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IL GIORNALISMO OCCIDENTALE E’ UNA TRUFFA

Le confessioni di un sicario dei media mainstream

Malafede e assegni in bianco”.

Questi i due termini selezionati con cura da Patrick Lawrence per annunciare l’uscita del suo prossimo imperdibile lavoro sulla morte del giornalismo negli USA, e quindi in generale nel Nord Globale. Una storia vissuta in prima persona. Lawrence infatti dopo essersi fatto le ossa tra le scrivanie del leggendario National Guardian, “tra gli esempi più straordinari di giornalismo del ventesimo secolo”, ha continuato per decenni a girare il globo in lungo e in largo per il New Yorker e l’International Herald Tribune. Almeno fino a quando, scrive Lawrence, “il declino dei media americani divenne evidente anche tra i non addetti ai lavori. A quel punto, amici e conoscenti cominciarono a porsi tutti la stessa domanda: i giornalisti credono davvero a ciò che scrivono? oppure sanno che ciò che scrivono è fuorviante, se non addirittura totalmente falso, ma lo scrivono lo stesso per mantenere il loro posto di lavoro?”.

Foto di repertorio

Bella domanda e bella pure la risposta: agli amici curiosi”, scrive Lawrence, “dico sempre che i giornalisti non sono bugiardi. non in senso stretto, per lo meno. “un uomo non mente su ciò che ignora”, scrive Sartre ne l’Essere e il nulla, e non si può dire propriamente che menta “quando diffonde una menzogna della quale è lui stesso la prima vittima””.

Per capire il dramma del giornalismo ai tempi del dominio incontrastato delle oligarchie finanziarie, sostiene Lawrence, bisogna capovolgere Cartesio: ”penso, quindi sono”, scrive Lawrence, “diventa “sono, quindi penso.” Sono un giornalista del Washington Post e questi, quindi, sono i miei pensieri e la mia visione del mondo. Non ho mai incontrato un giornalista capace di riconoscere ciò che ha fatto a se stesso nel corso della sua vita professionale: la sua alienazione, l’artificio di cui è fatto lui e il suo lavoro. L’autoillusione è la totalità della sua coscienza”.

Nel mio piccolo (rif a Giuliano Marrucci, ndr), posso solo che confermare. Tutti i pennivendoli che ho conosciuto in vita mia, si autoconvincono che quello che fa comodo scrivere per compiacere l’editore, è la verità. D’altronde, non è un fenomeno che riguarda esclusivamente i giornalisti. Anche il grosso degli imprenditori, mentre si appropria di un pezzo di ricchezza collettiva, si autoconvince di creare ricchezza e opportunità per i suoi dipendenti. Ma qui è già più facile trovare qualche eccezione: di imprenditori che sono perfettamente consapevoli che stanno prendendo e non dando, ce ne sono assai e in parecchi se ne vantano anche. Di giornalisti che sono consapevoli di mentire, o comunque di inquinare i pozzi, decisamente meno e il paradosso è che al contrario dei giornalisti, a volte, gli imprenditori in realtà la ricchezza la creano davvero. Certo, non le oligarchie finanziarie, che sono esclusivamente parassitarie e non hanno nessuna funzione sociale positiva, ma il medio piccolo imprenditore che vive ancorato alle dinamiche dell’economia reale, a’ voglia. I giornalisti quindi, probabilmente, sono l’unica categoria che vive interamente nella menzogna proprio in quanto categoria, e non semplicemente in quanto singoli individui.

Ma come si fa a spingere un’intera categoria, tra l’altro composta di persone mediamente istruite, ad autoingannarsi in modo così sistematico? Beh, in realtà non è che ci voglia proprio la scienza…

I quattrini bastano e avanzano: quattrini, e proprietà dei mezzi di produzione del consenso.

Come scrive Lawrence, “esiste qualche autoinganno sotto il sole che il denaro non può chiedere e che non può ricevere?”. Qui, la mente di Lawrence va a quello che è probabilmente il capolavoro per eccellenza della critica al funzionamento dei media in una società capitalistica, The Brass Check, l’Assegno di Ottone, la monumentale opera del 1919 di Upton Sinclair. “Una denuncia spietata del potere che ha il capitale di corrompere la stampa”, scrive Lawrence.

