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Tag: italia

Perché Italia e Francia mentono sulle armi che inviano a Kiev -Ft. Maurizio Boni

Oggi nuova entrata per le interviste di Ottolina con l’arrivo del generale Maurizio Boni. Il nostro Gabriele chiede delucidazioni sulle recenti dichiarazioni del Ministro della Difesa del Regno Unito riguardo l’invio di missili SCALP italiani (oltre che francesi e inglesi, già noti) all’Ucraina. Nel corso dell’intervista ci si interroga sul perché di questa segretezza da parte delle nostre istituzioni sulle possibili implicazioni di questi nuovi invii sul conflitto e sul se stiamo assistendo a un cambio del coinvolgimento italiano nel conflitto. Infine, alcune riflessioni sulle possibili soluzioni al conflitto. Buona visione!

#Ucraina #SCALP #guerra

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Perché l’Italia è fallita?

Avete mai realizzato quanto siete poveri? Ecco: ve lo faccio vedere.

In questo grafico, la linea rossa rappresenta il rapporto tra il reddito pro capite degli italiani e quello dei francesi a parità di potere d’acquisto: ancora a inizio anni 2000 eravamo messi meglio noi di loro; da lì in poi è stata una discesa continua. Ancora peggio va il confronto coi tedeschi, che è la linea verdognola: a inizio anni 2000 eravamo allo stesso livello, dopodiché s’è aperta una voragine; e se calcolate che francesi e tedeschi negli ultimi 20 anni se la sono passata tutt’altro che bene, ecco che magari realizzate come – nonostante avete ancora qualche spicciolo per una pizzata con gli amici o per un volo low cost nel weekend per andare a farvi spennare da qualche affittacamere abusivo su Airbnb in una capitale europea a caso – in realtà non siete mai stati così morti di fame come oggi.
D’altronde, non poteva essere altrimenti: in quest’altro grafico è rappresentato l’andamento dei soldi che, in media, prendete se avete la fortuna di aver trovato un lavoro.

La Germania è la linea verde: fatto 100 quello che guadagnavano nel 1960, nel 1990 erano saliti a quota 220; oggi sono a quota 280. I francesi, e cioè la linea rossa, sono passati dai 100 del 1960 ai 250 nel 1990, agli oltre 300 di oggi. Gli italiani, dai 100 del 1960, nel 1990 erano arrivati a quota 260: in 30 anni di quel terribile inferno che era la corrotta prima repubblica, ce la siamo passata meglio di tutti gli altri; oggi siamo sotto quota 250. le magnifiche sorti e progressive della controrivoluzione neoliberista e di quel simbolo di pace e progresso che sono l’Unione europea e l’euro, per noi – unici nel vecchio continente – hanno significato sempre e solo impoverimento progressivo.
Forse da quest’altra prospettiva vi risulta ancora più chiaro:

In un quadro piuttosto deprimente per tutta la vecchia Europa nel suo complesso, l’Italia è l’unico paese – e, ripeto, l’unico – dove il potere d’acquisto dei salari, nell’arco di 30 anni, è diminuito; non so se è chiaro il concetto: nel 1990 non c’erano ancora non dico i cellulari, ma manco internet. Automazione, rivoluzione digitale, supply chain, just in time – e per comprarti una bottiglietta d’acqua o un tozzo di pane devi lavorare più di prima; per la propaganda analfoliberale è tutta colpa nostra, che siamo choosy, non conosciamo più il valore del sacrificio e siamo stati abituati a vivere al di sopra delle nostre possibilità. Fortuna che al mondo, oltre agli analfoliberali che ripetono a pappagallo le vaccate degli oligarchi che gli danno lo stipendio, c’è anche chi studia, come ad esempio il buon Philip Heimberger, giovane e brillante economista dell’Istituto per gli Studi Economici Internazionali di Vienna, che s’è posto una semplice domanda: chi e cosa hanno fatto fallire l’Italia? Ma prima di addentrarsi nella sua risposta, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro gli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri vari canali social e di attivare le notifiche; a voi costa 10 secondi di tempo, ma per noi significa molto e ci aiuta a portare avanti la nostra battaglia contro la propaganda analfoliberale e al fianco del 99%.
Tutti i dati macroeconomici confermano che il declino economico dell’Italia, negli ultimi decenni, è stato costante e inesorabile: secondo la narrazione della propaganda neoliberista, dipende dal fatto che abbiamo fatto troppe poche riforme e troppo lentamente, ma secondo l’economista Philipp Heimberger, molto banalmente, è una fake news; Heimberger ricorda come, ancora negli anni ‘80, “La crescita della produttività del lavoro, misurata come PIL prodotto per singola ora lavorata, in Italia era ancora tra le più alte del mondo” come si vede chiaramente da questo grafico.

L’Italia è la linea celeste, la Germania quella verde e fino al 1989 tenevamo abbondantemente il passo; poi ci siamo bloccati per un paio di anni abbondanti. Siamo ricominciati a crescere nei 4 anni successivi e poi, dal 1995, stop. Kaput. Morte cerebrale. Rivoluzione digitale, automazione, logistica integrata, catene del valore complesse: in 30 anni il mondo è stato rigirato come un calzino, ma noi niente; per produrre un euro di PIL abbiamo bisogno dello stesso tempo e della stessa quantità di lavoro di 30 anni fa. Com’è possibile?
Heimberger, giustamente, la prende larga e, giustamente, parte dalla madre di tutte le scuse: il debito pubblico italiano; Heimberger ricorda come l’Italia abbia un debito complessivo che, rispetto alle dimensioni complessive della sua economia, è assolutamente in linea con gli altri paesi dell’eurozona, solo che è molto più spostato sulla parte pubblica del debito piuttosto che sul debito privato – e questo alla propaganda neoliberale e ai sacerdoti dei dogmi mistici dell’economia mainstream non piace. Secondo Heimberger, che tutta questa fobia del rapporto debito pubblico/PIL abbia qualche fondamento scientifico è molto discutibile: “Il rapporto debito pubblico/PIL” insiste “può essere visto come una metrica potenzialmente fuorviante per valutare la reale sostenibilità fiscale di un paese”; Heimberger, poi, ricorda come questo rapporto ha cominciato a divergere in modo consistente da quanto registrato in Francia, Germania e altri paesi dell’Eurozona a partire dal 1980, quando eravamo ancora a quota 54%, per poi raggiungere il tetto del 100% nell’arco di poco più di 10 anni. La causa principale, sottolinea, è “Il divorzio tra la Banca Centrale e il ministero delle finanze”: è la tristemente nota indipendenza della Banca Centrale che, però, in realtà significa indipendenza dalla politica e dalle scelte democratiche, ma dipendenza al cubo dalle scelte antidemocratiche del cosiddetto mercato e che, in realtà, si riduce ai monopoli finanziari privati detenuti da un manipolo di oligarchi.
E’ il primo capitolo di quella che possiamo definire la shock therapy con caratteristiche italiane. Fino ad allora, infatti, i titoli del debito che venivano emessi dallo Stato per finanziarsi, quando non trovavano acquirenti privati perché i tassi di interesse non erano sufficientemente attrattivi, venivano acquistati – appunto – dalla Banca Centrale, che aveva il potere di stampare moneta; questo permetteva di mantenere i tassi di interesse bassi perché, appunto, non si era costretti a farli lievitare per convincere i privati a comprare i nostri titoli del tesoro. E come unica conseguenza negativa aveva che, stampando moneta ogni qualvolta serviva comprarsi nuovi titoli che non avevano trovato acquirenti sul mercato, si indeboliva un po’ la nostra moneta rispetto agli altri paesi, cosa che – di per se – entro certi limiti tanto negativa non è, anzi: perché, ovviamente, rende le tue merci più competitive sui mercati internazionali e, quindi, rafforza il tuo export; certo ovviamente, di pari passo, rende anche più costoso importare dall’estero merci e materie prime che non hai in casa, ma fino a che la bilancia dei pagamenti – alla fine – rimane sostanzialmente equilibrata, grosse conseguenze negative non ce ne sono, che è proprio il caso dell’Italia dove, dal 1970 al 1989, si è registrato in media un piccolissimo deficit nella bilancia commerciale pari ad appena lo 0,2%.
Quando invece si impone all’Italia la shock therapy della privatizzazione della Banca Centrale, da lì in poi i titoli emessi dallo Stato devono – appunto – essere comprati dal mercato e, cioè, dagli oligarchi e dagli speculatori che, per essere convinti, vogliono essere pagati bene: ed ecco, così, che i tassi di interesse che lo Stato è costretto a riconoscere magicamente schizzano verso l’alto, fino a raggiungere la cifra astronomica del 20% a inizio anni ‘80; un costo stratosferico che – a meno che tu non cresca del 10% l’anno e, nel frattempo, tagli col machete la spesa pubblica radendo al suolo totalmente il welfare – non può che tradursi automaticamente in un’esplosione del rapporto tra debito pubblico e PIL che infatti, appunto, raddoppierà nell’arco di una decina d’anni. Ed ecco, così, che quando poi è arrivata la seconda tappa della shock therapy con caratteristiche italiane – e, cioè, abbiamo sottoscritto quella vera e propria truffa che è il trattato di Maastricht con i suoi parametri deliranti (anche se, grazie all’adozione dell’euro, i tassi di interesse sono andati piano piano diminuendo) – il debito era talmente alto che continuava a drenare una fetta gigantesca di spesa pubblica; e quindi, per tenere fede ai vincoli di bilancio deliranti imposti proprio da Maastricht, siamo stati costretti a tagliare con l’accetta tutte le altre spese, che gli sciroccati analfoliberali chiamavano sprechi e, per carità, spesso e volentieri lo erano anche, ma che messi tutti insieme, in realtà, costituivano la domanda complessiva che permetteva non solo all’economia nel suo complesso di crescere, ma anche di continuare a fare gli investimenti necessari perché, nel frattempo, crescesse anche la produttività.
Da allora, l’Italia è stata di gran lunga il paese più virtuoso dell’eurozona, dove per virtuoso – appunto – si intende un paese dove quello che lo Stato toglie all’economia in forma di tasse è superiore a quello che restituisce in forma di spese: il famoso avanzo primario che, come sottolinea Heimberger, nessuno ha perseguito con più fondamentalismo religioso di noi, come si vede da questo grafico.

