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Tag: italia

Ecco come Le OLIGARCHIE neoliberali SOFFOCANO le PROTESTE in ITALIA ft. Filippo Barbera

Con una retorica finto – buonista e finto – pacifista negli ultimi decenni in Italia la mobilitazione popolare e la partecipazione di massa alla politica è praticamente morta a colpi di neoliberismo e attacchi alle democrazia. Ogni conflittualità dal basso verso l’alto è stata demonizzata e soffocata sul nascere. Filippo Barbera, uno dei più importanti sociologi contemporanei, ci spiega come uscire da questa situazione suicida.

ALESSANDRO VOLPI – da Agnelli a Moratti, la fuga dei capitalisti dall’Italia per campare di rendita

Ritorna, inesorabile, la chiacchierata con il nostro prof preferito, Alessandro Volpi, su come la finanza le escogiti tutte pur di perpetuarsi. Preparate il solito anti – acido e buona visione.

Italia, Germania e Giappone: quale delle 3 Colonie USA FALLIRÀ PER PRIMA?

Germania in crisi titolava lo scorso 8 febbraio a caratteri cubitali – per l’ennesima volta – Il Sole 24 Ore; “produzione industriale giù del 3%”. A dare la botta definitiva sarebbero stati i dati dell’ultimo dicembre: ci si aspettava un crollo significativo dello 0,4, al massimo lo 0,5% che, spalmato sull’anno, significherebbe comunque un disastroso – 6%; il calo invece, in un solo mese, è stato addirittura dell’1,6%. Altri 12 mesi così e l’industria tedesca, in un solo anno, avrà perso quasi il 20%; “I giorni della Germania come superpotenza industriale stanno inesorabilmente volgendo al termine” sentenzia Bloomberg.

Ciononostante, ci sono altre superpotenze industriali che per andare come la Germania ci metterebbero una bella firma: “Il prodotto interno lordo del Giappone si è inaspettatamente ridotto per il secondo trimestre consecutivo” scrive Asia Nikkei, il Sole 24 Ore giapponese. Un altro fulmine a ciel sereno: la media degli analisti interpellati dal quotidiano economico, infatti, puntava a una crescita dell’1,1%, e la conseguenza immediata ha qualcosa di epocale; con questi ultimi dati, infatti, il Giappone scende definitivamente dal podio delle principali economie globali e, ironia della sorte, si fa scalzare proprio dalla Germania che, come scrive Onida sul Sole, nel frattempo – come negli anni ‘90 – “è tornata ad essere il vero malato d’Europa”.
Eppure, tra le grandi potenze industriali c’è anche chi ha tutto da invidiare pure al Giappone; chi? Ma noi, ovviamente: la nostra amata colonia italiana. La gelata del mattone titolava ieri mattina La Stampa; “Le compravendite di case calano del 16%, e le erogazioni dei mutui del 35%”, specifica. Non so se è chiaro: il 35% di mutui in meno, un’enormità dalle conseguenze devastanti: il patrimonio immobiliare degli italiani, infatti, negli ultimi 30 anni è stato il vero grande ammortizzatore sociale di massa che ha permesso di tenere botta di fronte a una crisi economica infinita e di proporzioni bibliche e che è stata tutta scaricata sulle persone comuni, mentre i super – ricchi incassavano. Il protettorato italiano è ormai, in buona parte, un’economia a zero valore aggiunto fondata su gelaterie e parrucchieri, che durano come un gatto in tangenziale e, ciononostante, proliferano come funghi proprio perché fanno leva sul patrimonio immobiliare accumulato dalle famiglie, che ormai è ridotto al lumicino; come ricordava una decina di giorni fa Il Sole 24 Ore infatti, ancora solo nel 2009 le famiglie italiane erano le più ricche di tutti: 159.700 euro pro capite, ben al di sopra dei francesi che erano fermi a quota 137.400 euro e, addirittura, degli statunitensi, a quota 152.300. E il grosso di questa ricchezza era tutto mattone: circa il 65%.
Ora tra i paesi del G7 siamo il fanalino di coda (e manco di poco) e più poveri eravamo in partenza, più c’abbiamo rimesso: nel 2011 la metà più povera della popolazione, infatti, deteneva il 12% del patrimonio complessivo; ora non arriva all’8, una quota che, però, non è stata redistribuita equamente tra il 50% messo meglio, eh? Se la sono presa tutta i più ricchi: il 10% più ricco del paese, infatti, già all’inizio del secolo deteneva oltre la metà della ricchezza complessiva, il 53%; ora ne detiene il 58. Si sono fregati tutta la ricchezza del 50% più povero e un pochino anche di tutti gli altri.
In buona parte è dovuto a un fattore molto semplice: il patrimonio (misero) dei più poveri sta nel mattone; quello dei più benestanti in buona parte è invece in azioni di aziende quotate e il valore delle azioni quotate è aumentato parecchio di più che la casa di famiglia, il 125% contro il 54, quasi 3 volte. E questo è se rimaniamo a Piazza Affari; quelli più privilegiati tra i privilegiati, infatti, mica investono nelle aziende italiane mezze decotte quotate a Milano: puntano direttamente tutto sui mercati internazionali che sono cresciuti del 200%, quasi il doppio. Con quest’ultima prevedibilissima, scontatissima botta al mercato immobiliare si va verso la resa dei conti finale; ora, una domandina semplice semplice: cosa hanno in comune i tre paesi elencati? Esatto: sono i 3 grandi sconfitti della seconda guerra mondiale e non è un caso; il superimperialismo finanziario statunitense, infatti, ha allungato le sue mani piene zeppe di dollari su tutto il pianeta, ma una cosa è essere semplicemente soggiogati dal potere del dollaro, un’altra cosa è essere occupati militarmente che è, sostanzialmente, la nostra condizione. Negli anni, un pochino questo aspetto fondamentale era rimasto quasi in sordina; certo, c’è stata Gladio, la strategia della tensione, il golpe bianco di tangentopoli, però il peso materiale, concreto, tangibile dell’occupazione militare vera e propria – almeno da un po’ di tempo a questa parte – non emergeva in modo così lampante, anche perché le nostre élite condividevano pienamente l’agenda e nessuno gliene chiedeva particolarmente conto. Ora, nei confronti dei propri protettorati l’impero usa più o meno la mano forte a seconda delle circostanze: quando se lo può permettere – e coincide con i suoi interessi o, almeno, non ci fa a cazzotti – può essere anche un dominio benevolo; lo è stato addirittura quello inglese sul subcontinente indiano dove, a un certo punto, sono state investite anche ingenti risorse, e proprio per liberare forze produttive: sono state costruite infrastrutture, sono stati fatti investimenti industriali enormi, fino a che l’impero non è entrato in difficoltà e, allora, le forze produttive sono state massacrate per estrarre quanto più valore possibile e rinviare il declino, che è esattamente quello che sta succedendo ora a noi con gli USA.
Per far fronte al fatto che una bella fetta del Sud globale di farsi succhiare risorse si è abbondantemente rotto i coglioni, e sta reagendo in modo sempre più perentorio, il superimperialismo finanziario USA sta succhiando risorse da tutti gli alleati e tra gli alleati, in particolare – ovviamente – a quelli letteralmente occupati militarmente, dove può esercitare direttamente e senza tanti compromessi il proprio dominio: l’equivalente del subcontinente del superimperialismo finanziario USA; la buona notizia è che, vedendo al precedente britannico, per quanto ti sforzi di spolpare lo spolpabile (o forse proprio perché ti riduci a spolpare lo spolpabile), alla fine l’impero crolla e i sudditi trovano il modo di andarti abbondantemente nel culo. Quella cattiva, invece, è che – sempre nel caso britannico – per convincerli a mollare definitivamente l’osso c’è voluta un’altra bella guerra mondiale, che non è stata esattamente una pacchia, diciamo. Come andrà a finire?
Autunno 2023, Dusseldorf: “In un cavernoso capannone industriale” “i toni cupi di un suonatore di corno accompagnano l’atto finale di una fabbrica secolare” scrive in un raro slancio poetico Bloomberg: la fabbrica in questione, da una trentina di anni, era diventata la divisione locale della francese Vallourec, il principale concorrente della ex italiana Tenaris nel mercato dei tubi in acciaio senza saldatura indispensabili per l’industria petrolifera e del gas, ma le sue radici affondano più dietro assai; a partire da fine ‘800, infatti, era sempre stata il fiore all’occhiello di Mannesmann, il colosso tedesco che prima di dedicarsi interamente alle telecomunicazioni ed essere inglobato da Vodafone (in quella che rimane ancora oggi la più grande acquisizione di tutti i tempi) aveva la leadership mondiale della lavorazione dell’acciaio e ora, “tra lo sfarfallio di razzi e torce”, ecco che “molte delle 1.600 persone che hanno perso il lavoro rimangono impassibili mentre il metallo incandescente dell’ultimo prodotto dello stabilimento viene levigato fino a diventare un cilindro perfetto su un laminatoio”. “La cerimonia” continua Bloomberg “mette fine a una corsa durata 124 anni, iniziata nel periodo di massimo splendore dell’industrializzazione tedesca e che ha resistito a due guerre mondiali, ma non è riuscita a sopravvivere alle conseguenze della crisi energetica”; cerimonie del genere, continua Bloomberg, sono diventate sempre più frequenti e ormai scandiscono “la dolorosa realtà che la Germania deve affrontare: i suoi giorni come superpotenza industriale potrebbero essere giunti al termine”.
Notare le date: 124 anni, come avrebbe dovuto festeggiare il centoventesimo compleanno anche la Ritzenhorff, la storica fabbrica di bicchieri di Marsberg, nella Renania – Vestfalia, ma per la festa non sono previste candeline; come ricorda Isabella Buffacchi sul Sole 24Ore infatti, la dirigenza ha annunciato “di doverla dichiarare insolvente per evitare la bancarotta, e 430 dipendenti rischiano il posto di lavoro”.
Siamo alla resa dei conti definitiva della seconda guerra dei 100 anni, che anche nella sua prima versione – quando a confrontarsi erano Francia e Inghilterra – ne durò in realtà 116; a questo giro, invece che due paesi in lotta per il controllo del territorio, a confrontarsi sono stati due sistemi economici: l’imperialismo finanziario da un lato e il capitalismo produttivo dall’altro. Potremmo leggerla anche così questa fase terminale della grande avventura industriale dell’asse Italia – Germania – Giappone, l’ultimo atto della guerra dei 100 anni tra il neofeudalesimo delle oligarchie finanziarie e il capitalismo industriale che, come ci ha raccontato Michael Hudson, è iniziata appunto con la prima guerra mondiale. Il tracollo dell’industria tedesca procede spedito oltre ogni più pessimistica previsione e il modo migliore per provare a realizzarne l’entità è attraverso questo grafico:

rappresenta l’andamento della produzione industriale; fatta 100 la produzione nell’ottobre 2015, è passata da un valore di 70 nel 1993 a un picco di 107,5 nel novembre 2017, in una delle più grandi ascese di sempre in un paese a capitalismo già avanzato. Da allora è iniziata la grande discesa che ha portato a perdere 15 punti nell’arco di 6 anni e se gli indici non vi stuzzicano abbastanza la fantasia, ecco qualche esempio concreto: il gigante della componentistica per l’automotive Continental ha da poco annunciato il taglio di oltre 7.000 posti di lavoro, 5.400 in ruoli amministrativi e 1.750 addirittura nelle attività di sviluppo e ricerca e “circa il 40% delle riduzioni” sottolinea Bloomberg “riguarderà i dipendenti in Germania”. Il produttore di pneumatici Michelin ha annunciato la chiusura di due dei suoi stabilimenti e la riduzione di un terzo entro il 2025 “con una mossa” scrive sempre Bloomberg “che interesserà più di 1.500 lavoratori” ai quali vanno aggiunti quelli impiegati in due stabilimenti della concorrente Goodyear che ha annunciato intenzioni simili; e sempre per restare nell’automotive e dintorni, anche Bosch, riporta sempre Bloomberg, “sta cercando di tagliare 1200 posti di lavoro nella sua unità software ed elettronica”.
Va ancora peggio per la chimica dove, sempre secondo Bloomberg, “quasi un’azienda su 10 sta pianificando di interrompere definitivamente i processi di produzione”; a inaugurare le danze intanto c’hanno pensato la Lanxess di Colonia e la BASF, che hanno annunciato rispettivamente un migliaio e 2.600 licenziamenti. D’altronde, non poteva andare molto diversamente: se la produzione industriale tedesca è calata in media del 3% in un anno, nel solo mese di dicembre quella metallurgica è crollata di 5,8 punti; quella chimica addirittura di 7,6, e il tonfo si è sentito benissimo anche in Italia. La crisi tedesca fa calare l’export made in Italy titolava il 16 gennaio Il Sole 24Ore, “a novembre – 4,4% annuo”; “La discesa, in termini assoluti” si legge nell’articolo “vale oltre 2,5 miliardi di euro”, ma se nei mercati extra UE l’export italiano cala di meno di 3 punti e mezzo, in Europa siamo poco sotto i 5 punti e mezzo “con punte più alte proprio a Berlino, primo mercato di sbocco, che ha ridotto nel solo mese di novembre gli acquisti del 6,4%, approfondendo il rosso dall’inizio dell’anno”. Risultato: “Italia e Germania”, riporta sempre Il Sole in un altro articolo, “sono i paesi della zona euro con la quota più alta di aziende vulnerabili” e, cioè, di aziende che rischiano di chiudere i battenti: addirittura 1 su 10; “Nel secondo e terzo trimestre del 2023” continua l’articolo “l’indice delle dichiarazioni di fallimento dell’eurozona ha raggiunto il livello più elevato dal 2015, quando l’indicatore UE è stato reso disponibile per la prima volta” e, ovviamente, il grosso delle aziende vulnerabili sono proprio aziende manifatturiere: l’11% contro il 6% di quelle attive nei servizi. Eh, narra la difesa d’ufficio degli analfoliberali, un po’ però ce lo cerchiamo, con tutte queste piccole aziende inefficienti. Beh, insomma: “La quota di imprese vulnerabili” ricorda infatti Il Sole “è aumentata in misura maggiore tra le grandi imprese rispetto alle PMI”. Eh, continua la difesa analfoliberale, ma un po’ comunque se la sono cercata: sono vecchi dinosauri, ma, anche qui, ari-insomma; “La quota di imprese vulnerabili” continua infatti l’articolo “è cresciuta più tra le imprese giovani rispetto alle più vecchie”, ed ecco così che, anche a questo giro, dura realtà rossobruna batte editorialisti del Foglio 3 a 0. E le stime dell’osservatorio UE potrebbero essere ottimistiche: secondo la società di consulenza Alvarez & Marsal, riporta infatti Bloomberg, “circa il 15% delle aziende tedesche attualmente sono in difficoltà finanziarie”; in soldoni, significa che fanno fatica a ripagare le obbligazioni che hanno emesso e, come sempre accade quando si cominciano ad ammucchiare le carcasse, ecco che spuntano gli avvoltoi. “Secondo i banchieri e i consulenti presenti a Davos” ricorda, infatti, sempre Bloomberg “le società di private equity sono attratte dalla Germania a causa delle difficoltà che molte aziende stanno attraversando, e stanno cercando di acquistare aziende familiari a basso costo e promuovere miglioramenti operativi” che, se lo traduci nella nostra lingua, significa come sempre smembrarle a pezzetti, spolparle per bene e rivenderle con ampio margine fuggendo con la borsa piena e il deserto produttivo alle spalle. Fondi come Ares Management e Blackstone, riporta sempre Bloomberg, hanno aperto uffici a Francoforte e sono a caccia di affari per acquistare a prezzi di saldo, o anche soltanto per concedere prestiti ad alti tassi. E c’è chi scommette nel crollo definitivo: “I venditori allo scoperto” riporta, infatti, sempre Bloomberg “stanno scommettendo 5,7 miliardi di euro contro le aziende del paese”; ad essere presa di mira, in particolare, Volkswagen che in molti, ormai, sospettano non abbia nessuna chance di reggere l’impatto della concorrenza cinese. Ma le scommesse vanno anche oltre l’industria, a partire da Deutsche Bank, particolarmente esposta nel settore immobiliare, dove si è già registrato un calo di prezzi dell’11% nel residenziale che potrebbe essere solo l’antipasto; per gli uffici, infatti, “gli analisti” riporta Bloomberg “prevedono cali di valore in media rispetto al picco del 40%”. L’ultima volta che l’impero finanziario angloamericano cercò di troncare sul nascere l’ascesa industriale del Giappone e della Germania – con l’Italia utile idiota al seguito – le potenze industriali reagirono coltivando il sogno di ridurre in schiavitù mezzo pianeta; ora, fortunatamente, non hanno la potenza militare e politica nemmeno per pensarci e, però, la tentazione rimane: come abbiamo anticipato ieri, infatti, la Germania si è messa alla testa dei paesi europei che stanno cercando di affondare la normativa europea che impone alle grandi aziende di rispettare nientepopodimeno che le leggi sull’ambiente e i diritti umani, e pure di farle rispettare ai fornitori e ai subappaltatori. E’ già un passo avanti: prima, per trovare schiavi, ti invadevano coi carrarmati; ora si accontentano di fare qualche gara al massimo ribasso o di un po’ di caro vecchio caporalato.

Olaf Scholz

Di fronte alla debacle economica e all’assoluta mancanza anche solo di un barlume di reazione da parte della classe dirigente, nel mondo reale i malumori non possono che aumentare esponenzialmente: se oggi la maggioranza di governo tornasse alle urne, tutta insieme supererebbe di poco il 30%; e le piazze tornano a riempirsi di lavoratori dell’industria e dei servizi, ma in queste settimane, sopratutto, di trattori che, nonostante comportino numerosi disagi e spesso portino avanti rivendicazioni non proprio chiarissime – e addirittura a volte non proprio condivisibili – possono vantare un grande sostegno popolare, una miccia che bisogna spegnere in tutti i modi. E in particolare in Germania, dalle proteste contro il sostegno incondizionato a guerre e genocidi a quelle contro il declino economico, non c’è metodo migliore per spegnere una miccia che fare leva sull’atavico senso di colpa per il passato nazista; ed ecco così che come per magia, proprio quando serve, spunta una bella psyop in piena regola: ricordate la vicenda del fantomatico complotto di estrema destra ordito da alcuni dirigenti dell’AfD che avrebbero esternato la volontà di radunare gli immigrati per poi deportarli? Quello che ha spinto centinaia di migliaia di persone a scendere in piazza contro la deriva nazista, segnando l’unica vittoria in termini di public relations del governo Scholz da 2 anni a questa parte? Beh, a leggere il sempre ottimo Conor Gallagher su Naked Capitalism, è una vicenda non esattamente limpidissima, diciamo; il tutto, infatti, sarebbe nato da un rapporto di un’organizzazione no profit di nome Correctiv: Piano segreto contro la Germania si intitola. “Era l’incontro di cui nessuno avrebbe mai dovuto venire a conoscenza” recita il rapporto; “A novembre” continua “politici di alto rango del partito tedesco di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD), neonazisti e uomini d’affari comprensivi si sono riuniti in un hotel vicino a Potsdam. Il loro programma? Niente di meno che la messa a punto di un piano per le deportazioni forzate di milioni di persone che attualmente vivono in Germania”. Nel rapporto si fa inoltre riferimento alla Conferenza di Wannsee, durante la quale una quindicina di gerarchi nazisti mise a punto la strategia della cosiddetta soluzione finale della questione ebraica; indignarsi, ovviamente, è il minimo indispensabile ed è esattamente quello che succede, e non ci si ferma alle proteste: bisogna trovare una soluzione drastica. E la soluzione è proibire per legge l’AfD che diventa, magicamente, una proposta ragionevole, razionale, almeno fino a quando la vicedirettrice di Correctiv, Anett Dowideit, viene intervistata dalla Tv e indovinate un po’? Afferma, riporta Gallagher, “che in realtà non si era parlato di deportazioni durante l’incontro, né era simile alla conferenza nazista di Wannsee del 1942, dove si si decise di intraprendere l’uccisione di massa degli ebrei”; “Dowideit” continua Gallagher “ha affermato che la stampa tedesca ha interpretato male il rapporto di Correctiv”: due smentite secche che, però, non hanno trovato eco sui media – dove si continua a discutere di quanto sia democratico proibire all’AfD di partecipare alle elezioni. E la cosa buffa è che, nel frattempo, le deportazioni avvengono davvero e non certo a causa dell’AfD; a impartirle, infatti, è stato il democraticissimo Bundestag che ha approvato, nel silenzio dei media, una legge che apre la strada a una semplificazione drastica per la deportazione dei richiedenti asilo.
Quanto a lungo continueremo a permettere alle nostre élite di evitare di pagare le conseguenze delle loro azioni semplicemente spacciando puttanate? Per smetterla una volta per tutte di farci prendere così platealmente per il culo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che invece che spacciare armi di distrazione di massa per rimandare la resa dei conti, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Olaf Scholz

Mancano lavoratori qualificati? – La BUFALA per coprire i PRENDITORI PARASSITI – Ft Marco Barbieri

Oggi intervista a Marco Barbieri, professore di diritto del lavoro presso la facoltà di giurisprudenza dell’università Aldo Moro di Bari, con lui abbiamo parlato di costo del lavoro, welfare e politiche di sviluppo, smentendo alcuni dei più diffusi luoghi comuni sul lavoro dipendente e la possibilità di fare impresa nel nostro paese.

