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Tag: Houthi

Italia in guerra nel Mar Rosso – Perché la favola della missione difensiva è già finita

Alta tensione con gli Houthi titolava a 6 colonne ieri Il Corriere in prima pagina; “La nave Duilio abbatte altri due droni nel Mar Rosso” e “i ribelli minacciano: l’Italia sta con i nemici”. Secondo Davide Frattini, “tutte le imbarcazioni che transitano al largo delle coste yemenite sono nel mirino del gruppo sciita” e “Così, nella volontà degli estremisti l’offensiva a Gaza contro Hamas diventa globale”; notare i termini: quello di Gaza non solo non è un massacro e, tantomeno, un genocidio, ma non è manco una guerra vera e propria. E’ un’offensiva: l’offensiva dei moderati ai quali si contrappongono gli estremisti che, ovviamente, non sono altro che un proxy di forze ancora più oscure perché chi mai, nel pieno possesso delle sue facoltà, deciderebbe di sua sponte di provare a ostacolare l’arrivo in Israele delle armi che usano per sterminare i bambini palestinesi? Queste forze oscure, ovviamente, in primo luogo sono l’Iran che, da dietro le quinte, “muove le sue armate per procura”, un tassello importante della propaganda suprematista che non sta né in cielo, né in terra e non è che lo diciamo noi: lo dice pure il Corriere stesso; basta girare pagina. “La milizia non ha vincoli” si legge “ed è autonoma dall’Iran”: a sottolinearlo non è esattamente un pasdaran del nuovo ordine multipolare, ma l’ultra atlantista Guido Olimpo che, sebbene ricordi – giustamente – che “è innegabile l’importanza del vincolo bellico con i pasdaran”, ha comunque un raro sprazzo di lucidità e sottolinea come “è opinione condivisa che il vertice Houthi abbia autonomia di scelta”.
Una lucidità che, evidentemente, manca al buon Davide Frattini che rilancia, perché – oltre all’Iran – c’è un’altra forza oscura dietro ai pupazzi yemeniti, la più oscura di tutte le forze oscure: il plurimorto dittatore sangunario Vladimir Putin; “Il blocco di fatto dei traffici verso il canale di Suez” sottolinea infatti Frattini l’irriducibile “ha rilanciato i trasporti via terra lungo le ferrovie russe” che, essendo la Russia un sanguinario regime autarchico, ovviamente, sono “monopolio di proprietà dello Stato”. Ed ecco così che il cerchio si chiude e quegli estremisti degli Houthi, alla fine, commettono un crimine in prima persona e ne sostengono un altro indirettamente perché “Ogni vagone che passa sopra quei binari va a finanziare l’invasione dell’Ucraina”: come si fa a non prendere orgogliosamente parte a questo ennesimo capitolo della lunga guerra del Bene occidentale contro il Male del resto del mondo?
La notizia dell’aumento del traffico merci sui binari russi dall’inizio della crisi del Mar Rosso, riportata da Frattini, arriverà dal Financial Times: i vari operatori, scrive la testata britannica, avrebbero in effetti parlato di aumenti dal 30 al 40. Ma c’è un piccolo dettaglio che a Frattini, evidentemente, è sfuggito: “I volumi mensili sulla rotta” riporta infatti il Financial Times “sono diminuiti dopo l’invasione e rappresentano ancora meno della quantità trasportata da una singola grande nave portacontainer moderna”; un altro capitolo della lunga saga dell’odio viscerale dei giornalisti di colonia Italia verso i numeri e la logica matematica. Secondo Frattini, la Russia spingerebbe verso un’escalation potenzialmente devastante per spostare il traffico di mezza nave container: quando si dice il giornalismo basato sui dati; la guerra del bene contro il male comunque, continua Frattini, potrebbe essere solo all’inizio perché “L’asse della resistenza, come si autodefinisce, adesso spera che il mese più sacro per i musulmani” e, cioè, il periodo di Ramadan iniziato domenica scorsa “spinga ad aprire altri fronti contro Israele”. Pensate, addirittura, che vorrebbero incitare “proteste violente a Gerusalemme e in Cisgiordania”: cosa c’avranno mai da protestare lo sanno solo loro e i loro cattivi maestri di Teheran e Mosca… Per fortuna che ci sono gli USA: guidati da spirito di sacrificio, infatti, “Gli americani continuano a negoziare un’intesa per la liberazione”, da un lato, di “un centinaio di ostaggi” sequestrati senza motivo dai crudeli “terroristi” e, dall’altro, di “detenuti palestinesi” ai quali, invece, vengono garantiti tutti i diritti e che, quasi quasi, stanno meglio in carcere che nei loro villaggetti di selvaggi, tant’è che ora nelle carceri israeliane ci vogliamo mandare anche i palestinesi residenti in Italia.

Anan Yaeesh

E’ l’incredibile caso di Anan Yaeesh, Il terrorista palestinese vezzeggiato da sinistra e 5s come titolano i paladini del garantismo del Giornanale – un garantismo che vale solo per la razza ariana e per i redditi da 100 mila euro in su; sulla testa di Yaeesh, infatti, incombe una richiesta di estradizione da parte del regime fondato sull’apartheid di Tel Aviv, che il procuratore ha deciso di fare sua: Yaeesh sarebbe accusato di aver collaborato con le Brigate Tulkarem in attività che avrebbero “finalità terroristiche” che, per gli israeliani, significa qualsiasi cosa che uno fa per resistere alla pulizia etnica. L’articolo 3 della CEDU, ovviamente, impedirebbe di consegnare una persona a un paese che pratica la tortura, ma siccome Israele è una l’unica democrazia del Medio Oriente, lì la tortura la chiamano metodi avanzati di interrogatorio e alla propaganda suprematista a sostegno del genocidio tanto basta. Tornando all’articolo di Frattini, bisogna concedergli che anche lui, a un certo punto, ammette che “La situazione per la popolazione di Gaza continua ad essere disastrosa”; peccato la colpa sia tutta di Hamas che non solo, con il suo pogrom ingiustificato del 7 ottobre, ha scatenato l’offensiva dei pacifici israeliani, ma ora ostacola anche l’arrivo degli aiuti a 2 stelle Michelin: grazie anche al supporto della sempre generosissima Unione Europea, infatti, è stato stabilito un corridoio marittimo che da Cipro sfocia direttamente in un nuovo molo in costruzione al nord di Gaza ed è qui che sbarcheranno gli aiuti della “World Central Kitchen, l’organizzazione creata dallo chef ispano – americano José Andrés”: volevano il pane; gli abbiamo dato la cucina molecolare (e si lamentano pure). In questo contesto, scrive il Giornanale, “essere sulla lavagna nera delle milizie finanziate dall’Iran costituisce un motivo di orgoglio”.
Alcuni, infatti, si limitano a parlare di autodifesa della nostra Caio Duilio, ma – ovviamente – in ballo qui c’è molto di più: lo rivendica con orgoglio l’ammiraglio Luigi Mario Binelli Mantelli Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, già capo di stato maggiore della marina militare: “Finiamola di parlare di autodifesa” avrebbe affermato al Giornanale; “qui difendiamo gli interessi europei e nazionali” e per difenderli adeguatamente, le regole d’ingaggio, che prevedono una missione meramente difensiva, cominciano già a stare strette. “Le informazioni della Caio Duilio” sottolinea, infatti, Rinaldo Frignani sempre sul Corriere della Serva “comprendono la posizione di chi lancia e manovra i droni” e – indovina indovinello – “vengono comunicate agli alleati, come gli USA, che potrebbero usarle”; così, en passant, come se nulla fosse, Frignani ammette candidamente che la nostra Aspides non è ancora iniziata e già la favoletta della missione difensiva non regge più: la nostra presenza nel Mar Rosso è, a tutti gli effetti, parte della missione offensiva dei padroni a stelle e strisce, che continua ad allargarsi.
All’alba di martedì, infatti, Ansar Allah avrebbe preso di mira il cargo americano Pinocchio con una serie di missili: nel gioco delle tre carte che le portacontainer legate a Israele stanno cercando di fare dall’inizio delle operazioni di Ansar Allah per dissimulare i loro legami con il genocidio, la nave risultava battere bandiera liberiana e legata alla compagnia USA Oaktree Capital Management, ma c’era qualcosa che aveva insospettito l’intelligence yemenita; la nave infatti, riporta Al Akhbar, “portava sopra il logo della compagnia israeliana Zim, e tra i vecchi nomi dell’imbarcazione risultavano nomi come Zim San Francisco. Ad aumentare i sospetti – poi – il fatto che la nave, che era partita domenica dal porto di Gedda in direzione del canale di Suez, non avesse menzionato nelle sue dichiarazioni la destinazione finale”. “Le navi americane e britanniche dirette verso i porti della Palestina occupata” continua Al Akhbar “falsificano deliberatamente sistematicamente i loro dati nel tentativo di attraversare il Mar Rosso”. La reazione USA è stata feroce: oltre 20 raid aerei in cinque aree diverse e non tutte con chiari obiettivi militari, come l’attacco nel Governatorato di Saada che, sempre secondo Al Akhbar, sarebbe giustificato soltanto dal fatto che “è la roccaforte del leader di Ansar Allah, Abdul Malik Al Houthi”. L’efficacia di questi attacchi rimane comunque piuttosto dubbia, ed ecco così che gli USA stanno cercando un’alternativa: secondo Al Akhbar, infatti, “Gli Stati Uniti hanno fornito imbarcazioni militari al Consiglio di Transizione Meridionale affiliato agli Emirati, nel tentativo di coinvolgerlo in una guerra per procura”; si tratta dell’organizzazione politica secessionista yemenita guidata dall’ex governatore di Aden, Aidarus al-Zoubaidi che, nata nel 2017 per rivendicare la separazione dello Yemen del Sud dal resto della nazione, è sostenuta da Abu Dhabi. “Aidarus al-Zoubaidi che, in precedenza, aveva espresso la volontà di normalizzare le relazioni con l’entità israeliana” scrive Al Akhbar “è apparso a bordo di una delle barche americane in una parata navale, e insieme a lui c’erano numerosi comandanti militari fedeli agli Emirati Arabi Uniti”: secondo Al Akhbar avrebbero ricevuto l’incarico dagli USA di accompagnare le navi legate a Israele mentre si avvicinano al porto di Aden e allo stretto di Bab el-Mandeb. A emettere un appello ad affiancare le forze USA e britanniche contro Ansar Allah sarebbe stato anche Abu Zara’a Al-Muharrami, comandante delle Forze dei giganti – le milizie fedeli ad Abu Dhabi – e vicepresidente del Consiglio di Transizione, una macchinazione che, però, avrebbe fatto infuriare la popolazione locale: contro l’appello, infatti, “Gli studiosi e i predicatori di Aden” riporta Al Akhbar “hanno emesso una fatwa, che riconosce che esiste una disputa con chi è al governo a Sanaa” e cioè, appunto, Ansar Allah, “ma che non è assolutamente consentito schierarsi dalla parte di Israele e dell’America”; “Questa fatwa” continua Al Akhbar “indica che esiste un diffuso rifiuto tra le milizie di transizione di qualsiasi escalation contro Sana’a, e che le opzioni di Washington per mobilitare queste fazioni sono diventate così più limitate”.

