quello che importa, alla fine – tagliando tutto con l’accetta – è quello che misura la tua potenza economica: l’idea, quindi, che sul fronte europeo sia solo questione di superare le divisioni politiche e di riaggiustare un po’ il tiro dopo decenni di fantomatica utopia pacifista – ammesso e non concesso che sia così semplice – potrebbe rivelarsi un po’ troppo ottimistica.

Charles Michel

Questa deriva drammatica, comunque, potrebbe avere anche un paio di conseguenze positive: la prima è che, finalmente, i leader europei, per dare una parvenza di sovranismo alla scelta del riarmo per mandato e in conto di Washington, ammettono candidamente che – fino ad oggi – si sono fatti dettare la politica estera; prima è stato il turno di Michel che ha ammesso candidamente che, fino ad oggi, siamo sempre stati “in balia dei cicli elettorali negli Stati Uniti” e poi l’ha ribadito pure la nostra Giorgiona la madrecristiana. “Occorre smettere di essere ipocriti” ha dichiarato di fronte al senato: “Se chiedi a qualcuno di occuparsi della tua sicurezza, devi prendere in considerazione che quel qualcuno avrà grande voce in capitolo quando si tratterà di discutere di dinamiche internazionali”. La seconda, invece, è che ormai si fa avanti la consapevolezza che se vuoi fare contemporaneamente la guerra alla Cina e alla Russia, per lo meno in Medio Oriente una qualche soluzione la devi trovare; ed ecco, così, che anche la Giorgiona, dopo aver chiaramente ricordato che la colpa del genocidio in corso a Gaza è tutta di Hamas, che “Non possiamo dimenticare chi ha scatenato questo conflitto” e che i civili a Gaza sono prima di tutto “vittime di Hamas, che le utilizza come scudi umani”, “nell’interesse di Israele” ci ha tenuto a ribadire la contrarietà del nostro governo “a un’azione militare di terra a Rafah”: d’altronde, a parte le considerazioni geopolitiche, Giorgia è prima di tutto una madrecristiana e alle piccole creature ci tiene. Ed è per questo che ribadisce che l’Italia, su indicazione di Israele, non riprenderà a finanziare l’UNRWA, il che, però, “non vuol dire non occuparsi dei civili di Gaza, perché i medici dei nostri ospedali pediatrici hanno curato finora almeno 40 bambini palestinesi”, cioè uno ogni 400 bimbi trucidati.
E se, alla fine, si scoprisse che il motivo di tutte queste incomprensioni e valutazioni sballate è, semplicemente, che quei casi umani che guidano il nostro paese e l’Europa tutta hanno dei problemi irrisolvibili con la matematica più elementare? Viviamo nella peggiore delle distopie, con l’armageddon che si avvicina e le classi dirigenti – e la propaganda che le sostiene – che sembrano vivere in un universo parallelo; organizzare la resistenza non è più semplicemente un dovere morale: è puro spirito di sopravvivenza. Per farlo, abbiamo bisogno prima di subito di un vero e proprio media che smonti i deliri della propaganda suprematista pezzo dopo pezzo e dia voce alla pace e al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Lia Squartapalle

Crisi del commercio globale: come la Cina si sta facendo un WTO tutto suo

“La Cina non sta solo cercando di creare un ordine mondiale alternativo. Ci sta riuscendo”, si trova scritto sul Financial Times. “Molti in Occidente non riescono a valutare il successo che la Cina sta avendo nel resto del mondo, ma mentre l’Occidente si avvia al disaccoppiamento dalla Cina, il resto del mondo si sta riorientando verso la Cina”. L’articolo parla della crisi del WTO e del commercio globale, e di come la Cina stia costruendo una rete di accordi bilaterali paralleli al WTO per proteggere il suo commercio. Ne parliamo in questo video!

Global Southurday, ep.1 – Tutti i tasselli della terza guerra mondiale a pezzi – con Alberto Fazolo

Si chiama Global Southurday, e ogni sabato alle 7 e 30 inaugurerà il vostro Weekend affrontando i principali fatti di geopolitica e di economia geopolitica della settimana. In questa puntata avremo con noi Alberto Fazolo, che ci auguriamo diventi uno dei principali dj resident dell’iniziativa.