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Tag: mar cinese meridionale

I Marines USA sbarcano nelle Filippine per la grande guerra contro la Cina – ft. Josef Gregory Mahoney

Isola di Itbayat, il territorio più a nord delle Filippine, 156 chilometri a sud dall’estremità inferiore di Taiwan: un plotone armato di fucili automatici e mitragliatrici salta giù dai Black Hawk; subito dietro seguono elicotteri Boeing ch-47 dai quali saltano fuori altre dozzine di uomini con taniche di carburante, sacchi di pasti pronti, casse di forniture mediche, piccoli droni e apparecchiature per le comunicazioni satellitari. Sono membri delle forze armate filippine e, soprattutto, statunitensi: appartengono al terzo Marine Littoral Regiment, completamente ridisegnato appena due anni fa come parte di una riorganizzazione complessiva per permettere al corpo dei Marines di prepararsi al meglio per la nuova fase di scontro tra grandi potenze, dopo decenni passati a combattere nemici infinitamente più deboli in Iraq e Afghanistan. “Questa” sottolinea il Wall Street Journal “era un’esercitazione militare: le armi non avevano munizioni e i lanciamissili Javelin non avevano missili. Ma i Marines si stanno preparando per un conflitto nel mondo reale, mettendo a punto una strategia che considerano fondamentale per combattere la Cina dalla catene di isole più vicine”; in caso di conflitto reale, continua il Journal, “questi Marines avanzerebbero il più lontano e il più velocemente possibile con missili e radar. Si distribuirebbero in piccoli gruppi attraverso le isole e le coste e poi continuerebbero a muoversi in modo che i missili, i sensori e i droni cinesi non li trovino”. L’avversario, ha commentato al Journal il colonnello John Lehane, dovrebbe “spendere un sacco di risorse per capire dove siamo e cosa stiamo facendo”; l’obiettivo, sottolinea, è “complicare il suo processo decisionale”. “In pratica” sottolinea però il Journal “potrebbe non essere così facile”: operare in luoghi austeri e lontani, infatti, presenta diversi problemini; è vero che alcune isole sono attrezzate con piste di notevoli dimensioni, ma il grosso può contare al massimo su un piccolo eliporto. Le aree costiere remote poi, continua il Journal, spesso non sono collegate da strade adeguate per trasportare sistemi radar e batterie missilistiche e “I Marines avrebbero bisogno di piccole navi da manovrare, ma non le hanno”; in caso di conflitto aperto, inoltre, ogni luogo sarebbe vulnerabile: la Cina, infatti – sottolinea il Journal – “dispone di un formidabile arsenale di missili e droni di ogni forma e dimensione” oltre ad avere un vantaggio colossale. Qui si tratterebbe, infatti, di combattere nel suo cortile di casa, in prossimità della sua flotta navale, delle sue basi militari e di una rete di sorveglianza pervasiva e ultra-sofisticata”. L’obiettivo dei Marines però, spiega il Journal, sarebbe fondamentalmente “quello di impantanare la Cina nelle prime fasi di un conflitto, guadagnando tempo affinché altre forze statunitensi entrino in azione. Dalla linea del fronte, sarebbero in grado di fornire un’immagine ravvicinata dello spazio di battaglia utilizzando sensori e piccoli droni e avrebbero l’opportunità di lanciare missili per distruggere le navi cinesi o rispedire dati precisi sul posizionamento del nemico agli aerei da guerra o alle navi statunitensi e alleate”; “Il caso ideale”, avrebbe dichiarato al Journal Bernjamin Jensen del Center for Strategic and International Studies di Washington, “è che ci siano queste forze fluide che scorrono su e giù per la prima catena di isole e che costringono costantemente la Cina a dargli la caccia”, perché “Ogni sensore utilizzato dalla Cina per cercare un reggimento costiero del Corpo dei Marines è un sensore che non viene utilizzato su un altro obiettivo”. Negli ultimi due anni questo reggimento si è addestrato in giro per le isole Hawaii, in particolare concentrandosi sulle tattiche che permettono di comunicare rimanendo nascosti ai sensori cinesi come, ad esempio, attraverso la creazione di rumore nello spettro elettromagnetico.

