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Tag: media

META ha davvero deciso di CENSURARE TUTTO? ft Laurent FERRANTE | Live martedì 20 febbraio ore 13.30

Meta ha deciso di dare un taglio drastico ai contenuti politici (salvo poi ritrovarci le bacheche inondate di spot partitici durante le campagne elettorali…). Non è una novità: sia noi che altri media indipendenti hanno visto crollare il numero di utenti raggiunti sulle piattaforme social più conosciute ed utilizzate.

Meta si giustifica con nuove politiche di engagement, di distribuzione dei contenuti e rispetto di linee guida. Ma davvero possiamo considerare le piattaforme social sono un’affare “privato”? Ne parliamo martedì 20 febbraio alle 13.30 con Laurent Ferrante de “La fionda”.

RUSSIA: dagli Oligarchi che piacevano all’Occidente al multipolarismo – ft Fiammetta Cucurnia

Carissimi Ottoliner, ospite di questa mattina per la nostra rubrica intervist8lina, Fiammetta Cucurnia: corrispondente dalla Russia per “la Repubblica”. Negli ultimi due anni ha più volte criticato la propaganda occidentale sul conflitto russo-ucraino, cercando di raccontare la guerra dalla prospettiva Russa. Intervista a cura di Giuliano Marrucci e Alessandro Bartoloni Saint Omer.

IL GRANDE MONOPOLIO DEI MEDIA – Come hanno cercato di lavarci il cervello e come, forse, hanno fallito

Non più di 20 anni fa, negli USA si era scatenata una gigantesca polemica sul fatto che l’intera industria dei media fosse ormai diventata un monopolio; a partire dagli anni del governo Reagan, una gigantesca ondata di liberalizzazioni, come sempre, invece che a più mercato e più concorrenza aveva portato a una gigantesca ondata di fusioni ed acquisizioni: nel 1989 era stato il turno della fusione tra Sony e Columbia Pictures; nel 1990 della fusione tra Time e Warner che, sei anni dopo, si erano comprati pure la Turner Broadcasting – che è l’editore della CNN – e, nel 2004, c’era stata la fusione tra la NBC e la Universal Studios. E così, alla fine dei giochi, 6 soli gruppi controllavano sostanzialmente tutta l’industria cinematografica e televisiva statunitense e, quindi, buona parte di quella globale – quelli che noi definiamo i mezzi di produzione del consenso.
“Uno scandalo” tuonavano gli esperti del settore più critici; “La fine della democrazia” rilanciavano i più catastrofisti: visti da oggi, in realtà, erano “Bei vecchi tempi” come titola il suo speciale, questo mese, The Nation. Oggi infatti – sottolinea il titolo – “a dominare il business dei media” le aziende rimaste sono soltanto 2 e gli azionisti di entrambe sono esattamente gli stessi. Indovinati quali? Ovviamente Vanguard, BlackRock e State Street; le due aziende in questione, ovviamente, sono Netflix e Disney – i padroni assoluti dell’immaginario dell’intera popolazione mondiale.
E non è stato l’unico processo di concentrazione feroce dei mezzi di produzione del consenso a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni: per ripercorrere la storia, sempre The Nation riparte addirittura dal 1883 “quando”, scrive Zephyr Teachout della Fordham University, “furono gettati i semi della stampa popolare che definì il giornalismo americano per gran parte della vita del paese”; il riferimento è alla comparsa per la prima volta per le strade di New York di The Sun che, ricorda la Teachout, “costava appena un centesimo, e a differenza dei grandi giornali finanziari, che stavano in piedi economicamente grazie agli abbonamenti, aveva la sua principale fonte di entrate nella pubblicità”. “Per i 180 anni successivi” sottolinea la Teachout “questa formula fu replicata per migliaia di testate locali in giro per tutto il paese”, nessuna delle quali era in grado di esercitare un’influenza significativa oltre il suo ristretto angolo di paese. A partire dai primi anni 2000, invece, “Le società di social media, guidate da Facebook e Google, hanno iniziato ad acquisire aziende tecnologiche al ritmo di una la settimana. E si sono create così un ecosistema digitale dove chiunque volesse seguire le notizie doveva passare da loro”; fino ad arrivare al 2017, quando Facebook e Google, da sole, si sono intascate il 99% – ripeto, il 99% – delle entrate pubblicitarie dell’intero internet mentre, nel frattempo, il personale impiegato dalle testate giornalistiche USA passava dai 365 mila del 2005 a poco meno di 100 mila oggi (che uno potrebbe anche dire ma saranno un po’ stracazzi degli americani). Purtroppo però, ovviamente, non è così semplice, e non solo perché se gli americani si riempiono la testa di stronzate poi a pagare il conto siamo anche noi, ma perché se siamo una colonia da tanti punti di vista, dal punto di vista dell’informazione e dell’ideologia siamo colonia al cubo.
Eppure, in questo schema distopico, c’è qualcosa che deve essere sfuggito di mano: nonostante la macchina propagandistica, ricorda The Free Press, “Secondo un sondaggio di Harvard, il 51% degli americani di età compresa tra i 18 e i 24 anni ritiene che Hamas fosse giustificato negli attacchi terroristici del 7 ottobre contro i cittadini israeliani”. Com’è possibile? Semplice: basta “guardare cosa fa TikTok”.
A lanciare l’allarme è Mike Gallagher, un parlamentare repubblicano del Wisconsin ossessionato dalla Cina: “L’app” scrive “è Fentanyl digitale prodotto dalla Cina. E sta facendo il lavaggio del cervello ai nostri giovani contro il nostro Paese e i nostri alleati”. Avrà anche dei difetti? Sempre impegnati a perculare i protagonisti più improbabili della propaganda suprematista e analfoliberale di casa nostra, troppo spesso trascuriamo le perle che arrivano da oltreoceano, in quella patria del declino cognitivo dell’uomo bianco che sono gli Stati Uniti d’America; a questo giro, però, ne vale decisamente la pena.

Mike Gallagher

Lui si chiama Mike Gallagher: ha servito il paese in Iraq e in Siria tra le fila dell’intelligence militare e dopo aver contribuito attivamente alla disfatta militare degli USA ha deciso di contribuire anche a quella del Congresso. Nell’arco di due mandati ha sostenuto calorosamente tutti peggio deliri del trumpismo: dalla “mossa geopolitica geniale” di comprarsi la Groenlandia dalla Danimarca al permesso di attaccare l’Iran senza passare dal Congresso, passando per l’autorizzazione all’omicidio del generale Soleimani in Iraq; in politica estera, l’unica volta che si è opposto a Trump è quando The Donald ha deciso di ritirare le truppe dalla Siria. E la politica estera non è nemmeno il suo lato peggiore: Gallagher, infatti, ha votato contro l’aumento del salario minimo federale a 15 dollari, a favore dello smantellamento della legge che metteva un limite alle speculazioni delle banche che avevano portato alla crisi del 2008, e anche contro la proposta che avrebbe permesso al governo federale di negoziare con Big Pharma prezzi più ragionevoli per i farmaci finanziati attraverso il Medicare. E, da un paio di anni a questa parte, s’è fissato sulla Cina e su quel pericolo esistenziale che arriva dalla Cina e che si chiama TikTok; ed ecco così che quando è iniziata la guerra di Israele contro i bambini arabi a Gaza e qualcuno gli ha fatto notare che su TikTok giravano un sacco di contenuti pro Palestina, gli si è partito l’embolo e c’ha regalato questa perla di narrativa contemporanea, un vero classico dell’era della post verità: 8000 caratteri senza nemmeno un’informazione reale. Un record.
Il punto di partenza è quello che vi abbiamo già anticipato: il sondaggio di Harvard secondo il quale “il 51% degli americani di età compresa tra i 18 e i 24 anni ritiene che Hamas fosse giustificato nei suoi brutali attacchi terroristici contro innocenti cittadini israeliani il 7 ottobre”. “Ho letto quella statistica” scrive “in un momento in cui pensavo di aver perso la capacità di scioccarmi. Per settimane” sottolinea “avevo visto e letto le storie di prima mano che documentavano le atrocità di Hamas: corpi bruciati, bambini decapitati, donne violentate, bambini legati insieme ai loro genitori, cadaveri mutilati”: eppure, di fronte a questo fiume in piena di fake news, i giovani americani continuano a credere che, dopo 70 anni di occupazione militare, che tu sia un po’ incazzato è comprensibile. “Come siamo arrivati al punto in cui la maggioranza di giovani americani ha una visione del mondo così moralmente fallimentare?” si chiede Gallagher: “La risposta” scrive “si chiama TikTok”; “Oggi” sottolinea “TikTok è il principale motore di ricerca per più della metà della generazione Z ed è controllato dal principale avversario dell’America: il partito comunista cinese”. “Modificando l’algoritmo di TikTok” spiega Gallagher “il PCC può influenzare gli americani di tutte le età, può determinare quali fatti considerano accurati, e quali conclusioni traggono dagli eventi mondiali”; “Sappiamo per certo che il partito comunista cinese utilizza TikTok per promuovere la sua propaganda” continua. Insomma, “nella migliore delle ipotesi TikTok è uno spyware del partito comunista. Nella peggiore” conclude “è forse l’operazione di influenza maligna su larga scala mai condotta”.

Logo del Maligno

Ovviamente ognuno ha i suoi Maurizio Gasparri e questo potrebbe anche essere, semplicemente, il delirio di un ex soldato traumatizzato in stato confusionale; in realtà, però, questa narrazione che neanche i manifesti della DC degli anni ‘50 sui comunisti che mangiavano i bambini, è più credibile e diffusa di quanto si possa credere: come riporta FAIR, un osservatorio indipendente sui media statunitensi, dopo l’articolo di Gallagher si sono uniti al suo appello per la messa al bando immediata di TikTok la senatrice del Tennessee Marsha Blackburn, l’ex candidato alle primarie repubblicano Marco Rubio, il senatore repubblicano Josh Hawley e anche tutto il comitato di redazione del New York Post. C’è stato anche un gruppo di 90 altissimi dirigenti della Silicon Valley che ha firmato una lettera indirizzata all’amministratore delegato di TikTok dove chiedeva alla piattaforma di mettere un freno alla propaganda pro – palestinese e anti – israeliana.
La prova che TikTok spinga la causa palestinese? Per ogni video con hashtag #standwithisrael ce ne sarebbero addirittura 54 con, invece, hashtag filo – palestinesi, da #standwithpalestine a #freepalestine: il problema, però, è che i video su TikTok non li carica l’amministratore delegato di TikTok, immagino; li caricheranno gli utenti, credo. Quindi si fa un po’ fatica a capire concretamente di cosa stiano parlando.
Il punto è che non ci sono abituati: sono talmente abituati ad avere il pieno controllo dei messaggi che filtrano attraverso media e piattaforme che se c’è una piattaforma che non fa assolutamente niente per favorire una posizione piuttosto che un’altra, non gli torna; e se poi questa posizione non è esattamente quella che condividono tra loro a livello di una ristrettissima élite, gli va proprio in palla il cervello. Com’è possibile che abbiamo fatto di tutto per concentrare tutta l’industria dei media nelle mani di una manciata di attori – che poi fanno capo tutti a una manciata ancora più ristretta di azionisti – e ciononostante non solo c’è ancora tanta gente che la pensa diversamente da noi, ma addirittura c’è una piattaforma nella quale diventano addirittura maggioritari? Com’è possibile che, di fronte allo sterminio di una popolazione civile inerme sottoposta a un regime di apartheid da 70 anni, noi raccontiamo che – alla fine – si tratta semplicemente di diritto alla difesa e una bella fetta dei nostri giovani non ci crede? E c’ha anche un luogo dove dirlo apertamente? So’ delusioni, io li capisco eh? Il progetto distopico di concentrare i mezzi di produzione del consenso nelle mani di una manciata di soggetti è stato perseguito con tale fervore che rendersi conto che, dopo tutta quella fatica, non ha funzionato al 100% non deve essere semplice; forse, però, un po’ di responsabilità ce l’hanno anche loro, diciamo. Cioè, da un certo punto di vista sono stati geniali, diciamo: ci hanno riempito di sempre più contenuti tecnicamente ineccepibili che ci inchiodano davanti agli schermi a giornate e ci danno un’ottima alternativa all’utilizzo costruttivo delle nostre capacità cognitive e, in più, hanno concentrato la proprietà dei mezzi di produzione del consenso e dell’immaginario in pochissime mani, mettendosi al riparo dai rischi di qualsiasi forma di pluralismo. Però – ecco – forse si sono fatti prendere un po’ troppo la mano: le serie delle grandi piattaforme sono tutte uguali e, dopo un po’, fracassano i coglioni e il cinema – ormai – è diventato una barzelletta; come ricorda The Nation, alla fine degli anni 10, per 4 anni consecutivi, Disney s’è assicurata la bellezza del 33% del mercato USA con appena 10 nuovi titoli, 9 dei quali erano sequel di vecchi franchise. I primi 10 film al botteghino nel 2022 sono stati, di nuovo, tutti sequel e franchise e si sono pappati – da soli – oltre metà del botteghino USA.
Insomma: anche nell’intrattenimento (che, nel capitalismo, rappresenta lo strumento principale per il governo del consenso e l’appiattimento ideologico), il capitalismo più selvaggio – alla fine – oltre che essere disumano, è pure estremamente noioso; che una fetta sempre più consistente di supergiovani cerchino qualcosa di meno artefatto nei video apologetici sulla resistenza armata palestinese su TikTok, alla fine è abbastanza inevitabile. Piuttosto che sorbirsi l’ennesimo film di supereroi o l’ennesima serie woke su Netflix, c’è addirittura chi si guarda i video su Ottolina Tv; aiutaci a fornirgli sempre più materiale per uscire dalla bolla artificiale del monopolio dei media: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Walt Disney

L’era dei Media Mainstream è Finita? – con Andrea Legni ed Enrica Perucchietti

Oggi parliamo di media e di informazione e lo facciamo con Andrea Legni, direttore dell’indipendente, e Enrica Perucchietti, giornalista free lance e uno dei volti di Visionetv. L’occasione è questa: l’uscita della monografia mensile de l’indipendente, con il quale abbiamo avviato già da qualche tempo una collaborazione,e il numero di questo mese è proprio dedicato all’informazione e in particolare, come dice il titolo, alla crisi della disinformazione di regime. Una crisi che va avanti da tempo, ma che si è approfondita dall’inizio della guerra per procura della nato contro la russia in ucraina, e ancora di più con lo scoppio della guerra di israele contro i bambini arabi a Gaza, che, appunto come titola il suo articolo proprio enrica, nel tentativo disperato di giustificare la ferocia genocida di quella che ancora inspiegabilmente viene definita l’unica democrazia del medio oriente, ha fatto raggiungere “nuove vette” alla “disinformazione di regime”.

