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Perché il CAPITALISMO è incompatibile con la DEMOCRAZIA

I greci pensavano che il mondo fosse stato creato da un uovo che aveva generato un essere dall’aspetto sia femminile che maschile, con le ali d’oro, le teste di toro sui fianchi e un enorme serpente sul capo; gli antichi Maya, invece, pensavano che l’umanità fosse germogliata dal suolo da un impasto di terra e mais. Nell’Occidente industrializzato, intere generazioni educate alla scienza e ai lumi della ragione hanno a lungo creduto che il capitalismo e la democrazia fossero perfettamente compatibili l’uno con l’altro; anzi, che fossero proprio fatti della stessa pasta. Bene, si dirà: in fondo ogni civiltà ha bisogno di costruire i propri miti per sopravvivere; ma giunti nel 21esimo secolo e con le crisi epocali che stiamo attraversando, tante persone stanno finalmente aprendo gli occhi e a questa favoletta non ci credono più.

Wolfgang Streeck

Wolfgang Streeck, il più importante sociologo tedesco contemporaneo, e Micheal Hudson, probabilmente uno dei più grandi economisti viventi, gli occhi li hanno aperti da tempo e nel loro decennale lavoro di ricerca hanno ormai in lungo e in largo dimostrato l’assoluta impossibilità che capitalismo e democrazia possano convivere in una stessa società. La democrazia è quella forma di governo che poggia sull’idea della partecipazione al potere dei cittadini, della redistribuzione della ricchezza e del primato dell’interesse comune sull’interesse privato; prodotto del pensiero democratico sono stati i sindacati, la sanità e la scuola pubblica, i diritti dei lavoratori e il suffragio universale. Il capitalismo, invece, è un sistema economico e sociale oligarchico che tende naturalmente alla concentrazione di ricchezza in mano a un gruppo di persone sempre più ristretto e che trasforma questa concentrazione di potere economico anche in potere politico, privando così la maggioranza delle persone sia della possibilità di partecipare al governo della cosa pubblica, sia di quella di autodeterminare la propria esistenza; prodotti del capitalismo sono l’individualismo consumistico, la privatizzazione dei servizi e degli spazi pubblici e la crescita senza limiti delle diseguaglianze sociali. “Questi due disegni di società, a cui si contrappongono anche visioni antropologiche e filosofiche differenti” afferma perentorio Streeck nel suo Come finirà farà il capitalismo? Anatomia di un sistema in crisi “non possono chiaramente coincidere. O l’uno, o l’altro.” “Le economie occidentali” sottolinea invece Hudson in The Destiny of civilization “si trovano di fronte a una scelta: ridursi all’austerità finanziarizzata e distruggere definitivamente ogni spazio democratico o fare il passo di ricominciare a distribuire la ricchezza e porre fine al domino delle oligarchie neofeudali”. E quelle di Hudson e Streeck non sono più voci isolate, e da tutte le scienze sociali arrivano studi e ricerche che dimostrano l’incompatibilità scientifica ed empirica di questi due opposti metodi di governo e visioni del mondo. “Ma come mai nonostante sia ormai diventato così palese” si chiede Streeck “è così difficile per tante persone accettare che le nostre ex democrazie si siano trasformate ormai da tempo in tecnocrazie di mercato che non rispondono più al controllo popolare?” “Troppi, credo” si risponde Streeck “sono ancora abituati alla tipica immagine del colpo di stato che abolisce in un sol colpo la democrazia: elezioni annullate, leader dell’opposizione e dissidenti in prigione, stazioni televisive consegnate a truppe d’assalto sul modello argentino o cileno.” Ma non è certo questo l’unico modo per porre fine a una democrazia e dar vita a regimi oligarchici e autoritari: in Occidente ad esempio, è avvenuto in modo molto diverso e cioè, semplicemente, quando con la svolta neoliberista si è deciso di lasciare il capitalismo libero di svilupparsi senza più freni e vincoli comunitari. In ogni caso, questo non è più certo il tempo di piangersi addosso e Hudson e Streeck ci indicano anche le possibili strade per sconfiggere questo cancro politico, economico e culturale.
C’è una buona notizia dentro una cattiva notizia esordisce Streeck in uno dei saggi di Come Finirà il capitalismo?. A un’intera generazione di occidentali la Guerra Fredda è stata raccontata come uno scontro fra democrazia e tirannia finita con la netta vittoria del capitalismo e, quindi, della democrazia: la cattiva notizia è che oggi la crisi delle democrazie occidentali si è talmente acuita che questo racconto mitologico si sta rivelando una menzogna; la buona notizia, invece, è che finalmente se ne ricomincia a parlare. Alle origini, riflettono Streeck e Hudson, il capitalismo portò effettivamente a una fase di maggiore partecipazione politica e di primordiale espansione dei diritti e questo perché la più numerosa classe borghese del tempo lottava contro i privilegi feudali della ristrettissima classe aristocratica; in quel breve attimo della storia, dunque, la sconfitta degli ereditieri feudali ad opera degli imprenditori capitalisti segna realmente un progresso generale non solo economico, ma anche civile e politico e questo sicuramente è il grande merito storico del capitalismo. Questa fase, però, è finita da un pezzo e – come ha insistito più