Skip to main content

Tag: italia

Chi siamo noi?- Il destino dell’Italia nei nuovi scenari globali

Convegno alla Camera dei Deputati con Geminello Preterossi, Gabriele Guzzi, Fiammetta Salmoni e Lucio Caracciolo. Oramai sembra che un’intera configurazione planetaria stia in una difficile fase di transizione; la guerra ai confini dell’Europa, lo scontro tra il cosiddetto blocco occidentale e il resto del mondo, un commercio internazionale in fase di ridefinizione, l’Unione Europea in strutturale crisi d’identità: tutto sembra portare a una svolta epocale. In questo scenario difficile, cosa può fare l’Italia? E’ ancora possibile intraprendere un’azione di relativo protagonismo? E quale può essere il suo contributo specifico? Abbiamo ancora qualcosa da dire al mondo sulla pace, su un certo tipo di economia, sulla centralità della persona, sulla mediazione tra interessi e culture diverse?

Strategie italiane: cosa può fare il nostro paese nel conflitto globale – ft. Gabriele Guzzi

Quali strategie politiche, geopolitiche, culturali e spirituali può adottare il nostro paese per riconquistare una vera sovranità democratica? Nel contesto del nuovo conflitto tra grandi potenze, l’Italia si trova oggi impreparata da tutti i punti di vista e in questi anni si è asservita, praticamente suicidandosi, alle politiche economiche tedesche e all’imperialismo americano. Per questo è urgente chiederci chi siamo e quale ruolo potremmo avere nei nuovi scenari globali per contribuire alla pace e alla giustizia sociale. Ne abbiamo parlato con Gabriele Guzzi, economista, presidente dell’Indispensabile e già consulente economico a Palazzo Chigi.

Il sud globale che abbiamo in casa: come l’Italia ha derubato il mezzogiorno

Secondo Nicola Zitara c’è un legame profondo tra la lotta di classe e la contrapposizione tra interessi dei lavoratori del Nord e i bisogni di quelli del Sud, i quali non possono essere sintetizzati né dai governi né dai partiti né dai sindacati nazionali. Rileggendo criticamente Gramsci, Zitara ripensa internazionalismo e meridionalismo alla luce di una nuova teoria della rivoluzione. Ne parliamo con Lorenzo Terzi e Angelo Calemme.

Come si riconquista una Casa del Popolo – con i rappresentanti delle Case del Popolo riconquistate

In questo panel moderato da Paolo Mauriello (Multipopolare) e Carlo Scaramuzzino (Presidente Circolo ARCI Putignano), i Rappresentanti delle Case del Popolo riconquistate raccontano come si organizzano, che difficoltà incontrano e quali opportunità intravedono per il futuro. Si parla di esperienze interessanti e significative, di diverso segno e taglio generazionale. E la prassi? A termine del panel si è creato un gruppo operativo per scambiare riflessioni, esperienze e pratiche per far proseguire l’esperimento politico delle Case del Popolo.

Fardelli d’Italia (ep. 20) – Che Italia incasinata: una prima metà del 2024… assurda!

Questa è la ventesima puntata di Fardelli d’Italia, rubrica di Paese reale per Ottolina Tv che indaga falle e contraddizioni della politica italiana. Ripercorriamo assieme alcune delle più importanti vicende politiche nazionali degli ultimi mesi.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare!

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Contro Limes; il turbo-atlantismo è nel nostro interesse nazionale?

La rivista di geopolitica Limes ha recentemente ufficializzato una propria proposta strategica per l’Italia: nel numero “Una certa idea d’Italia”, il direttore Lucio Caracciolo e l’analista Federico Petroni, sicuramente mossi solo dal nobile intento di invertire il nostro declino geopolitico e tornare ad essere protagonisti nelle nostre potenziali aree di influenza, scrivono che l’Italia dovrebbe stipulare un nuovo accordo bilaterale con Gli Stati Uniti, dando vita da una sorta di rapporto speciale tra i due paesi che ci legherebbe ancora più saldamente all’agenda strategica e al comparto militare industriale americano in cambio di una loro maggiore copertura militare e al supporto ai nostri interessi nazionali nella regione mediterranea: “Un accordo bilaterale speciale con gli Stati Uniti” si legge nell’editoriale “[…ri]costituente della nostra pressoché nulla deterrenza, onde anticipare guerre da cui saremmo sopraffatti”. Il ragionamento è questo: visto che, volenti o nolenti, siamo provincie del loro impero e da Washington hanno deciso che la Russia e la Cina devono essere trattati come nemici dell’Occidente, l’unica cosa che possiamo fare noi per salvarci è invocare ancora maggiore dipendenza strategica dall’America in cambio di una maggiore copertura e di un po’ più di autonomia tattica nel Mediterraneo, una regione comunque secondaria nel conflitto tra USA, Russia e Cina che potrebbe permetterci di battere la concorrenza di nostri competitor regionali agguerriti come la Francia e la Turchia. L’idea è, insomma, che potremmo sfruttare meglio di quanto non stiamo facendo il nostro comunque inemendabile status di nazione occupata per portare avanti i nostri interessi nazionali nel nostro estero vicino; come vedremo in questa puntata, quella di Limes, per quanto ragionata e argomentata , appare una proposta miope da tanti punti di vista. E su La Fionda è uscito un interessantissimo articolo di Mimmo Porcaro, Il limite di Limes e il nostro, che analizza nel dettaglio la proposta della rivista del gruppo Gedi facendone emergere tutte le contraddizioni e avanzando un’altra possibile proposta strategica che si pone, invece, come chiaro obiettivo non la rassegnazione alla sudditanza – che è anche quanto di più lontano dal nostro interesse nazionale -, ma la lotta per la riconquista di una sovranità popolare e democratica e di una politica estera finalmente all’altezza della nostra storia e di questo compito.