GAZA E IL TABU’ DEL 7 OTTOBRE – Perché la propaganda continua a mentire sull’attacco di Hamas

“Il massacro del 7 ottobre come la Shoah”: così titolava la sua ennesima, lunga sbrodolata inconcludente Fiamma Nirenstein qualche giorno fa su Il Giornale; “non ci sono eventi storici più comprovati della Shoah e della mostruosa strage del 7 ottobre scorso” scriveva nell’articolo. “Ambedue” continuava “sono stati programmati con passione distruttiva verso gli ebrei: uno a uno, bambini, genitori, nonni” anche se – concedeva – “con dimensioni diverse”. Meno male, dai… qualche differenzina ce la vede pure lei. E’ già qualcosa.
Imporre all’opinione pubblica una ricostruzione di quanto accaduto il 7 ottobre la più drammatica e inquietante possibile è una parte essenziale del meccanismo genocida messo in moto da Israele; per giustificare lo sterminio indiscriminato di migliaia di bambini indifesi e il perseguimento della soluzione finale attraverso la pulizia etnica, il mito fondativo deve essere solido, indiscutibile, sconvolgente. Ma siamo davvero proprio sicuri che c’abbiano detto tutta la verità, nient’altro che la verità?

Ehud Olmert

“Comunque vada, Hamas ha riportato una vittoria”: a dirlo non è qualche leader dell’asse della resistenza, ma nientepopodimeno che un ex premier israeliano di persona personalmente. Il riferimento, ovviamente, è all’esito della trattativa sullo scambio di prigionieri e a pronunciarsi è Ehud Olmert che così, a occhio, sa di cosa parla: sindaco di Gerusalemme durante la seconda intifada di inizi anni 2000 e a capo del governo durante l’operazione Piombo Fuso che, come oggi, si poneva l’obiettivo dichiarato di annichilire Hamas, di scambi di prigionieri se ne intende. Era stata proprio una faccenda di prigionieri, infatti, nel 2006 a dare il via all’operazione Piombo Fuso; ad essere rapito, in quel caso era stato, il giovane carrista franco – israeliano Shalit Gilad. Verrà rilasciato solo 5 anni dopo, in cambio della bellezza di 1.027 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane; per l’entità sionista, non esattamente un trionfo, diciamo. Ma cosa c’entra tutto questo con la ricostruzione dei fatti del 7 ottobre?
C’entra, c’entra. L’operazione diluvio di Al-Aqsa infatti, con ogni probabilità, aveva sostanzialmente due obiettivi: il primo, di carattere politico, consisteva nel riportare l’attenzione della comunità internazionale sulla questione nazionale palestinese che, fino ad allora, ci si illudeva fosse ormai sostanzialmente risolta con una vittoria schiacciante dell’occupazione israeliana; il secondo, di carattere strettamente militare, consisteva – appunto – nel fare incetta di prigionieri da barattare con la liberazione del maggior numero possibile di palestinesi detenuti, appunto, nelle carceri israeliane, a partire dai 700 minori e dagli oltre mille che non sono mai stati sottoposti a un processo e vivono nel limbo di quel crimine conclamato che è la detenzione amministrativa. Ed è proprio la dottrina elaborata dalle forze armate israeliane per impedire alle forze della resistenza di catturare prigionieri e ricattare Tel Aviv che sta alla base di tutto quello che ancora non torna nelle ricostruzioni ufficiali della propaganda giustificazionista del genocidio su quanto realmente avvenuto il 7 ottobre, un giallo in tre atti.
Il primo: siamo sul valico di Erez, che non è solo – semplicemente – la principale porta d’ingresso per il carcere a cielo aperto di Gaza, ma anche il principale avamposto militare e la sede dell’amministrazione civile del carceriere e il primo obiettivo del diluvio di Al-Aqsa. I militanti della resistenza attaccano le infrastrutture militari del varco a partire dalle prime ore dell’alba; poco dopo entrano in scena gli Apache delle forze armate israeliane, armati di missili Hellfire, che bombardano a tappeto. Bisogna imporre la ritirata alla resistenza e impedirle di fare prigionieri, a costo di causare vittime anche tra gli israeliani. Non è una scelta estemporanea: è una procedura formale adottata dalle forze armate israeliane sin dal lontano 1986. Si chiama Direttiva Annibale – dal nome del generale cartaginese che si avvelenò piuttosto che essere catturato dai romani – e che prevede che “Il rapimento deve essere fermato con ogni mezzo, anche a costo di colpire e danneggiare le nostre stesse forze” (Eyal Weizman, Goldsmith College di Londra), ed è la chiave di volta per provare a capire cos’è successo, da lì in poi, in quella drammatica giornata.
E siamo al secondo atto del nostro giallo: la location, a questo giro, è il kibbutz di Be’eri, ad appena 5 chilometri dal confine; con un bilancio di oltre 100 vittime, è il luogo di uno dei massacri che ha destato più indignazione in assoluto, ma su chi abbia ucciso chi ci sono più dubbi di quanto non si voglia far trapelare. Pochi giorni dopo gli avvenimenti, infatti, una delle pochissime sopravvissute, Yasmin Porat, aveva rilasciato un’intervista a una radio israeliana: dichiarava di essere stata rinchiusa in una stanza con altri 12 prigionieri, controllati a vista da una quarantina di membri della resistenza. “Ci hanno trattato molto umanamente” ha dichiarato; “eravamo spaventati a morte e hanno provato a tranquillizzarci. Il loro obiettivo era rapirci e portarci a Gaza, non ucciderci”. Esattamente quello che le forze armate israeliane avevano il mandato di evitare con ogni mezzo necessario, ed ecco così che, quando arrivano nel villaggio, inizia uno scontro violentissimo: uno dei rapitori prende Yasmin ed esce allo scoperto, usandola come scudo umano; la donna grida ai soldati israeliani di fermare il fuoco, senza risultati. Attorno a sé vede corpi di persone morte ovunque: “Erano stati uccisi dai terroristi?” chiede l’intervistatore: “No” risponde Yasmin “sono stati uccisi dal fuoco incrociato”. “Quindi potrebbero essere stati uccisi dalle nostre forze di sicurezza?” chiede l’intervistatore: “Senza dubbio” risponde Yasmin.

Max Blumenthal

Ma è solo la punta dell’iceberg: come riporta un giornalista del media israeliano i24 “Case piccole e pittoresche sono state bombardate o distrutte” e “prati ben tenuti sono stati divelti dalle tracce di un veicolo blindato, forse un carro armato”. Ancora, dopo 11 giorni dall’attacco, in mezzo alle macerie di una casa sono stati ritrovati i corpi di una madre e di suo figlio e – sostiene Max Blumethal in un lungo articolo pubblicato su GrayZone – “Gran parte dei bombardamenti a Be’eri sono stati effettuati da equipaggi di carri armati israeliani”. Tuval Escapa è uno dei responsabili della squadra incaricata di garantire la sicurezza del kibbutz Be’eri; durante l’attacco, avrebbe improvvisato una specie di linea diretta per coordinare i residenti del kibbutz e l’esercito israeliano, ma non è andata come sperava: “I comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili, incluso bombardare le case dei loro occupanti per eliminare i terroristi insieme agli ostaggi”, e a effettuare i bombardamenti non sarebbero stati solo i carri armati.
E qui siamo al terzo atto del giallo: la location, questa volta, è l’ormai tristemente arcinoto festival di musica elettronica Nova, a pochi chilometri dal kibbutz; secondo Blumenthal, è qui che gli Apache delle forze armate israeliane armati di missili Hellfire avrebbero concentrato la loro potenza di fuoco nel tentativo di impedire alle auto dei membri della resistenza – che, con ogni probabilità, stavano trasportando anche prigionieri da portare a Gaza – di portare a termine la loro missione e che, sottolinea la stessa stampa israeliana, è molto probabile non fosse stata poi neanche più di tanto programmata: “Tra i funzionari della sicurezza” riporta infatti Haaretz “in molti sostengono che i terroristi che hanno compiuto il massacro del 7 ottobre non sapevano in anticipo del festival”. Blumethal riporta un’intervista a un pilota di uno di questi elicotteri Apache presenti nell’area, rilasciata al notiziario israeliano Mako: il pilota avrebbe ammesso di non avere la minima idea di quali fossero i veicoli che potevano trasportare prigionieri israeliani, ma di aver comunque ricevuto l’ordine di aprire il fuoco lo stesso. Blumenthal riporta anche un articolo del quotidiano israeliano Yeditoh Aharanoth dove si sottolineava come “i piloti si sono resi conto che c’era un’enorme difficoltà nel distinguere all’interno degli avamposti e degli insediamenti occupati chi era un terrorista e chi era un soldato o un civile”, “E così” commenta Blumenthal “senza alcuna intelligenza o capacità di distinguere tra palestinesi e israeliani, i piloti hanno scatenato una furia di colpi di cannoni e missili sulle aree israeliane sottostanti”. “Le forze di sicurezza israeliane” continua Blumethal “hanno anche aperto il fuoco su israeliani in fuga che hanno scambiato per uomini armati di Hamas. Una residente di Ashkelon di nome Danielle Rachiel ha descritto di essere stata quasi uccisa dopo essere fuggita dal festival musicale Nova: “Quando abbiamo raggiunto la rotonda, abbiamo visto le forze di sicurezza israeliane!” Rachel ha ricordato; “Abbiamo tenuto la testa bassa [perché] sapevamo automaticamente che avrebbero sospettato di noi, a bordo di una piccola macchina scassata… dalla stessa direzione da cui provenivano i terroristi. Le nostre forze allora hanno iniziato a spararci, mandando in frantumi i finestrini”.
Per quanto fondate principalmente su articoli apparsi sui media israeliani, Haaretz ha subito etichettato le ricostruzioni di Blumenthal come “tesi cospirazioniste”, che è l’etichetta che ormai si affibbia con una certa facilità a qualsiasi cosa metta in questione la narrazione dominante, fino a quando però – pochi giorni dopo – Haaretz stesso non ha dato la notizia di un rapporto della polizia che confermerebbe che i partecipanti al festival sono stati uccisi – almeno in parte – proprio dall’esercito israeliano: “Secondo una fonte della polizia” scrive Haaretz “un elicottero da combattimento dell’IDF avrebbe sparato ai terroristi e apparentemente avrebbe colpito anche alcuni dei ragazzi che stavano partecipando al festival”; “Quello che abbiamo visto qui era una Direttiva Annibale di massa” avrebbe dichiarato il pilota di uno degli elicotteri Apache ad Haaretz. Il punto, però, è che a questo giro la Direttiva Annibale avrebbe ampliato a dismisura il numero di vittime tra la popolazione civile israeliana, ma senza ottenere grossi risultati: la resistenza palestinese è rientrata a Gaza col più grande bottino di prigionieri della storia del conflitto, e così oggi si ritrova in mano una potente arma di ricatto. “Questa tregua permetterà ad Hamas di riorganizzarsi” ammette Olmert nell’intervista al Fatto Quotidiano, ma “è un rischio che dobbiamo correre per forza”.

Ehud Barak

Attenzione, però, a non cedere ai sentimentalismi: posizioni come queste non rappresentano, come si sente spesso sostenere, una fazione più moderata e dialogante all’interno dell’establishment israeliano. Per entrambi, il fine rimane esattamente lo stesso: la distruzione di una prospettiva nazionale per il popolo palestinese che presuppone l’annichilimento della resistenza, che oggi è guidata da Hamas, che quindi va annientata. Whatever it takes. Il più grande rimpianto di Olmert, infatti, è ai tempi di Piombo Fuso aver fatto solo un decimo dei morti fatti in questo ultimo mese e mezzo, e di aver lasciato il lavoro a metà: “In quel frangente” riflette nostalgico Olmert “non avevo più la forza di proseguire fino all’annichilimento di Hamas”, ma “se potessi tornare indietro, farei l’opposto: terrei duro”. Ma contro chi? Chi è che lo spinse a demordere? Olmert è chiaro: furono “l’allora ministro della Difesa Ehud Barak e il capo di stato maggiore Gabi Ashkenazi”. Ci risiamo: i vertici militari che spingono alla prudenza e alla mediazione la politica sono di animo gentile? Macché: semplicemente, a differenza di Olmert, sanno di cosa parlano. Il punto infatti è che, allora come oggi, dal punto di vista militare gli obiettivi che rimpiange Olmert e che oggi rivendica Netanyahu – molto semplicemente – non sono raggiungibili.
Un film che abbiamo, in qualche modo, visto in Ucraina: la politica si nutre di pensiero magico, spera di ottenere risultati militari oggettivamente non raggiungibili, li persegue per un po’ di tempo sulla pelle dei soldati ucraini come dei bambini palestinesi e alla fine, quando il fallimento diventa palese anche ai lettori de la Repubblichina o del Giornale, ecco che arriva l’editoriale di turno che ribalta la realtà e dipinge la sconfitta come una vittoria. Gli innumerevoli motivi per i quali l’annichilimento di Hamas è una chimera li ricorda magistralmente, in un lungo articolo di ieri su Foreign Affairs, Audrey Kurth Cronin, direttrice del prestigioso Carnegie Mellon Institute for Strategy and Technology: “Il vantaggio asimmetrico di Hamas” si intitola. “Gli Stati e gli eserciti tradizionali” ricorda la Cronin “hanno sempre penato parecchio nel tentativo di sconfiggere i gruppi terroristici, ma la guerra tra Israele e Hamas dimostra perché oggi è diventato quasi impossibile”; “molti progressi tecnologici” ricostruisce la Cronin “hanno portato benefici sproporzionati ai gruppi terroristici” tanto che la Cronin attribuisce la nascita stessa del terrorismo proprio a una novità tecnologica: la dinamite.
Era il 1867; fino ad allora “i proiettili che usano polvere da sparo, come le granate, erano delicati e pesanti. La dinamite invece si nasconde facilmente sotto i vestiti e può essere accesa rapidamente e lanciata agilmente contro un bersaglio. Il risultato fu un’ondata di azioni terroristiche portate avanti da piccoli gruppi e da singoli individui, compreso l’assassinio con la dinamite nel 1881 dello zar russo Alessandro II”. La seconda tappa di questa avvincente cronistoria delle azioni terroristiche arriva nel 1947 con l’introduzione dell’AK-47, che “cambiò di nuovo l’equazione a favore degli attori non statali”; “Le statistiche parlano chiaro” sottolinea la Cronin: “tra il 1775 e il 1945 gli insorti hanno vinto contro gli eserciti statali circa il 25% delle volte. Dal 1945 questa cifra è balzata a circa il 40%. E gran parte di questo cambiamento può essere attribuito all’introduzione e alla diffusione globale dell’AK-47”.
Ora le rivoluzioni tecnologiche che rendono Hamas un nemico sostanzialmente impossibile da debellare sono parecchie: razzi Qassam auto – costruiti che, dai 15 chilometri di gittata che avevano nel 2005, ora ne hanno 250, i droni suicidi Zouari che evitano le difese aeree israeliane, i piccoli droni commerciali che trasportano granate o mitragliatrici da azionare a distanza, ma ancora la comunicazione social, che sta permettendo ad Hamas di contrastare efficacemente la propaganda sionista. E poi i tunnel, i benedetti tunnel di cui parliamo dall’inizio e che – anche se presi dall’entusiasmo verso la propaganda israeliana ogni tanto facciamo il tentativo di rimuovere – in realtà stanno sempre lì, e Israele non sa minimamente cosa farci. Ma a parte la tecnologia, sottolinea la Cronin, “Il più importante vantaggio asimmetrico di Hamas è di carattere strategico: lo sfruttamento della risposta di Israele al suo attacco. Poiché l’obiettivo dell’attacco di Hamas” continua la Cronin “era quello di provocare una reazione eccessiva e controproducente da parte di Israele, la risposta violenta dell’IDF ha infiammato l’opinione pubblica nella regione contro Israele esattamente come Hamas voleva”; “In parole povere” continua la Cronin “Israele ha abboccato rispondendo all’attacco di Hamas con la repressione violenta, un metodo di antiterrorismo popolare ma raramente efficace che funziona meglio quando i membri dei gruppi terroristici possono essere distinti e separati dalla popolazione civile: un compito impossibile a Gaza”.