volte Hudson nell’intervista che ci ha recentemente rilasciato – la società contemporanea somiglia molto di più proprio alla vecchia società feudale che non allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini: durante tutto il ‘900, infatti, nonostante nel senso comune capitalismo e democrazia siano usati quasi come sinonimi, i capitalisti si sono sempre opposti a riforme democratiche e di ampliamento dei diritti sociali e senza le battaglie socialiste sarebbero entrambi rimasti pura utopia; per fare un esempio, i socialisti europei dovettero lottare contro i regimi capitalisti autoritari in Germania, Francia, Italia e ovunque nel mondo anche solo per ottenere il suffragio universale maschile e poi quello femminile, e la stessa cosa si potrebbe dire per le battaglie per l’introduzione di servizi pubblici universali come l’istruzione, la sanità, la cura dell’infanzia e le pensioni per gli anziani. Il Manifesto di Marx ed Engels, giusto per citare nomi a caso, si conclude con un fervido appello ai lavoratori affinché vincano la battaglia per la democrazia contro le oligarchie economiche; anche Il trentennio d’oro del secondo dopoguerra, durante il quale le nazioni europee diedero veramente vita a delle socialdemocrazie, non fu il frutto di un capitalismo buono e moderato, ma il prodotto di una classe lavoratrice particolarmente organizzata e consapevole e di una classe capitalista sulla difensiva sia dal punto di vista politica che economico. Purtroppo, come non smetteremo mai di ripetere, con la controrivoluzione neoliberista avviata nella seconda metà degli anni ‘70 i rapporti di forza sono radicalmente cambiati, con tutte le conseguenze che stiamo vivendo; Milton Friedman, guru degli economisti neoliberali, diceva “Una società che ponga l’uguaglianza prima della libertà non otterrà nessuna delle due. Invece, una società che antepone la libertà all’uguaglianza è in grado di raggiungere un livello superiore di entrambe”.
Ma di quale forma di libertà parlavano Friedman, Thatcher, Reagan e, in generale, tutte le bimbe del neoliberismo di destra e di sinistra? Fondamentalmente, della libertà delle oligarchie di muovere i capitali un po’ ovunque in giro per il mondo e di speculare sui mercati senza più alcun ostacolo comunitario o di interesse nazionale; peccato, però, che questa libertà implichi una riduzione di tutte le altre libertà e diritti della maggioranza delle persone: “Ci sono essenzialmente due tipi di società” scrive Micheal Hudson in The Destiny of civilizazion: “le economie miste con pesi e contrappesi pubblici, e le oligarchie che smantellano e privatizzano lo Stato, prendendo il controllo del suo sistema monetario e creditizio e delle infrastrutture di base per arricchirsi, soffocando l’economia. Un’economia mista in cui i governi mirano a combinare il progresso economico con la stabilità sociale può sopravvivere solo resistendo al tentativo delle famiglie più ricche di ottenere il controllo del potere pubblico.” La svolta neoliberista, insomma, è il momento in cui le oligarchie sono state abbastanza forti da imporre il secondo modello – quello a loro più congeniale – e con l’inesorabile avanzare della finanziarizzazione, fatta di privatizzazioni dei servizi pubblici essenziali, attacco indiscriminato allo stato sociale, guerra senza frontiere a tutti i corpi intermedi e aumento senza limiti delle diseguaglianze sociali, anche la democrazia non poteva che perdere qualsiasi sostanza e significato; in fondo, se ci pensiamo, non c’è cittadino comune dei paesi cosiddetti democratici che non provi un senso di rassegnazione e abbia l’impressione di vivere un mondo in cui, qualunque cosa faccia o voti, ha perso comunque il potere di cambiare le cose. “Ma stando così le cose” si chiede giustamente Streeck “come mai non si è ancora diffusa in Occidente un’ideologia apertamente antidemocratica e le oligarchie si ostinano a tenere in vita queste complesse procedure democratiche?”
A dire il vero, negli ambienti cosiddetti progressisti e liberali qualche voce di protesta nei confronti del suffragio universale l’abbiamo già cominciata a sentire: ad esempio nel 2016, con l’accoppiata BrexitTrump che tanto fece gridare allo scandolo i salotti chic, oppure in Italia ogni volta che una qualche forza cosiddetta populista ottiene buoni risultati alle elezioni, ma – in linea di massima – dobbiamo riconoscere che ha ragione Streeck e la ragione è che la forma e le procedure democratiche sono, in verità, assolutamente utili e funzionali al potere oligarchico: è anzi proprio grazie al feticcio delle elezioni, riflette il pensatore tedesco, che questo sistema viene apparentemente legittimato a livello popolare; il compito delle attuali procedure democratiche è proprio quello di far apparire una società di mercato capitalista come una scelta del popolo e questo nonostante i suoi meccanismi siano chiaramente sottratti al vaglio popolare e nonostante sia una chiara scelta oligarchica di cui il popolo subisce le conseguenze. “Il capitalismo in Occidente” scrive “è oggi compatibile con la democrazia, nel senso che anche con le elezioni riesce tranquillamente a sterilizzare il potenziale redistributivo della politica democratica e allo stesso tempo fa affidamento sulla competizione elettorale per dare legittimità a questo stato di cose.”