“E allore le foibbbeee??1!?” – Lo scandaloso revisionismo del Giorno del Ricordo

Carissimi ottoliner buonasera e ben ritrovati. Oggi giornata impegnativa perché, come titolava Libero, Oggi scatta l’ora delle foibe che, secondo la testata “sono state il nostro olocausto”; mica piazza e fichi: “Poco meno di ventimila italiani trucidati dalle truppe comuniste jugoslave, coadiuvate da alcune brigate partigiane italiane ancora più comuniste delle squadracce di tagliagola del generale Tito” sottolinea Libero, che poi rilancia con un estratto da un intervento che il presidente della Camera Lorenzo Fontana ha effettuato alcuni giorni fa, durante il quale ha sottolineato come “Nel massacro che ebbe inizio nel 1943 furono colpiti per lo più civili (giovani, anziani, donne e bambini) le cui famiglie per secoli avevano pacificamente convissuto in quelle terre felici con altre etnie e culture”. E’ un riassunto ineccepibile della gigantesca battaglia culturale che sta dietro all’istituzione del Giorno del Ricordo, un miscuglione di fake news, vittimismo, negazionismo e capovolgimento della verità storica da far impallidire anche il più spregiudicato dei complottisti da social e, probabilmente, la più grande vittoria ideologica della destra fascista e postfascista dal dopoguerra ad oggi.

Davide Conti

Partiamo dalle fake news. Intanto, i numeri: 20 mila, dice Libero (e già si è dato un contegno, diciamo); non ci sono più i postfascisti di una volta, quelli che ti tiravano fuori le centinaia di migliaia di milioni di miliardi da un momento all’altro come se nulla fosse. Ma la tentazione di sparare numeri a caso è dura a morire: come ci ha ricordato lo storico Davide Conti, la letteratura scientifica il dilemma delle cifre lo ha risolto da un po’ e il bilancio è inferiore alle 5000 vittime – che sono comunque un’enormità, ci mancherebbe – ma non è che siano esattamente saltate fuori dal niente; le violenze sul confine italo – jugoslavo sono solo uno dei molti capitoli drammatici all’interno del grande libro nero della guerra totale contro l’umanità scatenata a livello globale dai nazifascisti. Che la loro sconfitta avrebbe prodotto anche forme di violenza e di ferocia contro tutto quello che richiamava quei governi, quegli stati e quelle pratiche, era piuttosto prevedibile e inevitabile: in Polonia, ad esempio, si manifestò attraverso l’espulsione di 8 milioni di tedeschi, a cui si aggiunsero anche i 3 espulsi dalla Cecoslovacchia e le diverse decine di migliaia dall’Ungheria e dalla Jugoslavia; secondo Fontana, poi, in questo massacro ad essere colpiti furono soprattutto civili inermi. Insomma, per celebrare la memoria di questi civili inermi – con l’emanazione nel 2004 della legge che istituiva il Giorno del Ricordo – è stato previsto anche venga assegnato un riconoscimento ai parenti fino al sesto grado di persone “soppresse e infoibate”, come anche di quelle soppresse “mediante annegamento, fucilazione, massacro o attentato” tra l’8 settembre del ‘43 e il 10 febbraio del 1947; inizialmente il termine per la presentazione delle domande era stato fissato in 10 anni e sarebbe dovuto scadere nel 2015, ma poi hanno deciso di prorogarlo di altri 10 anni. Perché?
Il punto è che, invece delle migliaia e migliaia di richieste che era lecito aspettarsi – a giudicare dalle stime sul numero delle vittime che siamo abituati ad ascoltare – nei primi 10 anni di questo istituto le richieste sono state in tutto 323 o, almeno, questa è la stima che nel 2017 avevano fatto gli storici che fanno capo al sito diecifebbraio.info secondo i quali “per essere un elenco di vittime di un disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri contorni della pulizia etnica a danno degli italiani, come affermato dal presidente Napolitano nel suo discorso in occasione del 10 febbraio 2007, un po’ pochino”. Il numero ufficiale, invece, non si sa: al contrario di sostanzialmente tutte le altre onorificenze dello Stato, per le cosiddette vittime delle foibe non sembrerebbe esistere un albo ufficiale unico; quello che invece sappiamo è che, per fare le sue valutazioni, la Commissione per l’attribuzione dei riconoscimenti ha fatto ricorso fondamentalmente a un testo. Si intitola Albo d’oro. La Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto mondiale ed è un monumentale elenco di oltre ventimila nomi di giuliano – dalmati morti durante la seconda guerra mondiale; a redigerlo, Luigi Papo, già comandante di un’unità della Milizia Difesa Territoriale, una formazione collaborazionista messa in piedi grazie al sostegno dei tedeschi, ma soprattutto – sempre secondo la ricostruzione dettagliata effettuata da diecifebbraio.info – soltanto in rarissimi casi si tratterebbe di semplici civili: oltre il 70%, infatti, sarebbero appartenenti a qualche formazione armata o di polizia e altri 23 sarebbero personale politico di vario grado del regime fascista, comprese 9 camicie nere e 2 brigatisti neri, ovviamente qualifiche “professionali” che nelle motivazioni di concessione del riconoscimento sono state sistematicamente omesse. C’è la privacy.
Un caso paradigmatico è quello di Vincenzo Serrentino che, come si legge nelle motivazioni del riconoscimento, “Recatosi a Trieste per espletare la sua attività istituzionale venne arrestato il 5 maggio 1945 dai partigiani titini. Deportato e imprigionato in varie carceri, venne condannato a morte a Sebenico il 15 maggio del ‘47”. Ma chi era Vincenzo Serrentino? “Siciliano di nascita, arrivò a Zara come ufficiale dell’esercito alla fine della Grande Guerra e vi si stabilì” ricostruisce il blog diecifebbraio.info; secondo questa ricostruzione, Serrentino negli anni raggiunse il grado corrispondente a quello di tenente colonnello all’interno della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, la milizia degli squadristi. Non solo: secondo gli jugoslavi fu anche componente del tribunale straordinario per la Dalmazia, istituito nell’ottobre del 1941 per dare un minimo di veste legale alle rappresaglie degli invasori italiani e che, secondo una descrizione dello stesso procuratore militare italiano in Dalmazia, “girava per la Dalmazia, e dove si fermava le poche ore strettamente indispensabili per un frettoloso giudizio, pronunciava sentenze di morte. Il suo presidente pare fremesse d’impazienza per aver gente da giudicare, né sembra ne avesse mai abbastanza”. Nell’ambito di questo suo ruolo, gli jugoslavi lo giudicarono responsabile della morte di almeno 18 persone e in base a questo lo condannarono a morte; d’altronde, per perseguire i sospettati di crimini di guerra italiani, gli jugoslavi – e non solo – non è che avessero molte altre alternative. Alla fine della seconda guerra mondiale, tutti i paesi rimasti vittime dell’aggressione militare dell’Italia fascista, dalla Grecia all’Albania passando per l’Etiopia, l’Eritrea, la Jugoslavia e addirittura pure la Francia, inviarono alle Nazioni Unite un elenco di oltre 1000 italiani accusati di crimini di guerra che avrebbero dovuto essere estradati o, in alternativa, essere giudicati da un tribunale internazionale; dei componenti di questa lista non ne verrà mai processato manco uno: è la Norimberga italiana che per motivi geopolitici non venne mai svolta e che ha permesso di coltivare il falso mito degli italiani brava gente che, ancora oggi, viene utilizzato per capovolgere la realtà e la storia, con gli italiani che da carnefici diventano magicamente vittime. Sono, appunto, le “famiglie” che, per bocca di Lorenzo Fontana, “per secoli avevano pacificamente convissuto in quelle terre felici con altre etnie e culture”, un quadro fuorviante e idilliaco che fa a cazzotti con la realtà storica, ma proprio giusto un pelino, eh?
Giusto per fare un rapido ripassino: 6 aprile 1941. La Luftwaffe inizia una campagna feroce di bombardamenti nei cieli di Belgrado e senza nemmeno degnarsi di dichiarare guerra, le truppe italiane, al fianco di quelle naziste tedesche, invadono la Jugoslavia; 5 mesi prima Mussolini aveva invitato i soldati italiani a spezzare le reni alla Grecia. Non stava andando proprio benissimo: l’esercito italiano era in palese difficoltà e i tedeschi temevano che un crollo degli italiani avrebbe permesso agli inglesi di insediarsi in Grecia; Hitler, allora, decise che era arrivato il momento di intervenire. Da qui il ruolo strategico che assunsero i Balcani: dopo l’invasione, l’esercito jugoslavo capitola in pochi giorni e il paese viene smembrato e assegnato ai diversi partner che procedono celermente ad annettere territori che bramavano da tempo; all’Italia toccò Lubiana e giù giù fino a Spalato. Insieme all’Albania, invasa e annessa all’impero italico già due anni prima, finalmente l’Adriatico era diventato Mare Nostrum. L’invasione jugoslava dette vita a una cruenta guerra civile durante la quale vennero massacrate oltre 1 milione di persone, 36 mila soltanto a Lubiana, uno ogni 10 abitanti: “Troppo pochi” secondo il comandante dell’XI corpo d’armata Mario Robotti. Provò a venirgli incontro un altro Mario, il generale Roatta che, nel marzo del 1942, emanò la famosa circolare 3C: “Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, bensì da quella testa per dente!”. La grande celebrazione dell’identità nazionale degli italiani brava gente poteva finalmente avere inizio: fucilazioni di ostaggi inermi, rappresaglie contro i civili anche solo lontanamente sospettati di aver prestato una qualsiasi forma di assistenza alle brigate partigiane, deportazioni di massa, campi di concentramento; solo in quello di Arbe morirono in 1500, in quello di Gonars in 500 – 70 avevano meno di un anno.