Ebrahim Raisi

“Israele non ha raggiunto nessuno dei suoi obiettivi” ha ribadito ieri il presidente iraniano Ebrahim Raisi: “Ciò che ha fatto il regime sionista dimostra che è diventato disperato di fronte alla resistenza palestinese. Ma l’uccisione di donne e bambini non si traduce in vittoria” e, anzi “ha creato un’atmosfera senza precedenti di odio anti – sionista in tutto il mondo”. Pure in Vaticano: “Questa non è guerra” ha affermato papa Bergoglio, “è terrorismo”. Insomma, per dirla con la Cronin “Israele ha pochi modi per eliminare i vantaggi asimmetrici di Hamas. Il Paese non può invertire il cambiamento tecnologico o eliminare completamente la simpatia che attira la resistenza palestinese”. Per indebolire Hamas, l’unica arma a disposizione di Israele è la moderazione: “Dato che Hamas ha progettato il suo attacco per alimentare una reazione eccessiva da parte di Israele” conclude la Cronin “la cosa migliore che Israele può fare ora è rifiutarsi di fare il gioco di Hamas”.
Insomma: nel mondo suprematista c’è un gran dibattere sulle strategie più giuste per continuare il business as usual del colonialismo e dell’occupazione illegittima fondata sull’apartheid; abbiamo bisogno come il pane di un vero e proprio nuovo media che affermi ogni giorno che dopo il 7 ottobre non ci potrà mai più essere business as usual e che l’unico modo per sconfiggere la resistenza è eliminare la ferocia imperialista alla quale sta resistendo. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Fiamma Nirenstein

CHI METTERA’ FINE AL GENOCIDIO? Come i BRICS stanno rimpiazzando l’Occidente e ricostruendo l’ONU

L’ondata di indignazione scatenata dalla guerra di Israele contro i bambini arabi non si arresta e travolge tutti i paesi del mondo, anche quelli con le classi dirigenti più ciniche che però, in un modo o nell’altro, all’opinione pubblica qualcosa sono comunque costrette a concedere. A parte negli USA e in qualche paese vassallo del Nord globale che si conferma così – al netto di una montagna di retorica – la parte in assoluto meno democratica del pianeta, completamente in balia degli interessi egoistici di una manciata di oligarchi. Il problema, però, è che questo manipolo di paesi in mano a un manipolo di oligarchi è, ancora oggi, in grado di ostacolare le Nazioni Unite, e così tiene per le palle l’intera comunità internazionale. O forse sarebbe meglio dire teneva: se per l’ostruzionismo dell’asse del male le Nazioni Unite non sono in grado di muovere un dito neanche di fronte a un genocidio del genere, vorrà dire che la comunità internazionale, a un certo punto, proverà a dotarsi di strumenti alternativi. Certo, sarà un percorso lungo e tortuoso che – però – ieri ha subito un’accelerazione di portata storica: per la prima volta in quasi 15 anni di vita, ieri i BRICS si sono riuniti per una conferenza di emergenza interamente dedicata a una questione internazionale imprevista. Non era mai successo prima, nemmeno quando i membri erano soltanto 5; oggi sono 11, ma di fronte alla carneficina hanno parlato con una voce sola: “La posizione dei membri BRICS è unanime” commenta il Global Times e “si sono impegnati a promuovere un cessate il fuoco a Gaza e prevenire l’escalation della violenza, presentando progetti di legge e organizzando riunioni nel quadro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”. “Alcuni altri paesi occidentali” continua il Global Times “non hanno la volontà e il coraggio di difendere la giustizia, creando così un vuoto nel sistema di governance globale. I paesi BRICS, che rappresentano i paesi dei mercati emergenti e quelli in via di sviluppo, si sono fatti avanti per colmare il vuoto”.
Che sotto le macerie di Gaza, oltre ai corpi martoriati dei bambini arabi, stiano rimanendo sepolte anche le ultime speranze di dominio globale incontrastato degli USA?
UNO: immediato cessate il fuoco;
DUE: corridoi umanitari per la popolazione di Gaza;
TRE: intervenire per impedire che il conflitto si allarghi;
QUATTRO: convocare una conferenza di pace per riportare al centro dell’agenda politica internazionale la soluzione dei due Stati.

Xi Jinping

Il piano in quattro punti proposto ieri da Xi Jinping nella prima riunione straordinaria dei BRICS a 11 per mettere fine al genocidio in corso a Gaza non è solo giusto ma è anche l’unica soluzione possibile, e che infatti è condivisa dalla stragrande maggioranza della popolazione mondiale che, da ormai oltre un mese e mezzo, riempie strade e piazze di tutto il pianeta un giorno sì e l’altro pure per testimoniare la sua indignazione obbligando tutti i governi – anche quelli meno democratici – a provare almeno di dare l’impressione di lavorare in quella direzione. A partire dal sostegno alle risoluzioni ONU di condanna alle azioni criminali dell’entità sionista. Ma, come sottolinea sempre il Global Times, “il conflitto israelo-palestinese è uno specchio che riflette molte cose. A causa dell’opposizione di alcuni paesi per lo più occidentali” continua l’articolo “il Consiglio di sicurezza dell’ONU non è stato in grado di intraprendere azioni concrete”: un immobilismo che le opinioni pubbliche di tutto il mondo, e in particolare dei paesi a maggioranza islamica, non hanno nessuna intenzione di assecondare.
Fortunatamente, però, oggi esiste un’alternativa concreta alle vecchie istituzioni multilaterali: “I BRICS” sottolinea il Global Times “stanno diventando un simbolo e un’entità che sostiene la giustizia internazionale, e maggiore sarà l’influenza che avranno sulla scena internazionale, meglio sarà per la pace e la tranquillità del mondo”. Ed ecco così che gli USA si ritrovano in un bel cul de sac e il sostegno incondizionato alla ferocia sionista – giustificato dal ruolo strategico che Israele ricopre nei piani imperiali a stelle e strisce – comincia a presentare il conto. Per contrastare la crescita dell’influenza di quelli che considera i suoi avversari strategici – a partire da Russia e Cina – gli USA, infatti, stanno provando a corteggiare in ogni modo possibile i paesi del Sud Globale; l’esempio più eclatante si è avuto probabilmente nell’area del Sahel dove, di fronte all’ondata di colpi di stato patriottici che ha travolto paesi come il Mali, il Burkina Faso e il Niger, invece di accodarsi alla retorica bellicista e neocolonialista francese, gli USA hanno mantenuto un tono tutto sommato più conciliante e hanno cercato di tenere aperto il dialogo per non perdere totalmente la loro influenza. Qualcosa di simile è avvenuto anche proprio in Medio Oriente dove, di fronte all’intensificarsi delle relazioni con Russia e Cina – ad esempio – da parte dell’Arabia Saudita, hanno deciso di usare molte più carote che bastoni. Il bagno di sangue avviato da Israele dopo il diluvio di Al-Aqsa, e il sostegno incondizionato al genocidio che gli USA sono stati sostanzialmente obbligati a garantire, sta facendo rapidamente tabula rasa di tutti questi sforzi e sta accelerando in maniera clamorosa il processo di allineamento dei paesi del Sud globale agli interessi strategici proprio di Cina e Russia, a partire dal rafforzamento dei BRICS: “Dato che gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a convincere Israele a concedere un cessate il fuoco a Gaza” sottolinea il Global Times “il mondo arabo e i paesi in via di sviluppo mostrano crescente disappunto nei suoi confronti e ripongono ormai maggiori speranze proprio nei BRICS, una piattaforma che amplifica la voce dei paesi in via di sviluppo sugli affari mondiali”.
Ora qui è il caso di sottolineare una cosa che dovrebbe essere scontata, ma evidentemente non lo è: come per il processo di dedollarizzazione o anche – rimanendo più vicini alla questione israelo-palestinese – la questione del rafforzamento dell’asse della resistenza non si tratta di una soluzione magica; gli equilibri regionali, e ancora di più quelli globali, non si rigirano come un calzino dalla sera alla mattina. I BRICS al momento, e per molto tempo ancora, non sono assolutamente in grado di esprimersi con una voce unica così forte e perentoria da risolvere come per incanto la carneficina che ci troviamo di fronte, come non sono in grado di abolire l’egemonia del dollaro o come l’asse della resistenza non è in grado di sconfiggere militarmente Israele. Si tratta di tendenze storiche: processi lunghi, tortuosi e macchinosi, dall’esito sostanzialmente imprevedibile e che non sono in grado di soddisfare la sete di scoop continui tipica dell’era dell’iper – informazione. L’idea che cambiamenti di questa portata possano avvenire nel tempo di un tiktok è un frutto del dominio del pensiero magico, che mal si concilia col tentativo di capire come sta cambiando il sistema mondo a livello strutturale profondo, ma “anche se uno o due vertici singoli potrebbero non essere sufficienti per risolvere direttamente il conflitto” sottolinea giustamente il Global Times dove, da bravi cinesi, sono molti più avvezzi a usare il materialismo dialettico di quanto non siano gli attivisti esagitati dell’Occidente “la presenza collettiva e le rivendicazioni coerenti dei paesi in via di sviluppo saranno utili per trovare una tabella di marcia per la pace israelo-palestinese, la promozione della pace e la realizzazione di una coesistenza pacifica”. “Attraverso il meccanismo dei BRICS” continua il Global Times “l’aspetto collettivo del Sud del mondo acquisisce tutta la sua importanza, e sebbene non risolva necessariamente il conflitto, l’unità dei paesi in via di sviluppo è un svolta di portata storica” che è stata riconosciuta anche dall’ONU: al vertice dei BRICS, infatti, ha partecipato anche il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres “che” sottolinea il Global Times “rappresenta le aspettative che la comunità internazionale nutre affinché i BRICS svolgano un ruolo sempre più decisivo nell’affrontare i dossier più scottanti”.
Gli unici che fanno di tutto per non accorgersene, tanto per cambiare, sono i nostri media mainstream di ogni colore politico; la notizia compare solo in un trafilettino in fondo a pagina 9 del Corriere che manco parla di BRICS, ma solo di Xi e del suo appello per convocare una conferenza di pace. Di fronte al Mondo Nuovo che avanza, le cariatidi prezzolate di quello vecchio hanno deciso di adottare la tattica vincente dei bambini delle materne che sperano che, chiudendo gli occhi, i mostri che li perseguitano scompariranno per sempre (che, comunque, è sempre meglio della tattica adottata da Sallusti). Qui in ballo non c’è lo storico vertice dei BRICS, ma un altro avvenimento storico che va esattamente nella stessa identica direzione: è il ritorno di Putin, dopo quasi due anni di assenza, a un incontro del G20 – seppure virtuale; un segno palese di quanto, dopo un anno e mezzo di pensiero magico – che consiste nell’idea che hanno le élite politiche e i media che uno scenario improbabile si possa realizzare semplicemente invocandolo ripetutamente contro ogni evidenza – sia arrivata l’ora di cominciare a fare i conti con la realtà, come – a malincuore – è costretta ad ammettere addirittura la Reuters (che non è esattamente la Pravda): “L’Occidente e l’Ucraina hanno ripetutamente promesso di sconfiggere la Russia nella guerra e di espellere le forze russe, ma il fallimento della controffensiva ucraina nel raggiungere un qualsiasi obiettivo concreto ha sollevato preoccupazioni in Occidente riguardo a questa strategia”. Che – fatta la tara del tasso spropositato di propaganda dei media occidentali – in soldoni equivale a dire che l’Occidente finalmente ha preso atto di aver perso la guerra.
Come riassumeva questo evento Sallusti ieri su Il Giornale? “Perché il ritorno di Putin fra i grandi è una vittoria NATO”. Giuro, eh? (spetta che vi faccio vedere l’originale, sennò mi dite che sono del PD e che polemizzo in modo strumentale contro la destra che è vicina al popolo).

“Certamente” ammette Sallusti “si tratta di un passo che rompe l’isolamento assoluto con l’occidente in cui Putin si trova da ormai due anni” e “già mi vedo”continua “i filo-putiniani nostrani alzare i calici al rientro dello zar sulla scena e spacciarla per la sconfitta della politica occidentale filo-Ucraina, quando invece” – ecco lo scooppone del Nosferatu de noantri – “è l’esatto opposto”. Sallusti ammette che “è ormai evidente che questa guerra non la vincerà in senso tecnico nessuno dei due contendenti” ma, con un virtuosismo da guinness dei primati, eccolo rovesciare sul tavolo un poker d’assi di arrampicamento sugli specchi: secondo Sallusti, infatti, questo pareggio altro non è che una sconfitta russa, che ha fatto “un tale macello umano e politico da impedire in futuro qualsiasi possibilità di annettersi l’Ucraina neppure in caso di resa del nemico”. “Non è poco” sottolinea, “anzi, è già di per se una vittoria”. Chi s’accontenta gode, come dice il detto. Giusto qualche mese fa, la guerra non poteva finire se non con la riconquista non solo di tutti i territori persi fino ad oggi, ma anche della Crimea e, con il crollo economico della Russia, la fine politica di Putin e magari anche il suo arresto e la condanna per crimini di guerra; obiettivi talmente vitali da giustificare una recessione in tutto il Nord globale, una crisi umanitaria nel cuore dell’Europa e il sacrificio di decine e decine di migliaia di giovani vite ucraine spinte a suicidarsi al fronte in nome di promesse totalmente campate in aria.