Michael Hudson

La pensa così anche Michael Hudson: “Il modo apparentemente più ovvio per determinare se una società è democratica” scrive l’economista americano “è chiedersi se gli elettori sono in grado di attuare le politiche che desiderano. Recenti sondaggi d’opinione negli Stati Uniti mostrano una forte preferenza per l’assistenza sanitaria pubblica e la remissione del debito studentesco, ma nessun partito politico sostiene queste politiche. È ovvio” conclude amaramente “che queste vadano oltre la gamma consentita di opzioni aperte alla scelta democratica.” Insomma, a chi dice che finché ci sono libere elezioni il nostro mondo che ci circonda è quello che noi ci scegliamo, Hudson e Streeck rispondono che questo è semplicemente un mito, una leggenda metropolitana; e che nella dura realtà, oggi viviamo in una società regolata formalmente da procedure democratiche che nascondono una sostanza sociale capitalista e autoritaria, e rimossa dall’immaginario ogni politica redistributiva – aggiunge ironico Streeck – i cittadini democratici sono finalmente liberi di interessarsi degli spettacoli pubblici offerti dai loro leader e star più in voga. Dalla contrapposizione destra – sinistra al politicamente corretto, alle discussioni sul bon ton di quello o quell’altro politico nazionale, la post democrazia ci offre un catalogo praticamente infinito di pseudo dibattiti, non consentendo mai alla noia di avere il sopravvento; come ripete sempre il nostro Tommaso Nencioni, siamo di fronte alla politicizzazione delle puttanate e alla depoliticizzazione di tutto quello che ha un vero impatto sulle nostre vite.
A queste severe analisi di Hudson e Streeck si potrebbe però ribattere che la globalizzazione capitalistica stia alimentando anche diverse istanze di emancipazione, dalle nuove lotte femministe contro le discriminazioni sessuali alle rivendicazioni degli immigrati e, in generale, di tutte le minoranze; una spiegazione interessante di questi fenomeni emancipatori ce la offre l’economista Emiliano Brancaccio in un’intervista rilasciata a Jacobin Italia: “Il punto da comprendere è che la centralizzazione capitalistica, inesorabilmente, tanto tende a concentrare il potere di sfruttamento in poche mani quanto tende a livellare le differenze tra gli sfruttati.” Che si tratti di donne o di uomini, di nativi o di immigrati, man mano che si sviluppa il capitale tratterà questi soggetti in modo sempre più indifferenziato, come pura forza lavoro universale; questo processo di omologazione mette in crisi le vecchie tradizioni e valori, disintegra gli antichi legami di famiglia basati sulla soggezione della donna all’uomo e allenta sempre di più i confini nazionali e le rispettive identità culturali: “Col tempo” scrive Brancaccio “il capitale ci rende tutti uguali, e questo è il suo aspetto progressivo e universalistico. Ma ci rende tutti uguali nello sfruttamento, e questo è il suo aspetto retrivo e divisivo.” Si tratta, insomma, di un movimento contraddittorio a cui guardare – come a ogni fenomeno culturale capitalista – con sguardo critico, senza bigottismi nostalgici né infantili entusiasmi progressisti: “Il fatto che il capitale ci renda tutti sudditi, ma senza differenze” conclude Brancaccio “non è negativo in sé come ci dicono i sovranisti reazionari, ma non è nemmeno positivo in sé come ci dicono i globalisti liberali: è positivo se quella tendenza progressiva a rendere tutti i lavoratori egualmente sfruttati si trasforma in un rinnovato antagonismo di classe.”, e quindi se non si trasforma, detta in soldoni, in una guerra individualistica contro il passato in nome di un futuro ipercapitalista.
Ma insomma, dobbiamo chiederci, si può davvero ancora sperare in una rinascita democratica? Di quanta politica seria sono disposti ad occuparsi oggi le masse postdemocratiche? E quante persone credono ancora che esistano beni collettivi per i quali valga la pena lottare? Negli ultimi anni, scrive Hudson “gli sfruttatori hanno quasi sempre mostrato una volontà molto maggiore di difendere i loro guadagni con la violenza di quanto le vittime siano disposte a combattere per proteggersi o ottenere riforme sostanziali.” Ma la nostra risposta non è disfattista: ce ne sono, e ce ne saranno sempre di più e il punto di partenza è che sempre più persone metteranno a fuoco questa assoluta incompatibilità strutturale tra capitalismo e democrazia. Sul piano della sfida politica, la possibilità di restituire senso al concetto di democrazia non può fare a meno di un processo di riforme che restituiscano ossigeno alla maggioranza della società, emancipandola dal ricatto materiale dentro e fuori i luoghi di lavoro, un percorso che rimetta al centro le grandi e mai tramontate questioni del diritto alla casa, alla sanità, alla democrazia nei luoghi di lavoro, all’istruzione; una battaglia quotidiana da accompagnare a due ingredienti fondamentali: controllo dei movimenti dei capitali sul piano nazionale ed europeo e una forte pianificazione economica. “Come contrapporre ad esempio il diritto all’abitare a quello della speculazione e della rendita” riflette Streeck “se non imponendo in maniera trasversale e sistematica limiti alla proprietà immobiliare e alla speculazione sui prezzi degli affitti?”; tutte le evidenze empiriche ormai ci dicono che la libertà di movimento dei capitali da un lato favorisce i profitti a danno dei salari e, dall’altro, alimenta l’instabilità macroeconomica e il caos delle relazioni internazionali. La nostra prima esigenza politica, dunque, è quella di reprimere la libertà di movimento del capitale per ridare slancio a tutti gli altri diritti – civili, politici e sociali; ma chi sarebbe materialmente in grado di portare avanti questa rinnovata subordinazione del mercato finanziario agli interessi della collettività? Streeck sembra piuttosto pessimista che tutto questo possa avvenire a un livello sovranazionale: “Se non c’è nulla nell’Europa sovranazionale che possa fornire il tipo di coesione sociale e di solidarietà e governabilità necessario, se tutto ciò che c’è a livello sovranazionale sono gli Junker e i Draghi, allora la risposta generale è che invece di fare come Don Chisciotte e cercare di estendere la scala della democrazia a quella dei mercati capitalistici, bisogna fare il possibile per ridurre la scala di questi ultimi e adattarla alla prima.” In altre parole, il mercato deve essere riportato nell’ambito del governo nazionale democratico. Staremo a vedere.
Quello che è sicuro è che per invertire la rotta serve prima di tutto convincersi dell’intrinseca antidemocraticità del capitalismo, ma per farlo avremo bisogno di un media libero e dichiaratamente democratico che combatta la propaganda delle oligarchie che fingono pure di essere state scelte e volute da noi. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal .

E chi non aderisce è Mario Draghi

Un gigante contro le oligarchie: La storia di Michael Hudson, il più grande economista vivente

Micheal hudson nasce nel 1939 a minneapolis, “l’unica città trotzkista al mondo”, l’ha definita.

Ma i legami con Trotzky di hudson andavano oltre minneapolis.

I suoi genitori avevano lavorato direttamente con lui in messico e tornati a Minneapolis, si erano messi alla testa del leggendario sciopero generale degli autotrasportatori del 1934 che bloccò l’intera logistica di dell’upper midwest per oltre tre mesi.

Sei anni dopo, il padre di Michael pagherà il suo attivismo con il carcere, grazie all’entrata in vigore del famigerato smith acts che nell’arco di un paio di decenni consentì l’arresto per motivi ideologici di oltre duecento militanti comunisti e socialisti.

“Quindi”, ricorda Hudson, “sin da piccolo ho avuto a che fare quotidianamente con i vecchi membri dei partiti comunisti americano, tedesco… passavano tutti per casa mia, e mi raccontavano continuamente storie legate alla rivoluzione. E così ero quasi predestinato a guidarne una, se mai se ne fossero riscontrate le condizioni. Il mio interesse è sempre stato capire quali fosse quelle condizioni”

Il padre di Michael, si mormora, aveva il quoziente intellettivo più alto di tutto il sistema penitenziario USA, così si convinsero che anche michael fosse fatto della stessa pasta e lo introdussero a un percorso di studi per bambini savant. A 20 anni era già laureato: filologia germanica e storia della cultura. Nonostante, in realtà, in quegli anni avesse dedicato il grosso del tempo alla sua vera passione, la musica. Sarebbe voluto diventare direttore d’orchestra:

Andò anche a New York, per seguire i corsi di Dimitri metropolis, il direttore della New York philarmonic. Poco dopo però, morì la vedova di Trotzky, Natalia, e l’esecutore del suo testamento assegnò ad hudson tutti i diritti d’autore.

Dato che ero il figlioccio di trozky, avrei dovuto creare una casa editrice”. Riesce ad ottenere anche i diritti d’autore da George Lukacs, ma non riesce a trovare nessuno disposto a pubblicare le loro opere. In compenso però, conosce Terence McCarthy. Si stava occupando della traduzione in inglese del celebre manoscritto marxiano sulla teoria del plusvalore.

Passammo un intera nottata”, ricorda Hudson, “a discutere su come il ciclo dell’attività magnetica solare stava impattando sul livello delle acque in america, e avrebbe causato una carestia che a sua volta avrebbe portato al drenaggio di denaro dal mercato azionario e obbligazionario, causando una crisi finanziaria. trovai questo ragionamento così bello, così estetico, che decisi immediatamente che avrei dedicato la mia vita allo studio dell’economia”.