Mimmo Porcaro

Come sottolinea giustamente Porcaro nell’articolo de La Fionda, Limes è un importante riferimento culturale per chi si occupa di geopolitica in Italia e per quanto riguarda gli articoli dedicati al nostro paese dà spesso voce ad interventi assai condivisibili che cercano di comprendere le cause strutturali del nostro declino e di indicare obiettivi politici realistici per invertire la tendenza: dalla ridiscussione dell’euro alla reindustrializzazione del paese, al rafforzamento dell’unità contro la frammentazione regionalistica, alle politiche demografiche, alla politica scolastica, alla gestione dell’immigrazione, ecc. Il pezzo forte dell’ultimo numero dedicato all’Italia, però, riguarda la politica estera e la collocazione del nostro paese nel grande conflitto geopolitico in atto – quella che a Limes piace chiamare La guerra grande – e sia nell’editoriale di Caracciolo che nell’articolo di Federico Petroni leggiamo, in sintesi, questo ragionamento: dato che il problema principale degli Stati Uniti è la Cina e che Washington non può più controllare tutte le aree critiche del pianeta e dato che una difesa comune europea è una prospettiva più mitologica che politica, l’Italia, per non rimanere indifesa, dovrebbe operare in stretta connessione con gli Stati Uniti una particolare funzione di controllo e sedazione delle crisi mediterranee anche grazie ad una integrazione crescente della nostra industria militare in quella nordamericana. Insomma: in questo clima di guerra degli Usa nei confronti di Russia e Cina che vedrà come area di conflitto anche il Mediterraneo (anche se solo come area secondaria), l’Italia deve ribadire con ancora più forza il proprio allineamento e la propria fedeltà al blocco atlantico svolgendo il ruolo di unico vero campione degli interessi americani nel mare nostrum, così da sfruttare questo rapporto privilegiato con il padrone a scapito, magari, delle altre potenze regionali vicine. Come sottolinea giustamente Porcaro, nonostante venga presentata come unica opzione possibile per assicurarci un ruolo di maggiore autonomia e potenza del paese nel nostro estero vicino, questa tesi deve essere respinta con decisione: “Prima di tutto” scrive Porcaro, per “anticipare guerre da cui saremmo sopraffatti ci si getta in quello che è riconosciuto, anche da Limes, come uno spazio altamente conflittuale strettamente connesso alla guerra d’Ucraina. Seconda linea, sì: ma le seconde linee fanno presto a diventare prime o, comunque, a confondersi con esse, soprattutto quando passano da luoghi che, come il Mediterraneo, sono centrali per i flussi militari, energetici e commerciali.”
Uno dei problemi fondamentali di questa proposta, insomma, è che non siamo agli inizi degli anni 2000 e nemmeno a 10 anni fa, quando la pax americana ancora grossomodo reggeva e la guerra grande non era ancora cominciata: “Se gli Stati Uniti allentano la presa diretta sul Mediterraneo” continua Porcaro “non è per rattrappirsi a casa propria, ma per meglio affrontare il conflitto con la Cina, cosa che avrà pesanti contro-effetti nel Mediterraneo stesso”. Auspicare di prendere parte ad un conflitto mondiale potenzialmente devastante schierandosi, senza se e senza ma, con una delle due parti in causa non sembra – a dirla tutta – una strategia granché lungimirante e spacciarla per mero realismo politico e interesse nazionale appare addirittura irrazionale e contraddittorio; come spiega Porcaro, infatti, la tendenza in America a risolvere manu militari lo scontro con la Cina è molto più forte di quello che traspare dagli articoli di analisti statunitensi, quasi sempre moderati e realisti, ospitati dalla rivista. Come diciamo poi spesso ad Ottolina, più che politico-culturale, è una questione strutturale: il capitalismo finanziario americano può sopravvivere in questa forma e con questa costante crescita solo attraverso l’egemonia espansionistica militare degli USA a scapito del resto del mondo; un nuovo ordine multipolare o policentrico implicherebbe, invece, un’inevitabile implosione delle proprie bolle finanziarie, scenario molto più apocalittico per le oligarchie economiche americane rispetto ad una guerra, magari lontana dal proprio territorio, contro le altre superpotenze. “Il nodo essenziale è questo” scrive Porcaro: “per quanto il pensiero realista e moderato sia sempre stato presente, e influente, negli Stati Uniti, esso non è mai stato veramente egemone e a nostro parere ciò è dovuto anche al fatto che negli Stati Uniti mancano quelle condizioni strutturali che potrebbero consentire ad alcuni apparati di stato di esercitare un’autonomia relativa rispetto alle tendenze espansioniste del capitale (e del plesso militare-industriale). E mancano perché il sistema decisionale di Washington non risente semplicemente della pressione esterna delle varie lobby, ma dell’interna presenza di decisori che provengono direttamente, per la gran parte, dal mondo del capitalismo”; indipendentemente da Clinton, Bush od Obama, sono stati questi gli agenti economico/politici che hanno guidato per decenni la strategia nordamericana dell’open door, ossia del libero mercato mondiale inteso come penetrazione economica degli USA nel resto del mondo, in prima istanza grazie agli investimenti, ma sempre sotto la tutela delle armi.