Benito Mussolini

Ma limitarsi a fare la conta dei crimini commessi durante la guerra vera e propria potrebbe risultare fuorviante: come ci ricorda lo storico Davide Conti “Ogni volta che parliamo del confine italo – jugoslavo non dobbiamo dimenticare che è proprio lì che nasce il fascismo. Ben prima della marcia su Roma”; come spiegava Benito Mussolini stesso nel settembre del 1920 dalle pagine del Popolo d’Italia “In altre plaghe d’Italia i Fasci di combattimento sono appena una promessa, nella Venezia Giulia sono l’elemento preponderante e dominante della situazione politica”. Da lì in avanti, gli italiani portarono avanti un vero e proprio piano di genocidio culturale fatto di divieti all’utilizzo della lingua, cambiamento della toponomastica, sostituzione del corpo docente locale con docenti italiani (che manco sapevano la lingua), ma anche di espropri di terra e di sistematica persecuzione degli esponenti politici e culturali locali; ma, al di là dell’italianizzazione, a fare più danni fu proprio il processo di fascistizzazione: è stato proprio qua che lo squadrismo fascista, la violenza sistematica contro operai, contadini, sindacati, partiti politici e mezzi d’informazione venne sperimentata su larga scala per la prima volta e permise di mettere a punto un modello che poi verrà replicato in un’altra ventina di paesi in tutto il mondo. Un’eredità troppo pesante da sopportare e che, se affrontata con un minimo di raziocinio, renderebbe impossibile a un Ignazio la Russa qualsiasi fare bella mostra in Tv dei busti di Mussolini che gelosamente custodisce in casa; e, ovviamente, in ballo qui non c’è soltanto la memoria storica – che già di per se sarebbe più che sufficiente. In ballo c’è qualcosa di molto più attuale: la fine dell’antifascismo come valore fondante delle democrazie moderne, del quale la nostra carta costituzionale rappresenta probabilmente l’espressione più avanzata; il 19 settembre del 2019 il parlamento di Strasburgo approva una risoluzione che riscrive la storia del secondo conflitto mondiale attribuendone la responsabilità, invece che all’espansionismo nazista, a quei farabutti dei sovietici che firmarono il patto Molotov – Ribbentrop equiparando sostanzialmente nazismo e comunismo. Era chiaro che si trattava soltanto dell’antipasto: il 26 gennaio dell’anno scorso, in occasione della Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli alpini (istituita per legge appena il maggio scorso) l’assessore regionale all’istruzione del Veneto Elena Donazzan ha emanato una circolare nella quale si rammarica di come “purtroppo già nel mese di dicembre i russi dilagano accerchiando le divisioni posizionate più ad est”; dall’equiparazione, finalmente siamo arrivati al rovesciamento: la maggioranza che sostiene il governo italiano avrebbe preferito che la seconda guerra mondiale andasse diversamente. Ma la vera chicca è arrivata il giorno dopo; alle celebrazioni per il giorno della memoria, ad Auschwitz sono tutti presenti a parte uno: chi l’ha liberata. I russi.
Ah no, già. Scusate. Cazzo dico? Mica l’hanno liberata i russi: l’hanno liberata gli ucraini con in mano un libro di Kant e fischiettando il brano vincitore dell’Eurovision. Contro il revisionismo storico che apparecchia il banchetto ideologico dove si nutre la grande controrivoluzione globale del grande capitale e dell’imperialismo, abbiamo bisogno di un media che racconti la storia e il presente per quello che sono e non per quello che piacerebbe fossero alla Donazzan e a Ignazio la Russa. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Elena Donazzan

FARDELLI D’ITALIA, EP.1 – Come i Politici Italiani usano le Istituzioni per i loro Affari Privati

Nuova collaborazione con gli amici di Paese Reale , che ogni sabato alle 13 e 30 ci delizieranno con un rapido resoconto dei principali fatti di politica e di economia che riguardano la nostra amata colonia.

AUTONOMIA DIFFERENZIATA: la Secessione dei Ricchi che distruggerà il Paese – ft Gianfranco Viesti

Stasera approfondiamo l’autonomia differenziata con Gianfranco Viesti, professore di Economia applicata presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bari. Buona visione

SINNER l’ANTI-ITALIANO: se un EVASORE TOTALE viene spacciato per Eroe della Patria

“Lavoro, famiglia e la rimonta da Slam”; Jannik Sinner, “l’arcitaliano che vorremmo essere”: nei giornali dei fintosovranisti, lunedì – la prima volta di un italiano agli Open di Australia – veniva salutata, comprensibilmente, con incontenibile entusiasmo. Ora, a noi il tennis piace, piace vedere il tricolore in cima al podio e piace pure Sinner, ma cosa intendono esattamente quando parlano dell’arcitaliano che vorremmo essere? Intendiamoci: sul che vorremmo essere magari ci può anche stare, ma siamo proprio sicuri che si parli esattamente di un arcitaliano? Jannick Sinner infatti, come d’altronde anche l’allenatore e 4 componenti su 5 del team che ci ha regalato di nuovo, dopo decenni, la Coppa Davis, in realtà sono italiani un po’ a modo loro: hanno tutti la residenza a Montecarlo, dove pagano le tasse (o meglio, dove non le pagano); il principato di Monaco, infatti, è un gigantesco paradiso fiscale e per l’Italia è un problema enorme. Ogni anno ci finiscono una quantità spropositata di quattrini che a noi che non ambiamo a essere arcitaliani, ma ci accontentiamo di essere italiani semplici, servirebbero come il pane per finanziare i servizi essenziali che hanno permesso anche ai nostri campioni di diventare quello che sono (dalla scuola alla sanità, a tutto quello che fa del nostro paese – ancora per poco – un paese moderno e sviluppato), ma anche per rilanciare la nostra moribonda economia. Siamo proprio sicuri che il modello del perfetto patriota sia qualcuno che prende dalla nostra comunità tutto quello che gli serve e poi, quando gli va bene, ci fa ciao ciao con la manina e non restituisce niente? Con patrioti così – e con chi li eleva a role model di cui vantarsi e da ostentare – non è che rischiamo di darci una martellata nei coglioni?

Jannik Sinner

Il patriottismo italiano ai tempi del governo dei fintosovranisti al servizio di Washington e delle oligarchie finanziarie sembra un po’ strambo: i personaggi dello sport si fottono beatamente i soldi che dovrebbero servire per garantire i servizi essenziali a chi ha più bisogno e per far ripartire l’economia anche per tutti gli altri e, ciononostante, diventano eroi della patria; come si dice in questi casi, la mia idea di patria evidentemente è differente. Il caso di Montecarlo è un caso scuola di come funziona il grande furto di ricchezza delle oligarchie e dei super – ricchi a danno dei loro – a quanto pare – tanto odiati compatrioti e riguarda, in particolare, proprio l’Italia; in appena due chilometri quadrati, infatti, a Montecarlo si concentrano circa 38 mila abitanti, 19 mila per chilometro quadrato: la più grande concentrazione di popolazione al mondo e senza che ci siano i megagrattacieli di Dubai o di Abu Dhabi. Tutti fitti fitti come formichine; insomma, un vero posto di merda. Eppure, come riporta Idealista, è proprio qui che ci sono i monolocali più cari del mondo: 51 mila euro al metro quadrato, contro gli oltre 43 mila del centro di Hong Kong; un gap che aumenta se, invece che i soli monolocali del centro, ci si allarga anche alle altre aree e alle altre tipologie di abitazione. A Montecarlo, infatti, il prezzo al metro quadro medio continua ad essere di oltre 44 mila euro, mentre a Hong Kong scende a poco più di 16 mila: 44 mila euro al metro quadro, 4 milioni e mezzo per un umile appartamento di 100 metri quadrati. Perché?
Semplice: nel principato di Monaco le tasse sul reddito e sulle plusvalenze non sono semplicemente scandalosamente basse; proprio non ci sono del tutto, come non ci sono tasse sul patrimonio, sull’eredità e manco l’IMU, e per acquisire il diritto di non pagare le tasse a Montecarlo ti devi comprare per forza quattro mura. Ecco così che decine di migliaia di ultra – ricchi di tutto il pianeta fanno a gara per spartirsi i mattoni che si accumulano uno sopra l’altro in questi orrendi 2 chilometri quadrati di territorio; i 39 mila abitanti di Montecarlo, infatti, si dividono in poco meno di 140 nazionalità di provenienza diverse : solo nel 2022 – riporta l’ufficio di statistica monegasco – sono state effettuate transazioni immobiliari per 3,54 miliardi, oltre 90 mila euro pro capite. In Italia, giusto per avere un parametro di confronto, il valore delle transazioni immobiliari in un anno equivale a meno di 2000 euro pro capite. Tutti soldi che non solo vengono sottratti al fisco, ma anche all’economia reale.
E’ un esempio paradigmatico di bolla speculativa che si sostiene grazie alla fuga dei capitali e all’elusione fiscale internazionale: te sei azionista di un’azienda che opera in un paese X, ma hai la residenza fiscale a Montecarlo; quando arrivano i dividendi, invece di reinvestirli li porti nel principato di Monaco e ci compri uno di questi appartamenti: un quadrilocale standard da 123 metri quadrati per 5,4 milioni, oppure un modesto bilocale da 70 metri quadrati per appena 4,9 milioni o, se ti è andata particolarmente di lusso quell’anno, magari anche un bel duplex da oltre 400 metri quadrati per la modica cifra di 22,9 milioni. Ovviamente quei soldi non creano nessuna forma di ricchezza reale e, a parte quell’1% scarso che va a chi la casa l’ha costruita davvero, non aiutano nessuna forza produttiva a svilupparsi, e però te sei tranquillo che il tuo patrimonio è al sicuro, completamente detassato e che si rivaluterà continuamente grazie ai tuoi amici che sono al governo nel tuo paese di provenienza, che ti garantiscono che la fila di super – ricchi che fanno a pugni per comprarsi le quattro mura necessarie per farli diventare parte di questo sogno distopico ci sarà sempre e che nessuno farà mai niente per mettere fine a questa rapina . E, anzi, eleggeranno a eroe della patria dell’anno chi ci partecipa, che, va ricordato, sarà pure il primo italiano a vincere gli Open d’Australia, ma in questo giochino a chi frega più soldi all’Italia e agli italiani arriva esimo. Dopo i meno di 9 mila abitanti autoctoni e i poco meno di 10 mila cittadini francesi, a guidare la classifica dei residenti monegaschi per paese di provenienza – e di gran lunga – infatti, c’è proprio l’Italia: oltre 8000, seguiti a gran distanza dai meno di 3000 cittadini britannici e dai poco più di mille svizzeri e belgi. Gli statunitensi, invece, sono proprio pochini: meno di 400; strano eh? Beh, mica tanto: insieme ai francesi, infatti, gli statunitensi sono gli unici che non hanno diritto all’esenzione totale dalle tasse sui redditi e sulle plusvalenze; chiamali scemi… I governi USA hanno steso tappeti rossi in casa ai loro super – ricchi creandosi anche paradisi fiscali interni; ma i capitali non li fanno fuggire a caso. Loro sono quelli che i capitali li fregano agli altri, non certo quelli che se li fanno fregare.