Hudson allora si iscrive alla New York university. Prende una seconda laurea in economia, e trova lavoro presso la saving banks trust company, “che era l’unica banca commerciale in cui tutti i risparmiatori mettevano i loro depositi”, ricorda Hudson.

Il suo lavoro consisteva nel tracciare l’andamento dei risparmi nella città di New York, e confrontare questo andamento con quello della concessione di mutui ipotecari

E “ho visto”, ricorda Hudson, “che il grafico dei depositi sembrava quello del battito cardiaco. i depositi avevano uno sbalzo ogni 3 mesi, quando venivano pagati i dividendi. Ho capito che sostanzialmente le persone lasciavano i loro soldi in banca perché crescessero automaticamente, in modo esponenziale con gli interessi. E ho visto come questi soldi, che si accumulavano esponenzialmente, venivano reinvestiti nel mercato immobiliare per spingere al rialzo il prezzo delle case”.

Per hudson quello diventerà un vero e proprio pallino.

“Nei libri di testo sembra che le banche prestino denaro all’industria. Ma le banche non prestano un centesimo all’industria per investire in beni capitali e assumere persone. Magari li prestano per acquistare un’industria che c’è già, e poi cannibalizzarla, ma non per creare capitale. L’80% dei prestiti bancari in realtà, sono prestiti immobiliari. Ma il mercato immobiliare non viene insegnato in nessun corso di economia”, anzi, se ti azzardi a parlarne, ti segano.

Ho dovuto seguire un corso di economia monetaria tenuto da un professore che non aveva mai lavorato in una banca in vita sua”, ricorda Hudson. “Sosteneva che il ciclo economico consistesse in banche di risparmio che mettono i loro soldi in banche commerciali, che a loro volta prestano soldi all’industria. Io provai a spiegargli che quello che lui chiamava sistema bancario commerciale in realtà era una sola banca, quella dove lavoravo io, e che noi non facevamo nessun prestito all’industria. Con i soldi, molto banalmente, compravamo obbligazioni. All’esame mi dette c+. Non avevo capito l’economia dei libri di testo, però avevo capito quello che c’è scritto nei libri di testo ha poco a che vedere con il funzionamento reale dell’economia”.

I libri di testo descrivono un universo parallelo, dove la distribuzione del reddito è giusta, tutti ottengono ciò che meritano, e non esiste reddito che non sia stato onestamente guadagnato. Tutto funziona alla perfezione e devi accettare il mondo così com’è. Ma io”, ammette il nostro guru, “il mondo così com’è non l’ho mai accettato”.

Dopo l’istruttiva parentesi alla saving banks trust company, Hudson decide di approfondire il tema della bilancia dei pagamenti: “un altro tema”, sottolinea hudson, “che non viene trattato dai corsi di economia. o meglio, un tema che per come viene trattato, sarebbe meglio non lo fosse del tutto”.Per capire come funziona davvero, riesce a farsi assumere come analista dalla chase manhattan bank di david rockfeller, il fondatore del gruppo bildelberg e della commissione trilaterale. Hudson viene incaricato da rockfeller di fare uno studio sul saldo dei pagamenti dell’industria petrolifera.

Un vero e proprio rompicapo.

Hudson decide di concentrarsi in particolare sulla standard oil, vista la vicinanza a rockfeller

Ma spulciando i conti, c’è qualcosa che non gli torna. Non riesce a capire da dove standard oil tragga i suoi profitti.

Guadagna estraendo petrolio? Raffinandolo? Distribuendolo alle pompe di benzina? Dai documenti, non si riusciva a capire, fino a che il tesoriere di standard oil non gli svela l’arcano: “i soldi li guadagnamo proprio qui, nel mio ufficio”.

Ecco come Hudson ha capito il ruolo fondamentale ricoperto dai paradisi fiscali. Sostanzialmente, standard oil aveva le sue succursali in Paesi come Panama o la Liberia. che non erano veri e propri Paesi. Non avevano nessuna sovranità, e avevano adottato il dollaro, in modo da non rappresentare rischi sul versante del tasso di cambio della valuta. Queste filiali non facevano altro che una piccola operazione contabile. Compravano petrolio dai produttori a prezzi ridicoli, e lo rivendevano ai raffinatori a prezzi decuplicati. Sia produttori che raffinatori, non facevano un euro di profitto. Tutto il profitto lo facevano le succursali nei paradisi fiscali. Oggi è l’intera economia internazionale a funzionare così, ma oltre 50 anni fa, per hudson, fu una vera e propria rivelazione.

E non solo per Hudson…

Verso la fine del 1967, viene affiancato in ascensore da uno sconosciuto, che gli porge un fascicolo:

“È un rapporto del dipartimento di stato. Vorrebbero che tu ci aiutassi a calcolare quanti soldi potremmo ottenere se creassimo filiali bancari in questo tipo di paesi e diventassimo la banca per tutto il capitale criminale del mondo”, ricorda Hudson.

Non avrei potuto chiedere di meglio”, sottolinea sarcasticamente “avevo la massima collaborazione da parte di tutte le persone legate al governo, che i spiegavano come la cia lavorava con il traffico di droga e i criminali per raccogliere denaro. stavo diventando un vero specialista in riciclaggio”.

