Skip to main content

Tag: manifestazioni

È finita la pacchia: la mobilitazione globale per cacciare i parassiti del neocolonialismo

Questa è Milano, sabato scorso. Solo nel capoluogo lombardo è la quarta manifestazione di solidarietà alla lotta di liberazione del popolo palestinese nell’arco di meno di un mese. Per il terzo weekend di fila, anche questa settimana l’ondata di indignazione scatenata dalla guerra di Israele contro i bambini arabi ha invaso le piazze di una bella fetta del bel paese.
Questa è Napoli, davanti al consolato USA.

Addirittura a Varese sono scesi in piazza, che non è che ce l’abbiano proprio di abitudine, come d’altronde a Verona, ad Ancona, a Modena, a Mestre, a Trento, a Brescia, a Parma, ad Ancona; addirittura ad Aosta e anche – pensate un po’ – in Molise, sia ad Isernia che a Campobasso. E a Trieste avevamo addirittura un’inviata per Ottolina:

Insomma: non c’è aggregato di più di 20 edifici adibiti ad abitazione civile che non abbia messo insieme un numero sufficiente di persone da occupare qualche strada o qualche piazza e dire chiaramente che a questo giro non ci stiamo, e l’Italia è una goccia nell’oceano; tutto il mondo islamico è in subbuglio da oltre un mese, dal Marocco all’Indonesia. A Londra, sabato scorso, si è tenuta la più grande manifestazione dai tempi della guerra in Iraq nel 2003. Negli USA, sempre nella sola giornata di sabato, si sono tenute centinaia di manifestazioni in tutto il paese, compresa un’irruzione nella sede del New York Times e pure in quella di BlackRock.

Ormai non c’è angolo del pianeta dove non si manifesti quotidianamente contro la politica genocida di Israele e del suo bodyguard globale a stelle e strisce: un movimento globale gigantesco che non si vedeva da oltre 20 anni, durante i quali abbiamo assistito all’escalation di violenza dell’Occidente collettivo contro il resto del mondo senza battere ciglio diventandone, per quanto involontariamente, complici. Oggi è un po’ come se i martiri di Gaza ci stessero fornendo l’ultima possibilità per prendere le distanze – come società civile – dai colpi di coda dell’impero in declino, disposto a distruggere il pianeta piuttosto di concedere finalmente a vecchie e nuove colonie il ruolo che gli spetta nel pianeta. Riusciremo ad approfittarne?

Le manifestazioni più imponenti, ovviamente, hanno riguardato tutto il mondo islamico a partire proprio dai paesi che più sono stati tentati dalla strategia USA – inaugurata da Trump e perseguita senza distinguo da Biden – di avvicinamento tra forze di occupazione israeliane e gli storici client state di Washington. A partire, ovviamente, dalla Giordania dove, da oltre un mese, è in corso un braccio di ferro all’ultimo sangue tra folle inferocite e forze dell’ordine in preda al panico, che è sfociato nell’arresto di migliaia di manifestanti. Manifestazioni imponenti si sono svolte anche in Marocco e in Bahrein, firmatari del famigerato Accordo di Abramo e avanguardie nella svendita del popolo arabo ai progetti egemonici made in USA. Manifestazioni senza precedenti si sono svolte dal Pakistan alla Malesia, passando per l’Indonesia, e questa invece è l’incredibile scena che si è trovato di fronte chi domenica scorsa Al Cairo pensava di andare allo stadio per godersi una normale partita: un intero stadio che all’unisono gridava “Daremo la nostra vita e la nostra anima per la Palestina”. Ma il mondo islamico non è certo isolato: manifestazioni oceaniche si sono registrate in Brasile, in Sudafrica, in Nigeria, in Thailandia. Tra i pochissimi fuori dall’Occidente collettivo ad essersi azzerbinati totalmente alla politica genocida di Israele c’è l’India di Modi, che sulla repressione violenta di tutto ciò che odora anche solo lontanamente di Islam ha fondato la sua intera carriera politica; potrebbe non essere stata una scelta proprio oculatissima. Questa, ad esempio, è Trivandrum, la capitale del piccolo stato meridionale del Kerala. Hanno addirittura azzardato a imbastire un collegamento virtuale nientepopodimeno che con Khaled Mashel, leader storico di Hamas. Ma se l’indignazione per la carneficina israeliana foraggiata da Washington ha unito ulteriormente il Sud globale, quello che forse conta ancora di più è che sta aprendo una breccia gigantesca anche sull’altro lato della barricata; in Francia, a un certo punto, avevano avuto la brillante idea le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei bambini trucidati a Gaza addirittura di vietarle. Hanno arrestato un sindacalista e una storica attivista franco – palestinese, ma alla fine hanno dovuto fare marcia indietro e questa era Parigi sabato. E questa invece era Berlino, nonostante – al giro prima – le forze dell’ordine avevano fatto sapere di non gradire molto con cariche indiscriminate e centinaia di arresti:

Questa invece era Londra, sempre sabato scorso: 300 mila secondo la polizia, 800 mila secondo gli organizzatori ma poco importa. Il punto è che non si vedeva una roba del genere dal 2003 quando, come oggi, eravamo tutti contenti di dare il nostro contributo allo sterminio indiscriminato di bambini arabi – però in quel caso, nello specifico, iracheni:

A Barcellona i portuali si sono rifiutati di far transitare armi destinate al genocidio come d’altronde anche a Genova, da dove hanno lanciato un appello agli altri colleghi sparpagliati nei porti europei che hanno subito aderito, dalla Grecia alla Turchia, passando per l’Australia:

A Sidney, infatti, si è tenuta una delle dimostrazioni più pittoresche di questi giorni quando, al porto di Botany, si sono radunati centinaia di manifestanti, molti dei quali a cavallo di moto d’acqua: l’obiettivo di tutte queste manifestazioni è ostacolare l’attività del gigante israeliano delle spedizioni internazionali ZIM, accusata di trasportare una fetta delle armi utilizzate per sterminare i bambini arabi della striscia. “Il membro del sindacato Paddy Gibson” riporta l’australiana ABCNews “ha detto che gli organizzatori convocheranno una protesta simile ogni volta che una nave ZIM proverà ad attraccare al porto di Botany”. Sempre secondo ABC News si tratterebbe, in realtà, già della sesta protesta del genere soltanto a Sidney dove, la settimana precedente, gli attivisti avevano già bloccato una colonna di camion con merci destinate a finire nelle imbarcazioni della ZIM. A Oslo, invece – patria dello storico accordo tra Rabin e Arafat sistematicamente violato dalle forze di occupazione -, alcune centinaia di attivisti hanno occupato la stazione centrale e hanno giocato a fare gli abitanti di Gaza per qualche ora, sdraiati, immobili e con un lenzuolo bianco insanguinato indosso.

Va anche detto che ci sono state anche manifestazioni di segno opposto; a Parigi, ad esempio, dove si è svolto questo grosso corteo:

Oddio, grosso fino a un certo punto… Diciamo grosso, se pensiamo qual era la piattaforma contro l’antisemitismo, che è l’etichetta che la propaganda affibbia a chiunque si azzardi ad ipotizzare che anche Israele – nonostante la missione divina di cui è investito – tutto sommato ogni tanto qualche norma del diritto internazionale la potrebbe pure rispettare. Così, se gli capita, eh?
Tra le celebrities presenti anche Marine le Pen, rappresentante di una forza politica che si rifà all’esperienza della Francia collaborazionista che gli ebrei ha contribuito a schedarli, ghettizzarli e poi spedirli nei campi di concentramento per la soluzione finale: più che contro l’antisemitismo, mi sa che quello che l’attrae è proprio la pratica dello sterminio in se, a prescindere da chi tocca. Oggi a te, domani a me. Il top del ribaltamento della realtà, poi, si raggiunge quando i vari eredi di quelli che gli ebrei li volevano sterminare sul serio danno degli antisemiti agli ebrei stessi. Ormai è pane quotidiano perché, in tutto il mondo, una bella fetta della comunità ebraica che ha molto spesso inclinazioni pacifiste – se non addirittura compiutamente antimperialiste – nelle manifestazioni di condanna alle azioni criminali dello stato di Israele è in primissima fila. La manifestazione più eclatante è avvenuta poco dopo l’inizio della carneficina, quando a Washington gli attivisti anti – guerra della Jewish Voice for Peace hanno occupato nientepopodimeno che il Campidoglio stesso: la polizia ne ha arrestati circa 400. Ma gli antisemiti immaginari sono comparsi direttamente anche dentro Israele stessa: prima è stato il turno dei soliti gruppi ortodossi, che ritengono il sionismo blasfemo. Per combattere l’antisemitismo, la polizia israeliana li ha presi beatamente a mazzate. Ma la protesta, poi, si è estesa a fasce di popolazione che ortodosse non sono per niente, molti dei quali contro Netanyahu protestavano ben prima dell’inizio della carneficina ma senza necessariamente avere chissà quali simpatie per la causa palestinese, che era stata beatamente espulsa dalle piazze. La follia omicida di Netanyahu ha fatto superare anche questo tabù e in centinaia si sono raggruppati direttamente subito fuori dalla casa di Bibi al grido “Jail now”… IN GALERA!!!
Sono solo la punta dell’iceberg: secondo un sondaggio del canale televisivo Channel 13, il 76% dei cittadini israeliani pensa che Netanyahu si dovrebbe dimettere; l’asse del male a sostegno del genocidio rappresenta una minoranza esigua della popolazione mondiale. Se fossero democratici anche solo per un decimo di quanto professano, dovrebbero ritirarsi tutti a vita privata e dedicarsi a zappare le proda.
Netanyahu non è stato l’unico a ritrovarsi folle inferocite sotto casa: è successo anche a Biden, nel suo soporifero Delaware, dove migliaia di attivisti hanno manifestato al suono di “President Biden, you can’t hide! We charge you with genocide!” (Presidente Biden, non puoi nasconderti! Ti accusiamo di genocidio!), lo stesso slogan che hanno intonato gli attivisti di New York che hanno fatto 1 + 1 e, alla fine, hanno deciso di irrompere negli uffici di BlackRock. A poche miglia di distanza, intanto, un nutrito gruppo di operatori dei media irrompeva nella hall del New York Times; ci sono rimasti fino a che non hanno finito di leggere l’elenco completo delle vittime rimaste uccise dalle armi americane usate dagli israeliani a Gaza. Sono solo 2 delle oltre 500 proteste di ogni genere che si sono svolte sabato scorso in tutti gli Stati Uniti. La settimana prima, a Washington, si era svolta la più grande manifestazione a sostegno della Palestina della storia degli USA e, dopo quella gigantesca dimostrazione di forza unitaria, la strategia ora è cambiata: non ci deve essere un angolo degli USA dove i cittadini rimbambiti dalla propaganda filo – genocida non si debbano confrontare con l’indignazione dei manifestanti.