Il bello è che deprimendo scientificamente la crescita economica grazie a questa forma di ultra austerità, alla fine il rapporto debito/PIL ovviamente non ha fatto altro che peggiorare – com’era assolutamente inevitabile, a meno di inspiegabili miracoli sui quali, però, forse sarebbe prudente non fondare la politica economica di una nazione. Il punto, molto semplicemente, è che il rapporto debito/PIL – appunto – è un rapporto: e se il numeratore cresce più rapidamente del denominatore, quel rapporto, ovviamente, peggiora; cosa che era ampiamente prevedibile, perché se scientificamente fai di tutto per deprimere l’economia, il PIL o non cresce o cresce molto poco, mentre il numeratore (e, cioè, il debito) anche se spendi meno di quello che incassi, se a quel poco che spendi ci aggiungi gli interessi che devi pagare per il debito che hai accumulato grazie alla prima geniale riforma della tua genialissima shock therapy, ecco che la frittata è fatta.
Ma anche di fronte a questa evidenza, gli analfoliberali comunque non si rassegnano: la tesi è che questi vincoli esterni sarebbero dovuti servire a imporre a una politica clientelare recalcitrante l’obbligo di introdurre riforme strutturali massicce (in particolare per liberalizzare il mercato del lavoro) e che se ne avessimo approfittato per fare queste riforme – quindi per portare a termine la shock therapy da tutti i punti di vista – a quest’ora saremmo una specie di tigre del Mediterraneo; se invece, inspiegabilmente, siamo in declino è solo perché siamo stati troppo buonisti e non abbiamo avuto la forza di fare scelte abbastanza coraggiose. “Secondo questa tesi” continua Heimberger “la protezione dell’occupazione e la regolamentazione del mercato dei prodotti erano troppo rigide, il welfare troppo generoso e i sindacati troppo forti”; “Tuttavia” sottolinea però Heimberger “diversi studi recenti hanno sottolineato che la teoria della mancanza di riforme è smentita dai fatti”: “Nel complesso, infatti” continua Heimberger “l’Italia ha seguito le raccomandazioni sulle riforme strutturali promosse da istituzioni come la Commissione europea e l’OCSE molto più rigorosamente di quanto non abbiano fatto ad esempio la stessa Francia e la Germania”.
Sul versante delle riforme del mercato del lavoro, ad esempio, “Negli anni ‘90 l’indice di protezione per i contratti a tempo indeterminato era leggermente più alto di quelli registrati in Francia e Germania, ma nel 2019 il rapporto si era invertito”.

Ancora peggio per i contratti a tempo determinato che, nel frattempo, sono aumentati a dismisura, dove – come dimostra questo grafico dove l’Italia è la linea celeste (fig. b) – fino a fine anni ‘90 eravamo il paese con le maggiori tutele e, invece, siamo diventati quelli messi peggio, Germania a parte, almeno fino al 2018 quando, col decreto dignità, l’unico governo non dichiaratamente ferocemente antipopolare degli ultimi 40 anni ha invertito un po’ questo trend catastrofico. A contribuire a questo feroce attacco coordinato ai diritti dei lavoratori, ricorda Heimberger, ci si sono messi prima la fine dell’indicizzazione dei salari all’inflazione e poi le liberalizzazioni selvagge in nome di quella che lui definisce la flex-insecurity: “Il lavoro atipico è letteralmente esploso, e chi aveva un lavoro precario non era nemmeno coperto da un’assicurazione contro la disoccupazione, aveva bassissimi contributi previdenziali e né malattia né congedi retribuiti”; “In teoria” sottolinea Heimberger “la deregulation del mercato del lavoro avrebbe dovuto aumentare la competitività delle aziende italiane riducendone i costi, e garantendo così la conquista di quote di mercato per le sue esportazioni”. In realtà, però, invece “Il basso costo del lavoro ha ridotto l’incentivo per le aziende di fare investimenti” e senza investimenti privati ti puoi scordare l’aumento della produttività. E senza aumento della produttività ti puoi scordare pure la crescita e, soprattutto, l’aumento dei salari: “Pertanto” conclude Heimberger “si può sostenere che le riforme che miravano a liberalizzare il mercato del lavoro hanno fatto più male che bene alla crescita della produttività dell’Italia”. Un bel contributo al declino poi, ovviamente – continua Heimberger – lo hanno dato le privatizzazioni che sono state viste come “una scorciatoia per rientrare nei vincoli introdotti da Maastricht”. “Queste privatizzazioni” sottolinea Heimberger “hanno ridotto il numero di grandi imprese nei settori maturi dell’economia e hanno contribuito ad un calo degli investimenti, dal momento che i nuovi proprietari privati non erano in grado o non erano disposti a mantenere il livello di investimenti delle imprese precedentemente di proprietà statale”: insomma, ribadisce Heimberger, “La narrativa della mancanza di riforme che domina il discorso pubblico sull’Italia non è coerente con i dati rilevanti. I governi italiani in realtà hanno intrapreso importanti riforme strutturali a partire dagli anni ’90, poiché hanno deregolamentato i mercati del lavoro, perseguito le privatizzazioni e attuato riforme pensionistiche”.