Vladimir Putin e Yasser Arafat

Tutto cancellato; era uno scherzo, ma l’unico a ridere – alla fine – è Putin: gli ultimi dati economici pubblicati dalla Russia sanciscono il fallimento totale delle sanzioni suicide imposte dagli USA e che hanno avuto come unico risultato la devastazione definitiva dell’economia dell’eurozona, e ora Putin torna da vincitore al tavolo dei grandi, dettando le sue condizioni e quelle del Sud globale. “Ormai la situazione nell’economia globale” ha spiegato Putin ai colleghi del G20 “richiede decisioni collettive raggiunte attraverso il consenso e che riflettano l’opinione della stragrande maggioranza della comunità internazionale, sia dei paesi sviluppati che di quelli in via di sviluppo”. “Nuovi potenti centri dello sviluppo economico globale stanno emergendo e si stanno rafforzando” ha continuato Putin: “una parte significativa degli investimenti, del commercio e del consumo globale si stanno spostando verso l’Asia, l’Africa e l’America Latina, dove vive il grosso della popolazione mondiale”.
Dall’Ucraina a Gaza, il colpo di coda del Nord globale, che sperava di invertire il suo declino a suon di bombe, sta miseramente fallendo; l’incognita rimane ancora capire quante vite siamo ancora disposti a sacrificare in nome della difesa di un’egemonia che è ormai completamente antistorica e contraria agli interessi della comunità umana dal futuro condiviso. Contro il ribaltamento della realtà e le arrampicate sugli specchi dei propagandisti dell’impero, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che stia dalla parte del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Alessandro Sallusti

Chi decide chi è terrorista? come la propaganda strumentalizza senza ritegno un concetto ambiguo

L’accusa di terrorismo è una delle accuse politiche più abusate dell’ultimo secolo. Sono stati chiamati terroristi gli indipendentisti Algerini, i liberatori cubani, le brigate rosse, quelle nere, l’Isis, i curdi, la Russia e pure l’Ucraina.
Ma che cosa hanno in comune tutti questi soggetti politici così diversi tra loro per ricadere tutti sotto la categoria di terrorismo? La risposta è: nulla. Perché nonostante i nostri media continuino a ripeterlo come ossessi quando si tratta di demonizzare il nuovo nemico dell’occidente americano, la verità è che a livello internazionale, sia sul piano giuridico che politologico, non esiste alcuna definizione univoca del termine terrorismo e di chi debba essere considerato come tale. Tenere presenta questa ambiguità e arbitrarietà concettuale del termine, che lo rende particolarmente strumentalizzabile dalle diverse propagande, è oggi più che mai decisivo. In questi giorni di guerra di Indipendenza palestinese infatti, sia i palestinesi che gli israeliani vengono accusati da parti diverse di terrorismo, e sia sul piano giornalistico che diplomatico, utilizzare le definizioni e il linguaggio di una delle due parti in conflitto significa sposare, anche inconsciamente, la sua visione del mondo.

Il termine terrorismo è stato utilizzato storicamente per descrivere fenomeni molto diversi: dalle uccisioni di sovrani, agli attentati di gruppi armati o individui isolati, fino ai crimini compiuti direttamente da apparati statali: il così detto terrorismo di stato. In epoca moderna comincia a diffondersi nella seconda metà dell’800 e in particolare per condannare azioni violente o attentati compiuti da anarchici o da organizzazioni nazionaliste e indipendentiste. I patrioti italiani ad esempio, mentre lottavano per la liberazione del nostro territorio dalla colonizzazione straniera, furono più volte etichettati dai colonizzatori come terroristi e uccisi e perseguitati insieme alle organizzazioni di cui facevano parte, come La giovine Italia di Mazzini, la Carboneria, o la Società Nazionale italiana di Daniele Manin.
Il ricorso al termine terrorismo torna poi in auge nei media e nel linguaggio politico occidentale tra gli anni 60-70 del novecento, e anche in questo caso nel contesto delle guerre di decolonizzazione e autodeterminazione dei popoli. Diventano così “Terroristici” atti come il dirottamento di aerei, il sequestro di persone, o attentati in cui rimangono coinvolto civili o militari al di fuori di un contesto di guerra tra eserciti regolari. In realtà però questi atti di violenza, per quanto crudeli e terrificanti, raramente sono mossi da un irrazionale volontà omicida. Piuttosto, vi si ricorre per provare a esercitare una pressione sugli Stati e i soggetti interessati, o anche solo per riaccendere l’attenzione dell’opinione pubblica su determinate rivendicazioni politiche.
All’inizio del nuovo millennio, con l’attentato alle torri gemelle prima, e con quelli di Parigi per mano di miliziani jhadisti poi, “terrorismo”, soprattutto in occidente, diventa sinonimo di terrorismo islamico.
Ma negli ultimi due anni, prima con la guerra in Ucraina e adesso con il riaccendersi della lotta di indipendenza palestinese, l’uso del termine si è di nuovo ampliato quando sia la Russia che l’Ucraina prima, sia i palestinesi e gli israeliani poi, si sono dati del terrorista a vicenda.
Questa estrema arbitrarietà di significato e applicazione, si riflette anche a livello scientifico e giuridico. Nel suo saggio “Il terrorismo nel mondo contemporaneo”, la professoressa di scienze politiche Donatella della Porta scrive: “Per essere utilizzabile a fini scientifici un concetto deve avere alcuni requisiti: deve essere neutrale e univoco, comunicabile e discriminante. Importato nel linguaggio scientifico dalla vita quotidiana, il concetto di terrorismo manca di questi requisiti: infatti quelli che alcuni chiamano terroristi sono partigiani, o combattenti per la libertà, per altri. Anche gli studi di taglio storico o sociologico sul terrorismo lamentano la difficoltà di trovare una definizione accettata del fenomeno, ricordando che il termine terrorismo viene frequentemente riservato a quelle lotte di liberazione che falliscono, resistenza invece a quelle che hanno successo.”
Non solo. Definire o meno un’organizzazione “terrorista” risulta sostanzialmente impossibile anche se ci si focalizza esclusivamente sul modo e sul metodo con cui la violenza viene esercitata. Infatti, riflette Della Porta, se tentassimo una definizione di terrorismo in base al tipo di metodi violenti utilizzati “Fenomeni eterogenei – dalle attività delle bande criminali organizzate alle contese dinastiche, dalle guerre tra nazioni a gran parte delle interazioni politiche nei regimi autoritari – verrebbero così confusi insieme in un medesimo concetto, privandolo sia di capacità euristiche che di una qualsiasi utilità descrittiva.”
Purtroppo però, qualificare un gruppo come terrorista in base al modo in cui questo uccide, è uno degli argomenti più utilizzati in queste settimane dai media occidentali. Vi ricordate quando per giorni hanno riportato la notizia ancora mai confermata dei bambini israeliani decapitati? E vi ricordate quando si portava a prova del terrorismo di Hamas il fatto che solo dei terroristi ucciderebbero in modo così crudele ed efferato? Bene, questo ragionamento “sotto-culturale”, come lo ha definito giustamente in televisione l’ex ambasciatrice Elena Basile, non poteva che sfociare in uno degli esempi più eclatanti di doppio standard degli ultimi anni: abbiamo infatti scoperto che per l’inteligencija italiana esiste un modo politicamente corretto di uccidere, ossia quello degli Stati che utilizzano droni e aerei per distruggere palazzi e far morire in agonia i bambini sotto le macerie, e un metodo non politicamente corretto, ossia quello di chi droni ed aerei non li ha e deve ricorrere all’utilizzo di armi rudimentali.

Mah si, ma vuoi mettere quei selvaggi anti-estetici di Hamas che uccidono con i kalashnikov e i coltelli, con l’eleganza e il bon ton di un bel missile Jericho lanciato comodamente dalla postazione di comando? Davvero vi serve dell’altro per capire la differenza tra i terroristi e l’unica democrazia del medioriente?! Come ormai sostanzialmente tutto, anche lo sterminio dei bambini non è più un crimine in se, ma un lusso, che deve essere riconosciuto a chi ha i mezzi per perpetrarlo in modo elegante e tecnologicamente al passo coi tempi

Ma torniamo alle cose serie.

Anche il diritto internazionale, dicevamo, non è mai riuscito a trovare una definizione unanime di terrorismo: Nel 1996, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite istituì un comitato ad hoc per predisporre una convenzione globale sul terrorismo internazionale, ma i lavori si arenarono proprio per l’impossibilità di arrivare a una definizione condivisa.
I problemi fondamentali furono due: primo; in determinati contesti come si fa a distinguere atti di terrorismo da legittime guerre di liberazione nazionale? Secondo, come si fa a distinguere il terrorismo di stato da legittime attività svolte dalle forze ufficiali dell’esercito per salvaguardare la sicurezza?
Applicando questi dilemmi alla situazione in Palestina, possiamo chiederci: Hamas è un’organizzazione terroristica o il braccio armato della resistenza palestinese che combatte con i mezzi a sua disposizione per la libertà e l’indipendenza del suo popolo? E Israele è uno stato terrorista in quanto colonizza e annette territori non suoi e stermina da 70 anni migliaia di civili inermi in operazioni militari, oppure quello che fa, pur contravvenendo le risoluzioni Onu, lo fa per legittima difesa e sicurezza?

Ognuno tragga le sue conclusioni.

Ma visto che siamo nel campo dell’arbitrarietà più assoluta, e che come abbiamo visto questo aggettivo è privo di validità scientifica e giuridica per comprendere dinamiche di conflitto, la cosa più utile e razionale sarebbe smetterla proprio di utilizzarlo. La ragione per la quale è così in auge nell’informazione di propaganda infatti, è che come per l’accusa di nazismo di cui abbiamo parlato nel video precedente, anche l’accusa di terrorismo è una forma di demonizzazione assoluta del nemico che impedisce la comprensione delle sue ragioni e quindi ogni possibilità di dialogo e di risoluzione del conflitto. Con i terroristi infatti, come ci viene insegnato dalle autorità israeliane in questi giorni, non si parla, non si tratta, li si distrugge ad uno ad uno con tutti i mezzi a disposizione, e mettendo in conto tutti i “danni collaterali” possibili immaginabili

E se anche tu credi che l’opinione pubblica italiana dovrebbe farsi una bella pulizia mentale dal linguaggio imperialista, aiutaci a costruire un media veramente libero e indipendente aderendo alla campagna di sottoscrizione di Ottolina TV su Paypal e Gofoundme.

E chi non aderisce, è Paolo Mieli.

NON CON I MIEI SOLDI: boicottare Israele per impedire il genocidio

Fino a un mese, fa la lotta per l’indipendenza del popolo palestinese era una lotta finita, kaputt, morta e sepolta; oggi le strade di tutto il mondo sono invase da un oceano di umanità che torna a sventolare la bandiera palestinese non solo per non essere complici di un genocidio, ma come simbolo universale dell’eterna lotta degli oppressi contro gli oppressori. Purtroppo però il genocidio del popolo palestinese è solo un pezzo di una guerra molto più generale, e in guerra la testimonianza non basta: per ottenere qualcosa bisogna colpire direttamente gli interessi più profondi. Per fortuna, per capire come si fa non c’è bisogno di inventarsi nulla di particolarmente nuovo: basta ricordarsi la nostra storia. La ricetta l’hanno scritta nel 1959 un gruppo di militanti sudafricani esuli a Londra: si chiama boicottaggio. “Popolo britannico” recitava lo storico appello “non vi chiediamo niente di speciale. Vi chiediamo solamente di ritirare il vostro sostegno al regime di apartheid smettendo di comprare prodotti sudafricani”. Tra alti e bassi, per arrivare alla vittoria occorreranno la bellezza di 35 anni.
Non c’è un minuto da perdere: con questo video ci rivolgiamo a tutte le realtà che come noi, giorno dopo giorno, in piena libertà e autonomia, qualsiasi sia il loro punto di vista, combattono la loro battaglia contro la dittatura del pensiero unico e contro la lotta senza quartiere che le oligarchie finanziarie del nord globale hanno ingaggiato contro tutto il resto del mondo. E’ arrivato il momento di lanciare lo stesso appello che gli esuli sudafricani lanciarono ai cittadini britannici e che, dopo 35 anni di peripezie, li portò finalmente alla liberazione. Dobbiamo convincere insieme tutte le persone, che hanno imparato ad apprezzarci per il lavoro che ognuno a modo suo fa ogni giorno per creare una frattura nella narrazione dominante, che è arrivato il momento di ritirare il nostro sostegno al nuovo apartheid e al genocidio smettendo non solo di comprare prodotti israeliani, ma anche i prodotti di tutte quelle aziende che per due lire, di fronte a un genocidio, preferiscono girare la testa dall’altra parte e continuano a fare affari con Israele. Ci state?

manifestazione pro Palestina a Berlino

Nel silenzio assordante dei media che da settimane se ne inventano di tutti i colori per giustificare il genocidio e la pulizia etnica in corso a Gaza, decine di milioni di persone continuano a riempire giorno dopo giorno strade e piazze di tutto il pianeta per esprimere la loro solidarietà al popolo palestinese e la loro opposizione al sostegno incondizionato al genocidio espresso dai loro governi.

Da Stoccolma, Sidney, New York, Barcellona, Parigi, Dublino e Berlino, nonostante manifestare contro il genocidio fosse vietato e, alla fine, sono state arrestate quasi 200 persone:

Sempre a New York, giovedì scorso, in 500 hanno improvvisato un sit in direttamente dentro il congresso USA per chiedere una risoluzione per il cessate il fuoco immediato. Li hanno accusati di essere antisemiti. Erano tutti ebrei.