“Dimostrazioni si sono svolte in ogni città principale del paese: a Detroit c’è stata una protesta di fronte agi uffici della senatrice Debbie Stabenow, una marcia all’università della Georgia, un picchetto di fronte a Textrone – un’azienda militare di Providence -, una protesta fuori dall’ufficio della parlamentare Deborah Ross a Raleigh, marce a Pittsburgh, Tucson, la chiusura totale degli uffici federali a San Francisco. A Washington i manifestanti hanno circondato il Dipartimento di Stato” (fonte: BT).
Insomma: siamo di fronte alla più grande mobilitazione di massa a livello globale dagli anni della carneficina irachena. Quanto servì allora è difficile da dire con precisione; la mobilitazione sicuramente contribuì alla scelta di alcuni paesi europei, dalla Francia alla Germania che, una volta tanto, si rifiutarono di essere tra i complici. Ma il destino dei bambini e dei civili iracheni era segnato: fu una strage di dimensioni bibliche e, alla fine dei giri, il grosso del pianeta decise di chiudere un occhio e tornare al business as usual. Perché mai, a questo giro, dovrebbe andare diversamente? Semplice: perché, nel frattempo, il mondo è cambiato parecchio. In questi 20 anni il declino relativo dell’impero è proceduto a passo spedito: la Cina è diventata, di gran lunga, la prima potenza produttiva del pianeta e anche il primo partner commerciale della maggioranza dei paesi del mondo e, ispirati dal suo esempio, gli stati sovrani del Sud del mondo stanno rialzando la testa. Gli assi portanti dell’unipolarismo a guida USA – dallo strapotere militare a quello finanziario fondato sul dollaro – stanno collassando alla velocità della luce e alcuni effetti più eclatanti si riscontrano proprio in Medio Oriente che, di quel disegno egemonico, è sempre stato uno dei tasselli fondamentali. Un tassello che, a sua volta, si basava sullo strapotere militare degli USA e dei suoi proxy nell’area e sul divide et impera su base settaria tra mondo sunnita e sciita, un equilibrio precario fondato sul terrore e sulla riduzione in semi – schiavitù della stragrande maggioranza delle masse popolari e che, da un po’ di tempo a questa parte, è entrato definitivamente in crisi.
Non sarà un pranzo di gala; sarà un percorso lungo e faticoso, lastricato di battute d’arresto, passi indietro e fiumi di sangue di vittime innocenti, ma mai come oggi pensare che l’esito sia scontato e che contro l’asse del male del Nord globale la partita sia persa in partenza è oggettivamente una cazzata colossale. Dopo la favoletta per allocchi della fine della storia, che non faceva altro che dissimulare una fase transitoria dove l’unica superpotenza imponeva con la violenza la sua volontà al resto del mondo e lo chiamava ordine, la storia è tornata a farsi sentire più forte che mai e, quando la storia si rimette in moto, ogni azione sposta – in un modo o nell’altro – i rapporti di forza e niente è futile o inutile. Con la sfacciataggine della loro prepotenza sanguinaria i vecchi egemoni in declino c’hanno dato la sveglia: tra mille contraddizioni, il mondo nuovo troverà il modo di farsi strada – con o senza il nostro sostegno. L’unica cosa che Israele e gli USA possono davvero ottenere concretamente è, nel frattempo, sterminare quanti più bambini inermi possibili e più ne sterminano, più il declino si velocizza e più saranno tentati di sterminarne in futuro ottenendo NIENTE, assolutamente ZERO. Questa mobilitazione globale è forse l’ultima opportunità che abbiamo: possiamo decidere di essere complici, seguire ignavi le nostre classi dirigenti criminali nel declino inesorabile, passare alla storia come sudditi inermi e condannarci ad essere la feccia del nuovo ordine che verrà. Oppure possiamo cogliere la palla al balzo, liberarci definitivamente dal’1% di parassiti dell’ordine neocoloniale e ritagliarci nel mondo nuovo il posto che ci spetta, di popolo libero tra popoli liberi. Per la nostra stessa sopravvivenza, è arrivata l’ora di unirsi alla resistenza: per farlo, abbiamo bisogno di un media che ci dia voce. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Marine Le Pen