Upton Sincalir

Per giornalismo, in America”, scrive Sinclair, “intendiamo l’attività e la pratica di presentare le notizie del giorno nell’interesse del potere economico”. Forse, in maniera ancora più drastica, del potere di quello Stato che del potere economico è il garante ultimo. Insomma, come diciamo noi complottisti, HA STATO LA CIA!

Lawrence ricorda come nel gennaio del 1953 il Washington Post pubblicò un editoriale dal titolo “choice or chance”, scelta o possibilità. Parlava del rapporto tra CIA e media. L’organizzazione allora aveva appena cinque anni e quel poco che si sapeva su come operava concretamente sollevava più di qualche dubbio. Sostanzialmente, ci si chiedeva se era legittimo che l’intelligence non si limitasse ad analizzare le informazioni, ma operasse per crearle. Ovviamente, sottolinea Lawrence: “non si può accusare la CIA di aver inventato le operazioni clandestine, i colpi di stato, gli omicidi extragiudiziari, le campagne di disinformazione, le truffe elettorali e la corruzione delle alte sfere”. Piuttosto, quello che stava diventando evidente in quegli anni, e che preoccupava anche il Post, è che “la CIA stava istituzionalizzando tali intrighi, e stava definendo la condotta che avrebbero tenuto gli USA durante la Guerra Fredda”

Il Post ovviamente non metteva in alcun modo in questione la necessità di contrapporsi al mondo sovietico senza se e senza ma, ma sollevava seri dubbi sul funzionamento dell’agenzia, le cui attività accusava esplicitamente di essere “incompatibili con la democrazia”. Ma come sottolinea Lawrence, “interessante quanto l’editoriale del Post, fu il silenzio assoluto che seguì. sull’argomento, non venne più pubblicato nient’altro”. Pochi mesi dopo, l’operato della CIA rovesciava i governi democratici e patriottici di Mossadegh in Iran prima e di Arbenz in Guatemala poi e mese dopo mese, ricorda Lawrence, diventava sempre più creativa, “dal sigaro esplosivo nel deumidificatore di Fidel Castro, al film pornografico con un attore sosia che impersonava Sukarno”.

Una storiellina succulenta che forse merita un breve accenno. Era il 1962, quando la CIA decise infatti di provare a screditare l’immagine di Sukarno facendolo passare per un uomo di facili costumi. Decisero così di realizzare un film porno, con un attore che doveva fare da sosia al Presidente anticolonialista indonesiano. Purtroppo, non ne trovarono uno adatto, ed ecco allora il colpo di genio: una raffinata maschera in lattice che riproduceva i lineamenti del leader. Speravano che il grosso della popolazione alla quale si rivolgevano, i contadini semianalfabeti dell’Indonesia, fossero così fessi da non capire la differenza: ovviamente fu un flop enorme. Tre anni dopo si rivolsero a strumenti più tradizionali. Con il sostegno dei servizi britannici avviarono una gigantesca campagna di disinformazione tesa ad attribuire le difficoltà economiche dell’Indonesia al rapporto che Sukarno stava stringendo con la Cina comunista di Mao. Seguì il tradizionalissimo massacro di circa 1 milione di militanti comunisti indonesiani. Ma ormai lo spirito combattivo che il post aveva dimostrato oltre dieci anni prima si era completamente dissolto e di quella strage i cittadini americani seppero poco o nulla.

Tutto merito del lavoro certosino di Frank Wisner.

Frank Wisner

Allen Dulles, il leggendario direttore della CIA entrato in servizio appena un mese dopo lo storico editoriale del Post, lo aveva voluto a capo delle “black operations”. “Questo”, ricorda Lawrence, “includeva il reclutamento di giornalisti come agenti, con la benedizione di editori e direttori di rete”.

Il mio potente Wurlitzer”, li definiva Wisner, riferendosi ai mitici pianoforti elettrici, che, come scrive Lawrence, “eseguivano magie musicali semplicemente premendo un tasto”. Tutti lo sapevano, ma nessuno usò dire niente per 20 anni.

E poi, scoppiò il caso watergate.