E questa è la mappa in tempo reale che Al Jazeera sta tenendo delle principali proteste al mondo:

In queste ore drammatiche, durante le quali qualsiasi persona che abbia conservato un minimo di umanità si sente squarciata dentro dal senso di impotenza di fronte a ingiustizie così colossali e abominevoli e totalmente isolata di fronte a governi e media mainstream che inneggiano con gioia allo sterminio di massa, alla pulizia etnica e al genocidio, queste gigantesche maree di umanità varia che, da giorni e giorni, invadono le nostre strade sono un’incredibile boccata di ossigeno. Purtroppo, però, rischiano anche di non essere altro che un lenitivo per noi che stiamo dalla parte giusta del mondo; il punto col quale facciamo ancora troppa fatica a fare i conti fino in fondo è che, anche se non ne siamo ancora molto consapevoli, siamo in guerra e – ammesso e non concesso che quelle nelle quali viviamo siano mai state democrazie, in particolare negli ultimi 30 anni – di sicuro hanno definitivamente smesso di esserlo da quando siamo in guerra. Equesto sarebbe davvero il caso ce lo mettessimo tutti in testa per bene: in un paese in guerra di spazio per la democrazia non ce n’è, anche se è una guerra un po’ atipica, ibrida, asimmetrica, inedita.
Fortunatamente, però, per i popoli un modo per farsi sentire c’è sempre; il disfattismo non è altro che una delle tante cazzate che ci hanno lasciato in eredità 50 anni di controrivoluzione neoliberista e di ideologia del thatcheriano “There is no alternative”. I disfattisti provano a spacciare le loro sentenze da bacio perugina letto al contrario come il frutto di un lucido cinismo che ha il coraggio di guardare dritta negli occhi la realtà, ma in realtà nel disfattismo non c’è proprio niente di lucido perché, molto banalmente, la realtà si può sempre modificare. Ma per farlo, appunto, serve lucidità, serve pragmatismo. Come sottolinea lucidamente Shahid Bolsen di Middle Nation “esistono fondamentalmente due tipi di proteste: le proteste dimostrative, e quelle distruttive”. Le proteste meramente dimostrative non vanno sminuite: hanno anche loro una loro importanza, come quelle di questi giorni in solidarietà alla Palestina e contro il genocidio. “Esprimere sostegno per la Palestina e condanna per il genocidio è importante” sottolinea Bolsen “sopratutto in Occidente, dove semplicemente stanno cercando di eliminare del tutto la questione palestinese dal dibattito pubblico, e stanno cercando di eliminare qualsiasi narrativa che non sia quella del regime sionista”. Ma se vogliamo andare oltre la mera testimonianza e dare un contributo reale per ostacolare il genocidio, bisogna inventarsi qualcosa di diverso. E visto che i governi in guerra orecchie per sentire non ne hanno, forse sarebbe il caso di rivolgersi a qualcun altro: “affinché le proteste in Occidente diventino davvero distruttive” suggerisce Bolsen “è necessario che si focalizzino sul settore privato”. Insomma: Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni. BDS. Per chi si occupa di cose palestinesi da un po’ non suona certo nuova: è una campagna nata ormai 18 anni fa – nel 2005 – quando, dopo aver partecipato alla conferenza mondiale contro il razzismo in Sudafrica, un gruppo di attivisti palestinesi hanno capito che il regime che li opprimeva da decenni aveva un nome preciso: apartheid. Nei successivi 15 anni, ogni volta che si azzardavano a sottolineare che l’occupazione sionista era un regime di apartheid, venivano immediatamente accusati di antisemitismo ma, come si dice, “prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci” e così, finalmente, da un paio di anni parlare di apartheid non è più tabù. Ma, vinta la battaglia culturale per definire il regime esattamente per quello che è, ora però rimane ancora da combattere da capo la battaglia che anche in Sudafrica all’apartheid mise fine. Come ha scritto Omar Barghouti, che della campagna BDS è stato uno dei fondatori e tutt’oggi ne è una delle voci più autorevoli, “la campagna di boicottaggio non è mai stata così importante come oggi”. Certo, una campagna vecchia 18 anni sembra difficile trasformarla di nuovo in uno strumento all’altezza delle sfide di oggi; in realtà però la storia ci racconta una cosa diversa.
Il movimento per il boicottaggio del regime di apartheid sudafricano, infatti, nacque per mano di Nelson Mandela e una manciata di altri militanti in esilio a Londra addirittura nel lontano 1959. Per cantare vittoria dovettero attendere altri 35 anni, 35 anni di lotte, di sofferenze inenarrabili e di gesti eroici, ma anche di intelligenza tattica e di pragmatismo: non si tratta di gettare generosamente il cuore oltre l’ostacolo. Si tratta di darsi obiettivi ragionevoli e di perseguirli con lucidità. Un pezzo importante di lavoro nel tempo è stato fatto, e basta visitare i siti italiano e internazionale della campagna BDS per avere un primo cassetto degli attrezzi. Un vademecum molto pratico di cose da fare, poi, ce lo fornisce proprio Shahid Bolsen: trovate il suo intervento integrale doppiato in italiano da noi apposta per l’occasione sul nostro canale You Tube:

Ma sopratutto, ribadisco, qui a giocare un ruolo di primo piano dovremmo essere proprio noi, quella selva di canali, influencer e content creator nati apposta per rompere il monopolio della propaganda liberaloide e imperiale, a prescindere da tutte le differenze: parliamoci, organizziamoci, coordiniamoci, dimostriamo che fuori dalla bolla dorata del mainstream un’altra informazione è possibile. Un’informazione che è al servizio dei diritti dei popoli, invece di una fabbrica di fake news per giustificare il genocidio

Dalla Testimonianza alla Vittoria – come boicottare il genocidio secondo Shahid Bolsen

La fine dell’exit strategy: come Hamas costringe gli USA a impantanarsi di nuovo in Medio Oriente

La regione del Medio Oriente è più tranquilla oggi di quanto lo sia mai stata negli ultimi vent’anni”. Con questa illuminante profezia, Jake Sullivan è finalmente riuscito a spodestare Piero Fassino e si è consacrato come il più grande raccoglitore di figure di merda dell’intero globo. Era soltanto il 29 settembre scorso e, appena una settimana dopo, quel Medio Oriente pacificato sognato da Sullivan tornava ad infiammarsi come non accadeva da diversi lustri, rendendo ancora più fitte, cupe e indecifrabili le nubi che ci separano dal nostro futuro. E quel che è più grave è che Sullivan, per portare il pane a casa e pure il companatico, e pure parecchi extrabonus in più, fa nientepopodimeno che il consigliere per la sicurezza nazionale degli USA. Che se minimamente davvero ci tengono non dico alla nostra, di sicurezza – che la risposta la sappiamo già – ma anche solo alla loro, i suoi consigli farebbero bene a non ascoltarli proprio proprio pedissequamente, diciamo. “L’Asia occidentale potrebbe essere diretta verso una guerra su larga scala che si estenderà ben oltre la striscia di Gaza e Israele”, ammoniva enfaticamente ieri Hasan Illaik dalle pagine di The Cradle; “La guerra è iniziata”, si intitola l’articolo. E’ la stessa previsione nefasta condivisa anche da Suzanne Maloney dalle pagine di Foreign Affairs: vice presidente del Brooking Institute, quando si parla di Medio Oriente la Maloney è una delle voci più ascoltate di Washington, a prescindere da chi sia ai posti di comando. “Ciò che è iniziato”, scrive, “quasi inesorabilmente è la prossima guerra. Una guerra che sarà sanguinosa, costosa e terribilmente imprevedibile nel suo corso e nei suoi esiti”. Per tutti i nuovi adepti di ogni schieramento politico della teoria postfascista, secondo la quale la colpa delle ritorsioni degli occupanti ricade sulle spalle dei resistenti, ovviamente, la responsabilità è tutta di Hamas, che come un Putin qualsiasi ha agito senza essere manco stata provocata.

Fortunatamente però c’è ancora qualcuno che non si è completamente bevuto il cervello, come Jonathan Cook, che dalle colonne di Middle East Eye prova disperatamente a ricordarci una cosa che a me pareva abbastanza ovvia, ma evidentemente non lo era: “Va detto”, scrive, “che la popolazione di Gaza stava lentamente e nel disinteresse di tutti affrontando un lento e apparentemente tranquillo percorso verso la cancellazione definitiva”.
Con il consenso e la complicità di sostanzialmente tutto il resto del mondo, nonostante politiche che Cook non fatica a definire esplicitamente genocide, “negli ultimi 16 anni il sostegno occidentale a Israele non ha mai vacillato, nonostante Israele stesse trasformando Gaza, dalla più grande prigione a cielo aperto del mondo, in una raccapricciante camera di tortura dove i palestinesi sono stati sottoposti a una lunga serie di esperimenti: cibo razionato, beni essenziali negati, accesso all’acqua potabile gradualmente rimosso e cure mediche impedite”. In queste condizioni, continua Cook, “i politici europei non si sono limitati a non fare niente per intervenire, ma anzi hanno premiato Israele con un sostegno infinito e incondizionato di carattere finanziario, diplomatico e anche militare. La verità è che senza un sostegno così incondizionato della politica occidentale, e senza la complicità dei media che ribrandizzano i furti di terre da parte dei coloni e l’oppressione da parte delle forze armate israeliane come una sorta di “crisi umanitaria”, Israele non sarebbe mai riuscita a farla franca con i suoi crimini. Sarebbe stato costretto a raggiungere un accordo adeguato con i palestinesi, e sarebbe stato costretto a normalizzare davvero i rapporti con i vicini arabi senza costringerli ad accettare una pax americana in Medio Oriente”.

Una pax americana che – dagli e ridagli – alla fine aveva convinto finanche i sauditi ad ingoiare la pillola: come ricorda Spencer Ackerman su The Nation infatti, “A nessuno, men che meno i palestinesi, sfugge che nel 2002 l’allora principe ereditario saudita Abdullah bin Abdul Aziz condizionava il riconoscimento di Israele a quello dello stato palestinese. Ora”, invece, “il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha rimosso tale condizione. Durante un’intervista del 20 settembre con Bret Baier di Fox News, ad esempio, si è impegnato solo per “una buona vita per i palestinesi”, parole che molti dei miei interlocutori hanno interpretato come l’accettazione di Riyadh dell’occupazione a tempo indeterminato”.

Per quanto oggi siate turbati, la verità è che il vostro turbamento negli ultimi 20 anni non aveva impedito ad Israele, con il sostegno di tutto l’Occidente e anche del mondo arabo, di portare sostanzialmente a compimento il suo progetto genocida: “una politica di incessante escalation” – come la definisce lucidamente Cook – “venduta dai media occidentali come “calma” e “tranquilla”, almeno fino a che i palestinesi non si azzardano a tentare di reagire ai loro aguzzini. Solo allora si parla di escalation. Sono sempre e solo i palestinesi ad “intensificare le tensioni”. E a quel punto la riproposizione su scala allargata delle oppressioni permanenti inflitte da Israele può essere rietichettata come ritorsione”.

“Quello che ci si aspetta dai palestinesi”, conlcude Cook, “è che soffrano in silenzio”. Ma intrappolare nel silenzio la rabbia di un popolo fiero e ostinato, evidentemente, è più complicato del previsto.

La fine della exit strategy degli USA dal Medio Oriente”: così ha intitolato il suo lungo articolo apparso martedì su Foriegn Affairs Suzanne Maloney, secondo la quale “l’assalto di Hamas ha messo fine alle illusioni di Washington. Ad essere finita, almeno per chiunque abbia voglia di ammetterlo, l’illusione che gli Stati Uniti possano districarsi da una regione che ha dominato l’agenda della sicurezza nazionale americana nell’ultimo mezzo secolo”. L’idea del ritiro, suggerisce la Maloney, sarebbe maturata gradualmente, mano a mano che si cominciavano a fare i conti con i fallimenti in Iraq e Afghanistan, e si faceva avanti l’idea che le gigantesche risorse che erano state investite con scarsi risultati in quest’area erano ormai diventate indispensabili per fronteggiare adeguatamente la doppia sfida rappresentata da Russia e Cina. Ma per non lasciare l’intera area in balia delle mire espansionistiche dei due competitor geopolitici, bisognava prima ridisegnare i rapporti tra potenze regionali (ovviamente ammesso e non concesso che queste mire espansionistiche esistano davvero, ma d’altronde pretendere da un membro dell’establishment USA di ragionare in termini diversi dal puro dominio sarebbe velleitario, quindi andiamo avanti). Questo nuovo equilibrio tra potenze regionali che gli USA dovevano avviare prima di lasciare l’area in balia del suo destino, erano appunto gli accordi di Abramo che, per quelli che si ostinano ancora a credere davvero che gli interessi strategici degli USA cambino a seconda di chi c’è al governo, ricordiamo essere stati un’invenzione dell’amministrazione del populista Trump, che il democratico Biden ha fatto immediatamente sua; un’invenzione che però è rimasta sempre solo sulla carta. L’obiettivo finale infatti era allineare due dei tre attori principali della regione cioè sauditi e israeliani, mettendo all’angolo il terzo, l’Iran, cavallo di troia di russi e cinesi. Un piano che ha subito una brusca deviazione quando, con la mediazione cinese, in maniera del tutto inaspettata Iraniani e sauditi hanno deciso di tornare a parlarsi e saltato il piano, l’opportunità per gli USA di uscire dall’area per concentrarsi sulle loro sfide esistenziali, è sfumata. Secondo la Maloney, agli USA non rimane che “impiegare, nei confronti dell’Iran, lo stesso tenace realismo che ha informato la recente politica statunitense nei confronti di Russia e Cina: costruire coalizioni di coloro che sono disposti ad aumentare la pressione e paralizzare la rete terroristica transnazionale dell’Iran; ripristinare l’applicazione delle sanzioni economiche”, e usare tutti gli strumenti a disposizione, dalla “diplomazia”, alla “forza”, per scoraggiare l’aggressività regionale di Teheran. Insomma, da brava neocon integralista, l’importante è impedire che le forze regionali trovino una forma di convivenza, perché da qualsiasi forma di convivenza pacifica ne uscirebbero avvantaggiate Russia e Cina. Gli USA devono rinunciare alla exit strategy dal Medio Oriente non per stabilizzarlo, ma proprio per impedirne strutturalmente ogni volontà di stabilizzazione. Ed ecco così che “mentre la campagna di terra israeliana a Gaza inizia”, scrive la Maloney, “è altamente improbabile che il conflitto rimanga lì. L’unica domanda è la portata e la velocità dell’espansione della guerra”: l’importante per un neocon è che si parli sempre e solo di guerra, e che la parola pace non compaia mai. Ma come insegna l’Ucraina, e prima di lei l’Afghanistan – giusto per fare un esempio a caso – parlare volentieri di guerra non sempre significa avere anche idea di cosa occorre fare per vincerla, a partire proprio dalla campagna di terra a Gaza, che è più facile da dire che da fare. Come ricorda infatti l’Economist, ovviamente Hamas sapeva benissimo sarebbe arrivata, e potrebbe essere meno impreparata di quanto non sembri; già nel 2014, ricorda ancora l’Economist, “nello scontro con Israele le brigate di Hamas continuarono a combattere per 50 giorni” e oggi, “dopo numerose guerre, sono più agguerrite, innovative e meglio equipaggiate che mai”.