Joseph Gregory Mahoney

Insomma: le condizioni sono complicate e richiedono una preparazione incredibilmente sofisticata, ma tutto sta procedendo per non lasciare niente al caso: i mezzi pesanti USA, a partire dalle portaerei, hanno accesso a 9 basi sparse per il paese che gli statunitensi stanno investendo massicciamente per ammodernare; queste nove basi, più tutte quelle nelle isole meridionali del Giappone, sono potenzialmente raggiungibili dai missili cinesi, ma è la quantità a fare la qualità. I sistemi d’arma che possono in modo efficace raggiungere queste postazioni direttamente dalla terraferma non sono infiniti e non sono gratis: se protette adeguatamente, colpirle non è banale; colpirle in poco tempo tutte, irrealistico. I piccoli battaglioni che occupano gli avamposti più vicini a Taiwan, allora, avrebbero il compito non semplice (ma non impossibile) di impedire alle forze navali cinesi di superare la prima catena di isole e, quindi, rendere il più complicato possibile colpire i mezzi USA parcheggiati a distanza di semi-sicurezza: “I Marines” sottolinea inoltre il Journal “mirerebbero anche a contrastare la strategia anti-accesso della Cina volta a bloccare l’area e a rendere troppo pericoloso per le forze statunitensi avvicinarsi a Taiwan”; “Teniamo il piede nella porta in modo che la porta non possa essere chiusa di colpo per il resto delle forze congiunte e questo ci mette potenzialmente in pericolo” avrebbe dichiarato al Journal il tenente colonnello James Arnold, che dirige il battaglione antiaereo del reggimento. “Ecco perché lavoriamo ogni giorno su tattiche che ci consentano di farlo in modo efficace e duraturo”.
Vista dal Pacifico, si capisce anche a che gioco stanno giocando in Ucraina: l’obiettivo, infatti, a noi pare sia sempre quello di continuare a tenere impegnata la Russia sul fronte occidentale e, visto che ad oggi la partita non è andata esattamente benissimo e le forze ucraine sono più che stremate, questo necessariamente implica prendersi anche qualche rischio di un escalation più violenta di quanto si vorrebbe. Ma non c’è niente di irrazionale o di scriteriato: è una necessità strategica del tutto razionale; è il prezzo di aver dichiarato la guerra totale al resto del mondo. E le evoluzioni potrebbero essere, al solito, più rapide del previsto perché se oggi il blocco imperialista ha bisogno ancora di tempo per preparare la guerra del Pacifico, ha anche bisogno di fare in fretta perché la sproporzione enorme – in termini di base industriale – a favore della Cina trasforma ogni minuto che passa in un un ulteriore vantaggio per la Cina. Finalmente, quale sia la partita in corso cominciano a capirlo anche alcuni politici di peso del vecchio continente; ieri Melenchon, probabilmente primo in assoluto tra i politici europei, ha fatto delle dichiarazioni che colgono il cuore della battaglia in corso: “Il centro del mondo” ha dichiarato “in quest’ora in cui si prepara la più terribile delle guerre, non è sul suolo europeo. E’ laggiù, tra le coste delle Americhe e le coste dell’Asia”. Gli USA, continua Melenchon, “vogliono la guerra perché lì si produce il 50% della ricchezza mondiale” e per lo scambio di questi beni “i dollari non saranno più utilizzati come prima”; in questo modo “l’impero viene colpito nel profondo, perché il suo nucleo è la valuta, che può stampare quanto vuole perché non è vincolato da nessuna delle regole che si applicano a tutte le altre nazioni” e “il giorno in cui le nazioni si metteranno d’accordo tra di loro per pagare nelle loro valute, è finita. L’impero crolla”.
Della partita che, a livello prettamente strategico e geopolitico, si sta consumando nel Pacifico, avevamo parlato un po’ di tempo fa con Josef Gregory Mahoney, professore di relazioni internazionali alla East China Normal University: quello che vi presentiamo oggi è un piccolo estratto doppiato in italiano di quella straordinaria intervista che potete vedere in integrale qui, sul nostro canale in lingua inglese.