Watergate complex

William colby”, ricostruisce Lawrence, “era stato da poco nominato a capo della CIA, e decise di rispondere con quella che per l’agenzia era ormai diventata una tecnica standard: quando le notizie ti stanno per scoppiare contro, rivela il minimo, seppellisci il resto, e mantieni il controllo di ciò che ora chiamiamo “la narrativa””. Ed ecco così che Colby passa la sua polpetta avvelenata a un giornalista del Washington Star-News, si chiamava Oswald Johnston. Un giornalista piuttosto inutile, ma molto servizievole. Il 30 novembre del 1973 Johnston pubblica l’articolo della sua professionalmente insignificante vita. “La CIA”, si legge, “ha circa tre dozzine di giornalisti americani che lavorano all’estero per lei come informatori sotto copertura”. Ma non c’è da allarmarsi: “si ritiene che Colby abbia ordinato il licenziamento di questa manciata di giornalisti-agenti”.

Il resto della stampa”, scrive Lawrence, “lasciò che le rivelazioni di Johnstone affondassero senza ulteriori indagini”. Due anni dopo il congresso dette vita alla famosa Commissione Church. “Doveva essere il primo tentativo concertato di esercitare un controllo politico su un’agenzia che da tempo, come diciamo ora, era “diventata canaglia”, scrive Lawrence. Peccato fosse destinata al fallimento: nessuno della stampa è stato chiamato a testimoniare, nessun corrispondente, nessun redattore, nessuno dei vertici dei principali quotidiani o delle emittenti”. In piccola parte, ricorda Lawrence, laddove non arrivò la commissione Church, arrivò il mitico Carl Bernstein. In un lunghissimo articolo pubblicato da Rolling Stone, provò a riportare lo scandalo alla sua reale dimensione: a libro paga della CIA non c’erano tre dozzine di giornalisti, ma oltre 400. “C’erano tutte le testate”, ricorda Lawrence, “times, post, cbs, abc, nbc, newsweek, the wires”.

Non era il problema di qualche mela marcia. Era il cuore del funzionamento dell’informazione, che sugli aspetti delicati per la sicurezza nazionale, era e rimane pura propaganda. Quelli, sottolinea Lawarence, erano bei tempi perchè appunto, ad essere pura propaganda almeno era solo una parte dell’informazione. Una parte cruciale, intendiamoci. ma pur sempre una parte. “Oggi” invece, sottolinea giustamente Lawrence, “tutto il giornalismo mainstream è “embedded”, perchè oggi il campo di battaglia è ovunque”.

Grazie Patrick, per averlo scritto così chiaramente.

È quello che come OttolinaTV sosteniamo da sempre, e che ci ha spinto a imbarcarci in questa avventura: il mondo nuovo avanza, e il vecchio mondo è in assetto di guerra e l’informazione ufficiale non è altro che la costruzione quotidiana del fantastico mondo incantato della Post Verità. Lawrence però, come noi, non è tipo da scoraggiarsi e abbandonarsi al pessimismo: non c’è motivo di aspettarsi che i media mainstream rivendichino l’indipendenza che hanno ceduto molto tempo fa”, sottolinea, “ma attraverso i media indipendenti i giornalisti oggi hanno la possibilità di fare la cosa giusta. e i media indipendenti sono destinati a contare sempre di più”.

Per farlo però, hanno bisogno del sostegno di tutti. Per parlarne insieme, ti aspettiamo da giovedi 14 settembre all’Hotel Terme di Fiuggi insieme agli amici dell’associazione Idee Sottosopra.

Un’altra tappa fondamentale per prepararci a quello che abbiamo definito l’autunno caldo della controinformazione. Nel frattempo, come fare a sostenere concretamente la creazione finalmente di un primo vero e proprio media indipendente, ma di parte, lo sai già:

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e chi non aderisce è Bruno Vespa

G20: l’umiliazione dell’unilateralismo e il mondo parallelo dei pennivendoli

L’assenza di XI Jinping sarebbe un segnale diretto a Biden: passare dalle parole ai fatti

Il giornale: G20, ecco la via delle spezie. La regia USA fa fuori Pechino.

La Stampa: un rotta dall’India a Venezia, gli USA danno scacco alla Cina.

Repubblica: Biden e Modi isolano Xi, ecco il nuovo corridoio India – medio Oriente contro la via della seta.