Valentino Rossi’s “Ciao poverih”

Ora, i nostri 8 mila connazionali che con i loro magheggi fiscali hanno dichiarato guerra all’economia del nostro paese, diciamo che in media hanno un modesto appartamento da un centinaio di metri quadrati per uno anche se non ci stanno mai: come avviene nella stragrande maggioranza dei casi,100 metri per questi parassiti sono un misero pied-à-terre. Ecco: fanno 800 mila metri quadrati di bolla speculativa edilizia a 50 mila euro al metro quadrato, e cioè 40 miliardi sottratti all’economia reale del nostro paese, perché fare soldi investendoli nell’economia reale comunque è troppo più faticoso e rischioso che non depositarli in una bolla speculativa in un paradiso fiscale. E 40 miliardi sono tantini, eh? Sono oltre 30 volte i soldi che servono per salvare l’ILVA, ma soprattutto sono circa 4 volte il totale degli investimenti esteri diretti che l’Italia riceve in media in un anno; non so se è chiaro: con la scusa di attrarre più investimenti, nell’arco di 30 anni abbiamo completamente azzerato i diritti dei lavoratori italiani e poi scopriamo che attiriamo in tutto una quantità di investimenti che è un quinto dei quattrini che i nostri super – ricchi hanno fregato all’economia italiana per comprarsi casa in quel cesso di posto che è Montecarlo, e il bello è che questa è solo la punta dell’iceberg. La bolla speculativa immobiliare dei paradisi fiscali, infatti, è una parte infinitesimale del gigantesco schema Ponzi in cui è stata trasformata dalla controrivoluzione neoliberista l’intera economia dell’Occidente collettivo; il grosso della ciccia, infatti, è dall’altra parte dell’oceano, a Wall Street: è il sistema che Daniela Gabor ha ribattezzato il Wall Street consensus, il vero nodo – insieme alla proiezione militare – del superimperialismo dominato da Washington e che gode di una vasta rete di alleanze.
Alessandro Volpi, in particolare, a questo giro si è concentrato su un asse: quello che lega a Washington la Norvegia. La Norvegia infatti, mentre fa la ramanzina al resto del mondo sulla transizione ecologica, fonda la sua potenza economica nazionale su un gigantesco fondo che si occupa di investire gli enormi profitti che arrivano dalle care vecchie fonti fossili e che sono aumentati a dismisura da quando l’Unione Europea ha deciso di uccidere l’economia dei paesi che vi aderiscono per far finta di fare un dispetto a Putin mentre, in realtà, facevano solo un regalo a Zio Biden: una quantità spropositata di quattrini che – come i quattrini degli italiani che finiscono nelle case di Montecarlo – non contribuiscono in nessun modo allo sviluppo economico del vecchio continente, ma solo ed esclusivamente ad alimentare le bolle speculative dei mercati finanziari, in particolare quelli USA, rimandando così il crollo definitivo dello schema Ponzi dell’economia Occidentale mentre, allo stesso tempo, contribuiscono a scavare il baratro in cui precipiteremo quando inevitabilmente, a un certo punto, la everything bubble – la bolla di tutto – scoppierà. Quindi, in soldoni, le cause profonde che hanno scatenato la grande depressione del ‘29 (che è stata la seconda grande depressione del capitalismo globale) sono le stesse identiche che hanno causato la terza grande depressione – come la chiamano Vijay Prashad e i ricercatori della Tricontinental – che è quella che stiamo vivendo noi in diretta da una quindicina di anni abbondanti. Nel ‘29, però, ancora non esisteva il Wall Street consensus e, cioè, questa gigantesca concentrazione monopolistica dei capitali finanziari privati che è quella che tiene insieme, in una strategia unica coordinata, i mega – fondi come BlackRock, Vanguard, State Street e altri fondi enormi – ma in termini assoluti comunque secondari – come, appunto, quello sovrano della Norvegia che campa di sfruttamento delle fonti fossili: in quel caso, allora, a salvare il capitalismo dal suo suicidio ci dovette pensare Roosevelt con il suo New Deal che le oligarchie furono costrette ad accettare perché, altrimenti, sarebbe saltato definitivamente per aria tutto, ma che non digerirono mai fino in fondo. Con il New Deal, infatti, per salvare il sistema, una fetta enorme di potere politico che – in soldoni – è il potere di decidere dove vanno i soldi per fare cosa, passò dai grandi gruppi capitalistici privati allo stato; da allora le oligarchie hanno imparato la lezione e, a partire dagli anni ‘70 – gli anni, cioè, dello scoppio della grande controrivoluzione neoliberista inaugurata ufficialmente dall’avvio della lotta contro la democrazia moderna in Occidente da parte della Commissione Trilaterale – hanno pianificato in ogni minimo dettaglio la costruzione del più grande monopolio finanziario privato della storia del capitalismo globale, trasferendo di nuovo il potere politico di decidere dove vanno i soldi per fare cosa in mano alle oligarchie che, bisogna ammetterlo, fino ad oggi hanno fatto un ottimo lavoro: a oltre 15 anni dallo scoppio di quella che chiamano la crisi finanziaria ma che in realtà, appunto, è la terza grande depressione della storia del capitalismo globale, il monopolio finanziario privato è riuscito a garantire profitti e dividendi stellari alle oligarchie senza che fosse necessario rimettere in moto l’economia reale e, quindi, senza che il potere dovesse essere di nuovo trasferito – almeno in parte – agli stati come ai tempi del New Deal al punto che oggi, anche quando si parla di finanziamenti pubblici – come nel caso della transizione ecologica o dei giganteschi incentivi pubblici messi in campo dall’amministrazione Biden nel tentativo di Make america great again come Trump e più di Trump – i quattrini vanno tutti, senza esclusione, a finire nei bilanci dei gruppi privati. Come dire… chapeau.

Sergio Marchionne

Scemi noi, il 99%, che – come per le case degli evasori di Montecarlo – continuiamo a occuparci a dividerci sulle fregnacce mentre questi ci fregano da sotto il naso tutta la ricchezza che produciamo con il nostro sudore. Sarà perché sono un po’ vagabondo, ma io sinceramente mi sarei anche abbondantemente rotto i coglioni di lavorare per pagare i duplex da 22 milioni a Montecarlo a qualcuno che non ha mai lavorato mezz’ora in vita sua. Ottolina Tv l’abbiamo fondata per questo: per convincervi che è arrivata l’ora di riprenderci i nostri soldi. Che dici? Ci dai una mano? Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Jannik Sinner

No dai, scherzo, che poi sembra che ce l’abbiamo con lui. Invece a me Sinner mi gasa anche, ci mancherebbe! Rifamo:

E chi non aderisce è Valentino Rossi

Ah no? Manco lui. Va beh.

E chi non aderisce, allora, è Sergio Marchionne
(eh si, anche lui c’aveva la residenza a Montecarlo: grande patriota pure lui?)

LA RIVOLTA DEI TRATTORI – Se destra e sinistra fanno a gara a chi umilia di più l’agricoltura

Ragionano da anni di carrarmati; saranno asfaltati dai trattori. Dalla Germania alla Francia, dalla Romania alla Polonia per arrivare, negli ultimi giorni, pure in Italia, gli agricoltori di tutta Europa sono sul piede di guerra, e a Bruxelles sudano freddo non solo perché – nonostante l’agricoltura e quello che ci gira attorno contribuisca per poco più dell’1% del PIL europeo – coinvolge direttamente poco meno di 15 milioni di addetti ma anche perché, nel vecchio continente in declino, ogni miccia può innescare un’esplosione in grado di far saltare tutto, a partire dai posti di comando.
La rivolta degli agricoltori europei è tornata a occupare le prime pagine dei giornali a partire dallo scorso 9 gennaio, quando il centro di Berlino è stato invaso da una colonna di 566 trattori che si sono piazzati in fila davanti alla Porta di Brandeburgo, a pochi metri dagli ufficio di Olaf Scholz. Ed era solo la punta dell’iceberg: secondo la ricostruzione de La Verità, nel Baden Wuttemberg si sarebbero mobilitati addirittura in 25 mila; in Baviera in 19 mila; in Sassonia avrebbero bloccato interamente la circolazione in ingresso a Dresda e imposto uno stop allo stabilimento della Volkswagen di Emden. “La più grande protesta, o perlomeno la più estesa, che il paese abbia visto nel dopoguerra” scrive il Corriere. Sulla carta, le proteste tedesche sarebbero esplose per motivi meramente interni, ma il fatto che in men che non si dica abbiano contagiato mezzo continente dimostra che in realtà c’è molto altro che bolle in pentola; ma cosa?
Come ormai accade sempre più spesso, limitandosi a leggere le principali testate mainstream e quelle della destra reazionaria – che giocano a fare gli antimainstream ma sono ancora più mainstream del mainstream – non è che si capisca proprio benissimo: la rivolta degli agricoltori è stata immediatamente trasformata in una guerra ideologica tra fazioni contrapposte, entrambe totalmente disinteressate a entrare nel merito delle questioni e impegnate esclusivamente a cercare di strumentalizzare la faccenda per rinsaldare le fila rispettivamente dei fintosovranisti e degli analfoliberali; in un modello ormai ampiamente sperimentato durante la pandemia e perfezionato con la guerra, i mezzi di produzione del consenso delle due fazioni del capitalismo europeo in declino si sono sostenute l’un l’altra, nel tentativo di politicizzare le puttanate e spoliticizzare tutto quello che, invece, avrebbe un impatto concreto sulla vita delle persone – riuscendoci benissimo. Ed ecco così che per i fintosovranisti (ma reazionari veri) la protesta è diventata l’ultima barricata per salvare l’Eden incontaminato del mondo rurale dall’assalto dei rettiliani turboglobalisti incarnati in quella creatura demoniaca nota col nome di Greta Thumberg e, per l’establishment liberal, i calli nelle mani degli allevatori di maiali della Bassa Sassonia sono diventati l’emblema del ritorno della minaccia nazifascista. E se li mandassimo entrambi in una bella miniera di coltan nel Congo e provassimo una volta tanto a capire cosa bolle davvero in pentola?
“Centinaia di accessi alle autostrade bloccati, serpentoni di decine di chilometri ai confini, picchetti e palchi improvvisati nei centri di Monaco, Brema, Amburgo” (Mara Gergolet, Corriere della sera). Lunedì 8 gennaio la Germania si è improvvisamente trovata di fronte a uno scenario completamente inedito: “In Germania, dove lavoratori e padroni gestiscono congiuntamente molte aziende” sottolinea infatti l’Economist “uno sciopero di grandi dimensioni è insolito. Un’ondata di grandi scioperi è quasi inaudita”; lo abbiamo visto chiaramente negli ultimi 30 anni, durante i quali una feroce politica di deflazione salariale ha imposto alle buste paga dei lavoratori di crescere sempre enormemente meno della loro produttività senza che, sostanzialmente, mai nessuno si incazzasse sul serio. Nell’arco di appena 8 giorni, invece, a questo giro ha dovuto affrontare – continua l’Economist – “una settimana d’azione da parte di contadini arrabbiati che hanno bloccato le strade coi loro trattori, uno sciopero di tre giorni dei ferrovieri e pure un imminente sciopero dei lavoratori medici, che avevano già chiuso gli ambulatori tra Natale e capodanno”. “L’era merkeliana della pace sociale e dell’accomodamento in una qualche forma di accordo e sovvenzione di tutte le tensioni” scrive il Corriere della serva “visto dalla Porta di Brandeburgo sembra veramente solo un ricordo”; ma cos’è esattamente che ha fatto incazzare così tanto gli agricoltori tedeschi?
I nodi fondamentali della mobilitazione sono sostanzialmente due: la riduzione dello sconto fiscale sull’accisa applicata al diesel per il consumo agricolo e la fine dell’esenzione dalla tassa sull’acquisto per i mezzi agricoli, che risaliva addirittura al 1922; due misure introdotte in fretta e furia dal governo tedesco, dopo che la sentenza della Corte Costituzionale gli ha vietato di ricorrere ai soldi rimasti dal fondo covid per far tornare i conti di faccende che con la crisi pandemica non avevano niente a che vedere, causando così un buco nel bilancio da ripianare con ogni mezzo necessario. Ma qui c’è il primo mistero: ancora prima che gli agricoltori invadessero Berlino, annusata l’aria, il governo più debole dell’intero continente infatti aveva fatto un deciso passo indietro diluendo il ritorno della tassa sul gasolio negli anni e reintroducendo l’esenzione per quella sugli acquisti, ma non è servito a niente. Ma allora, cosa c’è sotto? Per capirlo ho letto attentamente tutti gli articoli usciti sull’argomento su La Verità, il giornale di riferimento dell’alt right italiana e quello che, in assoluto, ha dedicato più spazio a queste proteste, e indovinate un po’? Non c’è scritto un cazzo: fiumi di parole, frasi a effetto come se non ci fosse un domani, ma mai un numero che sia uno, una statistica, qualcosa di misurabile, di verificabile.