Hicham Safieddine

Fortunatamente però, dopo tante delusioni, per gli occidentali a sostegno del genocidio è arrivata anche una buona notizia; l’ha annunciata su Telegram Nasr El-Din Amer, il vice presidente dell’agenzia dei media di Ansar Allah: “La prima vittoria ottenuta da America e Gran Bretagna” ha annunciato “è la rimozione delle spunte blu dagli account Twitter dei leader statali di Sana’a. Per quanto riguarda invece le forze armate yemenite, dai razzi, ai droni a tutte le capacità militari, non sono state scalfite. Si scopre che l’America è una forza da non sottovalutare, fratelli”. Quella di bullizzare i colonialisti e gli aspiranti tali, in Yemen, effettivamente, è una vecchia tradizione: come ricorda su Middle East Eye lo storico canadese di origini libanesi Hicham Safieddine, nonostante i britannici abbiano mantenuto il controllo della città costiera di Aden per oltre 125 anni, non sono mai riusciti ad “espandere il loro dominio nell’entroterra” fino a quando “Nel 1963, il Fronte di Liberazione Nazionale (FNL) lanciò una lotta armata con il sostegno rurale della regione montuosa di Radfan. Gli inglesi designarono l’FNL come un’organizzazione terroristica e risposero bruciando villaggi e altri atti di violenza collettiva. Le campagne punitive britanniche, tuttavia, fecero ben poco per smorzare la resistenza yemenita”; “Le forze radicali della resistenza dello Yemen del Sud” continua Safieddine “adottarono un’ideologia marxista – leninista che prevedeva un futuro socialista per uno Yemen liberato. La loro posizione intransigente nei confronti dell’occupazione britannica portò a una vittoria spettacolare nel 1967. E i tentativi britannici di negoziare un ruolo economico o militare nello Yemen post indipendenza, simile a quello francese in Algeria, furono di breve durata e in gran parte infruttuosi, con gli inglesi che alla fine furono costretti a pagare oltre 15 milioni di dollari come indennità. Questo” sottolinea Safieddine “ha lasciato un ricordo doloroso tra i funzionari britannici che perdura ancora oggi”. A differenza di altre lotte di liberazione nazionale che hanno conquistato fama e riconoscimento internazionale – da quella algerina a quella cubana – la vicenda yemenita è stata sistematicamente snobbata dal pubblico occidentale, ma per alcuni storici, sottolinea Safieddine, “Lo Yemen è stato il Vietnam della Gran Bretagna”, una storia gloriosa che continua a ispirare Ansar Allah: in un recente discorso televisivo, riporta Safeiddine, “Abdel-Malik al-Houthi ha messo in guardia il Regno Unito da qualsiasi illusione nutrisse di ricolonizzare lo Yemen. Tali illusioni, ha detto, “sono i segni di una malattia mentale la cui cura è nelle nostre mani: missili balistici che bruciano le navi in mare”. Anche a questo giro, la tendenza è stata subito quella di minimizzare e descrivere un gruppo di terroristi scappati di casa che attentano, con la loro barbarie, il giardino ordinato salvo poi, nella provincia dell’impero, dedicare titoloni a 6 colonne all’eroismo e alla professionalità dei nostri uomini per aver tirato giù un drone da ricognizione con un cannoncino.
La verità, però, potrebbe essere un po’ meno confortevole: “Quanti marinai USA ci sono adesso nel Mar Rosso?” ha chiesto la giornalista Norah O’Donnell al vice ammiraglio Brad Cooper durante una puntata del celebre programma televisivo statunitense 60 minutes; “Ne abbiamo circa 7.000 in questo momento. Si tratta di un impegno imponente”. “Quando è stata l’ultima volta che la Marina americana ha operato a questo ritmo per un paio di mesi?” ha chiesto ancora la giornalista; “Credo dovremmo tornare alla Seconda Guerra Mondiale” ha risposto il vice ammiraglio, “quando ci sono state navi impegnate direttamente nei combattimento. E quando dico impegnate in combattimento, intendo che ci sparano e noi rispondiamo al fuoco”. Il vice ammiraglio Cooper ricorda anche come “Gli Houthi sono la prima entità nella storia a utilizzare missili balistici antinave per colpire delle navi. Nessuno li ha mai usati prima contro navi commerciali, e tantomeno contro navi della marina americana”; come sottolinea il vice ammiraglio, parliamo di missili che viaggiano a circa 3 mila miglia orarie e, dal momento dell’avvistamento, il capitano di una nave ha dai 9 ai 15 secondi per decidere il da farsi e visto che è sempre meglio aver paura che prenderle, la tendenza a reagire sempre con il massimo della forza è inaggirabile. Risultato – sottolinea il servizio di 60 minutes -: “La marina ha lanciato circa 100 dei suoi missili terra – aria Standard, che possono costare fino a 4 milioni di dollari ciascuno”; l’unica via di uscita sostenibile, quindi, è questi benedetti missili balistici riuscire a colpirli con attacchi aerei in territorio yemenita prima che partano. Ed ecco allora che l’intelligence che forniamo, anche con la missione difensiva degli alleati europei, diventa fondamentale e la trasforma automaticamente in qualcosa che non è difensivo per niente e che potrebbe, a breve, dover affrontare uno scenario ben più complesso di quello attuale.

Maritime Security Belt

Lunedì scorso, nel Golfo di Oman, è iniziata un’esercitazione marittima congiunta di Iran, Russia e Cina; si chiama Maritime Security Belt ed è arrivata alla sua quinta edizione, un traguardo che hanno deciso di festeggiare alla grande: nella prima edizione, infatti, la Cina aveva partecipato con una sola nave; la seconda l’aveva saltata tout court e alle successive due si era presentata, di nuovo, sempre con una sola imbarcazione. Quest’anno, invece, non si raddoppia: si triplica e, ad affiancare il solito cacciatorpediniere, ci saranno anche una fregata e una nave di rifornimento che, insieme, costituiscono la 45esima task force di scorta. La 45esima task force era stazionata nel Golfo di Aden sin dall’ottobre scorso e, da allora, ha portato a termine ben 43 missioni durante le quali ha garantito il transito di 72 navi; ora quel compito è stato affidato alla 46esima task force che ha effettuato la sua prima missione appena 3 giorni fa: ed ecco così che la presenza cinese nell’area raddoppia. A ottobre la Cina aveva già condotto un’esercitazione congiunta con la marina pakistana, “la più grande di sempre tra i due paesi” aveva sottolineato il South China Morning Post e dove erano state coinvolte altre 6 imbarcazioni del dragone, comprese una fregata, due cacciatorpedinieri e una nave di rifornimento: anche a questo giro i pakistani sono nuovamente coinvolti, ma solo come osservatori al fianco di kazaki, indiani e sudafricani, lo stesso ruolo ricoperto anche dall’Oman e dall’Azerbaijan.
La prospettiva della grande guerra globale per il controllo del mare nell’era del declino della pax americana si fa sempre più minacciosa: magari se l’Italia, ogni tanto, avesse un piccolo moto se non proprio di orgoglio, perlomeno di opportunismo, e approfittasse del caos che ci circonda per farsi un attimino licazzisua invece che fare sempre da cavalier servente della potenza in declino del momento, non sarebbe proprio malissimo, diciamo; perché gli italiani tornino a fare un po’ anche i loro interessi, serve che prima imparino a riconoscerli e, per riconoscerli, serve un media che, invece che da ripetitore dei dictat atlantisti, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Fabio Fazio

Israele, mina impazzita, non obbedisce più agli USA? – Ft. Marco Carnelos

Marco Carnelos, ex ambasciatore italiano in Iraq, delegato per la Siria e la pace in Medio Oriente e attualmente consulente geopolitico e geoeconomico, ci parla di Medio Oriente a tutto campo: Gaza, Israele, Libano, Iran, Yemen e Egitto. Cerchiamo insieme di risolvere questo rebus, ricostruendo storia e strategia nella regione. Gli USA e Israele non più in sintonia su come condurre il conflitto a Gaza e si fanno sempre più forti i timori di un intervento israeliano massiccio in Libano. L’internazionale sciita, composta da Iran, Hezbollah e Houthi, rimane la parte più attiva nella difesa della causa palestinese e in una ferma opposizione al disegno egemonico statunitense nell’area. Ai margini, Russia e Cina stanno a guardare, preparandosi a cogliere future opportunità.

Droni Houthi sulle navi italiane: per sostenere il MASSACRO INFINITO la Meloni rischia l’ESCALATION

Così ho colpito il drone titolava a tutta pagina lunedì scorso Il Corriere della serva: “Il drone a 4 miglia, dovevo decidere. Poi ho pensato ai miei.” L’entusiasmo patriottico col quale i media italiani hanno accolto il battesimo di fuoco della nostra marina militare nello stretto di Bab el-Mandeb ha sinceramente qualcosa di profondamente commovente: “Eravamo in pattugliamento vicino alle coste yemenite” ha raccontato il capitano di vascello Andrea Quondamatteo “quando a un tratto è arrivato un eco radar sconosciuto. Un profilo in movimento, a bassa quota e in rapido avvicinamento minaccioso: un missile? Un aereo?”; ma no Andre’, è Supergiovane con la sua vespa schioppettante. Ed ecco così che – prima di rimanere abbrustolito dalle fiamme della petomarmitta – il nostro Quondamatteo si vede passare davanti agli occhi in un attimo tutta la sua vita: “Ho pensato a mio papà e a mia mamma Fiorella che non c’è più. Lei per anni ha fatto da madre e da padre a me e mio fratello, perché a casa i comandanti non ci sono quasi mai” e “così ho preso la decisione. Dovevo difendere la mia nave e il mio equipaggio e ho dato il comando all’operatore del radar di tiro: il cannone di prora dritta ha sparato 6 colpi, e dopo pochi secondi l’apprezzamento ottico ci ha confermato l’abbattimento”. Il giornalista allora rilancia: “Anche i social ieri sono impazziti, e c’è chi ha paragonato la Duilio addirittura a Mosè, capace di aprire le acque del mar Rosso”, ma il nostro eroico capitano rimane umile: “Esagerati” ammonisce. Insomma, abbastanza: a leggere i giornali sembra quasi che abbiamo abbattuto uno Zircon o qualche altro arnese ipersonico; abbiamo abbattuto un drone da qualche migliaia di euro. Figuratevi quanto ci maciulleranno le gonadi se mai dovessimo affrontare qualche pericolo concreto: ci farebbero rimpiangere tempo zero la melassa delle interviste alle finaliste di miss Italia; è un motivo sufficiente per diventare pacifisti solo quello. Un incubo!

Supergiovane

D’altronde, per come stiamo messi – visti i precedenti – un po’ di enfasi tutto sommato è anche giustificata; pochi giorni prima, il 27 febbraio, il battesimo di fuoco infatti era toccato a un’altra imbarcazione coinvolta nell’operazione Aspides: è la fregata tedesca Hessen che, di droni, ne ha abbattuti due ad appena 20 minuti l’uno dall’altro. Era la prima volta in quell’area per una nave tedesca – la prima giusta, diciamo; la sera prima, infatti, la Hessen s’era un po’ confusa e aveva aperto il fuoco contro un altro drone, ma non era andata benissimo: erano stati lanciati due missili Standard SM-2 che, però, “non hanno funzionato”, come ha ammesso lo stesso portavoce del ministero della difesa tedesco Michael Stempfle. Paradossalmente, è andata di lusso così; il drone in questione, infatti, questa volta non era dei terroristi che si oppongono al genocidio, ma degli alleati democratici che lo sostengono: un Reaper MQ-9 americano che aveva il trasponder per l’identificazione spento perché impegnato in un’operazione antiterrorismo, lo stesso MQ-9 che “quei dementi degli Houthi” – come li ha definiti Guido Olimpo, grande firma del giornalismo italiano (che l’ultima volta che n’ha azzeccata una c’era ancora non dico la lira, ma i sesterzi) – invece hanno tirato giù con una certa disinvoltura e non una, ma ben due volte. “Entrambi i missili Standard SM-2” riporta Analisi Difesa, avrebbero “rivelato difetti tecnici durante l’impiego, elemento” sottolinea il direttore Gianandrea Gaiani “che apre inquietanti interrogativi circa l’efficienza dei sistemi di difesa navale tedeschi contro le minacce aeree”, e fino ad ora era andata di lusso perché, anche se difettosi, almeno i missili c’erano: “Abbiamo scoperto solo ora che una parte delle munizioni della fregata Hessen non può più essere acquistata perché non c’è più la capacità industriale corrispondente” ha affermato Florian Hahn, portavoce per la politica di difesa del gruppo parlamentare CDU/CSU all’opposizione; “Quindi, quando le scorte saranno esaurite, la Marina non potrà più rifornirle e dovrà ritirare la fregata. Il Parlamento ha approvato la missione nel mar Rosso senza sapere che c’era ovviamente un problema di munizioni″.
L’asse della resistenza non poteva chiedere di meglio: con decine e decine di attacchi con droni da poche migliaia di euro, la strategia di Ansar Allah è infatti sempre stata, molto semplicemente, quella di imporre al sostegno al genocidio dell’Occidente collettivo il più alto costo possibile; “Da ottobre” ricorda sempre Gaiani “la sola US Navy ha lanciato circa 100 missili terra – aria Standard SM-3 contro missili e droni Houthi”. Se a questi ci aggiungi anche i missili lanciati a cazzo contro bersagli amici in incognita, prima di Pasqua capace si fa festa; d’altronde, gli errori tedeschi erano abbastanza prevedibili e non solo per il materiale scadente: a corto di uomini, i marinai tedeschi vengono mandati sempre più spesso in missione e “oltre 230 giorni in mare in un anno” ha denunciato l’ammiraglio Axel Schulz “non sono rari”. A complicare il quadro, appunto, c’è la sovrapposizione delle missioni anglo – americane ed europea: “Come già accaduto in Afghanistan” sottolinea ancora Gaiani “gli Stati Uniti operano unilateralmente in un’area operativa in cui agiscono anche forze alleate complicando così il coordinamento e lo scambio di informazioni”; tutte queste criticità messe insieme, continua Gaiani, “rischiano di mettere in forse la sostenibilità nel tempo della missione nel mar Rosso” soprattutto dal momento che, nonostante – come annunciato con enfasi dal vice segretario aggiunto alla Difesa americano per gli affari in Medio Oriente Daniel Shapiro – le forze statunitensi ad oggi avrebbero colpito la bellezza di 230 obiettivi in Yemen, le potenzialità offensive di Ansar Allah “non sembrano essere state scalfite in modo significativo”. “Il bellicismo ostentato nelle dichiarazioni dei leader europei” conclude Gaiani “cozza con la cruda realtà delle risibili capacità belliche, e impone di chiedersi perché un’Europa disarmata punti su soluzioni muscolari alle crisi in atto invece di mettere in campo robuste iniziative diplomatiche”, sopratutto alla luce del fatto che i droni yemeniti ce li siamo proprio andati a cercare: le nostre fregate, infatti, sono in zona da tempo, ma in anni e anni di pattugliamento non erano mai state prese di mira e i guai sono iniziati tutti con l’annuncio della missione Aspides e del suo rapporto abbastanza ambiguo con quella dichiaratamente offensiva degli angloamericani; l’unica speranza sarebbe riuscire a garantire, in modo credibile, che si tratti davvero di missioni rigorosamente esclusivamente difensive, che niente hanno a che spartire con l’atto di forza della Prosperity Guardian. Ma non solo: bisognerebbe anche garantire che in nessun modo la missione servirà a sostenere il genocidio in corso e che si occuperà esclusivamente di proteggere imbarcazioni commerciali da e per i porti dell’Unione Europea. Insomma: esattamente il contrario di quello che ostentano quegli scappati di casa che ci ritroviamo al governo e la propaganda cialtrona che li sostiene.