I mezzi di produzione del consenso del partito unico della guerra e degli affari, non hanno dubbi: dopo gli incredibili successi della controffensiva Ucraina, e il definitivo crollo dell’economia cinese, al G20 il nord globale è tornato in grande stile a dettare l’agenda globale. Indiani e sauditi hanno ritrovato il lume della ragione, hanno scaricato le velleità del fantomatico nuovo ordine multipolare, e sono tornati ai vecchi costumi: elemosinare una qualche forma di riconoscimento dall’Occidente globale. I rapporti commerciali con la Cina ormai sono roba da boomer e l’aria fresca di rinascimento che spirava dalle petromonarchie ai tempi di Renzi è tornata a soffiare più forte e ora irradia tutta la sua energia fino al subcontinente indiano.

L’Italia è pronta a raccoglierne i frutti: basta Cina, il futuro parla sanscrito, e se usciamo dalla via della seta non è perché ce lo ha imposto Washington, ma perché guardiamo lontano, laddove lo sguardo di voi complottisti sul libro paga di Putin e Xi, non riuscite manco ad avventurarvi.

Ma siamo proprio proprio proprio sicuri che questa narrazione sia anche solo lontanamente realistica?

“C’è un’immagine che più di tutte testimonia quanto accaduto durante il g20 di Delhi”, scrive Stefano Piazza su La Verità, “il presidente americano joe biden sorridente, stringe la mano al principe ereditario saudita mohammed bin salman insieme al padrone di casa Modi”.

Non ha tutti i torti.

Quella effettivamente è un’immagine decisamente potente. Peccato che simboleggi in modo plateale esattamente il contrario di quello che la propaganda suprematista sta cercando affannosamente di di farci credere. È la prova provata che ormai l’ameriCane abbaia, ma quando poi prova a mordere si accorge che gli mancano i denti, e allora si mette a scodinzolare. Se c’è un Paese che negli ultimi due anni ha dimostrato in modo evidente che il bastone a stelle e strisce non fa più poi così tanto male, infatti, è proprio la petromonarchia saudita. Cinque anni fa, Biden aveva inaugurato la sua campagna elettorale definendo il principe ereditario Bin Salman addirittura un pariah. Ma negli anni successivi, i sauditi non hanno fatto assolutamente niente per compiacere il vecchio alleato, anzi…

Quando è scoppiata la seconda fase della guerra per procura della Nato contro la Russia in Ucraina, nonostante tutti i corteggiamenti, i sauditi hanno evitato sistematicamente di emettere una qualunque parola di condanna.

Quando la Russia ha chiesto all’OPEC+ di tagliare la produzione per tenere alto il prezzo del greggio, i sauditi hanno subito appoggiato l’iniziativa. Biden ha provato a dissuaderli, chiamandoli direttamente al telefono. Non gli hanno manco risposto ed era solo l’antipasto. Grazie alla mediazione cinese, pur di affrancarsi dalle strumentalizzazioni USA, pochi mesi dopo i sauditi sono tornati addirittura ad aprire i canali diplomatici con l’arcinemico iraniano, mettendo così le basi per la fine della pluridecennale guerra per procura in medio Oriente che è sempre stato in assoluto il pilastro fondamentale della politica estera USA per tutta l’area ed oltre. Dopodichè i sauditi hanno finalmente preso atto del totale fallimento dell’intervento USA in Siria, e hanno accolto a braccia aperte il ritorno di Assad nella Lega Araba. Subito dopo hanno inferto un colpo micidiale ad un altro degli assi portanti dell’imperialismo USA: la dittatura globale del dollaro, nata e cresciuta grazie proprio all’adozione incondizionata dei sauditi della valuta a stelle e strisce come unica valuta internazionale, utilizzabile per la compravendita del petrolio. Per scolpire sulla pietra il fatto che questi epocali cambi di posizionamento non fossero solo capricci estemporanei, i sauditi hanno prima aderito alla Shanghai Cooperation Organization, e poi addirittura ai BRICS, addirittura fianco a fianco agli iraniani.

Fino a pochi anni fa, gli USA hanno raso al suolo interi paesi e sterminato centinaia di migliaia di civili a suon di bombe umanitarie per molto, molto meno. Dopo un anno e mezzo di schiaffi a due mani in Ucraina, eccoli invece qua, a stringere mani e a ostentare sorrisoni.

Che uno dice: chissà cos’hanno ottenuto in cambio. Una luccicante cippa di cazzo, ecco cos’hanno ottenuto. Meno di quello che avevano ottenuto a Bali.

La partita ovviamente era quella di strappare di nuovo un’accusa nei confronti della Russia per la guerra in Ucraina.