Nel 1999 ci sono stati tre eventi in particolare che qualcuno a Pechino ha interpretato come un tentativo deliberato da parte degli Stati Uniti di provocare le fazioni più nazionaliste e dividere il partito: il primo è stato una fornitura massiccia di armi a Taiwan; il secondo fu il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado e il terzo fu quando Clinton respinse la richiesta cinese di aderire al WTO e nel farlo rivelò la posizione negoziale della Cina, dove sembrava che la Cina, pur di vedere approvata la sua adesione, fosse sostanzialmente disposta a tutto, e fu qualcosa che fece letteralmente imbestialire i più nazionalisti. Per quanto riguarda l’attacco all’ambasciata, dobbiamo ricordare che in quel momento a Belgrado c’erano sostanzialmente solo due edifici che erano totalmente off limits: l’ambasciata russa e l’ambasciata cinese e gli Stati Uniti ne colpirono uno con numerose bombe. L’ex premier Li Peng sosteneva che l’attacco fosse chiaramente deliberato e che bisognava reagire; il premier in carica Zhu Rongji invece sosteneva che non potevamo essere certi si trattasse di un attacco deliberato: quello che però era certo è che gli USA non ci rispettano abbastanza da prendere tutte le misure necessarie per evitare di colpirci. A quanto pare, il presidente Jiang Zemin allora si rivolse ai militari e chiese: c’è qualcosa che possiamo fare per rispondere? E la risposta fu: in realtà, no. Ed è proprio da lì che cominciamo ad assistere alle grandi riforme delle forze armate. Da qua iniziano investimenti imponenti: ora sappiamo che gli USA sono in conflitto con noi; dobbiamo accettare questa realtà e prepararci per gli eventi futuri.
Non venne rivista la linea di base che, appunto, vedeva nella pace e nello sviluppo la tendenza storica, ma divennero sempre più cauti e diffidenti; e questo è un punto importante, perché in Occidente c’è questa percezione che la Cina, nel tempo, è diventata più aggressiva e che la Cina ha spinto gli USA – per reazione – in una posizione aggressiva. Ma no, no e ancora no: non è quello che è successo; da lì in poi la Cina ha cominciato a sviluppare queste capacità belliche asimmetriche. Le due prime grosse novità furono, in particolare, i missili anti-portaerei e quelli che vengono definiti i radar fantasma; i missili anti-portaerei sappiamo tutti cosa sono: sono, appunto, missili che possono abbattere le gigantesche portaerei statunitensi. La marina USA continua a sostenere di poterli intercettare, ma non è vero; ne possono intercettare 1 o 2, ma non ne arriverebbero 1 o 2: ne arriverebbero a mucchi. Quindi questo è stato uno sviluppo significativo che ha fortemente ridotto la capacità degli USA di dispiegare flotte di portaerei in acque vicine.
La seconda, appunto, sono quelli che a volte vengono definiti i radar fantasma: quando gli USA ti attaccano, la prima cosa che cercano di fare, ovviamente, è accecarti; per farlo, hanno aerei che volando a quote molto alte sono capaci di eludere il controllo dei radar. Questi aerei trasportano missili anti-radar e hanno il compito di neutralizzare queste installazioni; quello che fanno questi radar fantasma è creare migliaia di quelle che chiamiamo firme radar e, praticamente, rendono molto difficile individuare le installazioni. Inoltre molto spesso questi radar sono mobili e questi aspetti insieme, in sostanza, impediscono agli USA di fare la prima mossa. Ora, una cosa importante è che gli USA sono sempre stati convinti che la Cina avesse una dottrina che escludeva il first strike nucleare; quindi, fintanto che sfidi la Cina sul terreno convenzionale, la Cina non passerà al nucleare. Quindi l’idea degli USA era che se possiamo dominare con la deterrenza convenzionale, domineremo la Cina: questo spiega perché negli anni ‘80 i cinesi erano ossessionati con la Siria. Perché? Perché in Siria c’era una grande base sovietica e gli USA si stavano impelagando in Libano; l’idea allora era: se cade l’Unione Sovietica – e ricordate sempre che Mao è sempre stato convinto che sarebbe crollata, sin dagli anni ‘50 – quando crollerà, insomma, cosa succederà? Cosa succederà in Afghanistan? La preoccupazione era che gli USA si sarebbero fatti strada in Asia Centrale attraverso la Siria ed è per questo che hanno sviluppato la seconda, la terza e anche la quarta linea difensiva in regioni come il Gansu o lo Xinjiang; il timore era quello di venire completamente circondati: da una parte gli USA avevano tutte le loro installazioni in Corea, in Giappone e in Thailandia e, dall’altra, sarebbero potuti avanzare in Asia Centrale. L’obiettivo di Washington, del quale ho sentito parlare direttamente, era sostanzialmente fare in modo che ogni singolo angolo della Cina fosse raggiungibile con armi convenzionali nell’arco al massimo di 15 minuti, chiaro? Ed ecco quindi perché la Cina ha iniziato ad essere assertiva e ha cominciato