Giuseppe de Vergottini

“Colpire basi a terra? La legge non lo esclude”: l’organo ufficiale dei fascioliberisti decerebrati italiani che è Libero, anche a ‘sto giro fa di tutto per andare contro agli interessi nazionali. Questa volta a fare per accelerare il declino della bagnarola italiana ci si mette il sempre pessimo Giuseppe De Vergottini, il giudice costituzionale che odia la Costituzione: erede di una famiglia istriana nobile, prima, e orgogliosamente fascista poi (compreso uno zio podestà), Giuseppe – oggi presidente di FederEsuli – da sempre si batte contro l’assunzione di responsabilità del nostro paese per i crimini contro l’umanità commessi nella ex Jugoslavia e all’idea di una nuova avventura bellica, nonostante ormai sulla soglia dei 90 anni, gli si continuano a illuminare gli occhi. “Le navi italiane potranno intercettare i missili e i droni degli Houti, ma non colpire le basi di terra da cui partono. Non è un limite che può rivelarsi pericoloso?” lo imbocca il giornalista: “La missione è qualificata come difensiva” risponde De Vergottini, e “quindi reazione ad attacchi. Ma” sottolinea “esiste una legittima possibilità di reazione anticipata nell’immediatezza di attacchi da parte dei gruppi terroristici” dove, da tradizione, per gruppi terroristici si intende ovviamente chiunque si azzardi ad opporsi a un genocidio; “Spetterà a chi ha la responsabilità di comando decidere se colpire la base di partenza dell’attacco” conclude De Vergottini “in modo da evitare di diventare sicuro bersaglio degli attaccanti”. D’altronde, ora che abbiamo dimostrato che possiamo tirare giù addirittura un drone da qualche migliaia di euro, e chi ci ferma più?
Di fronte al massacro degli affamati di giovedì scorso a Gaza, Davide Frattini sul Corriere della serva di venerdì ci invitava a non correre troppo a ricostruzioni avventate: d’altronde, ricordava, “I portavoce dell’esercito dicono che le truppe hanno sparato solo colpi d’avvertimento, per disperdere la folla”; se poi questi subumani morti di fame sono così coglioni che si mettono a correre e si calpestano, noi che ci possiamo fare? Siamo superiori, è vero, ma per i miracoli non siamo ancora attrezzati. La patetica linea difensiva del regime genocida di Israele è diventata immediatamente e automaticamente la linea ufficiale di tutti i principali media italiani: il Corriere della serva i morti li cancella tout court e parla di “una folla di palestinesi” che, come succede sempre quando hai a che fare con dei subumani privi di ogni forma di civiltà, “assalta i camion degli aiuti umanitari”. Libero, ovviamente, non può non rilanciare: Israele: – titola – stavano sparando ai nostri soldati. La Stampa: Folla fuori controllo, costretti a sparare. La maggior parte delle vittime calpestate; come abbiamo scritto in un post venerdì mattina, nel prossimo episodio… Auschwitz: la folla si accalcava per fare la doccia. Costretti ad aprire il gas“. Secondo La Repubblica, invece, sono stati “solo colpi di avvertimento, è stato un incidente”.
Ovviamente di accidentale, nella strage, c’è decisamente poco; in primo luogo, di default, per le responsabilità oggettive: la prima è che se vi siete finora scandalizzati per i 30 mila civili massacrati dalle bombe, aspettate di vedere le conseguenze della fame imposta a tutto il resto della popolazione. Come ricordava ieri Richard Brennan, direttore regionale dell’OMS, su Il Manifesto, infatti, “prima del conflitto entravano 500 camion di aiuti al giorno. Ora, un centinaio” dai quali gli israeliani, scientificamente, sottraggono il più e il meglio: la CNN, ad esempio, ha revisionato i documenti degli operatori umanitari che elencano i beni più frequentemente bloccati dagli israeliani e “questi includono anestetici e macchine per anestesia, bombole di ossigeno, ventilatori, sistemi di filtraggio dell’acqua, medicinali per curare il cancro e pastiglie per purificare l’acqua”. Risultato – sottolinea Brennan -: “Tra traumi non curati, malattie e trattamenti per condizioni croniche non ricevuti, proiezioni della Johns Hopkins University e della London School of Hygiene and Tropical Medicine parlano di 85mila morti possibili nei prossimi sei mesi”. Particolarmente critica la situazione proprio a nord, il teatro della strage: come sottolineava, sempre su Il Manifesto, Andrea de Domenico del coordinamento umanitario dell’ONU, infatti, “Dal 18 febbraio le Nazioni Unite non sono più riuscite a effettuare alcuna operazione di assistenza al nord di Gaza. La gente ha cominciato a mangiare cibo che normalmente viene dato agli animali. Un sacco di farina che prima della guerra costava circa 10 euro ora al nord ne costa circa 500”; in questa situazione, per gli aiuti umanitari esistono appena “un paio di strade dove far arrivare i convogli. La gente perciò” continua de Domenico “sa benissimo da dove giungono i camion e le persone, disperate, senza più nulla, li vedono arrivare, corrono verso di loro per prendere ciò che possono, correndo rischi incredibili”. A questo giro in particolare, ricostruisce una testimonianza raccolta da Michele Giorgio sempre su Il Manifesto, contro i suggerimenti degli operatori umanitari che chiedevano arrivi più scaglionati, gli israeliani “hanno fatto arrivare un convoglio molto lungo, di circa 30 camion. La coda del convoglio così si è ritrovata a poca distanza dal blocco militare, e quando la folla s’è avvicinata agli ultimi autocarri per prendere gli aiuti, i soldati hanno fatto fuoco” e non certo per aria o, almeno, non solo: come racconta il dottor Jadallah al Shafi che, da poco, è riuscito a rimettere in funzione tre sale operatorie nell’ospedale di Shifa (chiuso a novembre perché assalito dall’IDF) “Abbiamo ricevuto persone che erano state colpite da proiettili, talvolta in più parti del corpo, alla testa, al torace e alle gambe”.
Di fronte a questo massacro, l’Occidente collettivo ha giocato un pochino allo sbirro buono perché, per esercitare il tuo diritto alla difesa, puoi sterminare tutti i bambini che vuoi, ma almeno un piccolo sforzo per distribuirli e camuffarli un po’ lo devi fare, che sennò ci fai sfigurare; massacrare la gente affamata in fila per un pugno di farina, infatti, da un paio di settimane in realtà è diventato uno sport nazionale: come scrive il mitico blog Moon of Alabama “In passato avevo scritto che le forze di occupazione sioniste inviano cibo nel nord della Striscia di Gaza per poi uccidere i palestinesi affamati che cercano di raccoglierlo. Alcuni lettori mi hanno detto che si trattava di un’affermazione un po’ troppo forte. Non lo era. E’ esattamente quello che sta succedendo giorno dopo giorno”. Qualche esempio? “18 febbraio: Un abitante di Gaza affamato colpito alla testa dall’IDF in via Rasheed mentre veniva in cerca di cibo”; “22 febbraio: L’ospedale Al-Shifa accoglie diversi abitanti di Gaza feriti o uccisi dall’IDF in via Rasheed mentre cercavano disperatamente del cibo”; “23 febbraio: Un cittadino di Gaza affamato va con il fratello minore in cerca di cibo in Rasheed Street e ritorna con suo fratello in una borsa sulla schiena, colpito dall’IDF”; “24 febbraio: la Mezzaluna Rossa recupera i corpi di due abitanti di Gaza uccisi dai soldati dell’IDF in via Rasheed mentre cercavano disperatamente cibo”e così via. “Questo” conclude Moon of Alabama “è quello che accade praticamente ogni giorno da settimane nel nord di Gaza”; ecco, così si che va bene: un giorno uno, il giorno dopo altri due, poi magari – quando è festa – una decina, ma 120 in una botta sola è troppo. Si vedono anche dal satellite. Gli sbirri buoni, allora, provano a riconquistare un po’ di credibilità; addirittura Frattini s’è un po’ indignato e ha accusato gli alleati più fanatici del governo dell’unica democrazia del Medio Oriente di progettare “di ricostruire gli insediamenti ebraici nella striscia”: addirittura, sottolinea, “Hanno già disegnato la mappa: il villaggio Vita Coraggiosa sorge davanti al mare e sul manifesto è un punto verde, mentre Sha’arei è blu e sta dalle parti di Khan Younis, dove l’esercito combatte le battaglie più intense degli ultimi mesi, e da dove gli abitanti sono stati sfollati ancora una volta, pigiati verso il Mediterraneo, pigiati verso la mancanza di fuga e di speranza”. Pure poeta. Ora, questa carta – sottolinea Frattini – “potrebbe essere ri – arrotolata come il vaneggiare di esaltazioni messianiche. Se non fosse” però, conclude, “che ieri quell’ebbrezza è diventata disordine reale, con almeno cinquecento coloni a premere sul posto di blocco piazzato dall’esercito fino a sfondarlo e a entrare nella Striscia”. Capito? Mentre l’IDF sparava sulla folla affamata, 500 simpatici coloni sfondavano i posti di blocco delle forze dell’ordine ed entravano a Gaza per rivendicarne la proprietà, ma a loro non sparava nessuno. Manco una manganellatina: quelle, nelle vere democrazie, si conservano per i ragazzini di 16 anni che il genocidio, invece di invocarlo, lo denunciano.
Nel giardino ordinato, infatti, si sta verificando questo fenomeno strano: i giovanissimi, nonostante siano stati addestrati all’insegna del rincoglionimento scientifico di massa, non si capisce per quale strana ragione sembra non apprezzino particolarmente l’idea di vedere massacrati i loro simili manco fossero dei topi di laboratorio; secondo un sondaggio di Gallup pubblicato lunedì scorso, infatti, negli USA tra la popolazione di età compresa tra i 18 e i 34 anni ha un’opinione favorevole su Israele il 38% della popolazione. L’anno scorso era il 64: tutti voti ai quali Biden non può rinunciare, ed ecco – allora – che si comincia a smuovere qualcosina: ieri Benny Gantz si è recato a Washington e, a quanto pare, senza l’autorizzazione di Netanyahu, che si sarebbe leggermente indispettito. Per le cancellerie suprematiste dell’Occidente collettivo, è il volto presentabile del genocidio; Benny Gantz, infatti, è stato a lungo l’anti Netanyahu, ma dopo aver guidato l’opposizione, quando – dopo l’operazione diluvio di Al Aqsa – in Israele, per favorire la soluzione finale, si è optato per un governo di unità nazionale, ha aderito senza tentennamenti: come annunciava entusiasticamente Il Foglio, “Aveva l’obiettivo di rovesciare il premier, ma si è reso contro che Israele ha bisogno della sua competenza”. D’altronde, per portare avanti il più grande massacro di civili del XXI secolo di competenza ce ne vuole parecchia.