Giuseppe Conte

Ma contrariamente alle leggende metropolitane degli analfoliberali tutto questo non ha fatto che aggravare i problemi, invece di risolverli, ma come in tutte le dimostrazioni scientifiche, oltre a descrivere tutto quello che è andato storto applicando un modello, per chiudere il cerchio serve anche la controprova che adottandone una nuovo, che tiene conto delle contraddizioni di quello precedente, si ottengono risultati diversi; e indovinate un po’? Questa controprova oggi c’è e sono i risultati delle iniziative messe sul tavolo dagli unici governi che, negli ultimi 40 anni, non hanno aderito religiosamente ai dogmi mistici della truffa austera e neoliberale: sono i due governi guidati da Giuseppe Conte che, al netto di tutte le criticità possibili immaginabili, hanno – appunto – il merito innegabile non solo di aver testato l’applicazione – per quanto contraddittoria e completamente insufficiente – di un paradigma diverso, ma anche di aver dimostrato, numeri alla mano, che si può fare e che, seppur con millemila limiti, funziona. Diciamo, per lo meno, che si è trattato davvero di fare per arrestare il declino, mentre gli analfoliberali continuavano a dispensare ricette utili solo ad accelerarlo, cosa che hanno immediatamente fatto appena sono tornai ai posti di comando.
Le 3 iniziative in questione sono appunto il reddito di cittadinanza, il decreto dignità e il superbonus: il reddito di cittadinanza, oltre ad essere uno strumento concreto per combattere le sacche di povertà più estreme, è uno strumento piuttosto efficace di politica economica perché, appunto, fa crescere la domanda aggregata e, quindi, stimola la crescita; il decreto dignità impone alle aziende di tornare a investire un minimo per aumentare la produttività, perché ostacola l’ipersfruttamento fondato sulla flex-insecurity e il superbonus che prima di venire completamente distorto e affossato era un modo per creare una moneta fiscale parallela che, in sostanza, permetteva di immettere nuova liquidità nell’economia senza dover aspettare di uscire dall’euro, dall’Unione europea e da tutti i vincoli demenziali che abbiamo sottoscritto e implementato on steroids negli ultimi 30 e passa anni. Al netto di tutte le critiche, queste tre misure sono state le prime tre misure adottate, da 40 anni a questa parte, che uscivano un po’ dal paradigma dell’austerity creato apposta per affossare la nostra economia e favorire la lotta di classe dall’alto contro il basso, e indovinate un po’? Nel loro piccolo, a differenza delle riforme strutturali e dei vincoli esterni, hanno funzionato: non solo perché, per la prima volta, hanno permesso all’Italia di crescere di più dei paesi del nord Europa, ma anche perché, in virtù di questa crescita – come volevasi dimostrare – per la prima volta hanno in realtà permesso di abbattere il rapporto debito/PIL.
Insomma: che cosa fare concretamente domattina perlomeno per arrestare il declino, in realtà, lo sapremmo benissimo; per carità, non è mica il sol dell’avvenire, ma manco il buco nero in cui ci hanno prontamente ricacciato i governi successivi e che ora non potrà che peggiorare ulteriormente con la fine della sospensione del patto di stabilità. Il punto, semmai, è che anche contro quei pochi, timidissimi accenni di un modo diverso di governare l’economia del paese, il partito unico della guerra e degli affari si è subito ricompattato come un sol uomo e, alla fine, il modo per mettere fine all’unica esperienza di governo un minimino democratico e non diretta emanazione delle oligarchie l’hanno trovato subito; figuriamoci il livello di organizzazione e di cazzimma che ci serve se minimamente abbiamo intenzione di andare un po’ oltre questi accenni di prove generali…
Per questo, come minimo, intanto ci serve un vero e proprio media che, invece che alle vaccate della propaganda mistica delle oligarchie neoliberiste, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Cottarelli

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L’Italia sta tornando fascista? Il soft power non basta più’!

Sempre più repressione e violenza caratterizza il regima neoliberista italiano di destra e di sinistra degli ultimi anni. Ne abbiamo parlato con Andrea Legni e Valeria Casolaro dell’Indipendente. Magistratura, parlamento e governi sono tutti coinvolti nella nuova deriva autoritaria del XXI secolo.

Occupiamo e boicottiamo contro il genocidio: come studenti e docenti si stanno mobilitando contro gli accordi Italia – Israele.

Da mesi studenti e docenti si stanno mobilitando per protestare contro il massacro dei civili palestinesi e contro la cooperazione tra il nostro governo e quello israeliano. A febbraio Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) ha rinnovato un accordo per la collaborazione tra le istituzioni di ricerca italiane e israeliane che ha sollevato una ferma protesta dando vita a occupazioni e a una lettera aperta firmata da più di 2000 docenti.

Un ponte tra Italia e Russia – ft. Tatiana Santi

Tatiana Santi è una giornalista italo-russa che da anni si batte contro la propaganda guerrafondaia e russofobica dei media e dei politici italiani che dipingono la Russia come una nazione pericolosa e malvagia e una minaccia esistenziale per l’Europa. In verità la cultura italiana in Russia è amatissima e riallacciare e stringere i rapporti con la Russia è nel nostro interesse da tutti i punti di vista: culturale, sociale, geopolitico.

Italia fuori dall’euro? – Perché la monete unica è la moneta del nostro declino

L’Italia è entrata nell’euro più per motivi religiosi che non per reale convenienza. Un europeismo ingenuo e acritico ci ha condotto tra le braccia della crisi e della decadenza della nostra economia. Gabriele Guzzi, professore di economia, ci ha parlato dei difetti strutturali di questa moneta e delle possibili soluzioni per rilanciarci.

Disastro Meloni: record di poveri e di cassintegrati e risparmi ai minimi storici

LItalia che non ti aspetti: vi lamentate sempre che vi diamo solo cattive notizie e, allora, oggi abbiamo deciso di regalarvi un mercoledì da leoni insieme agli amici de Il Foglio, che ci danno la carica ricordandoci come il nostro paese “è uscito a razzo dalla pandemia, è cresciuto più di Francia e Germania per quattro anni consecutivi, ha l’export più competitivo e l’inflazione più bassa del G7 e batte tutti i grandi paesi europei per dinamica del PIL pro capite”… No, spe’, forse mi avete frainteso: la buona notizia non è tanto questa che, molto banalmente, è una puttanata di dimensioni epiche; la buona notizia è che l’Italia è, ogni giorno di più, con le pezze al culo. Ma poteva andarci anche peggio: potevamo averci tra i coglioni ancora Renzi e il suo giglio magico.