All’orizzonte”, scriveva Il Giornale Sabato, “il rischio concreto che per la prima volta nella storia di questo forum, nato nel 1999, non si riesca a trovare l’intesa per un comunicato condiviso da tutti i partecipanti”. Per qualche ora, questo è stato il tormentone; sono tutti uniti come un sol uomo nel condannare la Russia, ripeteva fino all’auto convincimento la propaganda, a parte Russia e Cina.

Il più spregiudicato nel raccattare l’ennesima figura di merda, come sempre, è l’infaticabile Mastrolilli su Repubblica: “approfittare delle assenze di Xi e Putin per isolarli allo scopo di contrastare, insieme, la sfida geopolitica epocale lanciata dalle autocrazie alle democrazie”

Gli articoli di Mastrolilli ormai assomigliano sempre di più ai testi prodotti dalle pagine tipo “generatore automatico di post di Fusaro”, o di previsioni di Fassino, che andavano di moda qualche anno fa. Ci infili dentro autocrazia, democrazia, Putin e Xi isolati, mescoli bene, ed ecco pronto l’articolo.

“Putin e Xi”, insiste Mastrolilli, “si sono coalizzati nel rifiutare il linguaggio di Bali. Europei e americani però”, notate bene, “non sono disposti a cedere, e il G20 rischia di chiudersi per la prima volta senza una dichiarazione finale”.

Ci prendessero mai, proprio almeno per la legge dei grandi numeri.

Alla fine infatti, come sapete, il comunicato congiunto in realtà è arrivato in tempi record. Al contrario delle previsioni di Mastrolilli, europei e americani non hanno dovuto semplicemente cedere, si sono proprio nascosti sotto al tavolo: nel comunicato finale non c’è nessun accenno alle responsabilità russe.

In realtà, c’era da aspettarselo; al contrario di Bali, a questo giro Modi di far fare a Zelensky il solito intervento da rock star non ne ha voluto sapere.

Zelensky, persona non grata. Come gli anatemi e i doppi standard del nord globale in declino.

I gattini obbedienti delle oligarchie Occidentali allora si sono messi all’affannosa ricerca di altri specchi sui quali arrampicarsi e l’attenzione non poteva che ricadere sull’unico aspetto che effettivamente suggeriva alcune difficoltà: la misteriosa assenza di Zio Xi.

E via giù di speculazioni acrobatiche. La prima l’avevano suggerita i giapponesi di Asian Nikkei, testata di grande spessore che noi seguiamo da decenni quotidianamente per le analisi economiche, ma che diciamo, ovviamente, non è esattamente del tutto imparziale quando si tratta di Cina.

Un lungo editoriale apparso giovedì scorso, suggeriva che la scelta di Xi di non presentarsi per la prima volta al G20 fosse dovuta a una guerra intestina al partito che vedrebbe i dirigenti più anziani sul piede di guerra contro il Presidente per le difficoltà economiche che il Paese starebbe attraversando. Ma, come ha sottolineato sabato mattina il nostro amico Fabio Massimo Parenti in diretta su La7, in quell’editoriale c’è qualcosa che non torna. L’articolo parla infatti di alcune fonti interne al partito, che ovviamente non è possibile verificare. Rimane però un dubbio: ma davvero ai massimi livelli del partito ci sono dirigenti così smaccatamente antipatriottici da andare a lavare i panni sporchi di casa direttamente nel lavello dell’arcinemico giapponese?

Per carità, tutto può essere. Ma diciamo che una cosa così palesemente antiintuitiva, per essere creduta, avrebbe per lo meno bisogno di qualche prova più tangibile, diciamo.

Macchè!

I nostri media se la sono bevuta tutta d’un sorso senza battere ciglio e il famoso “contesto mancante” a questo giro non li ha dissuasi.

Che strano…

Ma non è stata certo l’unica speculazione. Il fatto di per se, offriva un’occasione più che ghiotta per rilanciare il tormentone che ci aveva già sfrucugliato gli zebedei quando tutta la stampa era alla ricerca di narrazioni fantasy di ogni genere pur di sminuire la portata delle decisioni prese due settimane fa dai BRICS: l’insanabile divergenza tra i diversi paesi del sud globale, a partire da India e Cina.