E anche il recente protezionismo di Trump e di Biden, con annessa maggiore aggressività economica e militare nei confronti dei paesi non allineati, non è che un aggiornamento della politica imperialista del capitale alla luce della ormai ingestibile capacità economico-industriale cinese: “Stando così le cose” conclude il ragionamento Porcaro “stabilire una relazione speciale con gli Stati Uniti per evitare la guerra, o quantomeno per condurne una a bassissima intensità, è come affidarsi al diavolo per evitare il peccato. La predominante tendenza alla guerra è insita nella struttura degli apparati decisionali statunitensi ed è tale da spingere (anche grazie a una religiosità che legittima l’idea del popolo eletto) a comportamenti potenzialmente controproducenti”; affidarsi, insomma, completamente al popolo eletto – subordinando, oltretutto, ad esso in maniera quasi irreversibile la nostra industria militare – potrebbe non essere una scelta molto saggia in quanto non se ne ricaverebbe affatto una maggiore autonomia, sovranità e profondità strategica, ma soltanto un collaborazionismo ancora più servile e autolesionistico ad una potenza strutturalmente guerrafondaia pronta a sacrificarci senza troppi problemi qualora questo giovasse al loro interesse nazionale e magari, chissà, come estrema ratio a trascinarci negli inferi insieme a lei. Una proposta quindi paradossale, tanto che anche Petroni, nel suo articolo Per una relazione speciale con gli Stati Uniti, sottolinea come gli italiani non avrebbero alcun interesse a fare la guerra alla Russia e alla Cina e come la nostra idea di Occidente sostanzialmente fatto e finito e quella americana, in costante imperialistica espansione, non coincidano affatto: “A tutto voler concedere” scrive Porcaro “la proposta che qui discutiamo potrebbe essere interpretata anche come punto d’incontro tra un massimo di realismo e un massimo di tutela dell’interesse del paese. Il (prudentemente) sottaciuto ragionamento di Limes potrebbe essere il seguente: siccome in ogni caso un’alleanza particolare con gli Stati Uniti è al momento inevitabile, tanto vale proporla come nostra scelta autonoma, e quindi sottoporla a determinate condizioni, quali una certa libertà di manovra e magari la ridiscussione del pericoloso trattato (segreto) del 1954 sull’utilizzo delle basi americane presenti nel nostro territorio. Ma anche una simile finezza geopolitica sarebbe destituita di fondamento, per gli stessi motivi generali di cui si è detto prima” e cioè che, ripetiamo, è finita l’epoca in cui il massimo pericolo per l’Italia era la concorrenza nel Mediterraneo di altre potenze NATO, come Grecia o Francia e Turchia, e lo strapotere economico tedesco nell’area euro da cercare di bilanciare in qualche modo, ma siamo nell’epoca, come Limes riconosce, della guerra grande e, cioè, in una fase in cui la nostra potenza occupante e l’imperiale di riferimento si è resa conto che per mantenere la propria egemonia non può che fare la guerra ai propri nemici, a loro volta armati di bombe atomiche. La maggiore indipendenza ventilata da questo rapporto speciale sarebbe quindi solo un’illusione anche perché, come scrive Porcaro, “In guerra le pretese dell’egemone si rafforzano, limitando le manovre dell’alleato e rendendo addirittura possibile una riforma in peius degli accordi che si vorrebbero modificare.” Insomma: in questa impossibilità a staccarsi (forse sentimentalmente) dagli Stati Uniti sta tutto il limite della pur notevole impresa culturale di Limes e del suo tentativo di mettere comunque sempre in primo piano l’interesse nazionale.
Pur senza fare i conti in tasca alla rivista e concedendo un’assoluta indipendenza e onestà intellettuale al progetto editoriale, è chiaro che, per qualche motivo, manca il coraggio di porre come prospettiva di medio-lungo periodo una ritrovata sovranità democratica del nostro paese, che pure è l’unica prospettiva che coincide veramente con il nostro interesse nazionale; come raggiungere questo obiettivo? Questa è la domanda che ci dobbiamo fare e su cui Limes dovrebbe maggiormente discutere: rispetto a questo obiettivo strategico di medio-lungo periodo, tutto il resto è tattica e strategia e, magari, anche stipulare dei nuovi accordi di vassallaggio con gli Stati Uniti in determinate circostanze potrebbe avere senso, ma queste circostanze oggi ci dicono l’esatto opposto e, quindi, di questo collaborazionismo implicito (spacciato per disincantato realismo) non abbiamo davvero più bisogno. “Per Limes infatti” scrive Porcaro (e questo è, per quanto qui ci riguarda, il suo limite principale) “l’interesse nazionale italiano coincide con l’alleanza atlantica: la rivista non definisce in maniera indipendente l’interesse del paese per poi mediarlo, inevitabilmente, coi rapporti di forza, ma dice fin da subito che la relazione con Washington è parte integrante di tale interesse. Affermazione mesta, ma tutto sommato relativamente poco nociva in epoca di globalizzazione ascendente, tragica nell’epoca di guerra che anche Limes sa essere stata inaugurata proprio dal paese a cui proponiamo una special partnership che dalla guerra ci salvi”. “Ma noi cosa proponiamo?” si chiede infine Porcaro, intendendo con “noi” tutti coloro che rivendicano il nesso tra sovranità nazionale e democrazia e non si fanno attrarre da qualche snobistica prospettiva pseudo-realista; quando si passa alle proposte alternative concrete, spesso tra questi “noi” ci si limita agli slogan – fuori dalla NATO, fuori dall’euro – e non sappiamo andare oltre la pur giusta visione di un nuovo equilibrio multipolare. Ma quale posto spetterebbe all’Italia in questo nuovo equilibrio? E come fare a raggiungerlo? “Vogliamo essere l’estrema propaggine di un blocco occidentale, oppure di un blocco BRICS?” si domanda Porcaro; “Vogliamo far parte di un autonomo blocco europeo o mediterraneo? Oppure auspichiamo che gli eventi ci consegnino un ruolo di battitore libero consentendoci di lucrare dagli uni e dagli altri? Probabilmente l’incapacità di rispondere a questa domanda è uno dei motivi dell’attuale debolezza politica delle nostre posizioni.”