Marco Fortis

A sciorinare sul Foglio “fatti e numeri che smentiscono l’eterna lagna nazionale”, infatti, è Marco Fortis, consigliere economico prima di Monti e poi di Renzi e che, nonostante i risultati economici disastrosi dei governi che sosteneva, da 12 anni, dal palco della Leopolda (sempre con un’abbronzatura invidiabile), c’invita a fregarcene della realtà che tutti noi abbiamo di fronte agli occhi e a inventarci un mondo parallelo fatto di lampade UVA di cittadinanza e una montagna di ingiustificato ottimismo; peccato, però, che a parte aver relegato il mondo della Leopolda e del Foglio all’irrilevanza che si meritano, ci sia ben poco di altro da festeggiare: giovedì scorso sul Sole 24 ore Luca Orlando ci ricordava come il 2023 sia stato un anno molto complicato, ma il 2024 è partito parecchio peggio. -1,2% di produzione industriale in un solo mese: un’ecatombe che asfalta, in un colpo solo, tutta la retorica sulla crescita immaginaria dell’occupazione. Cioè, l’occupazione aumenta anche, eh? E’ innegabile. E graziarcazzo: col part time involontario, un posto di lavoro diventano due che, in un paese in drammatico declino demografico, percentualmente contano parecchio; e se il contributo dei part time involontari non basta per trasformare la merda in cioccolata, basta aggiungerci una ciliegina che si chiama cassa integrazione.
Oltre a quelli che lavorano un’ora la settimana, infatti, per l’ISTAT sono occupati anche quelli che non ne lavorano manco mezza e che, però, prima di essere licenziati teniamo buoni per qualche mese con un assegno – e sono un esercito: a gennaio, infatti, l’INPS ha autorizzato la bellezza di oltre 49 milioni di ore di cassa integrazione tra ordinaria – e, cioè, quella che dovrebbe aiutare in momenti di difficoltà passeggeri – e, soprattutto, straordinaria – e, cioè, quella che viene utilizzata per crisi strutturali che, il più delle volte, non si ha la minima idea di come risolvere; una cifra spaventosa che segna un crescita di oltre il 16% rispetto anche soltanto al mese precedente e addirittura del 44,4% rispetto a 12 mesi prima. E’ la fine definitiva dell’onda lunga del superbonus che, al netto di tutte le critiche possibili immaginabili, ha rappresentato l’unica vera misura espansiva da parte di un governo da decenni a questa parte e che, a quanto pare, non è bastata: Record della povertà assoluta titola, infatti, La Repubblichina; dopo la piccola flessione dell’indice di povertà registrata nel 2019 grazie all’introduzione del reddito di cittadinanza, infatti, il trend ha ripreso pari pari l’andamento avviato ormai nel lontano 2011 grazie alle politiche lungimiranti di Mariolino Spread Monti che, nell’arco di due anni, era riuscito nell’invidiabile record di aumentare del 70% i poveri in Italia. Da allora, l’aumento è stato incontenibile e se, nel 2010 , erano povere il 4,6% delle famiglie italiane, oggi siamo arrivati all’8,5 e quello che è ancora più grave è che circa la metà hanno un componente che lavora; e anche quelli che, oltre a un lavoro, hanno anche qualche bene di proprietà non è che se la passino proprio benissimo. Lo ricorda Attilio Barbieri su Libero: nel 2011 la ricchezza pro capite degli italiani ammontava alla bellezza di 159.600 euro, contro i 131 dei francesi e i 114 dei tedeschi; primi della classe! Da allora, la nostra ricchezza è cresciuta di appena il 10%, enormemente meno dell’inflazione non dico di questi oltre 10 anni, ma anche solo degli ultimi 2; quella dei francesi è cresciuta del 40%, quella dei tedeschi dell’85 e non credete che si siano ricoperti d’oro: molto semplicemente non hanno perso troppo, e noi siamo precipitati in fondo alla classifica.
Chi invece s’è ricoperto d’oro sono gli statunitensi: nel 2011 avevano, a testa, appena 4 mila euro di patrimonio in più rispetto agli italiani; oggi, ne hanno 230 mila in più. Ci saremo pure sbarazzati di Renzi, renzini e leopoldini vari, ma fino a che come amico del cuore ci continueremo a scegliere quelli che ci fregano i quattrini da sotto il culo alla luce del sole, ho come l’impressione che andremo poco lontano. Prima di continuare in questo viaggio nel cuore della disastrosa politica economica della destra cialtrona e svendipatria, però, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola battaglia contro gli algoritmi e, se non lo avete ancora fatto magari, anche di iscrivervi a questo – come a tutti gli altri nostri canali sulle varie piattaforme – e attivare le notifiche; a voi non costa niente e a noi, invece, cambia parecchio.
“Il nuovo anno si è aperto nei peggiori dei modi” scrive Marco Togna su Collettiva all’inizio di una lunga e dettagliata lista di morti e feriti dell’industria italiana che, ovviamente, non può che iniziare dalla catastrofe Stellantis: 2.260 addetti in cassa integrazione dal 4 marzo al 20 aprile solo a Mirafiori; “Un segnale devastante” scrive la FIOM su un comunicato. Invece che “Made in Italy, qui siamo al destroy Italy”, a partire dall’indotto: tra le prime ad accusare il colpo c’era stata la Lear di Grugliasco, che alle Maserati e alle 500 di Mirafiori forniva i sedili e che, a dicembre, ha annunciato un anno di proroga di cassa straordinaria per tutti i suoi 410 dipendenti; poi è stato il turno della Delgrosso di Nichelino, ad appena 15 chilometri di distanza, 108 lavoratori che, dal 1951, producevano filtri per tutte le principali case automobilistiche italiane ed europee e che, nel 2009, era stata anche nominata da FIAT “miglior fornitore” e che ora si ritrovano pure senza ammortizzatori sociali. Due mesi di cassa integrazione ordinaria per calo di attività produttiva, invece, è quello che aspetta i 200 lavoratori della Maserati di Modena, mentre a 72 dipendenti su 163 della Tecopress di Ferrara che, dal 1971, produce componenti stampati in alluminio per i motori, è stato concesso un altro anno di cassa straordinaria in deroga.
Ma ancora più dell’automotive, in Emilia a preoccupare è il settore delle piastrelle; Meloni e Giorgetti fanno gli spavaldi con numeri farlocchi per cercare di farci dimenticare cosa comporti la fine del superbonus, ma i 6 mila addetti del settore per cui è stata approvata la richiesta di cassa integrazione su 26 mila in totale potrebbero pensarla diversamente. D’altronde, era piuttosto prevedibile: come ricorda sempre Luca Orlandi sul Sole 24 ore, il comparto delle piastrelle nel 2023 ha diminuito la produzione di oltre il 25% anche perché, oltre alla fine del superbonus, c’è anche la crisi della domanda di tutti i mercati più sviluppati, dal -25% della Francia al -30 della Germania, per arrivare agli USA che, nel 2023, hanno registrato 1 milione e 300 mila edifici in costruzione in meno rispetto all’anno precedente e, quindi, di piastrelle italiane non ne hanno più bisogno. E il comparto della ceramica non è manco quello messo peggio: nonostante la retorica sulla transizione ecologica e la mobilità dolce, infatti, un comparto che è sull’orlo del collasso è – inaspettatamente – quello delle bici che, per la prima volta dal 1975, scende sotto la soglia dei 2 milioni di pezzi, 1,3 milioni in meno rispetto ad appena 2 anni fa. Unica cosa a tenere è l’esportazione della gamma più alta “che ad esempio va alla grande in Cina” sottolinea Piero Nigrelli dell’associazione di categoria ANCMA: mica in Francia o negli USA.
In tutto, ricorda Orlando, “sono in calo 13 settori su 16”; a fare eccezione sono le armi, che segnano un bel +43%, e poi l’alimentare, ma è una vittoria di Pirro: appena +0,6%. Troppo poco, ad esempio, per salvare la Fiorucci di Santa Palomba, alle porte di Roma, anche se qui c’è una mezza buona notizia: l’azienda, infatti, ha ritirato la procedura di licenziamento collettivo per tutti i suoi 211 lavoratori; si limiterà a chiudere un pezzetto alla volta, dopo aver mandato un po’ di personale in prepensionamento e aver incentivato, con l’80% del salario per un anno, l’uscita volontaria degli altri. Insomma: una vera e propria ecatombe, che però non impedisce a Giancazzo Giorgetti, alla MadreCristiana e a tutti i pennivendoli che gli vanno appresso di sfrucugliarci le gonadi con gli annunci in pompa manga sull’occupazione record. Anzi!
Dall’anno scorso, infatti, Eurostat e ISTAT hanno introdotto un trucchettino contabile che prevede venga aggiunto agli occupati anche chi è in cassa integrazione per meno di 3 mesi l’anno e che a gennaio, appunto, erano il 44% in più di un anno prima, e non è l’unico inghippo: il solo calo demografico, infatti, di default, a bocce ferme, fa aumentare la percentuale di occupati di circa 0,3/0,4 punti; e poi, appunto, c’è il fenomeno ormai totalmente fuori controllo del part time involontario, che riguarda circa il 60% dei circa 4,3 milioni di lavoratori complessivi in part time. Risultato, appunto: il numero degli occupati è a livelli record; il numero delle ore lavorate, invece, è inferiore di quasi il 10% rispetto al 2008. Ecco spiegato com’è che le famiglie che sono sotto la soglia assoluta di povertà, nonostante un componente abbia un contratto regolare di lavoro dipendente, sono cresciute in un anno dall’8,3 al 9,1%: “Il lavoro povero, malpagato e con poche ore” sottolinea Valentina Conti su La Repubblichina “si conferma snodo cruciale e irrisolto del problema povertà in Italia”. E tutto questo rischia di essere solo l’antipasto: come ricorda Luca Orlando sul Sole 24 ore, infatti, il drastico calo della produzione industriale è dovuto in particolare al fatto che le aziende hanno i “magazzini saturi”, mentre la domanda è “generalmente debole, sia in Italia che all’estero”; questo significa che l’anno scorso, nonostante ci sia stato comunque un calo della produzione, le aziende sono state fin troppo ottimiste.
Insomma: al contrario di noi uccellacci del malaugurio, si sono letti gli editoriali de Il Foglio e si sono fatti trascinare dall’ottimismo dei vari Marco Fortis e non gli è andata esattamente benissimo; fino ad oggi, giustamente, ci siamo concentrati sugli imprenditori che non investono perché si spartiscono i dividendi e li vanno a giocare al casinò delle bolle speculative USA e anche sul pubblico che tira la cinghia perché è tornato il culto mistico dell’austerity. E va tutto bene. Qui però c’è un problemino in più: nonostante sia pubblico che privato non abbiano investito una cippa, quello che hanno prodotto nel 2023 gli è rimasto in magazzino. Non è un nodo da poco: a mancare è proprio la domanda, prima di tutto quella interna, con il doppio dei poveri di 15 anni fa e le famiglie che hanno dato fondo a tutti i risparmi accumulati da nonni e genitori quando l’Italia era una socialdemocrazia. Risultato: nella vendita al dettaglio siamo al ventesimo mese consecutivo di calo dei consumi. E poi anche nel resto del giardino ordinato, a partire, appunto, dal nostro principale mercato – che è la Germania – che, prima, ci ha trasformato in suoi subfornitori e, poi, ha deciso di far chiudere le aziende che fornivamo per far contenti gli americani, che inseguono il sogno della reindustrializzazione e che, magari, possono anche importare un po’ di più dall’Italia, soprattutto in alcune nicchie di mercato che non ritengono strategiche e che ci lasciano, gentilmente, in appalto.
Ma è un giochino che non può bastare; il punto è che l’Occidente collettivo nel suo complesso è condannato alla stagnazione e, in questo gioco a somma zero, la domanda sposta il suo baricentro a nostro sfavore: dal vecchio continente, che ci comprava diverse cosine, agli USA, che si limitano a comprarci due cazzate. Col resto del mondo, invece – quello che cresce -, abbiamo scelto di complicarci la vita tra decoupling o derisking; forse qualcuno non ha fatto proprio benissimo i suoi calcoli o, forse, sa che tanto tutte queste pippe stanno a zero e che il nostro padrone ha deciso che, nel futuro, ci dobbiamo solo occupare di costruire obici e cannoni per tenere impegnata la Russia. Di sicuro c’è che ci siamo infilati in un vicolo cieco e che non saranno gli zerbini di Washington e delle oligarchie finanziarie a indicarci la strada per uscirne; abbiamo bisogno di rimettere in discussione tutto dalla radice e, per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Matteo Renzi