Ci provano senza sosta da decenni. Prima erano le divergenze tra Cina e Vietnam, poi tra Cina e Russia, poi tra India e Cina. Intendiamoci, le divergenze ci sono eccome e lo ricordiamo sempre: è abbastanza inevitabile quando si ha a che fare con Paesi sovrani. Ognuno è guidato fondamentalmente dal suo interesse, e gli interessi diversi spesso e volentieri entrano in conflitto. Quando non succede è semplicemente perché uno impone i suoi interessi su tutti gli altri, come accade ad esempio nell’ambito del G7, dove Washington detta la linea e gli altri possono accompagnare solo, rimettendoci di tasca loro. Quello che, proprio a chi è abituato a fare da zerbino, non vuole entrare nella capoccia, è che la necessità storica di un nuovo ordine multipolare in realtà si fonda proprio su questo: Paesi sovrani con loro interessi nazionali spesso divergenti, intenti a costruire strutture multilaterali all’interno delle quali trovare dei compromessi attraverso il confronto e il dialogo tra pari. Rimane comunque il fatto che Xi al G20 non ci è andato e non è una cosa che può essere derubricata con due battutine.

Purtroppo però qui entriamo nell’ambito delle pure speculazioni. In questi giorni la redazione allargata di OttolinaTV su questo punto s’è sbizzarrita. Alla fine le interpretazioni un po’ più solide emerse sono sostanzialmente due:

La prima effettivamente ha a che vedere con i rapporti con l’India. Come scriveva giovedì scorso il Global Times, il nord globale guidato da Washington “ha cercato di provocare conflitti tra Cina e India usando la presidenza indiana per inasprire la competizione tra il dragone e l’elefante”.

“Gli Stati Uniti e l’Occidente”, continua l’articolo, “hanno mostrato un atteggiamento compiaciuto nei confronti di alcune divergenze geopolitiche, comprese quelle tra Cina e India. Vogliono vedere divisioni più profonde e persino scontri”. Ma proprio come la Cina, anche “Nuova Delhi ha ripetutamente affermato che il forum non è un luogo di competizione geopolitica” e quindi da questo punto di vista l’assenza di Xi sarebbe stata funzionale a impedire agli occidentali di strumentalizzare queste divergenze, e permettere al G20 di ottenere qualche piccolo progresso sul piano che dovrebbe essere di sua competenza: la cooperazione economica, in particolare a favore dei Paesi più disastrati. Da questo punto di vista il piano effettivamente sembra essere riuscito: il comunicato finale sottolinea esplicitamente che il G20 non è il luogo dove affrontare e risolvere le tensioni geopolitiche.

Ma non solo…

Per quanto simbolici, i paesi del sud globale al g20 hanno portato a casa impegni ufficiali verso una riforma della banca mondiale a favore dei Paesi più arretrati e anche l’annuncio dell’ingresso ufficiale nel summit dell’unione africana. Tutti obiettivi che Delhi e Pechino condividono da sempre.

La seconda motivazione invece ha a che vedere col rapporto tra Cina e USA. Durante il G20 di Bali, la stretta di mano tra Biden e Xi aveva fatto parlare dell’avvio di una nuova distensione tra le due superpotenze. Nei mesi successivi però, a partire da quella gigantesca buffonata dell’incidente del pallone spia cinese e della cancellazione del viaggio di Blinken a Pechino che ne era seguita, le cose non hanno fatto che complicarsi. Da allora gli USA hanno provato ad aggiustare un po’ il tiro, gettando acqua sul fuoco della retorica del decoupling. Ma mentre i toni si facevano a tratti meno aggressivi, i fatti continuavano ad andare ostinati in tutt’altra direzione, a partire dalla guerra sui chip, per finire col recente divieto USA a investire in Cina in tutto quello che è frontiera tecnologica, dall’intelligenza artificiale al quantum computing. La Cina quindi, pur continuando a sfruttare ogni possibilità di dialogo, ha continuato a denunciare la discrepanza tra parole e fatti

da questo punto di vista, quindi, l’assenza di Xi a Delhi sarebbe un segnale diretto a Biden: caro Joe, co ste strette di mano a una certa c’avresti pure rotto li cojoni. Basta manfrine fino a che alle parole non farete seguire qualche fatto concreto. Volendo, con anche un avvertimento in più: per parlare con il resto del sud globale, non abbiamo più bisogno necessariamente di una piattaforma come quella del G20: Shanghai Cooperation Organization e BRICS+++ ormai sono alternative più che dignitose. A voi la scelta ora: se continuare ad avere un luogo dove discutere con il sud globale, oppure condannare il G20 all’irrilevanza.