I nuovi Hitler: o come compiere un massacro ergendosi a paladini dell’Umanità

Negli ultimi anni, in caso di conflitto tra l’occidente americano e i suoi nemici sono emerse due tecniche fondamentali di manipolazione mediatica: la censura qualificata e la reductio ad Hitlerum

Joe Biden: “siamo dalla parte di Israele per annientare i nemici della democrazia”.

Ci risiamo. Il copione è sempre lo stesso.

Un giorno ci svegliamo, scopriamo che dei cattivi hanno attaccato in maniera ingiustificata il mondo libero, viene dichiarata l’impossibilità di avviare trattative in quanto ad essere in gioco sono i valori dell’occidente e della democrazia, e infine assistiamo gaudenti alla distruzione totale dell’avversario.
La fase storica che stiamo vivendo è caratterizzata da una profonda crisi, forse terminale, dell’impero americano.
Ma con l’indebolirsi della presa USA sul mondo, i suoi i processi di controllo sull’informazione hanno subito un’accelerazione, e la propaganda si fa sempre più capillare e stingente.
Negli ultimi anni, in caso di conflitto tra l’occidente americano e i suoi nemici sono emerse due tecniche fondamentali di manipolazione mediatica: la prima è la censura qualificata, fondata sul controllo e sulla selezione dei flussi di opinione pubblica. La seconda è quella che con il filosofo tedesco Leo Strauss possiamo chiamare la reductio ad Hitlerum: tutti i nemici politici occidentali vengono identificati come nuovi Hitler, in modo da squalificarli ontologicamente, impedire ogni forma di diplomazia, e giustificare preventivamente ogni crimine e mezzo di distruzione che verrà perpetrato nei loro confronti. Purtroppo, chi ci rimette di più in questa guerra alla ragione e al pensiero critico siamo proprio noi europei, che assisteremo succubi e impotenti alla destabilizzazione del mondo intorno a noi e ad un un’ulteriore restrizione delle nostre libertà democratiche.

Scrive il professore di Filosofia morale Andrea Zhok: “Essendo i paesi del blocco di alleanze americano tutte liberaldemocrazie, il problema del controllo dell’opinione pubblica è centrale. Si è avviata così una fondamentale battaglia per le anime delle popolazioni occidentali, e questa battaglia ha il suo epicentro non in America, ma in Europa, dove la tradizione di una cultura critica e plurale era assai più vigorosa che negli USA”. Naturalmente, questa battaglia non avviene più attraverso i metodi di eliminazione fisica o di censura sistematica visti un secolo fa; oggi si possono infatti manipolare, censurare e filtrare selettivamente le informazioni per il tempo sufficiente a creare un certo effetto irreversibile.

Per comprendere questo processo possiamo tranquillamente guardare a quanto successo in Italia durante queste due settimane di guerra calda della lotta indipendenza palestinese. Sono state demonizzate e accusate di connivenza con il terrorismo tutte le manifestazioni pro-Palestina. La trasmissione di Fabio Fazio, punto di riferimento dei progrediti italiani, ha deciso di non ospitare più Patrick Zaki dopo che questo aveva espresso la sua pessima considerazione del governo israeliano. L’ebreo Moni Ovadia, da sempre critico contro le politiche imperialiste israeliane, è stato praticamente accusato di antisemitismo e invitato a lasciare il posto di direttore del teatro comunale di Ferrara.
Nel mentre, i manganellatori dell’informazione di Repubblica e del Corriere della Sera, hanno lanciato strali e organizzato agguati mediatici contro la povera ambasciatrice Elena Basile, rea di aver espresso semplicemente la sua opinione frutto di anni di lavoro diplomatico.