P.S.: un nutrito gruppo di ottoliner ha appena dato vita a MULTIPOPOLARE, l’associazione degli amici di Ottolina Tv che vogliono portare i nostri contenuti fuori dalla bolla distopica del mondo digitale e permettere a chi si riconosce nei nostri contenuti e nelle nostre modalità di costruire una vera e propria comunità fatta di persone in carne ed ossa; stanno organizzando iniziative di presentazione e di tesseramento in tutto il territorio. Se siete interessati a dare una mano e a mettervi in contatto, scriveteci a ottolinatv@gmail.com. Il primo evento è previsto per sabato 30 marzo a partire dalle 15 nella sede romana di Risorgimento Socialista, in viale Giotto 17.

E chi non aderisce è Paolo Mieli















Fardelli d’Italia (ep.6) – Energia pulita, energia delle donne, con @PaeseReale

Fabio Perrone di Paese Reale presenta la sesta puntata di Fardelli d’Italia, il format in cui indaghiamo falle e contraddizioni della politica italiana. Oggi si parla di riconversione ecologia, redditi e questione di genere.

Droni Houthi sulle navi italiane: per sostenere il MASSACRO INFINITO la Meloni rischia l’ESCALATION

Così ho colpito il drone titolava a tutta pagina lunedì scorso Il Corriere della serva: “Il drone a 4 miglia, dovevo decidere. Poi ho pensato ai miei.” L’entusiasmo patriottico col quale i media italiani hanno accolto il battesimo di fuoco della nostra marina militare nello stretto di Bab el-Mandeb ha sinceramente qualcosa di profondamente commovente: “Eravamo in pattugliamento vicino alle coste yemenite” ha raccontato il capitano di vascello Andrea Quondamatteo “quando a un tratto è arrivato un eco radar sconosciuto. Un profilo in movimento, a bassa quota e in rapido avvicinamento minaccioso: un missile? Un aereo?”; ma no Andre’, è Supergiovane con la sua vespa schioppettante. Ed ecco così che – prima di rimanere abbrustolito dalle fiamme della petomarmitta – il nostro Quondamatteo si vede passare davanti agli occhi in un attimo tutta la sua vita: “Ho pensato a mio papà e a mia mamma Fiorella che non c’è più. Lei per anni ha fatto da madre e da padre a me e mio fratello, perché a casa i comandanti non ci sono quasi mai” e “così ho preso la decisione. Dovevo difendere la mia nave e il mio equipaggio e ho dato il comando all’operatore del radar di tiro: il cannone di prora dritta ha sparato 6 colpi, e dopo pochi secondi l’apprezzamento ottico ci ha confermato l’abbattimento”. Il giornalista allora rilancia: “Anche i social ieri sono impazziti, e c’è chi ha paragonato la Duilio addirittura a Mosè, capace di aprire le acque del mar Rosso”, ma il nostro eroico capitano rimane umile: “Esagerati” ammonisce. Insomma, abbastanza: a leggere i giornali sembra quasi che abbiamo abbattuto uno Zircon o qualche altro arnese ipersonico; abbiamo abbattuto un drone da qualche migliaia di euro. Figuratevi quanto ci maciulleranno le gonadi se mai dovessimo affrontare qualche pericolo concreto: ci farebbero rimpiangere tempo zero la melassa delle interviste alle finaliste di miss Italia; è un motivo sufficiente per diventare pacifisti solo quello. Un incubo!