Benny Gantz

Nel frattempo, però, è arrivata anche la crisi degli ostaggi e anche una catastrofica crisi economica: per l’ultimo quadrimestre del 2023, gli analisti consultati da Bloomberg avevano previsto un calo del PIL annualizzato di circa il 10%; è stato del doppio, 19,4. I consumi privati sono crollati del 27%, gli investimenti, addirittura, del 70 e non è che si veda chiaramente una via d’uscita: come riporta il Wall Street Journal “All’interno delle forze armate, dai comandanti ai soldati semplici, sono sempre di più quelli che temono che le vittorie tattiche ottenute sul campo di battaglia non porteranno a una vittoria strategica duratura. Dopo quasi 5 mesi di combattimenti intensi” continua l’articolo “Israele è ancora ben lontano dall’obiettivo dichiarato dell’eliminazione di Hamas come entità politica e militare di un qualche rilievo”; “Combattere il nemico è come giocare ad acchiappa la talpa”, avrebbe affermato un riservista israeliano della 98esima divisione di stanza a Khan Younis al WSJ. “Molti soldati lamentano l’assenza di un vero piano e si domandano a cosa servano i loro sacrifici. Distruggere Hamas sarà incredibilmente complicato”. Il Journal sottolinea inoltre come, molto probabilmente, i militanti di Hamas caduti durante il conflitto sono molti meno di quelli dichiarati da Israele e che, nel frattempo, altrettanto probabilmente Hamas ha reclutato nuovi combattenti, col rischio che il bilancio sia addirittura in positivo; vista la malaparata, come riporta il canale ebraico Channel 14, “Un gran numero di ufficiali hanno recentemente annunciato il loro ritiro dall’unità responsabile del sistema informativo militare”. La situazione sarebbe così critica da spingere il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant a chiedere la fine del regime di esenzione dalla leva militare per le comunità ultra ortodosse: “L’esercito ha bisogno di manodopera adesso” ha affermato domenica scorsa; “Non è una questione di politica, è una questione di matematica”, e anche questa non è esattamente una posizione che rafforza il consenso verso il governo. Netanyahu, allora, ogni giorno di più vede la sua sopravvivenza politica legata alla continuazione della guerra, anche a costo di allargarla.
A partire dal Libano: citando alcuni funzionari USA, la CNN avrebbe rivelato come l’amministrazione Biden, ormai, ritenga “probabile che Israele lanci un’operazione di terra nel sud del Libano questa primavera”; La guerra tra Israele ed Hezbollah sta diventando inevitabile titolava la settimana scorsa Foreign Policy. Intanto, per non farsi mancare niente, lunedì l’esercito è entrato nel campo Al-Amari di Ramallah, in quella che fonti citate da Reuters hanno definito la “più grande incursione nella città degli ultimi anni” e il leader di Hamas in Libano, Osama Hamdan, ha invitato i palestinesi a “trasformare in uno scontro ogni momento” del mese di Ramadan che inizia domenica prossima. Per scongiurare un’ulteriore escalation, al Cairo gli USA mettono sul tavolo delle trattative un cessate il fuoco di 6 settimane che copra tutto il mese del Ramadan e ponga magari le basi per la fine di questa fase del conflitto, ma Israele manco si presenta ed è difficile pensare che Benny Gantz possa rappresentare una vera alternativa a queste posizioni: come ricorda Sputnik, infatti, è stato proprio Benny Gantz lo scorso fine settimana, alla conferenza dei presidenti delle principali organizzazioni ebraiche americane, a ribadire che “Il mondo deve sapere, e i leader di Hamas devono sapere, che se entro il Ramadan gli ostaggi non saranno a casa, allora i combattimenti continueranno, anche a Rafah” e ciononostante, come sottolinea il giornale antimperialista libanese Al Akhbar, “Le munizioni, i mezzi di combattimento e il supporto militare USA rimangono illimitati. E l’America vuole quello che vuole Netanyahu, anche se vorrebbe ottenerlo con modalità leggermente diverse. Ma non vuole, e non è nel suo interesse, esercitare nessuna pressione reale che limiti la capacità di Israele di condurre il suo massacro”. Come suggerivamo in un video di qualche mese fa, c’è poco da girarci attorno: nell’era del declino inesorabile dell’egemonia dell’impero, il genocidio è il new normal e la consapevolezza, ormai, è piuttosto diffusa: anche questo weekend, oltre 100 piazze sparse su tutto il pianeta hanno risposto in massa all’appello “Giù le mani da Rafah”, una mobilitazione globale continua che non si vedeva da decenni; peccato che sui principali media del mondo democratico non se ne sia vista traccia.
In mezzo alle sofferenze più atroci, dai giovani dell’Occidente collettivo alle piazze del Sud globale, il mondo nuovo avanza, ma non saranno i vecchi media a raccontarvelo: ce ne serve uno tutto nuovo che, invece che del gossip del teatrino della politica, si occupi del movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Rimbambiden

Petroliere in fiamme e basi senza difesa: è arrivata la fine del dominio USA in Medio Oriente?

Dopo 3 settimane di attacchi USA alle installazioni militari di Ansar Allah, “quei quattro beduini” – come li ha definiti in un commento qualche suprematista sulla nostra bacheca – sono talmente devastati che venerdì notte, nell’arco di poche ore, hanno prima colpito in pieno una petroliera del colosso del commercio di materie prima Trafigura e poi hanno preso di mira una nave da guerra della coalizione costringendola, per l’ennesima volta, a spendere qualche milione per intercettare un’arma che ne costa poche decine di migliaia; e il vero weekend di paura doveva ancora iniziare: domenica infatti, per la prima volta dall’inizio della fase terminale del genocidio di Gaza, a lasciarci le penne sono stati direttamente 3 soldati USA, con altri 34 che non se la passano esattamente benissimo, diciamo.

John Helmer

E la conta delle vittime è il problema minore: come scrive il leggendario giornalista ed analista statunitense trapiantato a Mosca John Helmer sul suo blog, l’attacco della fazione irachena dell’asse della resistenza alla Tower-22 giordana sta alla credibilità delle forze armate USA come l’operazione diluvio di Al-Aqsa sta a quella dell’intelligence israeliana : “L’attacco” scrive “dimostra che sia la postazione di Tower-22 che l’intero complesso militare di Al-Tanf, sia sul lato giordano che su quello siriano, sono vulnerabili alle armi che le forze statunitensi non sono riuscite a rilevare e neutralizzare. Come è altrettanto vulnerabile anche l’imponente base aerea statunitense di Muwaffaq Salti, 230 chilometri ad ovest in territorio giordano”. Helmer, inoltre, racconta che le sue fonti all’interno delle forze armate USA ci vedono anche lo zampino russo: le basi statunitensi dell’area, infatti, “generalmente” scrive Helmer “affidano la loro difesa a sistemi C-RAM” che sta per Counter rocket, artillery, and mortar e, sostanzialmente, descrive l’insieme di sistemi utilizzati per rilevare e/o distruggere razzi, artiglieria e colpi di mortaio in arrivo prima che colpiscano i loro bersagli a terra o, perlomeno, in grado di fornire un’allerta precoce, sistemi che – sottolinea Helmer – “sono stati inviati in Ucraina a partire dall’anno scorso, dove i russi hanno imparato ad aggirarli”. Fino ad adesso, in Medio Oriente gli USA hanno fatto un buon lavoro nell’abbattere i droni e oggi, sottolinea Helmer, sembra una coincidenza un po’ strana che facciano cilecca “nemmeno una settimana dopo gli incontri a Mosca con arabi, iraniani e yemeniti”; “i sistemi su cui USA e alleati facevano affidamento” conclude Helmer “sono stati sconfitti prima dai russi sulla terraferma in Ucraina, e ora che vengono impiegati per difendere le nostre navi nel Mar Rosso, rischiano di essere sconfitti anche lì. E le implicazioni sono enormi: anche il più piccolo paese marittimo, a costi molto contenuti, oggi è in grado di infliggere danni considerevoli agli attori tradizionalmente dominanti”. “Ad essere onesti” scrive Simplicius the thinker sul suo blog “è difficile immaginare come questa situazione potrebbe risolversi senza un ritiro totale degli Stati Uniti dal Medio Oriente o in alternativa nell’esplosione di una nuova grande guerra”.
Il tempo del dominio incontrastato dell’Occidente collettivo a guida USA in Medio Oriente sta andando incontro al suo epilogo?
“Era solo questione di tempo” commenta affranto l’Economist: “a partire dal 7 ottobre”, ricorda la testata britannica, “i gruppi sostenuti dall’Iran hanno lanciato droni e razzi contro gli avamposti americani in tutto il Medio Oriente in 160 occasioni. Quasi tutti hanno mancato il bersaglio o sono stati abbattuti. fino a domenica scorsa, quando uno è riuscito a passare, e ha ucciso 3 soldati americani e ne ha feriti altri 34”; secondo l’Economist si tratterebbe nientepopodimeno che del “primo attacco aereo mortale contro le forze di terra americane dalla Guerra di Corea” e rischia di costringere l’amministrazione Biden a fare una scelta avventata. “La retorica dell’amministrazione Biden, in Iran” ha scritto su X il famigerato senatore repubblicano Lindsey Graham “cade nel vuoto”; “potete eliminare tutti i rappresentanti iraniani che volete” continua, “ma questo non scoraggerà l’aggressione iraniana”. La soluzione è quella classica, la sola buona per tutte le stagioni che un redneck con una quantità di neuroni che si contano sulle dita di una mano può elaborare: “Colpite l’Iran adesso. Colpitelo forte” scrive Graham, con quel linguaggio tipico dello statista di indiscusso spessore; “Chiedo all’amministrazione Biden di colpire obiettivi significativi all’interno dell’Iran” insiste Graham “non solo come rappresaglia per l’uccisione delle nostre forze, ma come deterrente contro future aggressioni”. E Lindsey Graham non è certo l’unico assetato di sangue: anche dal cuore dell’establishment clintoniano arrivano segnali di insofferenza: “Dovremo riflettere di più su ciò che facciamo affinché gli iraniani capiscano che qui c’è un rischio, e non è un rischio che loro vogliono correre” avrebbe affermato l’ex inviato della Casa Bianca per il Medio Oriente ai tempi dell’amministrazione Clinton Dennis Ross; “se il carattere della nostra risposta rimane lo stesso adottato fino ad ora” conclude “il messaggio è che possono continuare così e non gli costerà nulla”.
La tesi dei suprematisti di entrambi gli schieramenti politici è sostanzialmente sempre la stessa: gli USA, dall’alto della loro incontrastata superiorità tecnologica e militare, potrebbero facilmente chiudere la partita, ma sono troppo buoni per farlo. Potrebbe non essere così semplice: secondo Simplicius, l’ipotesi di un nuovo intervento sul campo, infatti – ammesso e non concesso abbia senso – “richiederebbe come minimo un anno abbondante di preparazione”; in Iraq infatti, ricorda, ci sono voluti oltre 6 mesi “solo per trasportare materiali e risorse nella regione, allestirli, ecc.” “ma l’Iran” continua “non permetterebbe tutto questo, perché ha sistemi balistici moderni molto più sofisticati di qualsiasi cosa avesse l’Iraq, il che significa che le grandi concentrazioni di truppe e le aree di sosta di armature e materiali potrebbero essere colpite e spazzate via molto prima dell’ora zero”. “L’unica cosa che potrebbero tentare, al limite” continua Simplicius “è una campagna aerea di lunga durata. Ma scalfire anche solo lontanamente le capacità dell’Iran richiederebbe una vasta campagna della durata di almeno 6-12 mesi e probabilmente molto di più. Un periodo durante il quale l’Iran chiuderebbe tutti i principali punti di strozzatura marittima ed economica della regione, mandando in crash l’economia globale”; “Se pensate che il fatto che alcune navi oggi vengano colpite nel Mar Rosso sia un male” conclude Simplicius “aspettate di vedere le forze iraniane regolari, invece che gli Houthi, colpire tutto ciò che vedete: non sarà carino”. Spinta dai mal di pancia sempre più diffusi nell’intero arco costituzionale USA – ma impossibilitata a perseguire una qualsiasi soluzione finale – l’amministrazione Biden quindi, con ogni probabilità, farà di nuovo quello a cui ci ha abituato da un paio di anni a questa parte: aumenterà un pochino il livello del conflitto causando un po’ di distruzione in più senza, sostanzialmente, ottenere una seganiente.