Bonifacio Castellane

Il premio assoluto fuffologia al potere va, senza dubbio, a Bonifacio Castellane, una vera rivelazione: è questo tizio qua, che scrive sotto pseudonimo e agli eventi pubblici si presenta sempre con questa maschera perché le cose che ci rivela sono troppo dirompenti, troppo scottanti, e cioè ha stata Greta Thumberg; il nemico contro cui stanno combattendo gli agricoltori – ci racconta con tono un po’ dannunziano il nostro V di Vendetta dei poveri – sarebbe nientepopodimeno che “l’ideologia woke-green che ispira il governo dell’UE nel suo tentativo crepuscolare di infliggere gli ultimi colpi ai nemici prima di tramontare”. Oltre alla dittatura gretina, il grande nemico degli agricoltori – spiega Castellane – sarebbero anche, in uno slancio di retorica fascioliberista da manuale, in generale tutti i lavoratori dipendenti: “Gli agricoltori” continua Castellane, infatti “non sono scesi in piazza perché minacciati nei loro diritti acquisiti o indicendo il venerdì uno sciopero a fine servizio per manifestare contro il patriarcato: sono scesi in piazza perché la loro esistenza è in pericolo”. In che senso? Difficile capirlo: i numeri sono roba da pervertiti globalisti e Castellone non ne cita manco mezzo. Al posto suo, però, li cita la DBV, il più grande sindacato degli agricoltori tedesco e organizzatore della mobilitazione: “Dopo molti anni di debolezza” scrivono, “nell’ultimo biennio la situazione economica delle nostre aziende è nettamente migliorata. In particolare gli agricoltori hanno beneficiato degli elevati aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari”; in soldoni, fa un bel +45% del fatturato medio rispetto a 3 anni fa, un dato piuttosto rilevante ma che in tutti gli articoli de La Verità non viene citato mai, nemmeno per sbaglio. Fosse semplice dimenticanza, si potrebbe risolvere facilmente invitandoli a trovarsi un lavoro che gli si addice di più; in realtà, però, è peggio di così. Il loro lavoro lo fanno benissimo, solo che il loro lavoro non è informare, ma fare propaganda per fomentare la guerra tra poveri. E come faccio a elevare gli agricoltori a paladini della società giusta ed equa che voglio costruire contro la dittatura di Bruxelles – contrapposti ai lavoratori salariati che approfittano di diritti acquisiti e scioperano il venerdì per allungare il weekend – se poi si scopre che mentre i lavoratori salariati perdevano potere d’acquisto, gli agricoltori aumentavano del 45% il fatturato? E’ una notizia non grata e quindi da omettere: non farete mica i professoroni!?
E però c’è pure chi fa di peggio perché c’è chi, invece, quel dato non solo lo riporta, ma lo brandisce come un’arma per un’altra tesi altrettanto brillante e rivelatoria: gli agricoltori sarebbero tutti avidi, brutti, sporchi, cattivi e, ovviamente, anche parecchio fascisti. La prova provata? Vorrebbero abbattere il governo giallorossoverde, e chi altro mai vorrebbe mandare a casa Olaf Scholz se non un branco di fascisti? Ha lavorato così bene… Beh, certo, per Washington di sicuro. Negli stessi giorni della protesta, Destatis ha pubblicato i dati definitivi per il mese di novembre: la produzione industriale è crollata di un altro 0,7% in un solo mese; i vari analisti interpellati da Bloomberg avevano previsto una crescita dello 0,3. D’altronde, avevano previsto anche un segno + per il PIL del 2023, e ancora più sostenuto per il 2024; nel 2023 è diminuito di 0,3 punti e ormai in molti credono lo stesso accadrà anche quest’anno: in totale, in 12 mesi la produzione industriale infatti è crollata del 4,8%. Ma la crisi, verso la fine dell’anno, invece che affievolirsi si è approfondita e se nel 2024 si confermasse il trend degli ultimi 3 mesi, si arriverebbe a un ulteriore crollo di poco meno del 10%: per incazzarsi, effettivamente, bisogna essere proprio degli invasati neonazisti.
La leggenda degli agricoltori neonazisti nasce, come sempre, dall’infiltrazione di qualche gruppuscolo, ma soprattutto – temo – dalla consapevolezza che le forze di governo non hanno nessuna soluzione possibile da offrire e, al di là del fatturato straordinario degli ultimi 2 anni, i problemi decisamente non mancano. E sì, in buona parte hanno proprio a che vedere con le politiche ambientali dell’Unione Europea, che vuole fare la transizione ecologica continuando a garantire rendite di posizione astronomiche alle oligarchie finanziarie sulla pelle di chi lavora, di tutti quelli che lavorano, dagli agricoltori a quelli che – secondo La Verità – vivono nella bambagia per i diritti acquisiti e chiamano il weekend lungo sciopero. D’altronde, scrive Tonia Mastrobuoni su La Repubblichina, di cosa si lamentano? “La tutela dell’ambiente costa” scrive, e “ha inevitabilmente ricadute su tutte le categorie sociali” dove, giustamente, nelle categorie sociali non mette i suoi editori e, in generale, gli oligarchi.
Come sosteneva brillantemente il mitico documentario The Corporation, gli oligarchi sono sociopatici per definizione: tra le varie cose imposte dalla UE sulle spalle degli agricoltori (senza nessuna forma di paracadute) ci sono, ad esempio, le misure sul ripristino della natura, che puntano a contrastare il degrado degli ecosistemi sottraendo terreno alla coltivazione per restituirlo alla natura, oppure le norme sull’abbattimento delle emissioni degli allevamenti, o le direttive che impongono restrizioni sulle emissioni di zolfo e di nitrato – che avevano già spinto sulle barricate gli agricoltori olandesi poco tempo fa; tutte misure più che ragionevoli, volendo, se solo a pagarle non fosse chi sta piegato sui campi a giornate per due lire ma chi, con la svolta green, incasserà miliardi su miliardi senza rischi perché garantito dagli Stati e dai governi. Lo ha dovuto ammettere candidamente anche un ultramoderato come Paolo de Castro, eurodeputato PD, ex ministro dell’agricoltura e universalmente riconosciuto come uno dei massimi esperti dell’economia del settore: “Per la prima volta questa legislatura europea” ha dichiarato “ha creato la percezione di un’Unione nemica degli agricoltori e delle categorie produttive. Non abbiamo saputo costruire un progetto che coinvolga l’agricoltura facendola sentire protagonista della transizione verde, e non imputata”. Risultato? Chi s’è messo contro gli agricoltori ha fatto una brutta fine: in Olanda è toccato a Rutte e Timmermans che, per la faccenda dell’azoto, si erano messi in testa di chiudere di botto 3 mila stalle; Rutte oggi è stato costretto ad andarsene in pensione e Timmerman è stato letteralmente umiliato alle elezioni da Geert Wilders, che è improponibile ma le rivendicazioni degli agricoltori le aveva sostenute.
Ora tocca alla Francia, dove il contagio tedesco è arrivato per primo e dove Macron, ancora prima delle sue nefandezze dirette, dovrà scontare il fatto di aver assoldato tra le sue fila al parlamento europeo Pascal Canfin, che del finto ambientalismo delle élite che odiano i poveri è proprio il prototipo; ex capo esecutivo del WWF francese, era a capo della Commissione Ambiente quando il green deal europeo è stato concepito, e ora contro di lui e il suo datore di lavoro i contadini francesi sono tornati sulle barricate e il grosso della popolazione li sostiene, senza se e senza ma: il 68% in Germania, addirittura l’89 in Francia, in entrambi i casi circa il doppio dei consensi che possono vantare i rispettivi governi. Per capire il livello di strumentalizzazione che la fuffa liberaloide fa della faccenda, basta vedere la differenza di trattamento riservato ad agricoltori tedeschi e francesi, che contestano governi di centrosinistra, rispetto a quelli italiani. Anche gli agricoltori italiani, infatti, sono tornati a manifestare: negli ultimi giorni, decine di cortei hanno invaso mezzo paese, da Verona alla Calabria; “La marcia dei trattori attraversa l’Italia contro tutto e tutti” scrive La Stampa. “L’Unione Europea, le farine d’insetti, la carne coltivata, la burocrazia, il caro gasolio, i terreni svenduti, e soprattutto i sindacati degli agricoltori”, ma qui non c’è traccia di disprezzo: “Una rivolta dal basso” scrive anzi La Stampa “animata da gente che non ha mai saltato un giorno di lavoro”, eppure qualcosa a cui attaccarsi ce l’avrebbero avuta.

Danilo Calvani

La mobilitazione, infatti, è stata organizzata da questo gruppo informale denominato CRA, Comitati Riuniti Agricoltori traditi, e il leader indiscusso del CRA è lui, Danilo Calvani, un piccolo imprenditore agricolo della provincia di Latina che nel 2009 è stato tra i fondatori della Lega nel Lazio; agli agricoltori tedeschi hanno dato dei reazionari fascisti per molto meno: perché qui, allora, invece no? Semplice: in Italia al governo mica ci sono i democraticissimi Scholz e Macron; in Italia al governo c’è la Meloni, e Calvani con il governo Meloni ce l’ha a morte perché “come tutti quelli che l’hanno preceduto” afferma Calvani “si è prostrato a Europa e multinazionali”. Tutto sommato i pennivendoli al servizio di GEDI sono magnanimi, si accontentano di poco e, così, quelli che altrove sono una pericolosa deriva autoritaria qui incredibilmente “partono da un tema reale: lo scollamento quasi incolmabile tra chi detta le regole e chi affonda le mani nella terra, come Franco Clerico” continua empatico il giornalista, “che mi ha detto: per chi lavora la terra mollare tutto per andare a protestare è un atto di disperazione. Ho investito tutto in quest’azienda. Mio papà è morto a novembre, a 91 anni. Ha aiutato me e mio fratello a mettere in piedi l’azienda. Noi invece ai nostri figli lasceremo debiti. Da anni per tirare avanti non ci versiamo i contributi. Quando va bene in un anno ci mettiamo in tasca 16 mila euro. E’ vita questa?”. Ecco, bravi: la stessa identica cosa vale per gli agricoltori che protestano in Francia e in Germania anche se, in quel caso, al governo ci sono quelli che vi stanno simpatici a voi.
Nell’Europa in declino, le élite di ogni colore scaricano la crisi sui poveri cristi e le diverse propagande non fanno altro che inventarsi storielle per parare il culo a quei parassiti dei loro padroni. Noi stiamo sempre dalla stessa parte, dalla parte del 99% senza chiedere pedigree e per difenderne la causa avremmo bisogno come il pane di un vero e proprio media. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Olaf Scholz

Il pasticcio dell’ultimatum: quando l’Italia provò a dichiarare guerra alla Cina!

video a cura di Davide Martinotti

A inizio del 1899 l’Italia invia un ultimatum alla Cina: l’impero cinese ha quattro giorni di tempo per cedere parte della sua costa all’Italia, cioè la baia di Sanmen dello Zhejiang, altrimenti sarebbe stata guerra. Ma c’è un problema: quando l’ambasciatore italiano a Pechino consegna l’ultimatum, il governo italiano non ne è al corrente, e il ministro degli esteri italiano scopre di aver dichiarato guerra alla Cina solo leggendo i giornali britannici… È l’inizio dell’avventura coloniale italiana in Asia, un episodio poco conosciuto della nostra storia, anche perché non finì particolarmente bene, ma anzi, l’ultimatum si tradusse in una forte umiliazione per il governo italiano, che cadde proprio a seguito di questo episodio. Ma come mai all’Italia è venuto in mente di lanciare un ultimatum alla Cina? Ne parliamo in questo video!