Supergiovane

D’altronde, per come stiamo messi – visti i precedenti – un po’ di enfasi tutto sommato è anche giustificata; pochi giorni prima, il 27 febbraio, il battesimo di fuoco infatti era toccato a un’altra imbarcazione coinvolta nell’operazione Aspides: è la fregata tedesca Hessen che, di droni, ne ha abbattuti due ad appena 20 minuti l’uno dall’altro. Era la prima volta in quell’area per una nave tedesca – la prima giusta, diciamo; la sera prima, infatti, la Hessen s’era un po’ confusa e aveva aperto il fuoco contro un altro drone, ma non era andata benissimo: erano stati lanciati due missili Standard SM-2 che, però, “non hanno funzionato”, come ha ammesso lo stesso portavoce del ministero della difesa tedesco Michael Stempfle. Paradossalmente, è andata di lusso così; il drone in questione, infatti, questa volta non era dei terroristi che si oppongono al genocidio, ma degli alleati democratici che lo sostengono: un Reaper MQ-9 americano che aveva il trasponder per l’identificazione spento perché impegnato in un’operazione antiterrorismo, lo stesso MQ-9 che “quei dementi degli Houthi” – come li ha definiti Guido Olimpo, grande firma del giornalismo italiano (che l’ultima volta che n’ha azzeccata una c’era ancora non dico la lira, ma i sesterzi) – invece hanno tirato giù con una certa disinvoltura e non una, ma ben due volte. “Entrambi i missili Standard SM-2” riporta Analisi Difesa, avrebbero “rivelato difetti tecnici durante l’impiego, elemento” sottolinea il direttore Gianandrea Gaiani “che apre inquietanti interrogativi circa l’efficienza dei sistemi di difesa navale tedeschi contro le minacce aeree”, e fino ad ora era andata di lusso perché, anche se difettosi, almeno i missili c’erano: “Abbiamo scoperto solo ora che una parte delle munizioni della fregata Hessen non può più essere acquistata perché non c’è più la capacità industriale corrispondente” ha affermato Florian Hahn, portavoce per la politica di difesa del gruppo parlamentare CDU/CSU all’opposizione; “Quindi, quando le scorte saranno esaurite, la Marina non potrà più rifornirle e dovrà ritirare la fregata. Il Parlamento ha approvato la missione nel mar Rosso senza sapere che c’era ovviamente un problema di munizioni″.
L’asse della resistenza non poteva chiedere di meglio: con decine e decine di attacchi con droni da poche migliaia di euro, la strategia di Ansar Allah è infatti sempre stata, molto semplicemente, quella di imporre al sostegno al genocidio dell’Occidente collettivo il più alto costo possibile; “Da ottobre” ricorda sempre Gaiani “la sola US Navy ha lanciato circa 100 missili terra – aria Standard SM-3 contro missili e droni Houthi”. Se a questi ci aggiungi anche i missili lanciati a cazzo contro bersagli amici in incognita, prima di Pasqua capace si fa festa; d’altronde, gli errori tedeschi erano abbastanza prevedibili e non solo per il materiale scadente: a corto di uomini, i marinai tedeschi vengono mandati sempre più spesso in missione e “oltre 230 giorni in mare in un anno” ha denunciato l’ammiraglio Axel Schulz “non sono rari”. A complicare il quadro, appunto, c’è la sovrapposizione delle missioni anglo – americane ed europea: “Come già accaduto in Afghanistan” sottolinea ancora Gaiani “gli Stati Uniti operano unilateralmente in un’area operativa in cui agiscono anche forze alleate complicando così il coordinamento e lo scambio di informazioni”; tutte queste criticità messe insieme, continua Gaiani, “rischiano di mettere in forse la sostenibilità nel tempo della missione nel mar Rosso” soprattutto dal momento che, nonostante – come annunciato con enfasi dal vice segretario aggiunto alla Difesa americano per gli affari in Medio Oriente Daniel Shapiro – le forze statunitensi ad oggi avrebbero colpito la bellezza di 230 obiettivi in Yemen, le potenzialità offensive di Ansar Allah “non sembrano essere state scalfite in modo significativo”. “Il bellicismo ostentato nelle dichiarazioni dei leader europei” conclude Gaiani “cozza con la cruda realtà delle risibili capacità belliche, e impone di chiedersi perché un’Europa disarmata punti su soluzioni muscolari alle crisi in atto invece di mettere in campo robuste iniziative diplomatiche”, sopratutto alla luce del fatto che i droni yemeniti ce li siamo proprio andati a cercare: le nostre fregate, infatti, sono in zona da tempo, ma in anni e anni di pattugliamento non erano mai state prese di mira e i guai sono iniziati tutti con l’annuncio della missione Aspides e del suo rapporto abbastanza ambiguo con quella dichiaratamente offensiva degli angloamericani; l’unica speranza sarebbe riuscire a garantire, in modo credibile, che si tratti davvero di missioni rigorosamente esclusivamente difensive, che niente hanno a che spartire con l’atto di forza della Prosperity Guardian. Ma non solo: bisognerebbe anche garantire che in nessun modo la missione servirà a sostenere il genocidio in corso e che si occuperà esclusivamente di proteggere imbarcazioni commerciali da e per i porti dell’Unione Europea. Insomma: esattamente il contrario di quello che ostentano quegli scappati di casa che ci ritroviamo al governo e la propaganda cialtrona che li sostiene.