John Raine

“Gli Stati Uniti” ha dichiarato all’Economist l’ex diplomatico britannico John Raine, “cercheranno di trovare una risposta che sia proporzionata e non implichi un’escalation, ma che allo stesso tempo sia anche efficace come deterrente”; peccato però che” continua Raine “nelle attuali condizioni della regione e con l’attuale schiera di attori ostili attivi, si tratti di un compito estremamente arduo. E almeno su uno di questi criteri dovrà cedere”. Per uscire da questo collo di bottiglia ecco allora che i pochi consiglieri USA che non sono cascati dal seggiolone da bambini hanno ricominciato a porre in varie forme la domanda delle domande: ma perché mai gli USA non prendono atto della realtà e non se ne vanno finalmente dal Medio Oriente? “Dovremo chiederci” ha affermato, ad esempio, l’ex ufficiale dei Marines Gil Barndollar “se vale davvero ancora la pena la presenza delle truppe statunitensi in Iraq e Siria”. Giovedì scorso intanto, ricorda il sito Analisi difesa, “Il ministero degli esteri iracheno ha reso noto che è stato concordato con gli USA di formulare un calendario che specifichi la durata della presenza della coalizione internazionale contro l’ISIS in Iraq, sottolineando che l’accordo prevede l’inizio della graduale riduzione di tali forze”; a sua volta poi, continua Analisi difesa, “Il ritiro delle forze americane in Iraq renderebbe inoltre logisticamente impossibile sostenere le truppe schierate nelle basi situate nella Siria orientale”. Il ritiro totale delle truppe dalla Siria d’altronde – dove, ricordiamo, gli USA sono presenti come vera e propria forza di occupazione senza uno straccio di legittimità – era già stato ventilato dall’amministrazione Trump; all’epoca però, ricorda sempre Analisi difesa, “il Pentagono convinse la Casa Bianca a mantenere la presenza di truppe a sostegno delle milizie curde situate nei pressi di alcune basi russe con l’obiettivo di impedire a Damasco di riprendere il controllo dei pozzi petroliferi dell’est”. Ora che entriamo nel bel mezzo della contesa presidenziale, però, la questione torna a fare capolino; un bel rompicapo perché, nel frattempo, il ruolo della Russia nell’area sembra consolidarsi continuamente: l’ultima novità, ricorda ancora Analisi difesa, è “la recente decisione di Mosca di impiegare i propri aerei schierati in Siria alla fine del 2015 nella base di Hmeymin, per sorvolare l’area di confine con Israele nel Golan”, una scelta – continua Analisi difesa – “che sembra indicare la volontà di Mosca di porsi come garante di Damasco anche nei confronti di Israele, che nel frattempo continua a colpire in territorio siriano milizie e obiettivi legati all’Iran”. In questo contesto, sottolinea ancora Analisi difesa, “Il ritiro statunitense dalla Siria costituirebbe quindi una grande vittoria per la Russia, l’Iran e per il governo siriano di Bashar Assad”, un’alleanza che continua a consolidarsi e a espandersi: come riporta John Helmer, infatti, giusto la settimana scorsa “in tutta Mosca, delegazioni insolitamente numerose di funzionari del consiglio di sicurezza russo, guidate da Nikolai Petrushev e Ali-Akbar Aahmadian, rappresentante speciale presidenziale e segretario del Consiglio di sicurezza nazionale iraniano, si sono incontrate per discutere un ordine del giorno dettagliato che prevede un’ampia cooperazione in materia di sicurezza russo – iraniana e l’attuazione pratica degli accordi raggiunti al più alto livello”. Il negoziato avrebbe dato il via alla firma definitiva di un nuovo accordo ventennale tra Russia e Iran che, stando a quanto riportato da Simon Watkins su Oilprice, “rafforza esponenzialmente il legame tra i due paesi, a partire proprio dalla difesa e dalle politiche energetiche”; “Il nuovo accordo” sottolinea Watkins “dà alla Russia il primo diritto di estrazione nella sezione iraniana del Mar Caspio, compreso il giacimento potenzialmente enorme di Chalous” che, secondo le stime più recenti, ammonterebbe alla cifra spaventosa di 250 miliardi di metri cubi di gas: e come sempre, le politiche energetiche vanno a braccetto con la difesa, dove il nuovo accordo rafforzerebbe enormemente la collaborazione sul fronte della guerra elettronica al quale si va ad aggiungere la questione dei missili, con nuovi missili destinati ad essere inviati in Iran dalla Russia. “Il personale selezionato del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica” scrive Watkins “sarà addestrato sugli ultimi aggiornamenti russi di diversi missili a corto e lungo raggio: dai Kinzhal, all’Iskander, prima che inizi il piano per fabbricarli su licenza in Iran, con l’obiettivo di far sì che il 30% di essi rimanga in Iran, mentre il resto venga rispedito in Russia”; “questo” sottolinea Watkins “significa che il nuovo accordo ventennale tra Iran e Russia cambierà il panorama del Medio Oriente, dell’Europa meridionale e dell’Asia poiché l’Iran avrà una portata militare molto estesa che gli darà molta più influenza. E questo significa che i paesi di quest’area cominceranno inevitabilmente a realizzare che continuare a fare affidamento sugli Stati Uniti per la loro protezione è un’opzione molto più precaria di quanto non fosse prima”.

Mohammed Abdelsalam – Mikhail Bogdanov

Nel frattempo, giovedì sera a Mosca a incontrarsi erano stati il ministro degli esteri russo Mikhail Bogdanov e una delegazione di Ansar Allah capitanata da Mohammed Abdelsalam: “Particolare attenzione” recita il comunicato rilasciato alla fine dell’incontro dallo stesso Bogdanov “è stata prestata allo sviluppo dei tragici eventi nella zona del conflitto israelo – palestinese, così come all’aggravamento della situazione nel Mar Rosso. In questo contesto, sono stati fortemente condannati gli attacchi missilistici e bombe contro lo Yemen intrapresi dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, che sono in grado di destabilizzare la situazione su scala regionale”. “La dimostrazione di sostegno russo all’Asse della Resistenza contro Israele e gli Stati Uniti” commenta Helmer “non ha precedenti. Gli incontri del Ministero degli Esteri e del Consiglio di Sicurezza confermano che ora esiste una nuova definizione di terrorismo nella strategia di guerra russa, in cui vi è sostegno sia pubblico che segreto ad Hamas, agli Houthi e ad altri gruppi in Libano e Iraq che lottano per la liberazione nazionale contro Israele e Stati Uniti”.
La lunga era della finta pax americana è ormai un antico ricordo: forse è arrivato il momento che gli USA prendano atto di quanto rapidamente, drasticamente e irreversibilmente è venuta meno la loro capacità di determinare a proprio piacimento gli equilibri geopolitici dell’intero pianeta e si concentrino magari un po’ di più su casa loro prima che, oltre a perdere l’Ucraina e il Medio Oriente, non si ritrovino a perdere pure il Texas. Ma sollazzarsi alla vista del vecchio che muore potrebbe non essere sufficiente: dobbiamo continuare anche a fare tutto il possibile perché finalmente nasca il nuovo e per combattere tutti i fenomeni morbosi che questa lunga e dolorosa fase di transizione genera necessariamente. Per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che stia dalla parte della pace e degli interessi concreti del 99%, dallo Yemen alla periferia di Houston e, soprattutto, a casa nostra. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Bill Clinton

La Reazione di Iran e Yemen l’Asse della Resistenza scopre il bluff di USA e Israele

“Quando il tuo nemico ti induce ad aggravare i tuoi errori, senza raggiungere i tuoi obiettivi militari” scrive John Helmer sul suo sempre utilissimo blog “ti sta conducendo a un’escalation di forza che, prima o poi, ti sconfiggerà” e, continua, “più a lungo si protrae la faccenda, più costosa e rovinosa sarà la sconfitta”. Ed è con questa massima in testa che dobbiamo cercare di interpretare “la lunga guerra Arabo – Iraniana contro Israele e gli Stati Uniti che fino ad oggi non erano mai stati ritenuti capaci di combattere”. Helmer ricorda come tutti i manuali dell’esercito americano quando si parla di vincere una battaglia concordano su una cosa e cioè, come scriveva il celebre capitano britannico Liddell Hart, che “Per avere successo è necessario risolvere due problemi principali: dislocazione e sfruttamento. Uno precede e l’altro segue il colpo vero e proprio, che in confronto è un atto semplice”. Ma dopo gli attacchi aerei USA e UK dei giorni scorsi e continuati ancora martedì, sottolinea Helmer, a sfruttarli sembra siano sempre gli yemeniti, che avrebbero mantenuto l’iniziativa: lo ribadisce in una bella intervista di Andrea Nicastro sul Corriere della Serva di ieri Nasr al-Din Amer, presidente dell’agenzia di stampa yemenita Saba e anche vice capo della comunicazione di Ansar Allah. “Gli Usa dicono di aver già distrutto il 30% delle vostre capacità militari” commenta Nicastro; “Fesserie” sentenzia Amer: “Hanno colpito vecchie basi già bombardate durante la guerra con la coalizione internazionale che ci ha combattuto per 9 anni”.
Allora, ricorda Amer, “a metterci la faccia erano i sauditi”, ma a sostenerli erano sempre gli americani, che “spesso partecipavano direttamente anche con i loro aerei”. “Quindi”, continua, “niente di nuovo, avevano quelle geolocalizzazioni e le hanno usate. Uno show! Non ci hanno fatto nulla”.

