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“E allore le foibbbeee??1!?” – Lo scandaloso revisionismo del Giorno del Ricordo

Carissimi ottoliner buonasera e ben ritrovati. Oggi giornata impegnativa perché, come titolava Libero, Oggi scatta l’ora delle foibe che, secondo la testata “sono state il nostro olocausto”; mica piazza e fichi: “Poco meno di ventimila italiani trucidati dalle truppe comuniste jugoslave, coadiuvate da alcune brigate partigiane italiane ancora più comuniste delle squadracce di tagliagola del generale Tito” sottolinea Libero, che poi rilancia con un estratto da un intervento che il presidente della Camera Lorenzo Fontana ha effettuato alcuni giorni fa, durante il quale ha sottolineato come “Nel massacro che ebbe inizio nel 1943 furono colpiti per lo più civili (giovani, anziani, donne e bambini) le cui famiglie per secoli avevano pacificamente convissuto in quelle terre felici con altre etnie e culture”. E’ un riassunto ineccepibile della gigantesca battaglia culturale che sta dietro all’istituzione del Giorno del Ricordo, un miscuglione di fake news, vittimismo, negazionismo e capovolgimento della verità storica da far impallidire anche il più spregiudicato dei complottisti da social e, probabilmente, la più grande vittoria ideologica della destra fascista e postfascista dal dopoguerra ad oggi.