Le tattiche che abbiamo visto utilizzare da Hamas nell’attacco contro Israele”, titola Al Jazeera, “sono state tra le più sofisticate, finora. Il gruppo ha utilizzato aria, mare e terra in quelle che in termini militari sono note come operazioni multi-dominio”: prima ha utilizzato i droni per attaccare i posti di osservazione israeliani, poi ha lanciato una quantità infinita di missili che nessuno sospettava avessero, fino a saturare e rendere inefficace il tanto decantato iron dome,poi è passata all’infiltrazione fisica, attaccando il gigante israeliano da una miriade di direzioni diverse, compreso un fitto reticolo di tunnel di cui di nuovo nessuno sospettava l’esistenza.

Certo, lo so che sono solo subumani e che Israele, come baluardo delle democrazie avanzate in Medio Oriente, è sostanzialmente infallibile, ma magari un pizzico di umiltà in più non basta.

Per capirlo, è sufficiente guardare proprio la facilità con la quale è stata bucata l’intelligence: “La causa principale del fallimento dell’intelligence israeliana nei confronti di Hamas”, scrive il sempre ottimo Scott Ritter che – ricordiamo – per campare lavorava proprio nell’intelligence dei Marines, “è stata l’eccessiva fiducia che Israele riponeva nella raccolta e nell’analisi dell’intelligence stessa”.

Fare gli sboroni è bello, ma a volte fa male.

L’unità 8200” – che è l’unità delle forze armate israeliane incaricata dello spionaggio e delle intercettazioni di ogni segnale possibile immaginabile – “ha speso miliardi di dollari per creare capacità di raccolta di informazioni che assorbono ogni dato digitale proveniente da Gaza: chiamate al cellulare, e-mail e SMS. Gaza è il luogo più fotografato del pianeta e, tra immagini satellitari, droni e telecamere a circuito chiuso, si stima che ogni metro quadrato di Gaza venga ripreso ogni 10 minuti”. Per analizzare tutto questo materiale, l’unità 8200 ha sviluppato i suoi algoritmi di intelligenza artificiale, la cui efficacia e capacità predittiva sono state tra le chiavi dei grandi successi ottenuti appena due anni fa, nel 2021, con la campagna Guardiani del Muro, durante la quale sono state fatte 1500 vittime e sono stati decapitati i vertici di Hamas, il tutto senza perdere quasi nemmeno un uomo. Poi però, evidentemente, qualcosa si è rotto: “L’errore fatale di Israele”, scrive Ritter, “è stato quello di vantarsi apertamente del ruolo svolto dall’intelligenza artificiale nell’operazione Guardiani del Muro. Perché evidentemente, da allora, Hamas è riuscita a prendere il controllo del flusso di informazioni raccolte da Israele”. Secondo Ritter, sostanzialmente, li hanno fregati: invece che smettere di usare i canali di comunicazione controllati dagli Israeliani e analizzati dai loro sofisticati algoritmi di intelligenza artificiale, li hanno continuati ad usare eccome, ma solo per mandare falsi segnali. Agli occhi del sistema tutto procedeva come al solito, mentre lontano dagli occhi del grande fratello israeliano, Hamas si preparava in tutta tranquillità a infliggergli una delle sconfitte più tragiche della storia del paese.

Fortunatamente c’è già un bel piano B: ad architettarlo, un nutrito gruppo di menti brillanti che mercoledì scorso si sono riunite in manifestazione a New York. Nel caso servissero, gli USA avrebbero già dato mandato di inviare nelle vicine basi sparse nella regione un’altra ventina abbondante di caccia F-16 e F-35; alcuni carichi di munizioni – sembra -sarebbero già arrivati. L’aarsenale della democrazia diventa così ufficialmente l’arsenale del genocidio. Ma come si fa a giustificare l’idea di radere più o meno completamente al suolo un fazzoletto di terra dove vivono ammucchiate come topi quasi 3 milioni di persone, per quasi la metà bambini?

Semplice. Così:

Libero: HAMAS DECAPITA I BIMBI
Il giornale: DECAPITANO I BAMBINI
La verità: SCOPERTI 40 PICCOLI CORPI MARTORIATI, MOLTI DECAPITATI
La stampa: LA STRAGE DEGLI INNOCENTI, ANCHE DEI NEONATI DECAPITATI TRA I CADAVERI

E così via; lo stesso identico titolo su tutti – e dico letteralmente tutti – i giornali italiani.

D’altronde, pretendere che gli sciacalli non facciano sciacallaggio sarebbe velleitario. Peccato però che a questo giro ci sia un problemino in più: questa notizia che occupa le prime pagine di tutti i giornali si basa infatti su un’unica fonte, una giornalista israeliana che lavora per un canale all news nato “per pubblicizzare nel mondo il punto di vista israeliano”, scriveva Haaretz al momento del lancio. Ma non solo, perché – come ha ammesso la giornalista stessa – questi bambini decapitati lei in realtà manco li ha visti. Gliel’hanno detto. A lei però. Agli altri giornalisti no. Samuel Forey è un giornalista indipendente che vive a Gerusalemme dal 2011 e che collabora con Le Monde e Mediapart; martedì anche lui era a Kfar Azza, nel kibbutz degli orrori ma, come dichiara su X, “Nessuno mi ha parlato di decapitazioni, tanto meno di bambini decapitati, ancora meno di 40 bambini decapitati”. Qualche sospettino è venuto anche all’agenzia di stampa di stato turca Anadolu, secondo la quale un portavoce delle forze armate israeliane avrebbe dichiarato che “l’esercito israeliano non ha nessuna informazione che confermi la vicenda dei bambini decapitati da Hamas”.

Tirare in ballo i bambini un po’ a casaccio, d’altronde, è un vecchio classico: tra i precedenti più celebri c’è quello che risale all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam, che poco dopo portò alla prima guerra del Golfo.

E’ il 10 ottobre del 1990 e a testimoniare di fronte al Comitato sui Diritti Umani del congresso USA appare una ragazzina di 15 anni; la identificheranno esclusivamente con il nome di battesimo, Nayrah. Dichiarò che in seguito all’invasione aveva assistito direttamente a membri delle forze armate irachene che entravano in un ospedale, toglievano i neonati dalle incubatrici e li lasciavano morire. La notizia ovviamente conquistò immediatamente le prime pagine di tutti i giornali e divenne subito uno dei cavalli di battaglia della narrazione che Bush padre spacciava a destra e manca per giustificare l’intervento. Due anni dopo, di Naryah si scoprì il cognome: al-Sabah, figlia di Saud al-Sabah, l’ambasciatore del Kuwait negli USA, e si scoprì che l’intera sua testimonianza faceva parte della campagna denominata Citizens for a Free Kuwait architettata dal governo del Kuwait e affidata al gigante delle pubbliche relazioni Hill & Knowlton per spingere appunto gli USA verso l’intervento. Ma al ridicolo non c’è mai limite: la performance migliore ieri ce l’ha infatti offerta l’inossidabile Lucio Malan, che ha pubblicato un video che ritrae dei bambini chiusi in una gabbia.

Malan ha fatto 1+1, ma il risultato gli è venuto 3.

Orrendo video pubblicato da Hamas,” ha scritto nel commento. “Bambini israeliani rapiti e tenuti in gabbie per animali. E ci sono varie altre gabbie pronte”. Ovviamente è immediatamente venuto fuori che era un video che girava da anni e che non c’è nessun rapimento; era un gioco, anche se – va ammesso – non particolarmente divertente direi.

https://twitter.com/LucioMalan/status/1711087104237650021

D’altronde funziona così: più è feroce, spietata e clamorosamente squilibrata la guerra che ci si approccia a combattere e più la propaganda deve alzare l’asticella, puntando alla deumanizzazione totale dell’avversario; una vecchia tecnica delle potenze colonialiste, poi perfezionata dal regime hitleriano, che ormai fa apertamente scuola. “Era giusto colpire di fatto tutti i tedeschi, per colpa dei crimini commessi dalla cricca nazista?” scrive in un post allucinogeno l’infaticabile Jacopo Iacoboni. “Certamente no” risponde, “ma nelle fasi finali della guerra questa distinzione finì per sfumare, perché bisognava distruggere i nazisti e impedire che continuassero a fare del male all’umanità”.

La soluzione finale ormai non è più tabù, ma una strategia come un’altra.

Fortunatamente in questa escalation di barbarie, ogni tanto emerge qualche bella storia. Basta volerla raccontare: Middle East Eye, la testata fondata dall’ex inviato del Guardian David Hearst, è una delle poche che non c’ha completamente rinunciato e sul suo profilo tiktok, ha rilanciato questa intervista:

@middleeasteye

Israeli woman speaks of experience with Hamas fighters. An Israeli woman gave an interview to a local Israeli channel recounting her experience with Hamas fighters when they entered her home following the Hamas-led attack of 7 October. #Hamas #Israeli #israel #learnontiktok #foryou #fyp

♬ original sound – Middle East Eye

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E chi non aderisce è Jacopo Iacoboni.

Palestina come Haiti: le rivolte degli schiavi che non piacciono alla sinistra imperiale

Omar è un ormai non più giovanissimo giornalista e vive nella più grande prigione a cielo aperto del globo, il lager più amato dai democratici di tutto il pianeta: la Striscia di Gaza.

Sono le 6 di sabato mattina, quando una serie di boati lo svegliano di colpo: è un rumore che conosce fin troppo bene. Era il giugno 2006; gli israeliani si erano ritirati da Gaza da meno di un anno. Troppo rischiosa. Vuoi mettere un caro vecchio assedio? Massimo risultato col minimo sforzo e sostanzialmente senza pericoli, a parte i famigerati razzi Qassam.

Da quando le forze armate israeliane si erano ritirate, le milizie di Hamas ne avevano sparati oltre 700, fortunatamente – e ovviamente – senza grosse conseguenze, ma abbastanza per scatenare l’ira dell’occupante.

Inizia così la campagna Pioggia d’estate. Gli israeliani, alle loro campagne, danno spesso nomignoli. Nell’arco di pochi giorni la reazione israeliana causerà oltre 400 morti e 1000 feriti; uno di loro era appunto il nostro Omar, che capisce subito che a questo giro c’è qualcosa di anomalo.

Si ricordava ancora di quando, nel febbraio del 2008, gli israeliani avevano ucciso 115 palestinesi nell’operazione Inverno caldo: a provocarli, 200 Qassam lanciati nell’arco di una notte.

Pochi mesi dopo, a dicembre, le milizie di Hamas avevano deciso di fare le cose in grande: 360 razzi nell’arco di qualche giorno. La risposta, a questo giro, venne ribattezzata Piombo fuso: oltre 1500 vittime palestinesi, contro 10 israeliane.

Questa volta però Omar non riusciva a tenere il conto. Quelli che sentiva partire non erano decine di razzi, nemmeno centinaia. Erano migliaia. Non era mai successo prima e nessuno sospettava stesse per accadere adesso.

Omar decide subito di prendere la macchina e andare a vedere di persona: si dirige verso il valico di Erez, il passaggio obbligato per quei pochi fortunati che hanno ottenuto il permesso di uscire dalla prigione Gaza per l’ora d’aria, e quando arriva si trova di fronte a una scena incredibile.

Era aperto”, racconta Omar al Middle East Eye, “e un gran numero di persone lo stavano attraversando con ogni mezzo a disposizione. Chi su una macchina scassata, chi in moto, chi a piedi”. Proprio mentre Omar sta attraversando il valico, ecco che arrivano i primi aerei israeliani;

aprono il fuoco, per disperdere la folla “ma alla gente non importava”, racconta Omar, “continuavamo ad attraversare il confine come se nulla fosse” e, una volta attraversato, Omar viene sopraffatto da una sensazione indescrivibile.

Ho provato gioia e ho iniziato a piangere”, ha raccontato Omar. “Anche la gente attorno a me ha cominciato a piangere e a prostrarsi perché era entrata nella terra da cui era stata sfollata nel1948. Eravamo in uno stato di stupore mentre giravamo, liberi, nelle nostre terre, fuori dalla prigione che è Gaza. Sentivamo di avere il controllo delle nostre terre”.

Di fronte a Omar scene sconcertanti, di una violenza che ti lacera il cuore, o almeno lo lacererebbe a chi ormai di violenze di ogni genere ne ha viste troppe, e da lacerare non c’è rimasto più niente:

giovani soldati israeliani, “quelli che eravamo abituati a vedere di vedetta sul confine, e che avevamo visto innumerevoli volte aprire il fuoco contro i nostri bambini e i nostri giovani amici”, ora venivano sopraffatti con violenza dai combattenti palestinesi, e si presentavano “nella loro forma più debole”.

Morte e distruzione erano ovunque, eppure Omar, “per la prima volta nella sua vita, si sentiva profondamente felice”, commenta l’articolo; “aver messo piede su quelle terre ed essere uscito anche se solo per un attimo dall’enclave assediata dove era stato recluso per gran parte della sua vita è stata una forma di liberazione” anche se, in quelle poche ore, “alcuni dei miei amici e uno dei miei cugini”, ha raccontato Omar, “sono scomparsi, e un altro è stato ucciso”.

Quando ti strappano via con la violenza ogni forma di normalità, la tua nuova normalità – per qualsiasi persona che non abbia condiviso le tue sofferenze – è necessariamente incomprensibile.

Ho vissuto tutta la mia vita sotto assedio”, ha raccontato Omar, “e questa era la prima volta in assoluto che mi sentivo libero”.

Poche ore dopo Omar è tornato nella sua minuscola casa dentro la prigione di Gaza, e il giorno dopo è andato a scattare qualche foto ad una famiglia che si era vista distruggere completamente la casa dagli attacchi aerei israeliani: “Il padre di famiglia”, racconta Omar, “mi ha detto: anche se ci uccidono, a questo giro moriremo a testa alta. lasciate pure che ci uccidano quanto vogliono”.