Finite le nostre speculazioni, torniamo a quelle degli altri.

Come con la controffensiva ucraina, che andando come sta andando, costringe gli hooligan della propaganda a trasformare in vittorie epiche la conquista di qualsiasi gruppetto di case di campagna al prezzo di decine se non centinaia di vite umane e centinaia di milioni di attrezzatura militare, idem al G20, visti gli scarsi risultati, i propagandieri si sono sforzati in modo veramente ammirevole per provare ad arraparsi di fronte a un vero e proprio monumento alla fuffa.

“Ecco il nuovo corridoio india-medio oriente contro la via della seta”, titolava su repubblichina il solito Daniele Raineri, tra un articolo su qualche mirabolante vittoria ucraina e l’altro. Il progetto è così alternativo alla via della seta cinese, che approda nel pireo, che è dei cinesi. Di nuovo in sostanza ci sarebbe l’estensione della rete ferroviaria in Arabia.

A chiacchiere! A fatti, per ora, l’unico tratto ferroviario di una certa rilevanza in Arabia è quello lungo i 450 km che sperano Mecca e Medina. Un’opera monumentale, costruita dai cinesi.

E i cinesi infatti se la ridono.

Intanto, perché non capiscono bene in che modo questo fantomatico progetto andrebbe contro ai loro interessi. Come ha sottolineato il Global Times: “Per i paesi del Medio Oriente che parteciperanno all’iniziativa ferroviaria guidata dagli Stati Uniti, non vi è alcuna preoccupazione che i loro legami con la Cina si indeboliscano proprio a causa dell’accordo”.

Anzi: “la Cina ha sempre affermato che non esistono iniziative diverse che si contrastano o si sostituiscono a vicenda. Il mondo ha bisogno di più ponti da costruire anziché da abbattere, di più connettività anziché di disaccoppiamento o di costruzione di recinzioni, e di vantaggi reciproci anziché di isolamento ed esclusione”

Piuttosto, sottolineano i cinesi, il punto è che questi proclami andrebbero presi un po’ con le pinze.

“Non è la prima volta che gli Stati Uniti sono coinvolti in uno scenario “tante chiacchiere, pochi fatti””, ricorda sarcasticamente l’articolo, che insiste: “Durante l’amministrazione Obama, l’allora segretario di stato americano Hillary Clinton annunciò che gli Stati Uniti avrebbero sponsorizzato una “Nuova Via della Seta” che sarebbe uscita dall’Afghanistan per collegare meglio il paese con i suoi vicini e aumentare il suo potenziale economico, ma l’iniziativa non si è mai concretizzata”.

“Da un punto di vista tecnico”, continua perculando l’articolo, “la decisione degli Stati Uniti di concentrarsi sulle infrastrutture di trasporto, un’area in cui mancano competenze, nel tentativo di salvare la loro influenza in declino nella regione, suggerisce che il piano tanto pubblicizzato difficilmente raggiungerà i risultati desiderati”.

Ma non c’è livello di fuffa che possa distogliere i pennivendoli di provincia italiani dal prestarsi a qualsiasi operazione di marketing imposta dal padrone a stelle e strisce

magari, aggiungendoci anche del loro. Perché in ballo al G20 c’era un’altra questione spinosa, l’addio dell’Italia alla via della seta, ancor prima di aver fatto alcunché per entrarci davvero, al di là delle chiacchiere.

Ma non temete, come scrive Libero, infatti, “Giorgia sa di avere un’altra chance. si chiama India”.

“Il commercio tra India e Italia”, avrebbe dichiarato con entusiasmo la Meloni, “ha raggiunto il record di 15 miliardi di euro. Ma siamo convinti di poter fare di più”. D’altronde, che ce fai con la Cina quando c’è l’India. Un Paese, che, come scrive il corriere della serva “per popolazione ed economia ha superato la cina”.

Non è uno scherzo, è una citazione testuale. Secondo il Corriere, l’India ha superato economicamente la Cina. Deve essere successo dopo che, come scriveva Rampini, l’altro giorno, gli usa hanno cominciato a crescere il doppio della Cina.

Quanto cazzo deve essere bello di mestiere fare il giornalista ed essere pagato per dire ste puttanate.