Davide Conti

Partiamo dalle fake news. Intanto, i numeri: 20 mila, dice Libero (e già si è dato un contegno, diciamo); non ci sono più i postfascisti di una volta, quelli che ti tiravano fuori le centinaia di migliaia di milioni di miliardi da un momento all’altro come se nulla fosse. Ma la tentazione di sparare numeri a caso è dura a morire: come ci ha ricordato lo storico Davide Conti, la letteratura scientifica il dilemma delle cifre lo ha risolto da un po’ e il bilancio è inferiore alle 5000 vittime – che sono comunque un’enormità, ci mancherebbe – ma non è che siano esattamente saltate fuori dal niente; le violenze sul confine italo – jugoslavo sono solo uno dei molti capitoli drammatici all’interno del grande libro nero della guerra totale contro l’umanità scatenata a livello globale dai nazifascisti. Che la loro sconfitta avrebbe prodotto anche forme di violenza e di ferocia contro tutto quello che richiamava quei governi, quegli stati e quelle pratiche, era piuttosto prevedibile e inevitabile: in Polonia, ad esempio, si manifestò attraverso l’espulsione di 8 milioni di tedeschi, a cui si aggiunsero anche i 3 espulsi dalla Cecoslovacchia e le diverse decine di migliaia dall’Ungheria e dalla Jugoslavia; secondo Fontana, poi, in questo massacro ad essere colpiti furono soprattutto civili inermi. Insomma, per celebrare la memoria di questi civili inermi – con l’emanazione nel 2004 della legge che istituiva il Giorno del Ricordo – è stato previsto anche venga assegnato un riconoscimento ai parenti fino al sesto grado di persone “soppresse e infoibate”, come anche di quelle soppresse “mediante annegamento, fucilazione, massacro o attentato” tra l’8 settembre del ‘43 e il 10 febbraio del 1947; inizialmente il termine per la presentazione delle domande era stato fissato in 10 anni e sarebbe dovuto scadere nel 2015, ma poi hanno deciso di prorogarlo di altri 10 anni. Perché?
Il punto è che, invece delle migliaia e migliaia di richieste che era lecito aspettarsi – a giudicare dalle stime sul numero delle vittime che siamo abituati ad ascoltare – nei primi 10 anni di questo istituto le richieste sono state in tutto 323 o, almeno, questa è la stima che nel 2017 avevano fatto gli storici che fanno capo al sito diecifebbraio.info secondo i quali “per essere un elenco di vittime di un disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri contorni della pulizia etnica a danno degli italiani, come affermato dal presidente Napolitano nel suo discorso in occasione del 10 febbraio 2007, un po’ pochino”. Il numero ufficiale, invece, non si sa: al contrario di sostanzialmente tutte le altre onorificenze dello Stato, per le cosiddette vittime delle foibe non sembrerebbe esistere un albo ufficiale unico; quello che invece sappiamo è che, per fare le sue valutazioni, la Commissione per l’attribuzione dei riconoscimenti ha fatto ricorso fondamentalmente a un testo. Si intitola Albo d’oro. La Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto mondiale ed è un monumentale elenco di oltre ventimila nomi di giuliano – dalmati morti durante la seconda guerra mondiale; a redigerlo, Luigi Papo, già comandante di un’unità della Milizia Difesa Territoriale, una formazione collaborazionista messa in piedi grazie al sostegno dei tedeschi, ma soprattutto – sempre secondo la ricostruzione dettagliata effettuata da diecifebbraio.info – soltanto in rarissimi casi si tratterebbe di semplici civili: oltre il 70%, infatti, sarebbero appartenenti a qualche formazione armata o di polizia e altri 23 sarebbero personale politico di vario grado del regime fascista, comprese 9 camicie nere e 2 brigatisti neri, ovviamente qualifiche “professionali” che nelle motivazioni di concessione del riconoscimento sono state sistematicamente omesse. C’è la privacy.
Un caso paradigmatico è quello di Vincenzo Serrentino che, come si legge nelle motivazioni del riconoscimento, “Recatosi a Trieste per espletare la sua attività istituzionale venne arrestato il 5 maggio 1945 dai partigiani titini. Deportato e imprigionato in varie carceri, venne condannato a morte a Sebenico il 15 maggio del ‘47”. Ma chi era Vincenzo Serrentino? “Siciliano di nascita, arrivò a Zara come ufficiale dell’esercito alla fine della Grande Guerra e vi si stabilì” ricostruisce il blog diecifebbraio.info; secondo questa ricostruzione, Serrentino negli anni raggiunse il grado corrispondente a quello di tenente colonnello all’interno della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, la milizia degli squadristi. Non solo: secondo gli jugoslavi fu anche componente del tribunale straordinario per la Dalmazia, istituito nell’ottobre del 1941 per dare un minimo di veste legale alle rappresaglie degli invasori italiani e che, secondo una descrizione dello stesso procuratore militare italiano in Dalmazia, “girava per la Dalmazia, e dove si fermava le poche ore strettamente indispensabili per un frettoloso giudizio, pronunciava sentenze di morte. Il suo presidente pare fremesse d’impazienza per aver gente da giudicare, né sembra ne avesse mai abbastanza”. Nell’ambito di questo suo ruolo, gli jugoslavi lo giudicarono responsabile della morte di almeno 18 persone e in base a questo lo condannarono a morte; d’altronde, per perseguire i sospettati di crimini di guerra italiani, gli jugoslavi – e non solo – non è che avessero molte altre alternative. Alla fine della seconda guerra mondiale, tutti i paesi rimasti vittime dell’aggressione militare dell’Italia fascista, dalla Grecia all’Albania passando per l’Etiopia, l’Eritrea, la Jugoslavia e addirittura pure la Francia, inviarono alle Nazioni Unite un elenco di oltre 1000 italiani accusati di crimini di guerra che avrebbero dovuto essere estradati o, in alternativa, essere giudicati da un tribunale internazionale; dei componenti di questa lista non ne verrà mai processato manco uno: è la Norimberga italiana che per motivi geopolitici non venne mai svolta e che ha permesso di coltivare il falso mito degli italiani brava gente che, ancora oggi, viene utilizzato per capovolgere la realtà e la storia, con gli italiani che da carnefici diventano magicamente vittime. Sono, appunto, le “famiglie” che, per bocca di Lorenzo Fontana, “per secoli avevano pacificamente convissuto in quelle terre felici con altre etnie e culture”, un quadro fuorviante e idilliaco che fa a cazzotti con la realtà storica, ma proprio giusto un pelino, eh?
Giusto per fare un rapido ripassino: 6 aprile 1941. La Luftwaffe inizia una campagna feroce di bombardamenti nei cieli di Belgrado e senza nemmeno degnarsi di dichiarare guerra, le truppe italiane, al fianco di quelle naziste tedesche, invadono la Jugoslavia; 5 mesi prima Mussolini aveva invitato i soldati italiani a spezzare le reni alla Grecia. Non stava andando proprio benissimo: l’esercito italiano era in palese difficoltà e i tedeschi temevano che un crollo degli italiani avrebbe permesso agli inglesi di insediarsi in Grecia; Hitler, allora, decise che era arrivato il momento di intervenire. Da qui il ruolo strategico che assunsero i Balcani: dopo l’invasione, l’esercito jugoslavo capitola in pochi giorni e il paese viene smembrato e assegnato ai diversi partner che procedono celermente ad annettere territori che bramavano da tempo; all’Italia toccò Lubiana e giù giù fino a Spalato. Insieme all’Albania, invasa e annessa all’impero italico già due anni prima, finalmente l’Adriatico era diventato Mare Nostrum. L’invasione jugoslava dette vita a una cruenta guerra civile durante la quale vennero massacrate oltre 1 milione di persone, 36 mila soltanto a Lubiana, uno ogni 10 abitanti: “Troppo pochi” secondo il comandante dell’XI corpo d’armata Mario Robotti. Provò a venirgli incontro un altro Mario, il generale Roatta che, nel marzo del 1942, emanò la famosa circolare 3C: “Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, bensì da quella testa per dente!”. La grande celebrazione dell’identità nazionale degli italiani brava gente poteva finalmente avere inizio: fucilazioni di ostaggi inermi, rappresaglie contro i civili anche solo lontanamente sospettati di aver prestato una qualsiasi forma di assistenza alle brigate partigiane, deportazioni di massa, campi di concentramento; solo in quello di Arbe morirono in 1500, in quello di Gonars in 500 – 70 avevano meno di un anno.