Tra gli obiettivi di Ottolina Tv c’è senz’altro quello di stimolare un dibattito serio e ragionato che possa superare tanto il collaborazionismo implicito di Limes quanto gli slogan di protesta privi di contenuto e chiarire le possibili prospettive strategiche alternative per il nostro paese. Per prima cosa, ragiona Porcaro, i principi guida dovrebbero essere due: “1) l’Italia non deve essere la periferia di qualche polo, ossia non deve essere sulla linea di confine, che diviene troppo facilmente linea di tiro, ma deve avere una posizione centrale e neutrale; 2) l’Italia deve far parte di un polo che le consenta il massimo di potere decisionale possibile. Dati questi principi, sono da scartare sia l’ipotesi dell’esser parte di un grande blocco atlantico sia quella opposta: in entrambi i casi saremmo sulla linea di tiro, in entrambi i casi il nostro potere di condizionamento delle decisioni del polo sarebbe minimale.” Nelle condizioni attuali, un pur affascinante polo mediterraneo appare irrealizzabile o, quantomeno, non è più perseguibile come strategia principale: “Il Mediterraneo si è fatto assai più affollato (e difficile) e noi ci siamo fatti assai più deboli, economicamente e politicamente (il piano Mattei senza la potenza dell’industria di Stato e senza una pur relativa autonomia da Washington è pura caricatura): un accesso parzialmente influente al Mediterraneo, al momento, ci sarebbe possibile soltanto nelle forme della “relazione speciale” con gli Stati Uniti già criticata sopra”; cosa resta quindi, conclude Porcaro? “Resta la prospettiva di un’alleanza economico-politica fra paesi europei, un’alleanza che nasca sulle ceneri dell’Unione europea o che comunque vada de facto oltre l’Unione e oltre l’euro e si basi sulla neutralità e sul ripudio del liberismo. Un’alleanza a cui l’Italia apporterebbe il proprio peso economico comunque ancora significativo, la propria proiezione mediterranea (che, allora sì, dall’alleanza sarebbe rafforzata e quindi di nuovo possibile al meglio), la valenza politica del proprio smarcarsi dagli Stati Uniti”. Quello che rimane da chiarire in questa condivisibile suggestione strategica di Porcaro è, però, cosa si intende con alleanza europea e soprattutto quali Stati ne dovrebbero fare parte: si intende un un’improbabile nuova alleanza tra i 27 Stati membri dell’Unione europea? Oppure – cosa forse più verosimile e gestibile – un nucleo europeo composto dagli Stati occidentali? Rispetto a questa condivisibile proposta strategica, benché ancora tutta da definire, si pongono allora allora due questioni primarie: “Quanto alla prima questione bisogna evitare equivoci: un blocco europeo come quello che abbiamo ipotizzato è totalmente contrario alla logica geopolitica ed economica che sottostà alla attuale Unione europea. Non nasce per rafforzare l’atlantismo, ma per decretarne la fine. Non riduce la politica a serva dell’economia, ma la rimette al posto di comando. Quel blocco non si realizza quindi come prosecuzione dell’esperienza attuale, come suo approfondimento in direzione dei famosi Stati Uniti d’Europa, ma come inversione di marcia: come rapporto fra stati sovrani fondato su una scelta politica di autonomia strategica. L’idea è che proprio perché abbiamo bisogno di un’alleanza economico-politica orientata alla neutralità, al controllo dei capitali e alle politiche espansive, proprio per questo dobbiamo superare le attuali istituzioni comunitarie invece di renderle più cogenti ed unitarie”. Quanto alla seconda questione, ricorda Porcaro, bisogna sempre ricordare che in politica e, soprattutto, in politica estera, si raggiunge lo scopo prefissato solo attraverso infinite mediazioni e svolte tattiche; pertanto, per quanto riguarda questa nuova alleanza europea, l’idea di questo spazio può essere costretta a fare alcuni passi avanti anche dentro la cornice della NATO e dell’Unione europea “ad esempio costruendo una coalizione anti-escalation all’interno della prima e forzando con decisioni intergovernative ad hoc i peggiori vincoli economici della seconda. Lo stesso superamento dell’euro può conoscere diverse forme, alcune anche momentaneamente interne all’Unione”.
Insomma: la chiarezza negli obiettivi strategici di medio-lungo periodo, fondamentali per la sopravvivenza della Nazione e quindi per il recupero della sovranità democratica, deve essere la premessa fondamentale per orientare la nostra azione politica; i piani e le svolte tattiche che saremo costretti a valutare per raggiungerli sono, in parte, imprevedibili. Quello che è sicuro è che di alcune posizioni servili e, nella sostanza, antinazionali (anche quando fatte con buona fede) sono oggi, per tutto quello che abbiamo detto, francamente irricevibili. E se anche vuoi contribuire a costruire un media veramente libero e indipendente che si occupi di proposte strategiche nazionali e in vista dell’emancipazione del 99 per cento, aderisci alla campagna di sottoscrizioni di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è John Elkann