Giuseppe de Vergottini

“Colpire basi a terra? La legge non lo esclude”: l’organo ufficiale dei fascioliberisti decerebrati italiani che è Libero, anche a ‘sto giro fa di tutto per andare contro agli interessi nazionali. Questa volta a fare per accelerare il declino della bagnarola italiana ci si mette il sempre pessimo Giuseppe De Vergottini, il giudice costituzionale che odia la Costituzione: erede di una famiglia istriana nobile, prima, e orgogliosamente fascista poi (compreso uno zio podestà), Giuseppe – oggi presidente di FederEsuli – da sempre si batte contro l’assunzione di responsabilità del nostro paese per i crimini contro l’umanità commessi nella ex Jugoslavia e all’idea di una nuova avventura bellica, nonostante ormai sulla soglia dei 90 anni, gli si continuano a illuminare gli occhi. “Le navi italiane potranno intercettare i missili e i droni degli Houti, ma non colpire le basi di terra da cui partono. Non è un limite che può rivelarsi pericoloso?” lo imbocca il giornalista: “La missione è qualificata come difensiva” risponde De Vergottini, e “quindi reazione ad attacchi. Ma” sottolinea “esiste una legittima possibilità di reazione anticipata nell’immediatezza di attacchi da parte dei gruppi terroristici” dove, da tradizione, per gruppi terroristici si intende ovviamente chiunque si azzardi ad opporsi a un genocidio; “Spetterà a chi ha la responsabilità di comando decidere se colpire la base di partenza dell’attacco” conclude De Vergottini “in modo da evitare di diventare sicuro bersaglio degli attaccanti”. D’altronde, ora che abbiamo dimostrato che possiamo tirare giù addirittura un drone da qualche migliaia di euro, e chi ci ferma più?
Di fronte al massacro degli affamati di giovedì scorso a Gaza, Davide Frattini sul Corriere della serva di venerdì ci invitava a non correre troppo a ricostruzioni avventate: d’altronde, ricordava, “I portavoce dell’esercito dicono che le truppe hanno sparato solo colpi d’avvertimento, per disperdere la folla”; se poi questi subumani morti di fame sono così coglioni che si mettono a correre e si calpestano, noi che ci possiamo fare? Siamo superiori, è vero, ma per i miracoli non siamo ancora attrezzati. La patetica linea difensiva del regime genocida di Israele è diventata immediatamente e automaticamente la linea ufficiale di tutti i principali media italiani: il Corriere della serva i morti li cancella tout court e parla di “una folla di palestinesi” che, come succede sempre quando hai a che fare con dei subumani privi di ogni forma di civiltà, “assalta i camion degli aiuti umanitari”. Libero, ovviamente, non può non rilanciare: Israele: – titola – stavano sparando ai nostri soldati. La Stampa: Folla fuori controllo, costretti a sparare. La maggior parte delle vittime calpestate; come abbiamo scritto in un post venerdì mattina, nel prossimo episodio… Auschwitz: la folla si accalcava per fare la doccia. Costretti ad aprire il gas“. Secondo La Repubblica, invece, sono stati “solo colpi di avvertimento, è stato un incidente”.
Ovviamente di accidentale, nella strage, c’è decisamente poco; in primo luogo, di default, per le responsabilità oggettive: la prima è che se vi siete finora scandalizzati per i 30 mila civili massacrati dalle bombe, aspettate di vedere le conseguenze della fame imposta a tutto il resto della popolazione. Come ricordava ieri Richard Brennan, direttore regionale dell’OMS, su Il Manifesto, infatti, “prima del conflitto entravano 500 camion di aiuti al giorno. Ora, un centinaio” dai quali gli israeliani, scientificamente, sottraggono il più e il meglio: la CNN, ad esempio, ha revisionato i documenti degli operatori umanitari che elencano i beni più frequentemente bloccati dagli israeliani e “questi includono anestetici e macchine per anestesia, bombole di ossigeno, ventilatori, sistemi di filtraggio dell’acqua, medicinali per curare il cancro e pastiglie per purificare l’acqua”. Risultato – sottolinea Brennan -: “Tra traumi non curati, malattie e trattamenti per condizioni croniche non ricevuti, proiezioni della Johns Hopkins University e della London School of Hygiene and Tropical Medicine parlano di 85mila morti possibili nei prossimi sei mesi”. Particolarmente critica la situazione proprio a nord, il teatro della strage: come sottolineava, sempre su Il Manifesto, Andrea de Domenico del coordinamento umanitario dell’ONU, infatti, “Dal 18 febbraio le Nazioni Unite non sono più riuscite a effettuare alcuna operazione di assistenza al nord di Gaza. La gente ha cominciato a mangiare cibo che normalmente viene dato agli animali. Un sacco di farina che prima della guerra costava circa 10 euro ora al nord ne costa circa 500”; in questa situazione, per gli aiuti umanitari esistono appena “un paio di strade dove far arrivare i convogli. La gente perciò” continua de Domenico “sa benissimo da dove giungono i camion e le persone, disperate, senza più nulla, li vedono arrivare, corrono verso di loro per prendere ciò che possono, correndo rischi incredibili”. A questo giro in particolare, ricostruisce una testimonianza raccolta da Michele Giorgio sempre su Il Manifesto, contro i suggerimenti degli operatori umanitari che chiedevano arrivi più scaglionati, gli israeliani “hanno fatto arrivare un convoglio molto lungo, di circa 30 camion. La coda del convoglio così si è ritrovata a poca distanza dal blocco militare, e quando la folla s’è avvicinata agli ultimi autocarri per prendere gli aiuti, i soldati hanno fatto fuoco” e non certo per aria o, almeno, non solo: come racconta il dottor Jadallah al Shafi che, da poco, è riuscito a rimettere in funzione tre sale operatorie nell’ospedale di Shifa (chiuso a novembre perché assalito dall’IDF) “Abbiamo ricevuto persone che erano state colpite da proiettili, talvolta in più parti del corpo, alla testa, al torace e alle gambe”.
Di fronte a questo massacro, l’Occidente collettivo ha giocato un pochino allo sbirro buono perché, per esercitare il tuo diritto alla difesa, puoi sterminare tutti i bambini che vuoi, ma almeno un piccolo sforzo per distribuirli e camuffarli un po’ lo devi fare, che sennò ci fai sfigurare; massacrare la gente affamata in fila per un pugno di farina, infatti, da un paio di settimane in realtà è diventato uno sport nazionale: come scrive il mitico blog Moon of Alabama “In passato avevo scritto che le forze di occupazione sioniste inviano cibo nel nord della Striscia di Gaza per poi uccidere i palestinesi affamati che cercano di raccoglierlo. Alcuni lettori mi hanno detto che si trattava di un’affermazione un po’ troppo forte. Non lo era. E’ esattamente quello che sta succedendo giorno dopo giorno”. Qualche esempio? “18 febbraio: Un abitante di Gaza affamato colpito alla testa dall’IDF in via Rasheed mentre veniva in cerca di cibo”; “22 febbraio: L’ospedale Al-Shifa accoglie diversi abitanti di Gaza feriti o uccisi dall’IDF in via Rasheed mentre cercavano disperatamente del cibo”; “23 febbraio: Un cittadino di Gaza affamato va con il fratello minore in cerca di cibo in Rasheed Street e ritorna con suo fratello in una borsa sulla schiena, colpito dall’IDF”; “24 febbraio: la Mezzaluna Rossa recupera i corpi di due abitanti di Gaza uccisi dai soldati dell’IDF in via Rasheed mentre cercavano disperatamente cibo”e così via. “Questo” conclude Moon of Alabama “è quello che accade praticamente ogni giorno da settimane nel nord di Gaza”; ecco, così si che va bene: un giorno uno, il giorno dopo altri due, poi magari – quando è festa – una decina, ma 120 in una botta sola è troppo. Si vedono anche dal satellite. Gli sbirri buoni, allora, provano a riconquistare un po’ di credibilità; addirittura Frattini s’è un po’ indignato e ha accusato gli alleati più fanatici del governo dell’unica democrazia del Medio Oriente di progettare “di ricostruire gli insediamenti ebraici nella striscia”: addirittura, sottolinea, “Hanno già disegnato la mappa: il villaggio Vita Coraggiosa sorge davanti al mare e sul manifesto è un punto verde, mentre Sha’arei è blu e sta dalle parti di Khan Younis, dove l’esercito combatte le battaglie più intense degli ultimi mesi, e da dove gli abitanti sono stati sfollati ancora una volta, pigiati verso il Mediterraneo, pigiati verso la mancanza di fuga e di speranza”. Pure poeta. Ora, questa carta – sottolinea Frattini – “potrebbe essere ri – arrotolata come il vaneggiare di esaltazioni messianiche. Se non fosse” però, conclude, “che ieri quell’ebbrezza è diventata disordine reale, con almeno cinquecento coloni a premere sul posto di blocco piazzato dall’esercito fino a sfondarlo e a entrare nella Striscia”. Capito? Mentre l’IDF sparava sulla folla affamata, 500 simpatici coloni sfondavano i posti di blocco delle forze dell’ordine ed entravano a Gaza per rivendicarne la proprietà, ma a loro non sparava nessuno. Manco una manganellatina: quelle, nelle vere democrazie, si conservano per i ragazzini di 16 anni che il genocidio, invece di invocarlo, lo denunciano.
Nel giardino ordinato, infatti, si sta verificando questo fenomeno strano: i giovanissimi, nonostante siano stati addestrati all’insegna del rincoglionimento scientifico di massa, non si capisce per quale strana ragione sembra non apprezzino particolarmente l’idea di vedere massacrati i loro simili manco fossero dei topi di laboratorio; secondo un sondaggio di Gallup pubblicato lunedì scorso, infatti, negli USA tra la popolazione di età compresa tra i 18 e i 34 anni ha un’opinione favorevole su Israele il 38% della popolazione. L’anno scorso era il 64: tutti voti ai quali Biden non può rinunciare, ed ecco – allora – che si comincia a smuovere qualcosina: ieri Benny Gantz si è recato a Washington e, a quanto pare, senza l’autorizzazione di Netanyahu, che si sarebbe leggermente indispettito. Per le cancellerie suprematiste dell’Occidente collettivo, è il volto presentabile del genocidio; Benny Gantz, infatti, è stato a lungo l’anti Netanyahu, ma dopo aver guidato l’opposizione, quando – dopo l’operazione diluvio di Al Aqsa – in Israele, per favorire la soluzione finale, si è optato per un governo di unità nazionale, ha aderito senza tentennamenti: come annunciava entusiasticamente Il Foglio, “Aveva l’obiettivo di rovesciare il premier, ma si è reso contro che Israele ha bisogno della sua competenza”. D’altronde, per portare avanti il più grande massacro di civili del XXI secolo di competenza ce ne vuole parecchia.