Francesco dall’Aglio

Ovviamente, anche la sua è propaganda: i nuovi attacchi missilistici degli yemeniti di martedì pomeriggio contro una nave mercantile di proprietà greco – americana nel golfo di Aden però sono reali, come anche quelli della notte contro un’altra imbarcazione USA; come è reale anche il fatto – riportato dal nostro Francesco Dall’Aglio sulla sua pagina Facebook – che, sempre marted,ì “Omar al-Ameri, maggiore dell’esercito regolare yemenita” e protagonista di primissimo piano per 15 anni della guerra civile sostenuta da sauditi e occidentali contro gli Houthi, abbia cambiato casacca e sia “passato dalla loro parte con le sue truppe, accolto con entusiasmo e perdono generale per le passate colpe”. “Dal 2011 noi yemeniti ci siamo divisi su tutto” afferma sempre Amer nell’intervista sul Corriere “ma ora siamo uniti contro Israele per difendere Gaza. Ci sostiene persino chi ci ha ucciso nella guerra civile, e anche l’opposizione espatriata ci ha teso la mano”. Anche i missili che l’Iran ha lanciato martedì non sono solo propaganda: come ricorda il blog Moon of Alabama, avrebbero distrutto il quartier generale dell’ISIS a Idlib, in Siria, e anche quello delle milizie affiliate all’Al Qaida siriana di Hayat Tahrir al-Sham; come sottolinea sempre Moon of Alabama “La traiettoria più breve dall’Iran a Idlib in Siria è di almeno 1.200 chilometri. L’Iran ha così dimostrato di poter colpire in modo affidabile obiettivi a quella distanza. I missili utilizzati, denominati Kheibar Shekan hanno una portata massima di 1.450 chilometri”; come ha sottolineato con grande enfasi la stampa israeliana, era la prima volta che un missile iraniano copriva una distanza del genere.
Ma l’attacco che necessariamente avrà più conseguenze è quello che dall’Iran ha puntato dritto su Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno; il corpo delle guardie della rivoluzione islamica, come riportato dal canale Telegram Colonnel Cassad, avrebbe annunciato di aver colpito ben 4 obiettivi sensibili: la base americana presso l’aeroporto, il consolato americano, la sede locale del servizio di sicurezza curdo e soprattutto l’abitazione di quello che il New York Times definisce semplicemente “un uomo d’affari qualsiasi”, uccidendo lui e sua figlia. Peccato che l’uomo d’affari in questione sia nientepopodimeno che Peshraw Dizayee, il fondatore della Falcon Security Services, che dal 2003 – dopo l’invasione USA dell’Iraq – si occupa di commerciare petrolio iracheno in Israele; secondo Al Mayadeen, nella sua abitazione si stava svolgendo un incontro tra agenti del Mossad e alcuni leader di alcune fazioni separatiste iraniane presenti in Iraq, un incontro che sarebbe servito “a pianificare le modalità per minare la sicurezza iraniana, sia a livello interno, sia in senso più ampio, il ruolo regionale dell’Iran” riporta sempre Al Mayadeen. Prima di commentare l’attacco, riporta John Helmer, i media statunitensi hanno temporeggiato per qualche ora per poi affermare che “ci sono state esplosioni vicino al consolato americano a Erbil, ma nessuna struttura statunitense è stata colpita”. Boris Rozhin, caporedattore di Colonnel Cassad, non è proprio convintissimo: “Secondo un amico che vive nel centro di Erbil” scrive “il colpo non è caduto sull’attuale consolato, ma su quello nuovo, che è in costruzione”. Il New York Times ci tiene a sottolineare che, in questo modo, gli iraniani si sono dati la zappa sui piedi; se negli ultimi giorni, finalmente, era arrivata la richiesta ufficiale da parte irachena che, dopo 20 anni abbondanti di occupazione, per gli americani forse era finalmente arrivata l’ora di levarsi di torno, ora l’attenzione si sarebbe spostata su Teheran, con Baghdad che ha addirittura presentato una protesta formale all’ONU contro “l’aggressione”.
“Come finirà la cosa ?” chiede un utente sulla pagina di Dall’Aglio; “Ascolteranno pensosamente” risponde il Bulgaro, “poi la Russia metterà il veto a qualsiasi decisione, Cina astenuta. USA, UK, Francia condannano, arrivederci e grazie”. Il punto vero, piuttosto, è che l’equilibrio in Iraq è parecchio instabile e anche i curdi – che sono alleati fedeli di USA e Occidente collettivo – giocano un ruolo importante: con il recente voto del parlamento che aveva chiesto ufficialmente alle truppe USA di sloggiare, erano stati messi in minoranza; ora, ovviamente, sono ben contenti di poter sfruttare questo attacco per sottolineare che l’Iraq non è ancora al sicuro e ha bisogno dell’aiuto delle forze di occupazione. Vedremo nelle prossime settimane se tutto questo li ha effettivamente rafforzati.

Qasem Soleimani

In realtà – ma magari è solo una deformazione mia – più che l’Iraq, a me quello che mi preoccupa, come sempre, è il Pakistan: anche qui, infatti, sono arrivati razzi iraniani; l’obiettivo, ovviamente, sono sempre le roccaforti dei gruppi affiliati all’ISIS Khorasan, che ha rivendicato il sanguinoso attacco terroristico di un paio di settimane fa a Kerman durante l’anniversario della morte di Qasem Soleimani, e i pakistani non l’hanno presa proprio benissimo, diciamo. “Questa violazione della sovranità pakistana” hanno tuonato in un comunicato ufficiale del governo “è del tutto inaccettabile e potrebbe avere serie conseguenze”: la prima è stata che hanno detto all’ambasciatore iraniano in Pakistan, che si trovava in quel momento casualmente a Teheran, di rimanersene dov’era e di non azzardarsi a tornare a Islamabad. Magari è proprio questo attrito ad essere piaciuto agli indiani; sempre martedì, infatti, il ministro degli esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar si è incontrato a Teheran con il presidente iraniano Ebrahim Raisi per poi intrattenersi a lungo anche con il ministro degli esteri Hossein Amir-Abdollahian: “La nostra discussione bilaterale” ha twittato poi Jaishankar “si è concentrata sul quadro a lungo termine per il coinvolgimento dell’India con il porto di Chabahar e il progetto di connettività dell’International North – South Transport Corridor”, il corridoio infrastrutturale che dovrebbe collegare Bombay a Mosca passando proprio attraverso l’Iran.
Anche quelli che consideriamo nostri alleati ormai hanno troppi interessi in comune con i nostri nemici; figuriamoci quelli che alleati non lo sono per niente: poche ore prima, infatti, a scambiare una lunga chiacchierata telefonica con Abdollahian era stato Lavrov. Secondo John Helmer, avrebbero confermato l’intenzione di procedere a “un coordinamento a tutti i livelli” tra i due paesi, “sottolineando il costante impegno reciproco nei confronti dei principi fondamentali delle relazioni russo – iraniane, compreso il rispetto incondizionato della sovranità e dell’integrità territoriale”. Insomma: l’Iran si è finalmente sbilanciato a favore dell’asse della resistenza e non sembra pagare chissà quale dazio; certo, “un blocco navale” ricorda Nicastro ad Amer nella solita intervista sul Corriere “potrebbe impedirvi di ricevere armi”, ma secondo Amer, tutto sommato, “non sarebbe un problema, perché sappiamo fabbricarle completamente in Yemen”. “La tesi che riceviamo aiuti dall’Iran è falsa” sostiene Amer, che argomenta “Durante i 9 anni di guerra, il mare era chiuso, il confine con l’Arabia Saudita anche, ma i nostri depositi si sono riempiti con armi sempre più efficienti”. Ora, magari detta così è un po’ esagerata, ma un fondo di verità c’è, eccome! Come ricorda Moon of Alabama, infatti, “L’asse della resistenza è un insieme di gruppi vagamente collegati all’Iran. Il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane ha contribuito al loro addestramento, ma ha fatto molto di più di quanto avrebbe fatto il normale addestramento militare statunitense. Ha incoraggiato questi gruppi a mettersi in contatto tra loro e a scambiare conoscenze e ora collaborano a tutti i livelli. L’Iran ha introdotto nuove tecnologie e armi, ha insegnato a ciascun gruppo come crearne delle copie. E Oggi Houthi e iracheni si scambiano piani per la costruzione di missili e droni”. “L’asse della resistenza” continua Moon of Alabama “è diventato così un insieme di entità del tutto autonome che non dipendono più dalle consegne o dagli ordini provenienti dall’Iran, che però seguono tutte la stessa ideologia anticoloniale”. “Tutti i gruppi dell’asse della resistenza sono sciiti e vicini all’Iran” afferma Nicastro sempre nella solita intervista: “è una guerra religiosa?” “Hamas è sunnita” risponde Amer; “La jihad islamica è sunnita. I palestinesi sono sunniti. Non è una questione di sette, ma di essere schiavi degli americani oppure no”.
Il conflitto regionale in Medio Oriente dura da 50 anni, una serie infinita di divisioni di ogni genere fomentate ad hoc dall’impero nella più classica delle applicazioni del caro vecchio principio del divide et impera; tutte queste divisioni continuano a pesare, ma forse finalmente – per la prima volta da decenni – l’obiettivo comune di liberarsi dall’insostenibile pesantezza del dominio coloniale e postcoloniale ha costretto qualcuno ad andare oltre le divisioni settarie e a condurre una battaglia unitaria, ricorrendo alla religione come collante ideologico. In molti in Occidente storcono la bocca e più si definiscono progressisti, e più la storcono; preferiscono parlare di democrazia e di socialismo in astratto e vedere i popoli scannarsi tra loro in concreto. Forse è arrivata l’ora di mettere da parte un po’ di hubris eurocentrica e riconoscere umilmente che dei giudizi e dei consigli di chi vive nella colonia europea ed è stato letteralmente spazzato via dalla battaglia politica, i popoli in cerca di autodeterminazione probabilmente se ne fanno pochino.
Forse è arrivata l’ora di avere un vero e proprio media che sta dalla parte dell’anti – imperialismo. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.


E chi non aderisce è Elly Schlein 

YEMEN: se il paese più povero del mondo mette fine alla globalizzazione

Come dice Alberto Negri, in Medio Oriente la guerra è già regionale da 50 anni: senza questa semplice premessa il rischio di prendere fischi per fiaschi rimane altino, diciamo; a partire dallo Yemen e dal Mar Rosso. Iniziamo dalla cronaca: come saprete tutti benissimo, tra le forze regionali che con più vigore hanno reagito militarmente alla guerra di Israele contro i bambini arabi a Gaza, spiccano gli Houthi che da noi vengono definiti ribelli – o addirittura terroristi – e, ovviamente, niente più che marionette in mano a Teheran che, per la proprietà transitiva, ha mutuato lo stesso potere paranormale dell’amico Putin: riuscire ad essere a un passo dal collasso e, allo stesso tempo, una superpotenza politica e militare alla quale tutte le altre forze della regione obbediscono senza battere ciglio. Potrebbe non essere una narrazione esattamente rigorosissima, diciamo; quelli che chiamiamo Houthi – ma che sarebbe più appropriato chiamare col loro vero nome e cioè Ansar Allah – infatti, in realtà ormai altro non sono che il governo di uno stato che, dopo oltre 15 anni di conflitti fratricidi, sta lottando per riaffermare la sua sovranità. Certo, un governo ancora non riconosciuto in un paese ancora diviso, ma che è ormai stabilmente in controllo della stragrande maggioranza del paese, che mette assieme diverse forze politiche e che, sostanzialmente, è uscito vincitore da una lunghissima e sanguinosissima guerra contro un’alleanza che, sulla carta, è ordini di grandezza più potente e che va dagli Emirati ai sauditi e gode del sostegno incondizionato di Washington; ovviamente, tutto questo senza il sostegno di Teheran non sarebbe stato possibile, come non sarebbe stata possibile in Libano l’eroica resistenza di Hezbollah, ma la caricatura che ne fa la nostra propaganda – di veri e propri pupazzi telecomandati dall’Iran – è una semplificazione becera che, come sempre, impedisce di capire cosa sta accadendo.