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Cataclisma europee: ora sciogliamo Ue e NATO – ft. Pierluigi Fagan

Torna ospite ad Ottolina Tv Pierluigi Fagan per darci un commento a freddo sulle elezioni europee di ieri. Pierluigi parla di un cataclisma, non percepito in Italia per via del nichilismo e del pressapochismo dell’informazione nostrana. Dietro le tendenze a dominare la paura di cambiare svetta il rovesciamento elettorale francese che ridimensiona drammaticamente la figura di Macron, le dimissioni del premier belga e il successo dell’estrema destra in Austria, Germania e Italia. Il vuoto critico viene dunque occupato dall’estrema destra fascistoide che intercetta il voto di protesta e euroscettico, traghettandoci in un nuovo mondo. Buona visione!

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Secessionismo rivoluzionario

Chi ha rapinato il mezzogiorno: una storia coloniale.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Israele ruba gli organi dei palestinesi?

Prosegue la protesta degli studenti nelle università e nelle piazze contro Israele. Oggi torna ad Ottolina Dalia dei Giovani Palestinesi per raccontarci come procede la mobilitazione in Italia e nel mondo, quali sono gli obiettivi degli studenti e perché è fondamentale interrompere i rapporti con le università israeliane. L’intera economia israeliana ruota attorno la guerra e la repressione; le borse di studio e il turismo vogliono normalizzare un regime di apartheid; è quindi fondamentale che gli occhi del mondo rimangano puntati su quanto accade a Gaza e dire no al genocidio.

#Gaza #Palestina #FreePalestine #GiovaniPalestinesi

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Pino Aprile – Il Sud Italia cambierà il mondo

Pino Aprile, giornalista, scrittore e politico, spiega cone sia passato dal revisionismo storico al Movimento Equità territoriale. Quali sono i soggetti, le associazioni, i partiti aderenti, e quale è il suo programma, per lo sviluppo del Mezzogiorno contro qualsiasi autonomia differenziata e le secessioni dei ricchi.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Perché Italia e Francia mentono sulle armi che inviano a Kiev -Ft. Maurizio Boni

Oggi nuova entrata per le interviste di Ottolina con l’arrivo del generale Maurizio Boni. Il nostro Gabriele chiede delucidazioni sulle recenti dichiarazioni del Ministro della Difesa del Regno Unito riguardo l’invio di missili SCALP italiani (oltre che francesi e inglesi, già noti) all’Ucraina. Nel corso dell’intervista ci si interroga sul perché di questa segretezza da parte delle nostre istituzioni sulle possibili implicazioni di questi nuovi invii sul conflitto e sul se stiamo assistendo a un cambio del coinvolgimento italiano nel conflitto. Infine, alcune riflessioni sulle possibili soluzioni al conflitto. Buona visione!

#Ucraina #SCALP #guerra

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Perché l’Italia è fallita?

Avete mai realizzato quanto siete poveri? Ecco: ve lo faccio vedere.

In questo grafico, la linea rossa rappresenta il rapporto tra il reddito pro capite degli italiani e quello dei francesi a parità di potere d’acquisto: ancora a inizio anni 2000 eravamo messi meglio noi di loro; da lì in poi è stata una discesa continua. Ancora peggio va il confronto coi tedeschi, che è la linea verdognola: a inizio anni 2000 eravamo allo stesso livello, dopodiché s’è aperta una voragine; e se calcolate che francesi e tedeschi negli ultimi 20 anni se la sono passata tutt’altro che bene, ecco che magari realizzate come – nonostante avete ancora qualche spicciolo per una pizzata con gli amici o per un volo low cost nel weekend per andare a farvi spennare da qualche affittacamere abusivo su Airbnb in una capitale europea a caso – in realtà non siete mai stati così morti di fame come oggi.
D’altronde, non poteva essere altrimenti: in quest’altro grafico è rappresentato l’andamento dei soldi che, in media, prendete se avete la fortuna di aver trovato un lavoro.

La Germania è la linea verde: fatto 100 quello che guadagnavano nel 1960, nel 1990 erano saliti a quota 220; oggi sono a quota 280. I francesi, e cioè la linea rossa, sono passati dai 100 del 1960 ai 250 nel 1990, agli oltre 300 di oggi. Gli italiani, dai 100 del 1960, nel 1990 erano arrivati a quota 260: in 30 anni di quel terribile inferno che era la corrotta prima repubblica, ce la siamo passata meglio di tutti gli altri; oggi siamo sotto quota 250. le magnifiche sorti e progressive della controrivoluzione neoliberista e di quel simbolo di pace e progresso che sono l’Unione europea e l’euro, per noi – unici nel vecchio continente – hanno significato sempre e solo impoverimento progressivo.
Forse da quest’altra prospettiva vi risulta ancora più chiaro:

In un quadro piuttosto deprimente per tutta la vecchia Europa nel suo complesso, l’Italia è l’unico paese – e, ripeto, l’unico – dove il potere d’acquisto dei salari, nell’arco di 30 anni, è diminuito; non so se è chiaro il concetto: nel 1990 non c’erano ancora non dico i cellulari, ma manco internet. Automazione, rivoluzione digitale, supply chain, just in time – e per comprarti una bottiglietta d’acqua o un tozzo di pane devi lavorare più di prima; per la propaganda analfoliberale è tutta colpa nostra, che siamo choosy, non conosciamo più il valore del sacrificio e siamo stati abituati a vivere al di sopra delle nostre possibilità. Fortuna che al mondo, oltre agli analfoliberali che ripetono a pappagallo le vaccate degli oligarchi che gli danno lo stipendio, c’è anche chi studia, come ad esempio il buon Philip Heimberger, giovane e brillante economista dell’Istituto per gli Studi Economici Internazionali di Vienna, che s’è posto una semplice domanda: chi e cosa hanno fatto fallire l’Italia? Ma prima di addentrarsi nella sua risposta, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro gli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri vari canali social e di attivare le notifiche; a voi costa 10 secondi di tempo, ma per noi significa molto e ci aiuta a portare avanti la nostra battaglia contro la propaganda analfoliberale e al fianco del 99%.
Tutti i dati macroeconomici confermano che il declino economico dell’Italia, negli ultimi decenni, è stato costante e inesorabile: secondo la narrazione della propaganda neoliberista, dipende dal fatto che abbiamo fatto troppe poche riforme e troppo lentamente, ma secondo l’economista Philipp Heimberger, molto banalmente, è una fake news; Heimberger ricorda come, ancora negli anni ‘80, “La crescita della produttività del lavoro, misurata come PIL prodotto per singola ora lavorata, in Italia era ancora tra le più alte del mondo” come si vede chiaramente da questo grafico.

L’Italia è la linea celeste, la Germania quella verde e fino al 1989 tenevamo abbondantemente il passo; poi ci siamo bloccati per un paio di anni abbondanti. Siamo ricominciati a crescere nei 4 anni successivi e poi, dal 1995, stop. Kaput. Morte cerebrale. Rivoluzione digitale, automazione, logistica integrata, catene del valore complesse: in 30 anni il mondo è stato rigirato come un calzino, ma noi niente; per produrre un euro di PIL abbiamo bisogno dello stesso tempo e della stessa quantità di lavoro di 30 anni fa. Com’è possibile?
Heimberger, giustamente, la prende larga e, giustamente, parte dalla madre di tutte le scuse: il debito pubblico italiano; Heimberger ricorda come l’Italia abbia un debito complessivo che, rispetto alle dimensioni complessive della sua economia, è assolutamente in linea con gli altri paesi dell’eurozona, solo che è molto più spostato sulla parte pubblica del debito piuttosto che sul debito privato – e questo alla propaganda neoliberale e ai sacerdoti dei dogmi mistici dell’economia mainstream non piace. Secondo Heimberger, che tutta questa fobia del rapporto debito pubblico/PIL abbia qualche fondamento scientifico è molto discutibile: “Il rapporto debito pubblico/PIL” insiste “può essere visto come una metrica potenzialmente fuorviante per valutare la reale sostenibilità fiscale di un paese”; Heimberger, poi, ricorda come questo rapporto ha cominciato a divergere in modo consistente da quanto registrato in Francia, Germania e altri paesi dell’Eurozona a partire dal 1980, quando eravamo ancora a quota 54%, per poi raggiungere il tetto del 100% nell’arco di poco più di 10 anni. La causa principale, sottolinea, è “Il divorzio tra la Banca Centrale e il ministero delle finanze”: è la tristemente nota indipendenza della Banca Centrale che, però, in realtà significa indipendenza dalla politica e dalle scelte democratiche, ma dipendenza al cubo dalle scelte antidemocratiche del cosiddetto mercato e che, in realtà, si riduce ai monopoli finanziari privati detenuti da un manipolo di oligarchi.
E’ il primo capitolo di quella che possiamo definire la shock therapy con caratteristiche italiane. Fino ad allora, infatti, i titoli del debito che venivano emessi dallo Stato per finanziarsi, quando non trovavano acquirenti privati perché i tassi di interesse non erano sufficientemente attrattivi, venivano acquistati – appunto – dalla Banca Centrale, che aveva il potere di stampare moneta; questo permetteva di mantenere i tassi di interesse bassi perché, appunto, non si era costretti a farli lievitare per convincere i privati a comprare i nostri titoli del tesoro. E come unica conseguenza negativa aveva che, stampando moneta ogni qualvolta serviva comprarsi nuovi titoli che non avevano trovato acquirenti sul mercato, si indeboliva un po’ la nostra moneta rispetto agli altri paesi, cosa che – di per se – entro certi limiti tanto negativa non è, anzi: perché, ovviamente, rende le tue merci più competitive sui mercati internazionali e, quindi, rafforza il tuo export; certo ovviamente, di pari passo, rende anche più costoso importare dall’estero merci e materie prime che non hai in casa, ma fino a che la bilancia dei pagamenti – alla fine – rimane sostanzialmente equilibrata, grosse conseguenze negative non ce ne sono, che è proprio il caso dell’Italia dove, dal 1970 al 1989, si è registrato in media un piccolissimo deficit nella bilancia commerciale pari ad appena lo 0,2%.
Quando invece si impone all’Italia la shock therapy della privatizzazione della Banca Centrale, da lì in poi i titoli emessi dallo Stato devono – appunto – essere comprati dal mercato e, cioè, dagli oligarchi e dagli speculatori che, per essere convinti, vogliono essere pagati bene: ed ecco, così, che i tassi di interesse che lo Stato è costretto a riconoscere magicamente schizzano verso l’alto, fino a raggiungere la cifra astronomica del 20% a inizio anni ‘80; un costo stratosferico che – a meno che tu non cresca del 10% l’anno e, nel frattempo, tagli col machete la spesa pubblica radendo al suolo totalmente il welfare – non può che tradursi automaticamente in un’esplosione del rapporto tra debito pubblico e PIL che infatti, appunto, raddoppierà nell’arco di una decina d’anni. Ed ecco, così, che quando poi è arrivata la seconda tappa della shock therapy con caratteristiche italiane – e, cioè, abbiamo sottoscritto quella vera e propria truffa che è il trattato di Maastricht con i suoi parametri deliranti (anche se, grazie all’adozione dell’euro, i tassi di interesse sono andati piano piano diminuendo) – il debito era talmente alto che continuava a drenare una fetta gigantesca di spesa pubblica; e quindi, per tenere fede ai vincoli di bilancio deliranti imposti proprio da Maastricht, siamo stati costretti a tagliare con l’accetta tutte le altre spese, che gli sciroccati analfoliberali chiamavano sprechi e, per carità, spesso e volentieri lo erano anche, ma che messi tutti insieme, in realtà, costituivano la domanda complessiva che permetteva non solo all’economia nel suo complesso di crescere, ma anche di continuare a fare gli investimenti necessari perché, nel frattempo, crescesse anche la produttività.
Da allora, l’Italia è stata di gran lunga il paese più virtuoso dell’eurozona, dove per virtuoso – appunto – si intende un paese dove quello che lo Stato toglie all’economia in forma di tasse è superiore a quello che restituisce in forma di spese: il famoso avanzo primario che, come sottolinea Heimberger, nessuno ha perseguito con più fondamentalismo religioso di noi, come si vede da questo grafico.