Se gli ecologisti fanno pagare la transizione ai poveracci per fare dispetto alla Cina

La cinese BYD supera Tesla e diventa il più grande produttore di veicoli elettrici al mondo. Il sorpasso, riporta il Financial Times, sarebbe avvenuto nell’ultimo trimestre dell’anno scorso: 526 mila veicoli venduti contro i 484 mila dell’azienda di Elon Musk. Anche a questo giro il buon vecchio Warren Buffet, che con la sua Berkshire Hathaway è il primo azionista straniero del colosso cinese, c’ha visto giusto, ma soprattutto c’hanno visto giusto i cinesi: BYD, che sta per Build your dreams – costruisci i tuoi sogni – infatti non è un’azienda come tutte le altre; è probabilmente l’esempio più completo di azienda integrata verticalmente al mondo. E’ stata fondata nel 1995 dal chimico Wang Chuanfu, che rispetto a Elon Musk era partito leggermente svantaggiato: invece che essere proprietari di miniere di smeraldi nel feroce regime coloniale della Rhodesia, erano umili contadini della povera provincia dello Anhui; inizialmente produceva batterie per i principali marchi di telefonia mobile giapponesi, coreani ed europei e, a vedere dai risultati, gli riusciva benino: nell’arco di meno di 10 anni era diventato il principale produttore di batterie ricaricabili di ogni genere di tutta la Cina e il quarto al mondo. Nel frattempo, però, contro il parere del suo stesso consiglio di amministrazione, Wang si era comprato anche una piccola azienda un po’ decotta dell’allora ancora inconsistente automotive cinese; aveva costruito una nuova fabbrica da zero. Il suo obiettivo: farsi tutto in casa, e che tutto diventasse rigorosamente elettrico.

La BYD oggi controlla miniere di litio in giro per il mondo, costruisce le sue batterie e anche i suoi chip e sostanzialmente ogni singolo pezzo. E contro i 130 mila scarsi dipendenti di Tesla in giro per il mondo, dà lavoro a quasi 600 mila persone. Poteva succedere soltanto in Cina, probabilmente l’unico paese al mondo a credere davvero che il futuro non potrà che essere elettrico e rinnovabile con caratteristiche cinesi.
Uno dei problemi fondamentali delle auto elettriche, ovviamente, sono le stazioni per ricaricarle: in Italia ce ne sono circa 25 mila; in Cina 2 milioni e mezzo – poco meno del 70% del totale mondiale – e ricaricarle costa circa un terzo che alimentarle a benzina o a gasolio. Risultato: dal 2017 sono stati venduti oltre 18 milioni di veicoli elettrici – circa la metà del mercato mondiale – e oltre 4 volte quello USA. Un’economia di scala che ha permesso il miracolo: in Cina le auto elettriche costano meno di quelle tradizionali, e così si stima che nel 2026 sarà completamente elettrica un’auto nuova ogni due – e senza che nessuno abbia mai fatto mezza campagna per dire agli automobilisti che se il mondo esplode è colpa loro che non si svenano per comprare la stessa macchina di Di Caprio. D’altronde, da un certo punto di vista, sarebbe una discreta presa per il culo: il 60% dell’elettricità che arriva alle colonnine per ricaricare le auto elettriche in Cina, infatti, è prodotta col carbone; tutta la filiera ha un impatto gigantesco, e fino a che le batterie andranno prodotte ex novo, invece che essere più o meno totalmente riciclate, parlare di sostenibilità è un po’ azzardato. La buona notizia, però, è che a tutti questi intoppi una soluzione in realtà c’è; quella cattiva è che per raggiungerla non bastano le chiacchiere: ci vogliono gli investimenti, una quantità spropositata di investimenti, talmente spropositata che pensare che ognuno faccia per se, molto semplicemente è una cazzata e il problema, ovviamente, va ben oltre i veicoli elettrici.
Lo ricorda per l’ennesima volta – in questo bell’articolo pubblicato da Foreign AffairsHenry Sanderson, autore di “Il prezzo della sostenibilità. Vincitori e vinti nella corsa globale all’auto elettrica“: “The problem with de-risking” si intitola; il problema del de-risking, e cioè della politica che vorrebbe ridurre i rapporti commerciali dell’Occidente collettivo con la Cina per evitare di esserne troppo dipendenti e quindi, in soldoni, essere impossibilitati un domani a fargli la guerra. Sanderson ricorda come, per emanciparsi dalla dipendenza dalla Cina, nell’Occidente collettivo è partita la corsa agli incentivi alle aziende per spingerle a tornare a investire per produrre in casa, ma “Sebbene l’obiettivo di accelerare la produzione di energia pulita sia positivo” sottolinea Sanderson “questa strategia in realtà non è sostenibile”. “Se i governi occidentali iniziassero una guerra totale tra loro per i sussidi” riflette infatti Sanderson “ciò non farebbe altro che spostare gli investimenti verso il miglior offerente”, cioè farebbe svenare i singoli stati in concorrenza tra loro, arricchendo soltanto le oligarchie finanziarie e aumentando esponenzialmente i costi della transizione ecologica stessa che, d’altronde, è esattamente quello che le oligarchie hanno ottenuto in generale in tutti i settori industriali imponendo la libera circolazione dei capitali, con gli stati che regalano alle aziende i soldi delle tasse dei loro cittadini per elemosinare qualche posto di lavoro; solo che, in questo caso, c’è anche l’aggravante che oltre a rimetterci le casse dello stato e il portafoglio di tutti i cittadini, ci rimette anche il pianeta.

Henry Sanderson

Sanderson ricorda come “Quando si tratta di energia pulita, l’Occidente è molto indietro rispetto alla Cina, che è all’avanguardia non solo nella produzione e nella distribuzione, ma anche nell’innovazione”: è l’esito di 50 anni di scelte sbagliate imposte, in buona parte, dalla lobby del fossile. Sanderson ricorda come l’Occidente abbia inventato sostanzialmente tutte le principali tecnologie green disponibili: nel 1954 negli USA i laboratori della Bell inventarono le celle solari in silicio; 15 anni dopo, l’università di Oxford produsse la prima batteria al litio, giusto pochi anni prima che in Danimarca si cominciasse a sviluppare l’industria delle turbine eoliche, tutte tecnologie che negli anni ‘80, quando il prezzo del petrolio crollò, vennero sostanzialmente abbandonate. A parte in Cina, che il petrolio era costretta a importarlo in un mondo militarmente controllato da altri potenzialmente ostili; e così la Cina ha sempre continuato a investire, e piano piano si è conquistata il dominio incontrastato dell’intera filiera. Sanderson ricorda come la Cina produce oggi poco meno del 70% di tutta la grafite necessaria per le batterie, “elabora oltre il 90% del manganese, sempre per le batterie, produce la maggior parte del polisilicio mondiale per celle solari e produce quasi il 90% dei magneti permanenti in terre rare del mondo” ma soprattutto, investimento dopo investimento, ha creato una capacità produttiva che, molto banalmente, rende impossibile agli altri di competere sui costi. In un mondo normale dove, al di là della retorica green e a trovare il modo per riempire di quattrini i conti in banca delle oligarchie, si punta davvero alla decarbonizzazione, dovremmo esserne felici e, magari, dire anche grazie per aver investito in cose di cui ci sbattevamo allegramente il cazzo e oggi risultano indispensabili.
Ovviamente questo non significa consegnarsi mani e piedi alla Cina: per alcuni prodotti specifici che, magari, sono anche indispensabili per l’industria della difesa – come nel caso di alcune terre rare – è necessario che gli stati si facciano carico dei costi che comporta costruirsi una filiera autonoma e indipendente; per tutto il resto, molto banalmente, dobbiamo fare una scelta: transizione ecologica o guerra ibrida contro la Cina? Tanto più se l’obiettivo della transizione ecologica non deve essere semplice greenwashing, ma un modello di sviluppo realmente sostenibile. Prendiamo ad esempio il litio: per rispettare la tabella di marcia della decarbonizzazione, nell’arco dei prossimi 25 anni il consumo di litio dovrebbe decuplicare. Estrarre dieci volte il litio che estraiamo oggi con le metodologie utilizzate oggi vuol dire devastare in modo irrimediabile porzioni gigantesche di territorio; alternative più sostenibili esistono, ma costano enormemente di più: un costo che, fino a che continuerà a prevalere la competizione tra aziende e tra stati geopoliticamente ostili sulla cooperazione, ovviamente nessuno si accollerà per salvare il culo all’altro.
Chi ci prova non fa una bella fine: ad esempio i verdi tedeschi, che vorrebbero tenere insieme ferocia imperialista, speculazione finanziaria ed ecologismo e far pagare questa equazione irrisolvibile alla gente comune che, quando poi s’incazza, si sente anche dare della troglodita. Davvero strano che poi crollino nei sondaggi. Inspiegabile proprio.
La realtà è che senza pace non c’è giustizia, nemmeno climatica: sarebbe arrivata l’ora che gli ambientalisti se lo mettessero in testa. Aiutiamoli, con un media serio e credibile che, invece che ai suprematisti e agli speculatori, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Annalena Baerbock

VIA DALLA SETA: L’Export italiano rinuncia al più grande mercato del Mondo per far contenti gli USA