Dopo l’anno vissuto intensamente tra paradisi fiscali e riciclaggio di denaro alla chase Manhattan, per approfondire l’applicazione delle sue teorie sulla bilancia dei pagamenti, hudson decide di andare a lavorare alla Arthur Andersen. All’epoca era una delle big five, le cinque principali aziende di consulenza e di revisione degli USA. Era anche la società che doveva controllare la veridicità dei bilanci della Enron, cosa che evidentemente non faceva troppo meticolosamente: nel 2001, dopo dieci anni di crescita tumultuosa, durante i quali la Enron aveva più che decuplicato il suo fatturato diventando così addirittura la settima più importante multinazionale usa in assoluto, si scoprì che era tutta fuffa, e che l’unica cosa che i dirigenti Enron facevano, era creare una quantità esorbitante di società fittizie nei paradisi fiscali. Quasi 900 in tutto. 600 soltanto alle isole Cayman.

L’anno dopo anche la Andersen, dopo 9 decenni abbondanti vissuti al massimo, fu costretta a chiudere i battenti. Da dipendente della Andersen, Hudson si accorge che l’intero deficit della bilancia commerciale USA per tutti gli anni ‘60, era interamente dovuto alle spese militari all’estero: “il settore privato del commercio e degli investimenti era esattamente in equilibrio”.

Hudson ricorda di aver consegnato il frutto del suo lavoro a William Barsanti, uno dei principali soci della andersen, nonché fondatore della filiale italiana del gruppo:“temo che dovremo licenziarti”, fu il commento di Barsanti tre giorni dopo.

Hudson ricorda che Barsanti gli raccontò di aver inviato la bozza del dossier nientepopodimeno che a Robert McNamara in persona, l’allora potentissimo Segretario di Stato dell’amministrazione Kennedy prima e Johnson poi e che da lì a breve sarebbe diventato ancora più potente nel ruolo di Presidente della banca mondiale per tredici lunghi anni.

Ci ha detto che se pubblichiamo questo rapporto, la Arthur Andersen non otterrà mai più un contratto governativo”, avrebbe detto Barsanti ad Hudson. “In tutti i documenti del pentagono che sono stati resi pubblici successivamente”, sottolinea Hudson, “non c’è alcuna discussione sui costi del saldo dei pagamenti della guerra del vietnam”.

Una mancanza non da poco: era proprio quella voragine che di lì a poco avrebbe messo definitivamente fine all’era del gold standard. In Vietnam infatti, che era un’ex colonia francese, le banche esistenti erano tutte francesi. Soldati ed esercito USA le riempivano di dollari. e quando i dollari arrivavano in Francia, De Gaulle aveva dato mandato di convertirli subito in oro.

Con molto meno clamore, la Germania intanto stava facendo la stessa cosa. Incassava dollari dalle esportazioni, e poi li convertiva tutti immediatamente in oro

Alla fine”, ricostruisce Hudson, “gli usa hanno abbandonato la convertibilità del dollaro in oro nel 1971. e allora io ho messo insieme tutti gli articoli che avevo scritto sul tema, ed ecco come nasce il mio primo libro”.

E’ “Superimperialismo”, in assoluto uno dei testi di economia politica più importanti di tutto il ventesimo secolo. Con dovizia di particolari, prima ancora che il funzionamento dell’imperialismo finanziario usa entrasse a pieno regime, Hudson dimostra come la fine del Gold Standard imporrà nei decenni a venire ai Paesi che incassano dollari grazie all’attivo commerciale di investirlo in larghissima parte in titoli del tesoro a stelle e strisce.

Quindi gli USA fanno deficit mostruosi per imporre il loro presunto strapotere militare a tutto il pianeta, ma i dollari che spendono vengono inevitabilmente reinvestiti da chi gli incassa per rifinanziare proprio quel debito. Un gigantesco schema ponzi, tenuto in piedi però dall’uso spregiudicato della forza da parte dell’esercito più grande e costoso della storia dell’umanità.

Hudson l’aveva capito nel 1972. I liberioltristi, compresi quelli che magari hanno una cattedra di economia in qualche università blasonata, per digerirlo dovranno attendere ancora qualche generazione.

Tra quelli che invece capirono subito la portata delle intuizioni di Hudson, c’era anche un certo Hernan Khan, l’uomo che avrebbe ispirato il personaggio del dottor stranamore di Kubrick.

Khan aveva da poco lasciato il suo posto alla Rand Corporation per fondare l’influentissimo Hudson Institute. E dopo aver sentito Hudson presentare il suo libro in una conferenza dedicata agli operatori di Wall Street, lo volle immediatamente al suo fianco. Nei mesi successivi, Hudson e Khan girarono il pianeta per illustrare le idee di Michael su come avrebbe funzionato da lì in avanti la bilancia dei pagamenti.

Ma gli mancava ancora un pezzetto.