Il bello è che deprimendo scientificamente la crescita economica grazie a questa forma di ultra austerità, alla fine il rapporto debito/PIL ovviamente non ha fatto altro che peggiorare – com’era assolutamente inevitabile, a meno di inspiegabili miracoli sui quali, però, forse sarebbe prudente non fondare la politica economica di una nazione. Il punto, molto semplicemente, è che il rapporto debito/PIL – appunto – è un rapporto: e se il numeratore cresce più rapidamente del denominatore, quel rapporto, ovviamente, peggiora; cosa che era ampiamente prevedibile, perché se scientificamente fai di tutto per deprimere l’economia, il PIL o non cresce o cresce molto poco, mentre il numeratore (e, cioè, il debito) anche se spendi meno di quello che incassi, se a quel poco che spendi ci aggiungi gli interessi che devi pagare per il debito che hai accumulato grazie alla prima geniale riforma della tua genialissima shock therapy, ecco che la frittata è fatta.
Ma anche di fronte a questa evidenza, gli analfoliberali comunque non si rassegnano: la tesi è che questi vincoli esterni sarebbero dovuti servire a imporre a una politica clientelare recalcitrante l’obbligo di introdurre riforme strutturali massicce (in particolare per liberalizzare il mercato del lavoro) e che se ne avessimo approfittato per fare queste riforme – quindi per portare a termine la shock therapy da tutti i punti di vista – a quest’ora saremmo una specie di tigre del Mediterraneo; se invece, inspiegabilmente, siamo in declino è solo perché siamo stati troppo buonisti e non abbiamo avuto la forza di fare scelte abbastanza coraggiose. “Secondo questa tesi” continua Heimberger “la protezione dell’occupazione e la regolamentazione del mercato dei prodotti erano troppo rigide, il welfare troppo generoso e i sindacati troppo forti”; “Tuttavia” sottolinea però Heimberger “diversi studi recenti hanno sottolineato che la teoria della mancanza di riforme è smentita dai fatti”: “Nel complesso, infatti” continua Heimberger “l’Italia ha seguito le raccomandazioni sulle riforme strutturali promosse da istituzioni come la Commissione europea e l’OCSE molto più rigorosamente di quanto non abbiano fatto ad esempio la stessa Francia e la Germania”.
Sul versante delle riforme del mercato del lavoro, ad esempio, “Negli anni ‘90 l’indice di protezione per i contratti a tempo indeterminato era leggermente più alto di quelli registrati in Francia e Germania, ma nel 2019 il rapporto si era invertito”.