a investire nella costruzione di organizzazioni come la Shanghai Cooperation Organization, dove lavorano fianco a fianco con la Russia, perché la Russia gioca un ruolo di primo piano in tutta l’Asia Centrale. Tenete sempre presente che, a lungo, in Occidente c’è sempre stato questo paradigma strategico che era molto popolare nel Regno Unito, ma anche in Russia e anche negli USA e, cioè, che chiunque controlli l’Afghanistan controlla l’Asia Centrale e, quindi, controlla l’Asia; quindi la Cina da sola non può controllare l’Asia Centrale e nemmeno la Russia, ma se lavorano assieme attraverso un’organizzazione come la SCO, dove si crea una partnership tra tutti i paesi coinvolti, beh, allora è possibile creare un framework per la sicurezza e lo sviluppo in grado di prevenire queste penetrazioni esterne e metterci al sicuro. Questa è la logica: devi indebolire la capacità di attacco convenzionale. E la Cina c’è riuscita: non hai più le basi ostili in Asia Centrale e gli Stati Uniti sono andati via dall’Afghanistan e, con i missili, tieni lontane le portaerei nel Pacifico. Quindi tutte le minacce convenzionali sono state sensibilmente ridimensionate, ma c’è una minaccia che non è stata rimossa ed è quella nucleare.
Ma dove sono i missili per un eventuale first strike
nucleare USA? In Giappone? In realtà no: sono nell’Artico, sotto il ghiaccio; sono i sottomarini, i sottomarini che viaggiano sotto il ghiaccio dell’Artico. Questi sottomarini, ovviamente, possono presidiare anche i mari del Sud, ma lì corrono il rischio di essere avvistati dai satelliti, tracciando il calore che viene rilasciato; sotto il ghiaccio, invece, riescono a nascondersi. Ora, come fai a contrastare questa minaccia? Devi mandare dei cacciatori di sottomarini sotto il ghiaccio e provare a mappare dove sono parcheggiati i sottomarini avversari, quindi devi mandare i tuoi sottomarini in avanscoperta, ma c’è un piccolo problema: è che gli Stati Uniti hanno portato i loro sottomarini e controllano tutti i movimenti con i loro sonar. La Cina ha sostanzialmente due basi principali per i suoi sottomarini: una nel nord e una nel sud; i sottomarini cinesi sono discreti, ma sono un po’ più rumorosi di quanto spererebbero i cinesi, quindi, nel momento stesso che lasciano la base, i sonar USA li identificano e ne tracciano i movimenti. Ora, chi è invece che può tracciare i sottomarini statunitensi? La Russia. Quindi la Cina è costretta a collaborare a una partnership strategica con la Russia per mitigare quest’ultima minaccia rimasta in piedi; il motivo di tutte le tensioni intorno alle isole Diaoyu e nel Mar Cinese Meridionale hanno sostanzialmente a che fare con questo. Il problema è che devi avere la possibilità di portare i tuoi sottomarini nel mare aperto prima che vengano identificati dagli USA: le Diaoyu sono essenziali per avere questa via di fuga a nord e il mar cinese meridionale a sud, altrimenti perché i cinesi starebbero rovinando le loro buone relazioni con i Paesi del Sudest asiatico su questioni inerenti il Mar Cinese Meridionale? Per avere accesso a più fonti fossili? O al pesce? Ovviamente non ha senso: possono comprare il pesce dall’Indonesia; la Cina, però, non vuole ammettere chiaramente di avere dei problemi di sicurezza strategica, non vuole rendere pubbliche le sue vulnerabilità. Preferisce, piuttosto, che il modo si convinca che è diventata forte e assertiva, che è quello che l’Occidente sostiene. I cinesi insistono col dire che stanno affermando il loro diritto storico a questi territori, secondo la linea dei nove tratti, ma, in realtà, la storia non c’entra: quello che scatena queste tensioni è l’esigenza strategica di garantirsi sicurezza e sovranità, che ha a che fare con quello che gli USA hanno cominciato a fare dopo che la Cina stessa ha sviluppato la capacità di respingere l’accerchiamento convenzionale degli USA sia dalla terra che dal mare.

Come sosteniamo dal febbraio del 2022, quella a cui stiamo assistendo è la guerra totale dell’imperialismo contro il resto del mondo e nessun fronte si spegnerà finché la guerra totale non sarà conclusa; gli unici che possono spegnerla siamo noi, quelli che i costi della guerra li pagano sulla loro pelle. Per farlo, ci dobbiamo organizzare e, per organizzarci, abbiamo bisogno – prima di tutto – di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Le manovre e la storia del Mar Cinese Meridionale

Nel Mar Cinese Meridionale la questione è molto più intricata di quanto possa sembrare: all’apparenza si sta parlando solo di atolli per lo più disabitati, isolotti artificiali, barriere coralline e scogliere, ma in realtà stiamo parlando di acque nelle quali passa gran parte del commercio marittimo internazionale, acque dove ci sono importanti risorse energetiche e acque contese da vari stati. In questo video parliamo della polveriera del mar cinese meridionale!