Ovviamente, come credo sappiate tutti voi che piuttosto che lavorare al corriere della serva preferireste morire di fame accasciati per terra a qualche angolo di strada, l’economia cinese è più di cinque volte quella indiana, e l’India ogni anno spende in importazioni meno di un quinto della Cina.

Ma non solo…

L’Italia, in India, quel che è possibile esportare in quel piccolo mercato lo esporta già. Nel 2022 abbiamo esportato beni e servizi per 5,4 miliardi. Più dell’Olanda che è ferma a 3,5 e poco meno della Francia, che è a quota 6,5. Insomma, in linea con le nostre quote di export

Discorso che invece non vale per la Cina dove l’Italia esporta per 18 miliardi, la Francia per 25, il Regno Unito per 35 e la Germania per 113 miliardi. Cioè, il nostro export totale è inferiore del 25% rispetto a quello inglese e francese, ma in Cina esportano rispettivamente i 50 e il 100% in più. Ancora peggio il confronto con la Germania: l’export tedesco è circa 2 volte e mezzo quello italiano, ma in Cina esportano 7 volte più di noi. Quando saggiamente avevamo deciso di essere l’unico paese del G7 che avrebbe aderito al memorandum della belt and road, era per recuperare questo gap. Dopo la firma non abbiamo mosso un dito, e ora rinunciamo a una crescita potenziale di svariate decine di miliardi di export, e ci raccontiamo pure che li sostituiremo con i 2 o 3 miliardi in più che potremmo guadagnare dall’India.

Ora, io non ti dico di finanziare un vero think tank indipendente coi controcazzi invece di affidarti a quelli a stelle e strisce e in Italia dare i soldi a Nathalie Tocci per trasformare l’istituto affari internazionale nel milionesimo ufficio stampa di Washington e delle sue oligarchie finanziarie.

Ma almeno i soldi per una cazzo di calcolatrice trovateli! Se volete, famo una colletta noi su gofundme.

E sia chiaro, io lo dico da grande amante dell’India, da tempi non sospetti. Quando ho cominciato a fare il giornalista a fine anni ‘90, il mio obiettivo era raccontare l’ascesa del peso Internazionale di questo incredibile paese continente. Non è andata benissimo, e ogni fallimento dell’india in questi 30 anni per me è stata una pugnalata al cuore, a prescindere da chi ci fosse al governo. Modi compreso.

Ora non mi posso che augurare che di fronte a questi teatrini imbarazzanti che offre continuamente l’Occidente, Modi sia abbastanza lucido da capire che gli attriti con la Cina, che sono legittimi e anche normali, non possono certo distoglierlo dal perseguire il vero interesse del suo disastrato Paese, che potrà crescere davvero se e solo se il sud globale riesce finalmente a mettere fine all’ordine unipolare della globalizzazione neoliberista guidata da Washington.

Per parlare del mondo nuovo che avanza, senza i paraocchi della vecchia propaganda vi aspettiamo sabato 16 settembre all’hotel terme di Fiuggi con Fulvio Scaglione, Marina Calculli, Elia Morelli, Alessandro Ricci e l’inossidabile generale Fabio Mini.

È solo uno dei dodici panel messi in fila dagli amici dell’associazione Idee Sottosopra per questo fondamentale week end di studio e di approfondimento, per costruire insieme un’alternativa credibile e non minoritaria alla dittatura del pensiero unico del partito degli affari e della guerra.

Per chi vuole maggiori informazioni, trovate il link nei commenti.

se invece vuoi concretamente darci una mano a costruire finalmente il primo vero e proprio media che dà voce al 99%, come fare probabilmente lo sai già

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Fonti:

Editoriale del Global Times: https://www.globaltimes.cn/page/202309/1297861.shtml

Il piano ferroviario USA in Medio Oriente: https://www.globaltimes.cn/page/202309/1297874.shtml

Il Premier Li chiede solidarietà e cooperazione al G20: https://www.globaltimes.cn/page/202309/1297874.shtml

Articolo “Il Giornale”: https://www.ilgiornale.it/news/politica/g20-ecco-delle-spezie-india-emirati-arabia-europa-regia-usa-2208113.html

Articolo “la Repubblica”: https://www.repubblica.it/esteri/2023/09/08/news/ferrovia_arabia_india_cina_via_della_seta-413788548/