Perchè ora che Bretton Woods e la convertibilità in oro erano saltati, come avrebbero fatto gli USA a imporre al resto del pianeta di continuare a usare sempre e soltanto dollari come valuta di riserva globale?

La risposta arrivò poco dopo

Rientrati da uno dei loro infiniti tour in giro per il mondo, Hudson e Khan vengono vengono invitati alla Casa Bianca per una riunione sul petrolio e la bilancia dei pagamenti.

Al tesoro era stato nominato George Schultz, che svelò ad Hudson l’arcano. Poco prima, gli USA avevano fatto in modo che il prezzo del grano aumentasse a dismisura per finanziare una parte dell’avventura vietnamita. L’opec guidata dai sauditi aveva reagito aumentando più o meno allo stesso modo il prezzo del petrolio. Schultz però non sembrava esserne più di tanto contrariato:

Più alto è il prezzo del petrolio, più le compagnie americane avrebbero guadagnato sul petrolio domestico”, avrebbe detto Schultz ad Hudson.

Ma sopratutto, l’unica condizione che aveva posto ai sauditi era che dovevano prezzare il petrolio esclusivamente in dollari, utilizzare solo dollari per i pagamenti, e “riciclare tutti i dollari che incassavano negli stati uniti”. Altrimenti, “è un atto di guerra”.

Ma cosa ci puoi comprare negli usa con i dollari?

Di sicuro “non puoi comprare le aziende americane”, ci puoi solo comprare un po’ di azioni, senza acquisire il controllo delle aziende, e soprattutto tante tante obbligazioni.

E così finalmente eccomi qui”, scrive Hudson, “nel bel mezzo della comprensione di come funziona davvero l’imperialismo. peccato che non sia quello che viene raccontato nei libri di testo”. Per seguire la tappa successiva dell’incredibile avventura del nostro economista preferito, bisogna spostarsi in Canada.Il Governo cercava qualcuno che conoscesse a fondo il mercato azionario e obbligazionario americano Volevano capire dove avrebbero potuto trovare i soldi necessari per finanziare un ambizioso piano di investimenti interni per aumentare la produttività della loro economia. Hudson gli presentò uno studio che li lasciò basiti: “avevo scritto uno studio che dimostrava che il Canada per investire internamente a livello provinciale, non aveva necessariamente bisogno di prendere denaro in prestito dall’estero. Potevano semplicemente creare la loro stessa moneta. in pratica, era il primo esempio di ciò che oggi viene chiamata modern monetary theory. il succo è che i Paesi sovrani creano la loro moneta, che è il loro credito, e non hanno bisogno di una copertura”. Non è l’unica avventura canadese di Hudson.

Il suo rapporto suscitò grande interesse tra tutti i banchieri del regno Fino a che uno dei più autorevoli analisti finanziari dell Royal bank decise che Hudson lo doveva aiutare a portare avanti la sua grande battaglia culturale. “Mi disse che a suo avviso gli economisti in buona parte avevano un problema di personalità, e che non riescono a capire come funziona concretamente il mondo. sono affetti da una sorta di autismo che gli permette di pensare esclusivamente in termini del tutto astratti, senza riuscire ad avere un senso della realtà economica nella sua concretezza”.

Hudson si ritrova così a fare da consulente al Segretario di Stato del Canada, che è responsabile anche dell’istruzione, della cultura e dell’industria cinematografica.

Nel frattempo Hudson era diventato anche consulente economico dell’unitar, l’istituto delle Nazioni Unite per la formazione e la ricerca. Aveva curato alcuni rapporti sul debito dei Paesi del terzo mondo denominato in dollari, e su come questo stesse destabilizzando le loro economie

Fino a che l’allora presidente del Messico non organizzò una conferenza a Città del Messico, ed ebbe la pessima idea di invitare Hudson. Affermò pubblicamente che non c’era modo che i debiti del terzo mondo potessero essere davvero pagati: “quando lavoravo per Chase Manhattan”, ricorda Hudson, “mi ero occupato di calcolare quante esportazioni potevano potenzialmente effettuare paesi come argentina, Brasile o Cile. L’idea era che tutti i guadagni delle esportazioni dovessero essere utilizzati per pagare gli interessi sui prestiti ricevuti dalle banche americane”

Quindi prima si calcolava quanti quattrini avrebbero potuto pagare ogni anno come servizio sul debito grazie al surplus commerciale, e poi si trovava il modo di convincerli per indebitarsi per la cifra corrispondente

In questo modo i Paesi non avrebbero mai avuto la possibilità di ripagare oltre agli interessi anche il debito stesso, e sarebbero rimasti eternamente in pugno delle oligarchie finanziarie USA. “Alla conferenza in messico mi limitai a dire che visto che proprio per come erano stati architettati questi debiti oggettivamente non potranno mai essere ripagati, e che quindi molto semplicemente non sarebbero dovuti essere ripagati”.

Come venne tradotto questo semplice concetto durante la conferenza stampa che seguì la riunione?