Tutte le altre volte erano loro a venire da noi: ci uccidevano, uccidevano i nostri figli, giustiziavano intere famiglie”, ha raccontato Omar. E a loro non era concesso che assistere inermi, rinchiusi nella loro gabbia. “Questa è la prima volta che resistiamo e riusciamo a entrare, anche se solo per un momento, nelle terre dalle quali siamo stati cacciati

E’ il racconto più realistico, complesso e straziante che ho sentito fino ad oggi di questa incredibile nuova fase dell’eterna guerra di resistenza che l’occidente democratico globale ha imposto a questi ultimi della terra. Riusciremo, dall’alto della nostra supponenza perbenista di privilegiati e anche un po’ conniventi, a farci veramente i conti?

Che la controrivoluzione neoliberista non si fosse limitata a renderci tutti più poveri e meno liberi, ma che ci avesse anche imposto una gigantesca involuzione culturale e anche antropologica, noi lo abbiamo sempre sostenuto, ma lo spettacolo messo in scena in questi giorni dai benpensanti di ogni colore politico supera di slancio anche la più catastrofista delle previsioni.

Il primo dato è la vittoria egemonica dell’idea postsfascista delle responsabilità di ogni forma di resistenza; per 70 e passa anni, l’idea comune di ogni democratico antifascista, anche il più moderato, è stata che la responsabilità delle rappresaglie degli occupanti non possa mai essere attribuita ai resistenti.

I resistenti conducono una guerriglia con tutti i mezzi a loro disposizione, compresi i più cruenti, e le razzie che inevitabilmente provocano sono conseguenze inevitabili che non ne mettono in discussione la legittimità morale.

A pensarla diversamente, fino a poco tempo fa, era solo la marmaglia fascistoide che oggi, evidentemente, è diventata egemone: l’idea è che lo schiavo se ne deve fare una ragione e non deve fare niente che possa scatenare l’ira funesta del padrone. Tanto in schiavitù ci vive lui, mica noi.

Nell’occidente del pensiero unico e dell’encefalogramma piatto, l’idea che qualcuno – come la famiglia di Gaza descritta da Omar – sia disposto a mettere a repentaglio la sua vita e quella dei suoi cari per tentare una volta nella vita di alzare la testa e rivendicare la sua dignità è tabù.

Viviamo in una realtà così radicalmente separata da non avere proprio gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi, senza troppi calcoli, costi quel che costi, è l’unica opzione veramente razionale per chi vive in determinate condizioni.

International Journalism Festival from Perugia, Italia / Ph. Alessandro Migliardi

Un vero e proprio capolavoro da questo punto di vista è l’articolo di Francesca Mannocchi su La Stampa di ieri: “Hamas condanna Gaza a restare una prigione”, scrive il volto più amato dal popolo dei teleaperitivi romani di Propaganda Live.

Li mortacci loro: proprio ora che insieme a Zoro e Makkox stavano preparando una petizione che gli avrebbe portati, dopo 16 anni di prigionia, a una sicura liberazione.

Ricordate sempre: con la giusta dose di galateo, basta chiedere.

Ma la retorica astratta e benpensante della Mannocchi è roba da principianti di fronte ai livelli apicali raggiunti dalla Maestra: Lucia Annunziata, che come ci si aspetta che gli schiavi si debbano comportare lo spiega a tutto il mondo grazie all’azione illuminante dell’Aspen Institute, finanziato con i soldi dei Rockefeller e della famiglia Gates.

Annunziata, sempre dalle pagine de La Stampa, ci spiega come “Hamas ci sta regalando una delle peggiori pagine di sempre del conflitto Israele-Palestina”.

Che sia il popolo palestinese”, spiega la Annunziata, “a vendicarsi con gli strumenti del terrore, della violenza, della violazione delle donne, dei bambini, dei vecchi, rompendo lo spazio di ogni diritto umano, lo stesso che ha sempre invocato per la propria difesa, è un atto indegno, repellente, che sporca la dignità delle stesse sofferenze dei Palestinesi”.

Contessa, sapesse…

Studiano una vita, conquistano incarichi di prestigio e poi non sanno far altro che ripetere le stesse identiche formule che gli schiavisti illuminati impiegavano già nel 1700.

Quando gli schiavi di Haiti si ribellarono ai loro padroni ormai tre secoli fa, dando vita alla prima repubblica guidata da ex schiavi del pianeta, per giorni e giorni si dilettarono a razziare ogni abitazione incontrassero sulla loro strada, prendere donne e bambini, seviziarli, mozzargli la testa, e poi attaccarla a dei pali esposti in bella mostra. Gli schiavi purtroppo spesso son fatti così: i padroni illuminati si dimenticano, tra una frustata e l’altra, di impartirgli adeguate lezioni di galateo, e così diventano difficilmente presentabili in società.

Una cosa a dir poco disdicevole, e che ora sembra porci di fronte a un dilemma insolvibile: che requisiti devono avere gli schiavi per essere degni di pretendere di liberarsi dalla loro schiavitù?

Perché non introdurre dei test standardizzati formulati dalle cancellerie dell’occidente democratico che certifichino chi ha diritto a liberarsi e chi invece, per il bene suo e di chi gli sta accanto, deve invece rimanere in cattività? Lanciamo una petizione su change.org?

Ora, intendiamoci, chiunque abbia anche solo un minimo di umanità, di fronte ad alcune delle scene a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni non può che rimanere ovviamente sconcertato, come d’altronde chiunque non fosse rimasto sconcertato di fronte alle teste mozzate dei bambini bianchi nella Haiti del ‘700 celava in se un piccolo cucciolo di serial killer.

Ma è proprio la prospettiva ad essere completamente distorta: è il mondo visto da chi la schiavitù non l’ha mai assaporata sulla sua pelle. Il punto ovviamente non è fare la graduatoria degli atti più efferati; il punto è che nel mondo esistono cause ed effetti, azioni e reazioni.

Se uno schiavo ti taglia la testa, il punto non è la moralità dello schiavo, ma la schiavitù; chi dà pagelle agli schiavi è tra le fila degli schiavisti, a meno che sia uno schiavo a sua volta.

Loro le pagelle non solo hanno il diritto di darle: hanno il dovere. Il punto però è che gli schiavi palestinesi quelle pagelle – mi duole dirglielo, signorina Annunziata – le hanno già date

e per quanto le possa sembrare aberrante, quelli che dal suo punto ci stanno regalando “una delle peggiori pagine di sempre del conflitto israelo-palestinese”, in realtà sono stati promossi a pieni voti: chieda al nostro amico Omar, se non mi crede.

A mio modestissimo avviso, che le azioni di Hamas non possano essere tacciate superficialmente di avventurismo, ma che affondino le loro radici in un consenso popolare solido e ampio, si deduce anche da un’altra cosa: da giorni la domanda che ci tormenta un po’ tutti, da noi complottisti sfegatati fino alle più autorevoli firme del baraccone mainstream, è come minchia sia possibile che l’onniscente intelligence israeliana si sia fatta cogliere così impreparata.

In molti sospettano una qualche forma di connivenza, un po’ in stile strategia della tensione, diciamo; sinceramente, non mi sento di escluderlo. Sennò che complottista sarei?

In mancanza di elementi concreti, però, proporrei un’altra chiave di lettura: li hanno fregati sul serio.

Ovviamente hanno pesato una serie infinita di concause: la spaccatura politica interna a Israele, l’essersi focalizzati sulla difesa dei coloni in Cisgiordania, e chi più ne ha più ne metta. Ma c’è un altro aspetto che, a mio avviso, non è stato adeguatamente sottolineato: per mettere in piedi un’operazione del genere, senza farsi fregare, c’è bisogno del sostegno di tutti. Non che tutti siano direttamente coinvolti, ovviamente, ma il sostegno deve essere, se non unanime, perlomeno molto diffuso, trasversale, e anche parecchio solido. Non ci possono essere crepe che permettano al nemico di insinuarsi e ci devono essere amici fidati ovunque: così a occhio, è l’idea che si sono fatti anche gli israeliani che stanno agendo di conseguenza, perché se il problema non è un’avanguardia di avventurieri, ma il sostegno unanime che godono in una popolazione esasperata che non ha più niente da perdere, allora il nemico non è più semplicemente un’organizzazione militare, è il popolo tutto. Senza distinzione.

Ecco così che, da questo punto di vista, la reazione terroristica israeliana – che mira proprio a colpire indiscriminatamente tutta la popolazione senza troppi distinguo – è cinicamente razionale,

e il moralismo stucchevole dei benpensanti non fa altro che offrirgli una solida giustificazione.

E’ un altro esempio del classico cortocircuito che unisce sinistra imperiale e criptofascisti: la sinistra imperiale sparge giudizi moralistici a destra e manca convinta che la vera aspirazione di tutti i popoli sia essere guidati dalla Emma Bonino di turno, e i criptofascisti poi ci mettono il carico da 40 del realismo politico. Sostengono, non senza ragioni, che in realtà alla fine il popolo è complice delle classi dirigenti che si ritrova, e quindi se di animali si tratta – come li definiscono gli stessi pidioti per primi – l’unica soluzione è sterminare tutti e così si fa pari e patta.

Che le posizioni ufficiali del nord globale portino dritte in quella direzione mi sembra piuttosto evidente: gli USA hanno già promesso una ventina abbondante di nuovi caccia tra F-16 e F-35

e al confine col Libano la situazione si fa di ora in ora più incandescente.

Ovviamente, in tutto questo, che al governo in Israele attualmente ci siano i fascisti veri, dichiarati, e non quelli immaginari di Hamas, passa ovviamente in secondo piano; d’altronde, dopo che hai spacciato per partigiani i neonazisti di Azov e pure quelli vecchio stile della 14esima divisione delle SS, vale tutto, diciamo.

Fortunatamente però, nel frattempo, il mondo ha smesso di sperare nelle sorti umane e progressive della sinistra imperiale del nord globale e si è cominciato ad attrezzare diversamente: ed ecco così che, anche in questo caso, l’unica speranza che l’armageddon possa essere almeno rimandato arriva di nuovo da quello che pidioti e criptofascisti, come un sol uomo, definiscono “l’asse del male”, e cioè tutti i paesi che non sostengono acriticamente l’agenda imperiale di Washington e di Tel aviv, a prescindere dalle forme concrete di governo che si sono dati. Una strana accozzaglia, fatta spesso di regimi impresentabili che, ciò nonostante, anche in questo caso dimostrano di essere più allineati con gli interessi generali della specie umana di quanto non lo siano le democrazie liberali del mondo sviluppato e i loro eccentrici cantastorie.

Per restare umani, come minimo, dobbiamo costruire un media che impedisca che rimangano l’unica voce in circolazione.

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E chi non aderisce è Lucia Annunziata.

La Solitudine di Zelensky: perché l’occidente globale sta voltando le spalle al suo ultimo crociato

Magari mi sono distratto io, ma ultimamente mi sembra che i titoli “copia incolla” sull’occidente unito come un sol uomo che si appresta a concludere trionfante la sua crociata contro la giungla selvaggia che ci assedia vadano un po’ meno di moda; eppure, per mesi e mesi sulle prime pagine di tutti i principali giornali italiani non c’è stato letteralmente altro.

Viene quasi il sospetto che qualcosa sia andato storto e che ora non sia esattamente chiarissimo come salvare la faccia se non, appunto, attraverso l’oblio.

La controffensiva ormai è relegata alle pagine di cultura e società: invece che militare, sembra la controffensiva dei selfie, o dei killfie, come si dice in gergo. Il termine indica il fenomeno delle persone disposte a tutto pur di catturare lo scatto perfetto e che alla fine ci lasciano le penne, e nella guerra ucraina ha raggiunto una dimensione tutta nuova: 13 morti, in una botta sola.

Tanti sarebbero gli uomini dei servizi segreti militari di Kyev, caduti mercoledì scorso nel tentativo di sbarcare in Crimea per realizzare un video che ritrae incursori che sventolano la bandiera ucraina e dicono felici che “la Crimea sarà ucraina o disabitata”, scrive il Messaggero.

In tutto, ricostruisce il Messaggero, “una trentina di marinai ucraini che alle 2 di notte hanno puntato verso la Crimea su un’imbarcazione veloce e 3 moto d’acqua”, che sono state “prima intercettate da un pattugliatore della marina russa, poi attaccate dagli aerei e costrette al ritiro. Il video però”, sottolinea non ho capito quanto sarcasticamente il Messaggero, “è stato girato e postato”.

E io che mi lamento che per fare un video mi devo leggere qualche articolo di giornale. Che ingrato.

D’altronde, a breve, gli smartphone con le camere di ultima generazione potrebbero essere l’unica arma che l’occidente è ancora disposto a fornire per questa guerra per procura, che rischia di rimanere senza procuratori; nonostante le tonnellate di inchiostro sprecato per tentare di convincerci che l’iperinflazione, i tassi di interesse alle stelle e la recessione incombente non fossero altro che leggende metropolitane spacciate dai gufi e dagli utili idioti della propaganda putiniana, sembra quasi che per la realtà sia arrivato il momento di presentare il conto. Non poteva andare altrimenti.

Nonostante negli ultimi 50 anni le élite politiche del nord globale non abbiano fatto altro che restringere ogni spazio di democrazia, fortunatamente qualcosina in eredità ci è rimasto

e, mano a mano che per le élite che negli ultimi 18 mesi hanno sacrificato gli interessi della stragrande maggioranza dei loro cittadini si avvicina lo spettro delle urne, il mondo fatato immaginario dipinto dalla propaganda del partito unico della guerra e degli affari comincia a scricchiolare.

Il primo clamoroso esempio è stata la Polonia, che sul sostegno all’Ucraina senza se e senza ma ha tentato, con il supporto incondizionato di Washington, di riconfigurare completamente il suo status all’interno dell’Unione Europea; sotto stretta osservazione per le sue palesi violazioni dei requisiti minimi di uno stato di diritto, nell’arco di poche ore si era magicamente trasformata nella paladina più intransigente del mondo democratico contro i totalitarismi.

Evidentemente, però, l’operazione di maquillage ideologico ha convinto più i rubastipendi che stanno in villeggiatura a Bruxelles che non i contadini polacchi, che inspiegabilmente sono così maleducati da preoccuparsi più di non finire in miseria che non di immolarsi in nome della retorica democratica.