Fortunatamente però, a difendere il pluralismo e la libertà di espressione ci sono sempre le istituzioni europee. Con l’inizio dei bombardamenti israeliani su Gaza, l’UE ha infatti chiesto a META di rimuovere dalle loro piattaforme tutti i contenuti ritenuti “disinformazione”, pena sanzioni fino al 6% del fatturato mondiale, e il commissario europeo Thierry Breton è intervenuto ufficialmente presso Elon Musk per sollecitare interventi di controllo e censura sulle “fake news”. Possiamo solo rabbrividire all’idea di cosa intendano i mozzi di Washington con i termini “fake news” e “disinformazione”. La reductio ad Hitlerum, invece, funziona pressappoco così: ogni volta che scoppia un conflitto, il nemico dell’occidente americano viene immediatamente bollato come nuovo Hitler, e da semplice antagonista degli interessi strategici americani si trasforma in minaccia esistenziale per la democrazia e per i valori dell’ occidentale: lo abbiamo visto con Milosevic, Saddam Hussein, Putin e adesso con Hamas, definita organizzazione terroristica e paragonata a più riprese ai nazisti.
È quanto emerge esemplarmente dall’articolo di Roger Abravanel pubblicato in questi giorni sul Corriere: “Non si tratta” scrive “di una lotta politica per liberare un Paese occupato ma di una lotta contro la civiltà occidentale e Israele è solo il primo passo di questa lotta. I terroristi non gridavano «morte a Israele», ma «morte agli ebrei» (di tutto il mondo) e il passo successivo è già in atto: portare il califfato ovunque, anche in quella Europa cristiana che però continua a finanziare Hamas-Isis, illudendosi che questi fondi arrivino alla popolazione palestinese. Gli attentati terroristici in Francia e in Belgio di questi giorni sono una prova che la guerra non è contro gli israeliani e gli ebrei, ma contro il mondo occidentale”. La lotta di indipendenza palestinese quindi, non è come pensano gli sciocchi un conflitto regionale legato ad una disputa di territori ed interessi strategici. No, è una dichiarazione di guerra totale a tutto l’occidente.
Questo spaventoso artificio retorico non è solo un modo per compattare internamente la società prospettando una sorta di nuova invasione barbarica, ma soprattutto per squalificare ontologicamente il nemico così da giustificare preventivamente tutte le atrocità che verranno commesse per sconfiggerlo.
“Dichiaro il blocco totale della Striscia” ha dichiarato infatti il ministro della Difesa israeliano Yoav Galant quando è cominciato il massacro di Gaza. “Non ci sarà elettricità, né cibo, né carburante, tutto sarà tagliato fuori. Siamo in guerra con dei subumani e agiamo di conseguenza”. Ci stanno dicendo; visto che non abbiamo a che fare con degli uomini, ma con neo-sub-umani neonazisti odiatori del bene e dell’umanità, e quindi tutto è lecito, e tutte le morti civili che faremo in questa guerra saranno giustificate, come giustificate furono durante la seconda guerra mondiale la distruzione di Dresda e le bombe atomiche americane sganciate sui civili giapponesi.
È sostanzialmente questo il ragionamento anche del giornalista del corriere Jacopo Iacoboni, che in un tweet del 10 ottobre, esprimendosi sul massacro di Gaza dimostra una straordinaria padronanza della reductio ad Hitlerum: “Era giusto colpire di fatto tutti i tedeschi, per colpa dei crimini commessi dalla cricca nazista?” Si chiede Jacoboni “Certamente no, ma nelle fasi finali della guerra questa distinzione finì per sfumare, perché bisognava distruggere i nazisti e impedire che continuassero a fare del male all’umanità”. Ma oltre alla manipolazione e all’amore per il napalm, anche l’ipocrisia dell’occidente americano non sembra conoscere limiti. In questi giorni infatti, leggiamo un po’ ovunque sia nei giornali dei suprematisti che in quelli dei progrediti, un altro argomento utilizzato in questi anni per legittimare i bombardamenti occidentali dei propri nemici: “il benessere futuro dei palestinesi di Gaza”, scrive sempre l’oplita della libertà Roger Abravanel sul Corriere, “dipende dall’annientamento di Hamas da parte di Israele e coloro ai quali esso sta a cuore debbono appoggiarlo”.
Insomma, così come nel 2003 il vero nemico degli iracheni non erano gli americani, ma Saddam Houssein, e l’America come è noto distrusse il loro paese per salvarli da se stessi, in questi giorni scopriamo che il vero nemico dei palestinesi non sono gli israeliani, ma Hamas, cioè i palestinesi stessi, e che i massacri compiuti dagli Israele sono mossi dall’amore per la popolazione di Gaza. Come diceva Gaber l’occidente americano non fa mai la guerra per prendere, ma solo per dare, perché è generoso. E se anche tu ti auguri che l’italia e l’europa possano prima o poi svegliarsi da questo sonno della ragione e ricominciare a rispettare la propria storia e i propri principi, aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolinatv su pay pal e gofoundme, e aiutaci a costruire un media libero e indipendente che contrasti la propaganda.

E chi non aderisce, è Jacopo Jacoboni.