Benito Mussolini

Ma limitarsi a fare la conta dei crimini commessi durante la guerra vera e propria potrebbe risultare fuorviante: come ci ricorda lo storico Davide Conti “Ogni volta che parliamo del confine italo – jugoslavo non dobbiamo dimenticare che è proprio lì che nasce il fascismo. Ben prima della marcia su Roma”; come spiegava Benito Mussolini stesso nel settembre del 1920 dalle pagine del Popolo d’Italia “In altre plaghe d’Italia i Fasci di combattimento sono appena una promessa, nella Venezia Giulia sono l’elemento preponderante e dominante della situazione politica”. Da lì in avanti, gli italiani portarono avanti un vero e proprio piano di genocidio culturale fatto di divieti all’utilizzo della lingua, cambiamento della toponomastica, sostituzione del corpo docente locale con docenti italiani (che manco sapevano la lingua), ma anche di espropri di terra e di sistematica persecuzione degli esponenti politici e culturali locali; ma, al di là dell’italianizzazione, a fare più danni fu proprio il processo di fascistizzazione: è stato proprio qua che lo squadrismo fascista, la violenza sistematica contro operai, contadini, sindacati, partiti politici e mezzi d’informazione venne sperimentata su larga scala per la prima volta e permise di mettere a punto un modello che poi verrà replicato in un’altra ventina di paesi in tutto il mondo. Un’eredità troppo pesante da sopportare e che, se affrontata con un minimo di raziocinio, renderebbe impossibile a un Ignazio la Russa qualsiasi fare bella mostra in Tv dei busti di Mussolini che gelosamente custodisce in casa; e, ovviamente, in ballo qui non c’è soltanto la memoria storica – che già di per se sarebbe più che sufficiente. In ballo c’è qualcosa di molto più attuale: la fine dell’antifascismo come valore fondante delle democrazie moderne, del quale la nostra carta costituzionale rappresenta probabilmente l’espressione più avanzata; il 19 settembre del 2019 il parlamento di Strasburgo approva una risoluzione che riscrive la storia del secondo conflitto mondiale attribuendone la responsabilità, invece che all’espansionismo nazista, a quei farabutti dei sovietici che firmarono il patto Molotov – Ribbentrop equiparando sostanzialmente nazismo e comunismo. Era chiaro che si trattava soltanto dell’antipasto: il 26 gennaio dell’anno scorso, in occasione della Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli alpini (istituita per legge appena il maggio scorso) l’assessore regionale all’istruzione del Veneto Elena Donazzan ha emanato una circolare nella quale si rammarica di come “purtroppo già nel mese di dicembre i russi dilagano accerchiando le divisioni posizionate più ad est”; dall’equiparazione, finalmente siamo arrivati al rovesciamento: la maggioranza che sostiene il governo italiano avrebbe preferito che la seconda guerra mondiale andasse diversamente. Ma la vera chicca è arrivata il giorno dopo; alle celebrazioni per il giorno della memoria, ad Auschwitz sono tutti presenti a parte uno: chi l’ha liberata. I russi.
Ah no, già. Scusate. Cazzo dico? Mica l’hanno liberata i russi: l’hanno liberata gli ucraini con in mano un libro di Kant e fischiettando il brano vincitore dell’Eurovision. Contro il revisionismo storico che apparecchia il banchetto ideologico dove si nutre la grande controrivoluzione globale del grande capitale e dell’imperialismo, abbiamo bisogno di un media che racconti la storia e il presente per quello che sono e non per quello che piacerebbe fossero alla Donazzan e a Ignazio la Russa. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Elena Donazzan

OttolinaTV

10 Febbraio 2024

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