La storia la conoscete: da quando è naufragato l’accordo sul grano tra Russia e Ucraina mediato dalla Turchia, l’Ucraina ha cominciato a esportare il suo grano via terra, approfittando della sospensione di quote e tariffe da parte della UE nei confronti dei prodotti alimentari ucraini a partire dal febbraio del 2022. Da allora il grano ucraino ha letteralmente invaso paesi come la Bulgaria, la Romania e appunto la Polonia, rischiando di gettare sul lastrico gli agricoltori locali: ammassato a milioni di tonnellate nei silos, pur di sbarazzarsene il grano ucraino aveva raggiunto prezzi troppo bassi per permettere a qualunque produttore di reggere la concorrenza. Di fronte alle proteste delle popolazioni locali, nel maggio scorso, l’Unione Europea aveva introdotto un divieto temporaneo alla vendita del grano ucraino in questi stessi paesi, divieto che però a settembre è scaduto.

Una tempistica perfetta: il 15 ottobre infatti la Polonia torna al voto, e il voto degli agricoltori è determinante, in particolare per il partito di governo di estrema destra Diritto e Giustizia, che ha proprio tra la popolazione rurale il suo bacino di voti principale e che, come 18 mesi prima, da essere considerato la peggio feccia reazionaria era diventato, nell’arco di mezza giornata, il punto di riferimento dei sinceri democratici, ora si apprestava altrettanto rapidamente a fare il percorso inverso.

Il compagno Morawieczki infatti ha si è rifiutato di ritirare il divieto e Zelensky ha reagito presentando un ricorso ufficiale presso il WTO e accusando la Polonia di essere solidale solo a parole.

E Morawieczki non l’ha presa proprio benissimo, diciamo. “Non trasferiremo più armi all’Ucraina”, ha annunciato laconico a fine settembre in diretta televisiva. Ma non solo: “Se vogliamo che il conflitto si intensifichi in questo modo, aggiungeremo altri prodotti al divieto di importazione in Polonia. Le autorità ucraine non capiscono fino a che punto l’industria agricola polacca sia stata destabilizzata“.

Maledetti populisti! La stragrande maggioranza dei loro elettori avanza una rivendicazione, e per paura di perdere le elezioni questi gliela concedono pure, magari addirittura senza aver prima ottenuto il via libera da Washington o da Bruxelles.

Se ce lo dicevano prima che funzionava così la democrazia, ci inventavamo un altro sistema.

E la Polonia non è certo un caso isolato. Tra gli stati canaglia dell’internazionale nera di Visegrad che più hanno cercato di sfruttare la guerra per procura in Ucraina per tornare a piacere alla gente che piace, senza manco bisogno di rinunciare a un briciolo della loro vocazione clericofascista, spicca infatti anche la piccola ma agguerritissima Slovacchia, che salta anche più agli occhi; fino al 2018 infatti al governo c’era stato un tale Robert Fico, che invece il muro contro muro con la Russia e il suicidio delle sanzioni economiche li vedeva di pessimo occhio già da tempi non sospetti.

Cresciuto tra le fila del Partito Comunista subito prima dello smembramento della Repubblica Ceca, Fico aveva fondato una formazione politica tutta sua, che si chiama SMER, ed è un esempio piuttosto eclettico di partito socialdemocratico che ha incredibilmente sempre nutrito più di qualche perplessità per quel che riguarda le controriforme di carattere neoliberista e l’adesione religiosa ai vincoli esterni.

Nel 2018 però al governo guidato da Fico ne subentra un altro, altrettanto populista, ma a questo giro in senso prettamente reazionario, che fa sue battaglie di civiltà come ad esempio trasformare l’aborto in un reato penale, e come tutti i veri fintosovranisti ma veri reazionari, quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO in Ucraina ecco che la Slovacchia si trova a gareggiare per il primo gradino del podio dei governi più svendipatria del continente.

Come ricorda People Dispatch, “in termini di percentuale del suo prodotto interno lordo, la Slovacchia è attualmente uno dei maggiori donatori europei all’Ucraina. Ha fornito all’Ucraina obici, veicoli corazzati e la sua intera flotta di aerei da combattimento MiG-29 dell’era sovietica”.

Purtroppo però, continua l’articolo, la Slovacchia “è anche uno dei paesi più poveri d’Europa, e il grosso dell’elettorato è convinto che il denaro dovrebbe servire per migliorare i servizi interni, non per la guerra”.

Totalmente dipendente dal gas russo a prezzi di sconto, la Slovacchia negli ultimi 18 mesi ha registrato uno dei tassi d’inflazione più alti dell’intero continente, superando durante la scorsa primavera addirittura quota 15%; la crisi economica ha scatenato una crisi politica e la maggioranza filo NATO si è sfaldata, ma invece di sciogliere il parlamento e tornare alle urne la presidenta fintoprogressista Zuzana Caputova ha deciso di consegnare il paese nelle mani dell’ennesimo caso di governo tecnico farsa guidato dal vice governatore della banca nazionale.

Come tutti i governi tecnici che si rispettano, i mesi successivi sono stati mesi di sospensione della democrazia e di politiche antipopolari in nome dei vincoli esterni nei confronti dell’Unione Europea e della NATO, fino a quando anche qui è arrivata la scadenza naturale della legislazione ed è tornata quella gran rottura di coglioni che sono le elezioni politiche che – ormai – ai paladini della democrazia piacciono sempre meno.

Ovviamente a quel punto, come sempre accade al termine di un governo tecnocratico antidemocratico, il grosso dell’elettorato non poteva che prediligere la forza politica che meno si era compromessa, ed ecco così che il nostro Robert Fico ha avuto gioco facile.

Durante la campagna elettorale gli è bastato ricordare che le conseguenze delle sanzioni alla Russia lui le denuncia da sempre e promettere espressamente che in caso di vittoria “non invieremo un solo colpo all’Ucraina”, ed ecco fatto: una cosa lineare, prevedibile, semplice.

Per tutti, tranne che per la sinistra suprematista imperiale delle ZTL e la sua bibbia, internazionale, che affida l’ennesima analisi psichedelica all’immancabile Pierre Haski.

Un vero punto di riferimento: quando avete un dubbio, andate a vedere cosa ne pensa Haski. e fate, o pensate, l’esatto opposto.

Secondo Haski in questo caso, la vittoria di Fico sarebbe attribuibile “al ruolo della disinformazione di massa, dalle fake news ai video truccati, che ha imperversato durante la campagna elettorale slovacca”.

Ma la potenza di fuoco dell’inarrestabile macchina propagandistica di Putin – il primo presidente nella storia a riuscire a pilotare l’opinione pubblica globale nonostante sia già morto da mesi per uno dei suoi 17 incurabili tumori e nonostante la bancarotta della Russia annunciata dalla Tocci da due anni ma tenuta ancora nascosta – va ben oltre la Slovacchia: anche il nostro paese, nonostante la RAI, Mediaset, La7, il gruppo GEDI, e gli analfoliberali sul web, è a rischio.

Facciamo un passetto indietro: lunedì scorso Tajani è andato a Kyev e durante la visita avrebbe ufficialmente annunciato nuovi invii di armi.“E’ soltanto una dichiarazione d’intenti” l’ha redarguito Crosetto.

Di questo fantomatico ottavo pacchetto di aiuti, sottolinea infatti Crosetto, “C’è tantissima gente che ne parla non avendone competenza”, anche perché, ricorda sommessamente, “è secretato. C’è una continua richiesta da parte ucraina di aiuti, però bisogna verificare ciò che noi siamo in grado di dare rispetto a ciò che a loro servirebbe”.

l’italia ha fatto molto”, ha continuato Crosetto, ma non abbiamo “risorse illimitate”, e abbiamo già fatto “quasi tutto ciò che potevamo fare; non esiste molto ulteriore spazio”.

Non è un cambio di linea eh, ci mancherebbe. “Continueremo a sostenere l’Ucraina”, ha infatti ribadito, “privilegiando la via del dialogo per riaffermare il diritto a raggiungere una pace giusta”, ma solo come se fosse antani, tarapiotapioca con scappellamento a destra.

O a centrodestra, se siete più moderati.

Ma gli arsenali vuoti non sono l’unica cosa a spingere l’Italia verso una parziale marcia indietro: come ha sottolineato Giorgiona stessa, a preoccupare comincia anche ad essere, anche qui, l’opinione pubblica. Un sostegno incondizionato, avrebbe dichiarato Giorgiona “genera una resistenza e rischia di generare stanchezza nell’opinione pubblica”, ma a colpire ancora di più è la reazione dello stesso Zelensky, che fino a qualche mese fa si incazzava decisamente per molto meno, e oggi invece si riscopre comprensivo.

So che l’Italia ha le proprie sfide”, avrebbe affermato, “e so anche che l’Italia subisce una forte campagna di disinformazione della federazione russa, che spende milioni per distruggere le relazioni tra le nazioni dell’Europa e del mondo”.

E a noi, manco un centesimo, popo’ di ingrati.

Di fronte a questa inarrestabile campagna propagandistica russa che, senza che ve ne accorgeste, si è impossessata di tutti i media e tutti i mezzi di produzione del consenso italiani, Zelensky non può che apprezzare comunque lo sforzo: “Vorrei ringraziarvi perché voi avete un primo ministro molto forte”, avrebbe affermato.

Ma com’è che tutti questi Paesi, che abbiamo sempre additato come umili servitori degli USA, anche contro i loro stessi interessi più immediati, ora cominciano di punto in bianco un po’ a scalpitare? Semplice: i primi a scalpitare ormai, infatti, sono proprio gli USA.
Come sapete, per rinviare per l’ennesima volta il rischio shutdown pochi giorni fa Biden e la maggioranza repubblicana alla camera, hanno siglato un patto che permette nei prossimi quarantacinque giorni di effettuare tutta una lunga serie di spese. Che è lunga si, ma non abbastanza da contenere ulteriori aiuti all’Ucraina. Biden voleva altri 6 miliardi. ne ha ottenuti zero.

Ed è solo l’inizio. Perchè comunque quell’intesa tra leader repubblicani alla camera e amministrazione democratica, a qualcuno proprio non è andata giù. Risultato: un piccolo gruppo di 8 repubblicani che secondo i media mainstream sarebbero l’estrema destra dell’estrema destra trumpiana, hanno chiesto il voto di sfiducia per lo spekaer della camera Kevin McCarthy, lo hanno ottenuto, e poi lo hanno pure vinto. È la prima volta che succede da quando esistono gli Stati Uniti d’America per come li conosciamo oggi. Senza lo speaker, l’attività legislativa della camera è bloccata e l’ucraina teme che per lei sarà bloccata anche quando di speaker ne eleggeranno uno nuovo. “Difficile eleggere uno speaker che sostenga gli aiuti all’ucraina”, così avrebbe dichiarato un parlamentare repubblicano interrogato da La Stampa. Non si tratta di uno dei parlamentari della fronda, ma di Pete Sessions, storico rappresentante neocon del texas, e filoucraino sfegatato. A spingere i repubblicani verso un deciso cambio di rotta, i sondaggi che continuano a dimostrare come la maggioranza assoluta dei cittadini USA non ne possa più. Come quello pubbicato l’altro giorno dalla cnn che affermava che il 55% degli americani ritiene che siano stati dati tutti gli aiuti necessari e che “è stato fatto abbastanza”. I soldi che ci sono, devono essere spesi in qualcosa che potrebbe permettere ai repubblicani di vincere le prossime elezioni: in particolare, rafforzare il controllo del confine con il Messico, e ridurre il debito.
“Prima bisogna garantire i finanziamenti per la sicurezza alle frontiere e poi occuparci di Ucraina”, avrebbe dichiarato Garrett Graves, della ristretta cerchia di McCarthy. Ed ecco così che spunta la candidatura di Jim Jordan, potentissimo capo della commissione giustizia, tra gli artefici della procedura di impeachment contro Biden e uno degli oppositori più vocali all’invio di aiuti a Kyev.

Una “SUPERPOTENZA DISFUNZIONALE”, come l’ha definita in un lungo articolo su “foreign affairs” Robert Gates, già direttore della CIA all’inizio degli anni ‘90, e poi caso più unico che raro di segretario della difesa bipartisan, prima con George W. Bush, e poi con Barack Obama. La domanda che si fa Robert Gates è più attuale che mai: Può un’America divisa scoraggiare Cina e Russia?

“Gli Stati Uniti”, sottolinea Gates, “si trovano ora ad affrontare minacce alla propria sicurezza più gravi di quanto non fossero mai state negli ultimi decenni, forse mai. Il problema, tuttavia è che nel momento stesso in cui gli eventi richiedono una risposta forte e coerente da parte degli Stati Uniti, il Paese non è in grado di fornirne una”. Secondo gates gli USA si trovano ancora oggi in una posizione di relativa forza rispetto a Cina e Russia. “Purtroppo, però”, riflette Gates, “le disfunzioni politiche e i fallimenti politici dell’America ne stanno minando il successo”. Per tornare ad avere il potere di dissuadere gli avversari da compiere ulteriori gesti inconsulti, suggerisce Gates, gli Stati Uniti devono assolutamente ritrovare quell’”accordo bipartisan decennale rispetto al ruolo degli Stati Uniti nel mondo”, ed essere in grado di spiegare insieme a tutti gli elettori che “la leadership globale degli USA, nonostante i suoi costi, è indispensabile per preservare la pace e la prosperità”. Per fare questo non bastano gli appelli alla nazione dallo studio ovale. “Piuttosto”, sottolinea Gates, “è necessario che tutti ripetano all’infinito questo messaggio affinché venga recepito”. Insomma, l’esercizio di quel poco di democrazia che è rimasto nel nord globale rischia di far sbandare dalla strada maestra, che non è quella che si scelgono i popoli in base ai loro interessi, ma quella che decidono a tavolino i Gates e gli oligarchi che lo sostengono. Per tornare sulla retta via, c’è bisogno di richiamare tutti all’ordine, e lanciare una campagna di lavaggio del cervello di massa che ci faccia riconoscere come nemici senza se e senza ma quelli che loro hanno individuato come nemici in base ai loro interessi. E siccome poi alla gente li puoi raccontare tutte le cazzate che vuoi, ma se gli levi il pane da sotto i denti, poi a un certo punto comunque si incazza, se non basterà il soft power della persuasione, vorrà dire che si passerà all’hard power delle mazzate. L’occidente globale è in via di disfacimento. prima che si rassegnino a mollare l’osso, ci sarà da vederne delle belle.

Contro il piano orwelliano dei gates, nel frattempo, quello che possiamo fare è continuare a insinuare i dubbi e a segnalare le contraddizioni. e per farlo, abbiamo bisogno di costruire il primo media che invece che dalla parte della loro propaganda, stia dalla parte degli interessi del 99%

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…e chi non aderisce è Robert Gates.

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