Il giornalista che presiedeva la conferenza stampa”, ricorda Hudson, affermò che “il dottor Hudson ha presentato un rapporto dicendo che i Paesi del terzo mondo dovrebbero esportare di più per pagare i loro debiti”.

Peccato che non tornino le date, altrimenti avrei affermato con sicurezza che si trattava per forza di Federico Rampini.

Da lì in poi questa sarebbe diventata la nuova fissazione di Hudson. “Mi resi conto”, ricorda, “che l’idea che i debiti potessero non essere pagati era così controversa, che decisi di scrivere una storia delle cancellazioni del debito”. Hudson comincia così a scavare a ritroso. Prima arriva al Medio Evo. poi all’Impero romano, poi alla Grecia e alla fine a Babilonia e ai sumeri.

Mi resi conto che non esisteva una storia economica dei sumeri e di Babilonia. c’era molto materiale sulla religione e sulla cultura, ma niente su quello che mi interessava davvero: la storia delle cancellazioni del debito”.

Tramite un amico, Hudson presenta il suo piano di ricerca all’allora direttore del Peabody museum, il prestigioso museo di archeologia ed etnologia dell’università di Harvard.

““questo è fantastico”, mi disse subito con entusiamo, “nessuno sta lavorando su questo””.

Hudson diventa così ufficialmente membro del Peabody museum per l’archeologia babilonese.

Dedicherà a questa ricerca i successivi tre anni della sua vita.

Quello che Hudson riesce a ricostruire è che la maggior parte dei debiti in realtà non erano il risultato di prestiti. “La maggior parte dei debiti”, ricostruisce “si verificava quando i raccolti fallivano, e i coltivatori non potevano pagare le tasse da un alto, e gli altri beni e servizi che avevano consumato nel frattempo dall’altro”.

Secondo Hudson infatti il denaro sostanzialmente nasce così: altro non è che la misura contabile di beni e servizi consumati, che poi ripaghi una volta che arriva il momento del raccolto. Se il raccolto c’è.

Ma la cosa straordinaria che ha scoperto Hudson è che, per chi non riusciva a ripagare i debiti con i raccolti successivi, “per mille anni, ogni sovrano, quando saliva al trono, iniziava il suo Regno cancellando i debiti. Una vera e propria amnistia”.

Il sovrano era interessato ad annullare i debiti per permettere all’economia di ripartire. Senza debiti sulle spalle, i sudditi potevano tornare tranquillamente a lavorare la loro terra, pagare le tasse, e nel tempo che gli avanzava prestare la loro manodopera per i lavori di corvé e nell’esercito. Ma l’interesse del sovrano si scontrava contro gli interessi degli altri creditori. Loro non avevano nessun interesse affinchè l’economia ripartisse e i sudditi ritrovassero un loro equilibrio. Al contrario, il loro interesse era proprio che i sudditi non riuscissero a ripagare i debiti e per pareggiare i conti fossero costretti a cedergli i loro terreni e a fare al loro posto i lavori imposti dal palazzo facendoci la cresta sopra. “La tensione nella storia, dal terzo secolo avanti cristo coi sumeri, all’impero bizantino”, scrive Hudson, “è la tensione tra il palazzo che vuole raccogliere le tasse e avere manodopera per i lavori pubblici e per l’esercito, e ricchi creditori che vogliono avere manodopera indebitata da far lavorare al loro posto, ottenendo un surplus economico pagato direttamente a loro. Il modo per ottenere il surplus economico, non era quello che Marx ha descritto come peculiare del capitalismo, e cioè impiegare manodopera per produrre beni da rivendere ricavando un profitto, ma attraverso il debito, con il prelievo degli interessi e alla fine il pignoramento delle terre, che era l’obiettivo reale”. Non è questione di filologia.

Quel conflitto tra l’interesse pubblico di permettere alle persone di contribuire concretamente alla creazione della ricchezza e l’interesso delle oligarchie finanziarie a rendere le persone schiave attraverso l’indebitamento, è esattamente quello che ci ritroviamo di fronte oggi dopo cinquant’anni di controrivoluzione neoliberista e di finanziarizzazione totale dell’economia in tutto il nord globale. Un conflitto che, come ci insegna Hudson, oggi ha assunto una dimensione anche geopolitica, perché la nuova guerra fredda è in fondo proprio guerra tra due sistemi contrapposti: lo sviluppo delle forze produttive dell’economia reale da un lato, e il parassitismo delle oligarchie finanziarie dall’altro.

Se oggi abbiamo gli strumenti per leggere lo scontro tra sud e nord globale come la partita decisiva del conflitto tra il 99% e l’1%, lo dobbiamo in buona misura proprio a lui.

Michael Hudson, il più grande economista vivente.

Del quale però, incredibilmente, non esiste nemmeno un testo tradotto in italiano.

Tra i millemila progetti futuri di OttolinaTV c’è anche questo: la pubblicazione per la prima volta in italiano per lo meno delle opere principali tra le decine e decine di capolavori prodotti da Hudson in questi cinquanta e passa anni.

Non saranno i quattrini di qualche oligarca a consentirci di colmare questa incredibile lacuna

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