Il logo di Ansar Allah

Ansar Allah, come Hezbollah, sono forze di governo che godono di un vastissimo consenso popolare e che guidano le rispettive lotte di liberazione nazionale in un contesto regionale di lotta generalizzata contro quel che rimane del dominio coloniale; ora, come tutti sapete, sin dallo scoppio del genocidio di Gaza Ansar Allah – appunto – ha cominciato a prendere di mira Israele. All’inizio si trattava fondamentalmente di azioni dimostrative: razzi e droni diretti verso Israele e, in particolare, la Miami israeliana di Eilat, che però venivano piuttosto sistematicamente intercettati e abbattuti, prima di raggiungere la loro destinazione, proprio dai sauditi; al ché, Ansar Allah ha cominciato a prendere di mira le navi che passavano dallo stretto di Bab el-Mandeb, la porta di ingresso nel Mar Rosso, e che erano dirette in Israele. Una leva potentissima: da quel minuscolo stretto passano, infatti, il 30% dei container di tutto il mondo che sono stati costretti a cambiare strada, causando danni incalcolabili alla logistica globale proprio mentre ancora, tra tensioni geopolitiche e post covid, le supply chain – le catene del valore globale – continuano a vivere una situazione di stress come non si era mai vista dall’inizio della grande globalizzazione. Toccando il tasto dolente della logistica globale, Ansar Allah ha alzato vistosamente l’asticella da diversi punti di vista: il primo, immediato, è che bloccando le navi dirette in Israele concretamente causava danni molto più rilevanti di quelli causati da razzi e droni di avvertimento; il secondo è che trasformava una guerra locale in un problema globale che ricade sul groppone degli USA. Tra i compiti principali dell’Impero, infatti, c’è proprio quello di garantire la libera circolazione delle merci nei mari; è uno degli aspetti che, per decenni, ha giustificato il preteso eccezionalismo USA: certo – è vero – saranno pure l’unica superpotenza rimasta e sicuramente se ne approfittano pure, ma senza questa superpotenza chi sarebbe in grado di garantire che le merci possono spostarsi in sicurezza da un capo all’altro del mondo? Un ruolo che, ovviamente, è diventato ancora più fondamentale con la globalizzazione: se i paesi del Nord globale potevano permettersi di delocalizzare la produzione laddove gli tornava più conveniente, era anche perché c’era una superpotenza che gli garantiva che quelle merci poi sarebbero sempre arrivate in sicurezza a destinazione; ora l’entusiasmo per le delocalizzazioni e la globalizzazione sicuramente non è più al suo apice, e si preferisce parlare piuttosto di decoupling, di derisking e di reshoring o di nearshoring, ma il fatturato delle grandi corporation transnazionali dipende ancora (e dipenderà ancora a lungo ancora) da questo meccanismo.
Per gli USA ,quindi, intervenire per riportare ordine in quel collo di bottiglia strategico è oggettivamente inevitabile: sta scritto proprio nel suo DNA e nel DNA dell’ordine mondiale che ha imposto a sua immagine e somiglianza; e infatti, per settimane, nelle principali testate mainstream internazionali – quelle che fanno da megafono all’agenda delle oligarchie del Nord globale e la impongono come senso comune al resto della popolazione mondiale – non si è fatto che chiedere un intervento degli USA. D’altronde, per la più grande superpotenza militare della storia dell’umanità mettere a cuccia le forze armate del paese più povero del Medio Oriente, che è ancora nel bel mezzo di una guerra civile, non dovrebbe essere chissà che mission impossible. O, almeno, è inevitabilmente l’idea che si fa chiunque dia credito proprio alla propaganda suprematista che prova ancora a convincerci che gli USA abbiano i superpoteri; potrebbe non essere un’analisi proprio accuratissima. Un primo tentativo, ricordava ancora ieri Bloomberg, era stato fatto passando appunto da Teheran: “In privato” scrive Bloomberg “gli Stati Uniti hanno inviato ripetuti messaggi segreti all’Iran, esortandolo a fermare gli attacchi Houthi”. I più maliziosi, tra questi avvertimenti ci vedono addirittura anche l’attentato a Kerman dell’Isis Khorasan, che molti ritengono essere nient’altro che un’organizzazione fantoccio totalmente eterodiretta dall’asse che tiene assieme USA, Israele e petromonarchie del Golfo: “Teheran” però, continua Bloomberg, avrebbe risposto “di non avere alcun controllo sul gruppo”, risposta che però non convince la testata newyorkese che ricorda come “l’intelligence britannica” abbia a lungo dato indicazioni e fornito prove “che gli Houthi si rifornivano di armi che potevano essere ricondotte all’Iran” che è un’osservazione anche ragionevole, intendiamoci, che però la propaganda mainstream si fa solo quando riguarda gli altri. Quando viene fuori che Israele non potrebbe durare una settimana in più senza il sostegno degli USA, a nessuno gli viene in mente di dire che Israele è uno stato fantoccio eterodiretto da Washington, come non viene in mente neanche nel caso ancora più eclatante dell’Ucraina, ma se in ballo ci sono gli arabi diventa incontrovertibile, alla faccia del doppio standard.

Jonathan Panikoff

In realtà, comunque, Teheran non è l’unica a sostenere che gli Houthi tutto sommato fanno un po’ come cazzo gli pare: secondo Jonathan Panikoff, direttore della Scowcroft Middle East Security presso l’Atlantico Council, ad esempio, “questi gruppi hanno tutti il proprio processo decisionale indipendente. E questo non dovrebbe essere sottovalutato”; comunque, dipenda o meno da Teheran, fatto sta che questi avvertimenti sono serviti a poco e Ansar Allah non solo ha continuato per la sua strada, ma ha gradualmente intensificato gli attacchi fino a quando Washington non si è decisa a intervenire. Come tutti ricorderete, infatti, il mese scorso il segretario alla difesa USA Lloyd Austin ha fatto una videochiamata con un po’ di alleati ed ha annunciato la missione Prosperity Defense che però, evidentemente, non ha esattamente arrapato tutti: gli USA – pare – avevano cercato di coinvolgere i cinesi; d’altronde, il grosso delle navi che passa da lì sono cariche di merci cinesi, e figurati se i cinesi – materiali come sono – rinunciano a difendere i loro traffici in nome della solidarietà alla causa palestinese. Evidentemente, però, sono meno materiali di quello che pensano a Washington e nelle redazioni di mezzo mondo e hanno risposto picche; ma quello che ha colpito di più è che hanno risposto picche pure emiratini e sauditi che contro gli Houthi ci sono in guerra da 15 anni. Forse in ballo non c’è solo la solidarietà, magari; forse, molto più prosaicamente, c’è l’idea che militarizzare ancora di più l’area, invece che ristabilire la sicurezza della navigazione, potrebbe peggiorare la situazione.
D’altronde, però, bisogna stare anche attenti da farsi prendere da facili entusiasmi; il fallimento della chiamata alle armi della Prosperity Defense non significa certo che il grosso del mondo ormai è schierato a fianco di Ansar Allah in difesa della lotta di liberazione palestinese e contro il genocidio, e per averne una prova provata non si è dovuto manco aspettare tanto: mercoledì scorso, infatti, il consiglio di sicurezza dell’ONU ha messo ai voti una risoluzione di condanna nei confronti degli Houthi. E’ passata a stragrande maggioranza, con 11 voti a favore e 4 astenuti: tra i 4 astenuti anche Russia e Cina, e cioè due membri permanenti del consiglio che quindi hanno potere di veto che, però, hanno deciso di non utilizzare; gli unici che continuano imperterriti a ricorrere al diritto di veto – anche quando sono soli contro tutti – sono gli USA che, dall’inizio del massacro, vi hanno fatto ricorso continuamente per impedire venisse imposto un cessate il fuoco. Il mancato ricorso al veto da parte di Russia e Cina ha deluso molti, e non senza ragioni: in molti, infatti, sostengono che c’è poco da mediare e che di fronte al massacro a cui stiamo assistendo il muro contro muro è l’unica opzione sensata. La Cina, però, sembra continuare a vederla diversamente e a ragionare sui tempi lunghi: un veto alla risoluzione di condanna degli attacchi, infatti, sarebbe stato uno sgarbo diplomatico nei confronti di parecchi interlocutori, dalle petromonarchie del Golfo ai paesi europei più titubanti; la Cina, invece, ha optato come sempre per la mediazione, cercando di porre le basi per una convergenza la più ampia possibile in nome del diritto internazionale. La sintesi cinese allora suona più o meno così: va bene condannare le azioni degli Houthi, ma soltanto tenendo conto che sono una conseguenza inevitabile del massacro in corso a Gaza: aveva fatto anche un emendamento per sottolineare il legame tra le due cose, ma è stato bocciato; è importante ricordare che poche ore prima del voto di questa risoluzione gli Houthi avevano portato a termine quello che Bloomberg definisce “il suo più grande attacco di missili e droni mai realizzato nel Mar Rosso” e così, subito dopo il voto all’ONU, Biden è passato all’attacco. “Le forze americane e britanniche” riporta Bloomberg “hanno colpito installazioni radar, siti di stoccaggio e siti di lancio di missili e droni utilizzando aerei da combattimento dell’aeronautica americana e della portaerei USS Eisenhower, nonché missili Tomahawk lanciati da un sottomarino e navi di superficie” e, non contenti, dopo 24 ore c’hanno pure ribadito, portando a termine un altro attacco “contro un’installazione radar che non era stata completamente distrutta la notte prima”.
Secondo i più esagitati, in soldoni Russia e Cina gli avrebbero dato il via libera. La realtà potrebbe essere più complessa: ovviamente, infatti, la risoluzione dell’ONU in qualche modo legittimava almeno parzialmente l’intervento USA, ma non è che lo autorizzava; sostanzialmente, quindi, dal punto di vista del diritto internazionale non ha cambiato granché. Allo stesso tempo, dal punto di vista diplomatico, il mancato ricorso al veto ha rafforzato la credibilità cinese di potenza pacifica che lavora per il dialogo e la mediazione e rispetta il diritto internazionale. Risultato? L’Arabia Saudita ha lodato la posizione cinese, mentre ha condannato gli USA nonostante l’obiettivo dei loro attacchi sia un loro acerrimo nemico. E anche sull’utilità di questi attacchi ci sono parecchie perplessità: come ricorda Bilal Y Saab di Chatham House sul Financial Times, infatti, “Gli Houthi sono sopravvissuti per anni alla campagna di bombardamenti della coalizione araba guidata dall’Arabia Saudita. Attacchi limitati da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati, non importa quanto dolorosi o chirurgici, avranno effetti limitati”. Simplicius The Thinker, come sempre, è decisamente più drastico: “Gli Stati Uniti e la loro piccola e isolata marmaglia di servili alleati” scrive “hanno attaccato lo Yemen con un attacco assolutamente impotente che non ha fatto e non avrà alcun effetto sul continuo blocco del Mar Rosso da parte dello Yemen”. Da un certo punto di vista, addirittura, potrebbero averli rafforzati: come ha dichiarato Iona Craig, giornalista e inviata in Yemen dal 2010 al 2015 su Declassified UK, “Tutto questo ha reso gli Houthi estremamente popolari. Ho parlato con moltissimi yemeniti che stavano dalla parte opposta durante la guerra civile, e che mi hanno detto guarda, noi odiamo gli Houthi, ma ammiriamo quello che stanno facendo. Nessun altro sta supportando la causa palestinese come loro”. “La campagna di bombardamento di Stati Uniti e Regno Unito nello Yemen” ha scritto su X l’ex portavoce del commando USA a Baghdad e a Sanaa Nabeel Khoury “ è un altro fallimento della diplomazia di Biden: non voleva una guerra a livello regionale, ora ne ha una; voleva la pace nello Yemen, ora è in guerra con gli Houthi – chiunque gli abbia detto che questo li avrebbe scoraggiati si sbagliava di grosso, questo li radicalizzerà ulteriormente!”. “Il punto” scrive Foreign Policy “è che gli USA in Yemen non hanno nessuna buona opzione”: se non interviene, sancisce la fine della Pax Americana e il suo status di superpotenza garante della sicurezza del commercio marittimo; se interviene col freno a mano tirato, non risolve il problema e, comunque, rafforza i suoi nemici, e se interviene in grande stile rischia di impantanarsi in una guerra regionale in grande stile dove potrebbe prendere più sberle di quelle che ha preso in Ucraina, spianando alla Cina la strada verso lo status di unica grande superpotenza globale in grado di dirimere le controversie internazionali con il dialogo e la diplomazia.

Lloyd Austin

Insomma: lo stato di salute dei leader dell’Occidente collettivo non sembra essere esattamente al top, letteralmente: il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha ordinato attacchi contro gli Houthi dall’ospedale dove era stato ricoverato per un cancro alla prostata che aveva tenuto nascosto al resto dell’amministrazione. Come sentenzia sempre Simplicius, siamo di fronte a “un regime decrepito guidato da un presidente senile e un segretario di stato debilitato, che ordinano massacri illegali dalle loro case di cura e dai letti d’ospedale contro la nazione più povera della terra, praticamente lo stesso giorno in cui il loro principale alleato affronta accuse di genocidio e crimini contro l’umanità davanti al tribunale dell’Aia”. “Per l’impero delle bugie” conclude Simplicius “le prospettive non sono mai state peggiori”; per dargli la mazzata finale abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Lloyd Austin

ITALIA IN GUERRA – Perché da Hitler a Netanyahu l’Italia è sempre al fianco del colonialismo più feroce

Conflitto in Medio Oriente”; “Nave italiana in prima linea”.
Oohhh, lo vedi? Dai, dai! Il prurito alle mani che tormentava i sostenitori italiani del genocidio e della pulizia etnica trova finalmente un piccolo sfogo e l’Italia così, dopo la solita inevitabile sfilata di fake news, doppi standard e ipocrisia un tot al chilo, finalmente entra ufficialmente in guerra e si riposiziona nel posto che gli è più congeniale: quello di cane da compagnia del colonialismo più feroce disponibile sul mercato. Da Hitler, a Biden e Netanyahu.