Ancora peggio per i contratti a tempo determinato che, nel frattempo, sono aumentati a dismisura, dove – come dimostra questo grafico dove l’Italia è la linea celeste (fig. b) – fino a fine anni ‘90 eravamo il paese con le maggiori tutele e, invece, siamo diventati quelli messi peggio, Germania a parte, almeno fino al 2018 quando, col decreto dignità, l’unico governo non dichiaratamente ferocemente antipopolare degli ultimi 40 anni ha invertito un po’ questo trend catastrofico. A contribuire a questo feroce attacco coordinato ai diritti dei lavoratori, ricorda Heimberger, ci si sono messi prima la fine dell’indicizzazione dei salari all’inflazione e poi le liberalizzazioni selvagge in nome di quella che lui definisce la flex-insecurity: “Il lavoro atipico è letteralmente esploso, e chi aveva un lavoro precario non era nemmeno coperto da un’assicurazione contro la disoccupazione, aveva bassissimi contributi previdenziali e né malattia né congedi retribuiti”; “In teoria” sottolinea Heimberger “la deregulation del mercato del lavoro avrebbe dovuto aumentare la competitività delle aziende italiane riducendone i costi, e garantendo così la conquista di quote di mercato per le sue esportazioni”. In realtà, però, invece “Il basso costo del lavoro ha ridotto l’incentivo per le aziende di fare investimenti” e senza investimenti privati ti puoi scordare l’aumento della produttività. E senza aumento della produttività ti puoi scordare pure la crescita e, soprattutto, l’aumento dei salari: “Pertanto” conclude Heimberger “si può sostenere che le riforme che miravano a liberalizzare il mercato del lavoro hanno fatto più male che bene alla crescita della produttività dell’Italia”. Un bel contributo al declino poi, ovviamente – continua Heimberger – lo hanno dato le privatizzazioni che sono state viste come “una scorciatoia per rientrare nei vincoli introdotti da Maastricht”. “Queste privatizzazioni” sottolinea Heimberger “hanno ridotto il numero di grandi imprese nei settori maturi dell’economia e hanno contribuito ad un calo degli investimenti, dal momento che i nuovi proprietari privati non erano in grado o non erano disposti a mantenere il livello di investimenti delle imprese precedentemente di proprietà statale”: insomma, ribadisce Heimberger, “La narrativa della mancanza di riforme che domina il discorso pubblico sull’Italia non è coerente con i dati rilevanti. I governi italiani in realtà hanno intrapreso importanti riforme strutturali a partire dagli anni ’90, poiché hanno deregolamentato i mercati del lavoro, perseguito le privatizzazioni e attuato riforme pensionistiche”.

Giuseppe Conte

Ma contrariamente alle leggende metropolitane degli analfoliberali tutto questo non ha fatto che aggravare i problemi, invece di risolverli, ma come in tutte le dimostrazioni scientifiche, oltre a descrivere tutto quello che è andato storto applicando un modello, per chiudere il cerchio serve anche la controprova che adottandone una nuovo, che tiene conto delle contraddizioni di quello precedente, si ottengono risultati diversi; e indovinate un po’? Questa controprova oggi c’è e sono i risultati delle iniziative messe sul tavolo dagli unici governi che, negli ultimi 40 anni, non hanno aderito religiosamente ai dogmi mistici della truffa austera e neoliberale: sono i due governi guidati da Giuseppe Conte che, al netto di tutte le criticità possibili immaginabili, hanno – appunto – il merito innegabile non solo di aver testato l’applicazione – per quanto contraddittoria e completamente insufficiente – di un paradigma diverso, ma anche di aver dimostrato, numeri alla mano, che si può fare e che, seppur con millemila limiti, funziona. Diciamo, per lo meno, che si è trattato davvero di fare per arrestare il declino, mentre gli analfoliberali continuavano a dispensare ricette utili solo ad accelerarlo, cosa che hanno immediatamente fatto appena sono tornai ai posti di comando.
Le 3 iniziative in questione sono appunto il reddito di cittadinanza, il decreto dignità e il superbonus: il reddito di cittadinanza, oltre ad essere uno strumento concreto per combattere le sacche di povertà più estreme, è uno strumento piuttosto efficace di politica economica perché, appunto, fa crescere la domanda aggregata e, quindi, stimola la crescita; il decreto dignità impone alle aziende di tornare a investire un minimo per aumentare la produttività, perché ostacola l’ipersfruttamento fondato sulla flex-insecurity e il superbonus che prima di venire completamente distorto e affossato era un modo per creare una moneta fiscale parallela che, in sostanza, permetteva di immettere nuova liquidità nell’economia senza dover aspettare di uscire dall’euro, dall’Unione europea e da tutti i vincoli demenziali che abbiamo sottoscritto e implementato on steroids negli ultimi 30 e passa anni. Al netto di tutte le critiche, queste tre misure sono state le prime tre misure adottate, da 40 anni a questa parte, che uscivano un po’ dal paradigma dell’austerity creato apposta per affossare la nostra economia e favorire la lotta di classe dall’alto contro il basso, e indovinate un po’? Nel loro piccolo, a differenza delle riforme strutturali e dei vincoli esterni, hanno funzionato: non solo perché, per la prima volta, hanno permesso all’Italia di crescere di più dei paesi del nord Europa, ma anche perché, in virtù di questa crescita – come volevasi dimostrare – per la prima volta hanno in realtà permesso di abbattere il rapporto debito/PIL.
Insomma: che cosa fare concretamente domattina perlomeno per arrestare il declino, in realtà, lo sapremmo benissimo; per carità, non è mica il sol dell’avvenire, ma manco il buco nero in cui ci hanno prontamente ricacciato i governi successivi e che ora non potrà che peggiorare ulteriormente con la fine della sospensione del patto di stabilità. Il punto, semmai, è che anche contro quei pochi, timidissimi accenni di un modo diverso di governare l’economia del paese, il partito unico della guerra e degli affari si è subito ricompattato come un sol uomo e, alla fine, il modo per mettere fine all’unica esperienza di governo un minimino democratico e non diretta emanazione delle oligarchie l’hanno trovato subito; figuriamoci il livello di organizzazione e di cazzimma che ci serve se minimamente abbiamo intenzione di andare un po’ oltre questi accenni di prove generali…
Per questo, come minimo, intanto ci serve un vero e proprio media che, invece che alle vaccate della propaganda mistica delle oligarchie neoliberiste, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Cottarelli

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!