Benny Gantz

Nel frattempo, però, è arrivata anche la crisi degli ostaggi e anche una catastrofica crisi economica: per l’ultimo quadrimestre del 2023, gli analisti consultati da Bloomberg avevano previsto un calo del PIL annualizzato di circa il 10%; è stato del doppio, 19,4. I consumi privati sono crollati del 27%, gli investimenti, addirittura, del 70 e non è che si veda chiaramente una via d’uscita: come riporta il Wall Street Journal “All’interno delle forze armate, dai comandanti ai soldati semplici, sono sempre di più quelli che temono che le vittorie tattiche ottenute sul campo di battaglia non porteranno a una vittoria strategica duratura. Dopo quasi 5 mesi di combattimenti intensi” continua l’articolo “Israele è ancora ben lontano dall’obiettivo dichiarato dell’eliminazione di Hamas come entità politica e militare di un qualche rilievo”; “Combattere il nemico è come giocare ad acchiappa la talpa”, avrebbe affermato un riservista israeliano della 98esima divisione di stanza a Khan Younis al WSJ. “Molti soldati lamentano l’assenza di un vero piano e si domandano a cosa servano i loro sacrifici. Distruggere Hamas sarà incredibilmente complicato”. Il Journal sottolinea inoltre come, molto probabilmente, i militanti di Hamas caduti durante il conflitto sono molti meno di quelli dichiarati da Israele e che, nel frattempo, altrettanto probabilmente Hamas ha reclutato nuovi combattenti, col rischio che il bilancio sia addirittura in positivo; vista la malaparata, come riporta il canale ebraico Channel 14, “Un gran numero di ufficiali hanno recentemente annunciato il loro ritiro dall’unità responsabile del sistema informativo militare”. La situazione sarebbe così critica da spingere il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant a chiedere la fine del regime di esenzione dalla leva militare per le comunità ultra ortodosse: “L’esercito ha bisogno di manodopera adesso” ha affermato domenica scorsa; “Non è una questione di politica, è una questione di matematica”, e anche questa non è esattamente una posizione che rafforza il consenso verso il governo. Netanyahu, allora, ogni giorno di più vede la sua sopravvivenza politica legata alla continuazione della guerra, anche a costo di allargarla.
A partire dal Libano: citando alcuni funzionari USA, la CNN avrebbe rivelato come l’amministrazione Biden, ormai, ritenga “probabile che Israele lanci un’operazione di terra nel sud del Libano questa primavera”; La guerra tra Israele ed Hezbollah sta diventando inevitabile titolava la settimana scorsa Foreign Policy. Intanto, per non farsi mancare niente, lunedì l’esercito è entrato nel campo Al-Amari di Ramallah, in quella che fonti citate da Reuters hanno definito la “più grande incursione nella città degli ultimi anni” e il leader di Hamas in Libano, Osama Hamdan, ha invitato i palestinesi a “trasformare in uno scontro ogni momento” del mese di Ramadan che inizia domenica prossima. Per scongiurare un’ulteriore escalation, al Cairo gli USA mettono sul tavolo delle trattative un cessate il fuoco di 6 settimane che copra tutto il mese del Ramadan e ponga magari le basi per la fine di questa fase del conflitto, ma Israele manco si presenta ed è difficile pensare che Benny Gantz possa rappresentare una vera alternativa a queste posizioni: come ricorda Sputnik, infatti, è stato proprio Benny Gantz lo scorso fine settimana, alla conferenza dei presidenti delle principali organizzazioni ebraiche americane, a ribadire che “Il mondo deve sapere, e i leader di Hamas devono sapere, che se entro il Ramadan gli ostaggi non saranno a casa, allora i combattimenti continueranno, anche a Rafah” e ciononostante, come sottolinea il giornale antimperialista libanese Al Akhbar, “Le munizioni, i mezzi di combattimento e il supporto militare USA rimangono illimitati. E l’America vuole quello che vuole Netanyahu, anche se vorrebbe ottenerlo con modalità leggermente diverse. Ma non vuole, e non è nel suo interesse, esercitare nessuna pressione reale che limiti la capacità di Israele di condurre il suo massacro”. Come suggerivamo in un video di qualche mese fa, c’è poco da girarci attorno: nell’era del declino inesorabile dell’egemonia dell’impero, il genocidio è il new normal e la consapevolezza, ormai, è piuttosto diffusa: anche questo weekend, oltre 100 piazze sparse su tutto il pianeta hanno risposto in massa all’appello “Giù le mani da Rafah”, una mobilitazione globale continua che non si vedeva da decenni; peccato che sui principali media del mondo democratico non se ne sia vista traccia.
In mezzo alle sofferenze più atroci, dai giovani dell’Occidente collettivo alle piazze del Sud globale, il mondo nuovo avanza, ma non saranno i vecchi media a raccontarvelo: ce ne serve uno tutto nuovo che, invece che del gossip del teatrino della politica, si occupi del movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Rimbambiden

Il SALARIO MINIMO non vi salverà – ft. Savino Balzano

Oggi presentiamo il libro “Il salario minimo non vi salverà” di Savino Balzano (sindacalista, scrittore e autore del La Fionda) edito da Fazi Editore. Nel testo, l’autore cerca di smontare il mito progressista del salario minimo analizzando la realtà economica italiana, il neoliberismo predominante in tutta Europa e possibili soluzioni alternative. Come venirne fuori? Con un grande movimento dei lavoratori che imponga le proprie condizioni e costringa partiti e sindacati a farsi carico delle proprie scelte.

La colonia italiana in Cina: successo e declino di una colonia dimenticata

video a cura di Davide Martinotti

La storia della colonia italiana a Tianjin è una storia che abbiamo completamente dimenticato, con le vicissitudini e i successi che l’Italia ottenne, e con le architetture che l’Italia ha lasciato in Cina. Eppure è una storia che termina solo 70 anni fa: la storia di come gli italiani riuscirono a creare un gioiello nel cuore della Cina e di come poi vi rimasero intrappolati dentro, circondati dai giapponesi e isolati dal resto del mondo… Parliamone!