Addio a Pechino”, titola La Stampa; Il Foglio: “Meloni smaschera il bluff della seta”; “Il patto stracciato con la Cina rafforza Meloni”. L’entusiasmo per la fine ufficiale dell’anomalia italiana, unico paese del G7 ad aver aderito al megaprogetto cinese dalla Belt and Road Initiative, è totalmente bipartisan con un’unica eccezione: “Conte grida all’autogol” titola Il Giornalema nemmeno i suoi alleati lo ascoltano”.
La fine della luna di miele tra l’amministrazione coloniale italiana e la più grande economia del pianeta è una morte annunciata dopo 4 anni di coma; nata dal colpo di mano dell’unico presidente del consiglio della seconda repubblica a non essere espressione diretta di Washington e delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce, la gigantesca opportunità di rappresentare il terminale mediterraneo delle rotte commerciali cinesi è stato affossata dai suprematisti ultra – atlantisti sin dall’inizio; una innata vocazione al suicidio. L’Italia, infatti, tra i grandi paesi europei è – in assoluto – quello che, fino ad allora, era riuscito meno di tutti a cogliere le occasioni che l’ascesa cinese presentava, subendone esclusivamente gli aspetti negativi: colpa della natura del suo tessuto produttivo fatto di piccolissime imprese a bassissimo valore aggiunto che, invece di integrarsi con la potenza industriale cinese, si sono limitate a delocalizzare il delocalizzabile senza mai riuscire ad attrarre investimenti significativi e, addirittura, senza mai riuscire a conquistare fette di mercato. Quando sono andato per la prima volta in Cina nel 2015 – proprio per provare a toccare con mano come ci stavamo muovendo – quello che mi sono trovato di fronte era da mani nei capelli: nei supermercati di prodotti importati di alta fascia, Spagna, Francia e Cile occupavano interi settori; i prodotti italiani erano relegati agli angoli, e spesso era solo italian sounding. Il padiglione italiano che, dopo l’Expo di Shanghai del 2010, era rimasto attivo come vetrina del made in Italy veniva smantellato proprio in quei giorni e, mano a mano che si procedeva verso l’alto della catena del valore, le cose andavano solo peggio. L’Italia era assente in tutto: automotive, meccanica, chimica, energia; l’adesione alla Via della Seta era un tentativo disperato per cominciare a colmare quel gap, una necessità talmente evidente che in realtà – anche se a siglare l’accordo, alla fine, è stato il governo Conte – le trattative erano in corso già da un paio di anni, e ad avviarle era stato uno dei politici italiani più sensibili ai dictat di Washington, l’ex maoista pentito Paolo Gentiloni – e addirittura con la benedizione di Mattarella. Purtroppo però, sottolinea Antonio 7 cervelli Tajani, l’accordo “non ha prodotto gli effetti sperati”, e graziarcazzo: le trattative su un ruolo dei cinesi nei nostri porti sono state sistematicamente boicottate dai Chicago boys infiltrati nelle nostre amministrazioni.

Mario Draghi

Poi è arrivato il covid, e poi è arrivata una pandemia ben peggiore: san Mario Pio da Goldman Sachs, noto come il migliore – nel senso di il migliore emissario ufficiale delle oligarchie finanziarie a stelle strisce. Tajani oggi si lamenta di quanto l’adesione alla Belt and Road non abbia fatto aumentare gli investimenti cinesi in Italia: maddai! San Mario Pio – liberista a giorni alterni -sin dal suo insediamento, per compiacere il padrone a Washington, ha bloccato sistematicamente ogni investimento cinese in Italia ricorrendo al Golden power; da quando è entrata in vigore la norma sul Golden power nel 2012, infatti, l’Italia l’ha utilizzata appena sette volte, sei delle quali contro la Cina, cinque delle quali con il governo Draghi. Insomma: com’è ovvio, il mancato rinnovo dell’accordo non ha niente a che vedere con i nostri interessi di stato sovrano – molto banalmente perché sovrani non siamo; è un messaggio politico e simbolico che Washington manda a Pechino, sulla nostra pelle: il Nord globale è cosa nostra e, se tocchi me, tocchi tutti.
Ma cosa si saranno inventati, a questo giro, i nostri media di regime per coprire questa ennesima sconigliata masochistica dell’Italia?
“Meglio tardi che mai” scrive Gian Micalessinofobia su Il Giornale, “ma soprattutto” sottolinea “meglio adesso”; infatti, spiega Micalessinofobia – che capisce qualchecosellina di come non beccarsi una pallottola mentre fai un reportage di guerra, ma in economia non è esattamente ferratissimo – ora “la nave dell’economia cinese sta rivelando tutte le sue falle”. Il riferimento, però, non è tanto alle boiate di Rampini sul PIL o a quelle della Pompili sul calo immaginario della produttività; Micalessinofobia, infatti, spiazza tutti e si inoltra in sentieri inesplorati: il riferimento è a “un comunicato pubblicato venerdì scorso che intima a banche, fondi pensione, assicurazioni e istituzioni finanziarie” – pensate un po’ – addirittura “di allinearsi ai principi del marxismo”. Hai capito il turbocapitalismo cinese? Micalessinofobia – porello – non lo può sapere, ma il “comunicato” a cui fa riferimento, in realtà, è probabilmente il documento che più di ogni altro testimonia quanto la Cina, in questa fase storica, sia perfettamente allineata con gli interessi del 99%: “Seguire fermamente il percorso dello sviluppo finanziario con caratteristiche cinesi” si intitola, ed è il documento che detta la linea delle riforme finanziarie che la Cina dovrà mettere in campo nei prossimi 5 anni; un vero e proprio vademecum per la lotta alla finanziarizzazione e alle oligarchie finanziarie, in difesa del lavoro e dell’economia reale. “Nel processo di sviluppo dei paesi occidentali” si legge nel documento “la rivoluzione finanziaria incentrata su banche commerciali, moderni mercati dei capitali, banche di investimento e capitale di rischio, ha promosso le tre rivoluzioni industriali dell’umanità, e fornito il sostegno finanziario che ha permesso la modernizzazione dei paesi occidentali, ma allo stesso tempo” continua “sotto l’ideologia capitalista, il capitale finanziario ha messo in luce la sua tendenza ai monopoli, la sua predatorietà e anche la sua fragilità, che non solo hanno causato un enorme divario tra ricchi e poveri, ma hanno anche innescato innumerevoli crisi economiche e finanziarie”. Tutta colpa della finanziarizzazione, e cioè dell’inversione del rapporto gerarchico tra economia reale ed economia finanziaria: non più l’economia finanziaria al servizio dell’economia reale come strumento per una più efficace allocazione delle risorse e per la riduzione dei rischi e la stabilizzazione dei cicli economici, ma – al contrario – come meccanismo per l’estrazione di risorse dall’economia reale per alimentare le bolle speculative. “La finanza separata dall’economia reale” prosegue il documento “è un albero senza le radici. Senza il sostegno di un’economia reale forte, la prosperità finanziaria sarà soltanto una bolla”.
L’innovazione finanziaria con caratteristiche cinesi, al contrario, deve servire interessi diametralmente opposti: deve favorire la circolazione dei capitali, ma solo per garantire un’allocazione più rapida ed efficace delle risorse laddove lo richiede lo sviluppo dell’economia reale e dei suoi protagonisti – il popolo cinese – e, invece di creare bolle sempre pronte ad esplodere in nome della massimizzazione dei profitti a breve termine, deve garantire la stabilità. L’innovazione finanziaria con caratteristiche cinesi, sottolinea il documento, “deve mantenere la stabilità come massima priorità”; “le politiche finanziarie” sottolineano “devono essere prudenti, e la gestione del rischio deve essere prudente”. Ma attenzione, perché “stabilità” sottolineano “non significa inerzia”: al contrario, “il progresso”, piuttosto, deve essere continuamente stimolato; anzi, addirittura deve essere aggressivo, “con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo, adeguare le infrastrutture, e colmare tutte le carenze”. Insomma: Micalessinofobia, a sostegno delle sue tesi, mi sa che ha portato le prove sbagliate; quel documento elegge di diritto la Cina e Xi Jinping a Nuovo Principe nella guerra contro le oligarchie finanziarie e la finanziarizzazione dell’economia. Al limite si può criticare quanto questa dichiarazione di principio trovi effettivo riscontro nella realtà; la nostra opinione la sapete ma, insomma, su quello è lecito e anche sano discutere – anche animatamente – ma il fatto che un documento magistrale su come dovrebbe essere riformata l’intera industria finanziaria, e quindi l’intera economia, venga citato per sostenere che abbiamo fatto bene a uscire dalla via della seta dovrebbe farci capire immediatamente cosa c’è realmente in gioco. Intendiamoci: non che Micalessinofobia o qualsiasi altro giornalista mainstream abbia la più pallida idea di quale sia il motivo del contendere, ma quelli che gli pagano gli stipendi sì, loro lo sanno benissimo.
La lotta della Cina contro la dittatura delle oligarchie finanziarie, comunque, non è l’unica prova astrusa che Micalessinofobia porta a sostegno della sua strampalata tesi; il reporter di guerra improvvisato economista de noantri, infatti, cita anche la persecuzione di benefattori come “il fondatore di Alì Baba”, come d’altronde di “tutti gli imprenditori illusi di potersi sottrarre al controllo del partito”. Insomma: chi tra di voi è un multimiliardario può tirare un sospiro di sollievo; tra le povere vittime del sistema illiberale cinese, continua Micalessinofobia, ci sarebbero anche degli enti benefici come Bank of America e, addirittura, Vanguard che – secondo Micalessin – sarebbe “una banca statunitense”. Certo. Vanguard è una banca e Stellantis una concessionaria: bene, ma non benissimo, diciamo.
Che di fronte alla persecuzione di tutti questi enti benefici l’uscita dell’Italia dalla Via della Seta non possa che essere salutata con giubilo – secondo Micalessin – è talmente evidente che non appena Conte, che definisce “l’ultimo samurai”, ha provato a obiettare qualcosa, anche i suoi alleati gli si sono scagliati contro; in particolare, Micalessin cita due statisti di indiscusso livello: la Emma Bonino dei poveri Lia Squartapalle e, addirittura, Ivan Scalfarotto che, però, è rimasto deluso dal fatto che l’uscita non sia stata annunciata con sufficiente trionfalismo. Nel frattempo, comunque, l’Occidente globale – va detto – è corso in aiuto dell’Italia: ieri Ursula von der Leyen e Charles Michel, infatti, erano attesi a Pechino; si svolgeva il XXIV vertice bilaterale tra Unione Europea e Cina che, però, sui media cinesi non è mai stato snobbato come quest’anno. E graziarcazzo: a Pechino, ormai – dopo due anni di guerra per procura contro la Russia che ci ha letteralmente devastati economicamente – che hanno a che fare con due amministratori coloniali l’hanno capito fin troppo bene e, se ancora avevano qualche dubbio, per fugarlo definitivamente gli è bastato dare un’occhiata ai temi in agenda; dopo aver sostenuto incondizionatamente per due mesi la guerra di Israele contro i bambini arabi a Gaza, mentre la Cina provava in tutti i modi a raggiungere il cessate il fuoco, l’Unione Europea – infatti – voleva andare a Pechino a fare polemica sul mancato rispetto dei diritti umani della popolazione islamica dello Xinjiang. Capito come? Per la von der Leyen e per Michel questa

si chiama autodifesa dell’unica democrazia del Medio Oriente e questa, invece,

violazione dei diritti umani. Valli a capi’…
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E chi non aderisce è Gian Micalessinofobia