La fregata Virgilio Fasan

Il riferimento, ovviamente, è alla decisione di spedire la nostra fregata lanciamissili Virgilio Fasan nel mar Rosso per contrastare il nodo dell’asse della resistenza che, al momento, sembra più determinato a sostenere la lotta di liberazione del popolo palestinese contro la forza di occupazione e lo sterminio indiscriminato dei bambini arabi: Ansar Allah, i partigiani di Dio dello Yemen. La nave della Marina militare farà parte di una flotta composta da mezzi provenienti da una decina di nazioni, e che avrebbe lo scopo di proteggere le imbarcazioni commerciali di Israele e dei paesi che sostengono il suo genocidio dalle reazioni che hanno scatenato in tutta la regione: “L’Italia” ha dichiarato solennemente il ministro degli affari dell’industria militare Guido Big Jim Crosetto “farà la sua parte per contrastare l’attività terroristica di destabilizzazione degli Houthi” dove per terrorismo, ovviamente, si intende banalmente tutto quello che viene fatto per tentare di salvare la vita al futuro terrorista che si nasconde in ogni bambino palestinese, “e tutelare la prosperità del commercio garantendo la libertà di navigazione”. Tradotto: compagno Netanyahu, stermina chi te pare che, alle brutte, le spalle te le copriamo noi (e senza che, ovviamente, la questione fosse portata in Parlamento). D’altronde quando l’ordine arriva dall’alto non è che ti puoi mettere tanto a disquisire con la scusa dei riti della pagliacciata che è diventata la democrazia parlamentare, e qui l’ordine è stato perentorio: una breve comunicazione via teleconferenza da parte del compagno Lloyd Austin, ed ecco fatto.
D’altronde non si è trattato altro che di anticipare un po’ un’operazione già a lungo programmata: la Fasan, infatti, già a inizio estate aveva partecipato a un’esercitazione con le squadre navali USA alla fine della quale aveva ottenuto il patentino che le concede l’onore di fare da bodyguard alle portaerei dell’impero; l’arsenale di bordo, infatti, dovrebbe essere in grado di intercettare tutte le armi a disposizioni della resistenza Houthi, dai droni ai missili balistici, e anche senza l’annuncio di questa missione che, ironicamente, è stata battezzata Prosperity Guardianguardiani della prosperità, alla facciaccia di quegli animali umani che abitano a Gaza – sarebbe comunque partita verso il golfo di Aden il prossimo febbraio. D’altronde – fa sapere il governo – garantire la sicurezza della navigazione è essenziale per gli interessi di tutti voi consumatori: vedersi bloccare il canale di Suez per l’irresponsabilità di questi maledetti terroristi significa aumentare a dismisura i costi della logistica. Un po’ come costa proteggere gli extraprofitti registrati dalle aziende durante questi anni di iperinflazione, che hanno visto i consumatori impoverirsi e le oligarchie arricchirsi a ritmi mai visti; in quel caso, però, contro l’avidità delle oligarchie di fregate ne abbiamo viste pochine, e manco di tasse sugli extraprofitti: quella sulle banche, dopo essere stata annunciata in pompa magna, nel giro di due mesi è sparita del tutto pure dalla legge di bilancio.
A questo giro, però, non si tratta di far pagare i super – ricchi, ma i bambini di Gaza e, oggettivamente, è più semplice: mica c’hanno i giornali, le Tv, le lobby e il potere di far schizzare verso quota 500 lo spread. T’immagini? L’Italia condanna i bambini di Gaza allo sterminio: lo spread impenna.

Mario Sechi

Lo sprezzo di quel che rimane della nostra democrazia – dimostrato aderendo all’operazione militare senza passare dal Parlamento – ha gasato i più appassionati tra i sostenitori del genocidio: Mario Sechi su Libero ci invita a immaginarci “Un governo Conte – Schlein in questo scenario: avremmo già issato la bandiera bianca consegnandoci come nazione neutrale nelle mani dei commissari del popolo di Putin e Xi Jinping”; come ricorda il carabiniere giornalista Claudio Antonelli dalle pagine de La Pravda dell’Alt Right infatti, “in ballo c’è ben più della sicurezza nel mar Rosso: si tratta di contrastare le manovre di Mosca e Pechino lungo la Via della Seta”. Come giustamente sottolinea Antonelli, infatti, “non si può non notare che la potenza militare degli Houthi non giustifica il dispiegamento di un’intera flotta di queste dimensioni”; “le posizioni delle batterie missilistiche” continua Antonelli “sono conosciute al millimetro e gli USA potrebbero intervenire all’istante grazie ai satelliti”. Difficile qui capire quando questo sia un giudizio equilibrato e quanto invece sia l’ennesimo delirio di onnipotenza di un suprematista qualsiasi; di sicuro, però, c’è che pattugliare quell’area è un modo per tenere per le palle i cinesi che, ovviamente, sono i produttori del grosso delle merci che transitano attraverso Suez per arrivare nella sponda settentrionale del Mediterraneo. I primi ad avere interesse che si ristabilisca questa benedetta libertà di navigazione, a regola, dovrebbero essere proprio loro, soprattutto dal momento che anche la strada alternativa è sostanzialmente chiusa per lavori: “Il canale di Panama” ricorda Federico Bosco su Il Foglio, infatti, “è gravemente limitato da una siccità che ne riduce la portata”. Eppure, appunto, i cinesi alla Prosperity Guardian non sono stati chiamati a collaborare. Strano: in passato, nel golfo di Aden, USA e Cina hanno lavorato di comune accordo contro la pirateria e per la sicurezza della navigazione; non è mai stato pubblicizzato più di tanto ma, come scriveva il Council on Foreign Relations già nel 2013, “Lontano dai riflettori, la cooperazione nel Golfo di Aden ha fornito sia alla Cina che agli Stati Uniti un canale vitale per contatti militari sempre più intensi in un contesto di sfiducia prolungata nell’Asia Pacifico. In effetti” continua l’articolo “le due marine hanno recentemente condotto un’esercitazione anti – pirateria congiunta. E In futuro” conclude “la cooperazione non tradizionale in materia di sicurezza nei mari lontani è destinata a svolgere un ruolo ancora più importante nel rafforzare le relazioni militari sino – americane”.
Bei tempi, quando ancora i suprematisti USA pensavano di poter tenere al guinzaglio la Cina e che, magari, a Hu Jintao in Cina sarebbe subentrato un presidente ancora più espressione diretta delle oligarchie cinesi invischiate con la finanza USA e la Cina avrebbe abbandonato – così – la sua strada verso il socialismo con caratteristiche cinesi e abbracciato le magnifiche sorti e progressive del totalitarismo neoliberista. A Hu Jintao, invece, è subentrato Xi Dada, e il socialismo con caratteristiche cinesi, da oggetto di scherno degli intellettuali fintoprogressisti del Nord globale, è diventato elemento di ispirazione per tutti i paesi che tentano di uscire dal dominio coloniale; e anche la lotta alla pirateria, da elemento di collaborazione tra le due superpotenze, si è trasformata nell’ennesima scusa per provare a ostacolare manu militari l’ascesa economica e politica cinese. E così, oggi, i pattugliamenti cinesi nell’area continuano: in questo caso però – sottolinea il Global Times – si tratta di “missioni anti – pirateria autorizzate dalle Nazioni Unite” e che hanno il solo scopo di garantire il transito “degli aiuti umanitari diretti a Gaza”; l’operazione guidata dagli USA, invece, “non ha l’autorizzazione dell’ONU, e rischia solo di intensificare la crisi a Gaza”.
D’altronde, da oltre 2 mesi, l’unico obiettivo degli USA all’ONU è proprio ostacolare con le scuse più ridicole ogni progresso verso un cessate il fuoco ricorrendo al veto e, in queste ore, ancora sta facendo di tutto per far slittare ancora il voto in Consiglio di Sicurezza dopo che l’assemblea generale dell’ONU ha adottato – per la seconda volta consecutiva a larghissima maggioranza – una risoluzione che spinge, appunto, verso il cessate il fuoco. Come ha sottolineato il portavoce del Ministero degli Esteri cinese martedì scorso “Ci auguriamo che gli Stati Uniti ascoltino la voce della comunità internazionale, smettano di bloccare scientificamente le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e inizino a svolgere il ruolo dovuto nel promuovere un cessate il fuoco immediato e prevenire una catastrofe umanitaria ancora più grande”.
Come cambia il mondo, eh? Quelli che, per 50 anni, hanno accusato chiunque non si sottomettesse ai suoi interessi di essere stati canaglia – per poi bombardarli – oggi sono considerati dalla comunità internazionale l’unico vero stato canaglia; ed ecco così che, a parte l’Italia e una manciata di altri vassalli, a non aver risposto alla chiamata alle armi USA sarebbero in parecchi: “Secondo i rapporti” riporta sempre il Global Times “Egitto, Arabia Saudita, Qatar e Oman si sarebbero rifiutati di aderire all’operazione. E’ facile vedere” continua l’articolo “come a partecipare all’operazione siano pochi paesi della regione, che sembrano anzi piuttosto preoccupati che questa operazione possa intensificare il conflitto”. D’altronde sarebbe stato difficile spacciarla come qualcosa di ragionevole alle proprie opinioni pubbliche, tutte indistintamente solidali con la causa palestinese: come ha dichiarato ad Al Mayadeen Mohamed al-Bukahiti, uno dei più autorevoli leader di Ansar Allah, “Lo Yemen attende la creazione della coalizione più sporca della storia per impegnarsi nella battaglia più sacra della storia”, e si chiede “Come verranno percepiti i paesi che si sono affrettati a formare una coalizione internazionale contro lo Yemen per proteggere gli autori del genocidio israeliano?”. Nel frattempo, intanto – riporta sempre Al Mayadeen – la Malesia impone il divieto di attracco alle navi israeliane. “La geopolitica del Medio Oriente” sottolinea Global Times “è estremamente complessa, e ogni piccola azione può avere conseguenze di vasta portata. Nella regione gli Stati Uniti hanno avviato numerose guerre e istigato molte rivolte, ma hanno anche subito molte battute d’arresto, e hanno pagato un prezzo elevato. Il motivo è che gli USA non hanno mai assunto una posizione equa, e non hanno mai preso in considerazione gli interessi concreti dei paesi del Medio Oriente, ma hanno sempre messo avanti a tutto esclusivamente le proprie esigenze egemoniche. Gli USA ora vorrebbero disimpegnarsi, ma mantenendo comunque la loro posizione dominante nella regione. Non si vogliono più impegnare nei conflitti regionali, ma usano ancora la tattica di sostenere l’uno e colpire l’altro per consolidare piccoli circoli di interesse. Un simile approccio però” conclude il Global Times “non farà altro che intensificare, anziché calmare, le turbolenze nella regione”.

Guido “Big Jim” Crosetto

Circa un secolo fa, una classe dirigente di svendipatria di professione ha deciso di ridurre il nostro Paese in cenere per sostenere i deliri suprematisti del colonialismo occidentale più feroce; oggi i loro degni eredi si apprestano a gettare l’intero Paese in un drammatico remake di quell’orrendo filmaccio, campi di concentramento inclusi: l’ultima moda dell’esercito di occupazione a Gaza, infatti è spingere le persone nei campi profughi senza cibo, acqua, elettricità e servizi sanitari, e poi bombardarli. Sembra sia la soluzione più razionale: coi tempi che corrono, il caro vecchio gas ormai – probabilmente – costerebbe troppo. Io, ecco – anche solo per non essere sottoposti domani a una sacrosanta nuova Norimberga -, direi che forse è il caso di costruirci per lo meno un media dove sia possibile dichiarare che noi, molto educatamente, ci dissociamo e che non saremmo proprio intenzionati a collaborare a questa nuova Shoah alla rovescia (se è permesso, eh?); còmprati oggi la tua prova certificata per il processo contro i collaborazionisti di domani: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Guido Crosetto