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Tag: green

L’industria agroalimentare divora il mondo (8ORE)

Torna l’appuntamento con 8Ore, la rubrica di OttolinaTv dedicata al mondo del lavoro, oggi nostri Irene e Gabriele portano il focus sulla produzione alimentare e quindi sul lavoro agricolo. Tra le domande rivolte a Stefano, rappresentante USB, approfondiremo il ruolo dell’UE, delle politiche green, dell’industria agroalimentare e un possibile fronte unito tra braccianti e piccoli proprietari. Buona visione!

Se gli ecologisti fanno pagare la transizione ai poveracci per fare dispetto alla Cina

La cinese BYD supera Tesla e diventa il più grande produttore di veicoli elettrici al mondo. Il sorpasso, riporta il Financial Times, sarebbe avvenuto nell’ultimo trimestre dell’anno scorso: 526 mila veicoli venduti contro i 484 mila dell’azienda di Elon Musk. Anche a questo giro il buon vecchio Warren Buffet, che con la sua Berkshire Hathaway è il primo azionista straniero del colosso cinese, c’ha visto giusto, ma soprattutto c’hanno visto giusto i cinesi: BYD, che sta per Build your dreams – costruisci i tuoi sogni – infatti non è un’azienda come tutte le altre; è probabilmente l’esempio più completo di azienda integrata verticalmente al mondo. E’ stata fondata nel 1995 dal chimico Wang Chuanfu, che rispetto a Elon Musk era partito leggermente svantaggiato: invece che essere proprietari di miniere di smeraldi nel feroce regime coloniale della Rhodesia, erano umili contadini della povera provincia dello Anhui; inizialmente produceva batterie per i principali marchi di telefonia mobile giapponesi, coreani ed europei e, a vedere dai risultati, gli riusciva benino: nell’arco di meno di 10 anni era diventato il principale produttore di batterie ricaricabili di ogni genere di tutta la Cina e il quarto al mondo. Nel frattempo, però, contro il parere del suo stesso consiglio di amministrazione, Wang si era comprato anche una piccola azienda un po’ decotta dell’allora ancora inconsistente automotive cinese; aveva costruito una nuova fabbrica da zero. Il suo obiettivo: farsi tutto in casa, e che tutto diventasse rigorosamente elettrico.

La BYD oggi controlla miniere di litio in giro per il mondo, costruisce le sue batterie e anche i suoi chip e sostanzialmente ogni singolo pezzo. E contro i 130 mila scarsi dipendenti di Tesla in giro per il mondo, dà lavoro a quasi 600 mila persone. Poteva succedere soltanto in Cina, probabilmente l’unico paese al mondo a credere davvero che il futuro non potrà che essere elettrico e rinnovabile con caratteristiche cinesi.
Uno dei problemi fondamentali delle auto elettriche, ovviamente, sono le stazioni per ricaricarle: in Italia ce ne sono circa 25 mila; in Cina 2 milioni e mezzo – poco meno del 70% del totale mondiale – e ricaricarle costa circa un terzo che alimentarle a benzina o a gasolio. Risultato: dal 2017 sono stati venduti oltre 18 milioni di veicoli elettrici – circa la metà del mercato mondiale – e oltre 4 volte quello USA. Un’economia di scala che ha permesso il miracolo: in Cina le auto elettriche costano meno di quelle tradizionali, e così si stima che nel 2026 sarà completamente elettrica un’auto nuova ogni due – e senza che nessuno abbia mai fatto mezza campagna per dire agli automobilisti che se il mondo esplode è colpa loro che non si svenano per comprare la stessa macchina di Di Caprio. D’altronde, da un certo punto di vista, sarebbe una discreta presa per il culo: il 60% dell’elettricità che arriva alle colonnine per ricaricare le auto elettriche in Cina, infatti, è prodotta col carbone; tutta la filiera ha un impatto gigantesco, e fino a che le batterie andranno prodotte ex novo, invece che essere più o meno totalmente riciclate, parlare di sostenibilità è un po’ azzardato. La buona notizia, però, è che a tutti questi intoppi una soluzione in realtà c’è; quella cattiva è che per raggiungerla non bastano le chiacchiere: ci vogliono gli investimenti, una quantità spropositata di investimenti, talmente spropositata che pensare che ognuno faccia per se, molto semplicemente è una cazzata e il problema, ovviamente, va ben oltre i veicoli elettrici.
Lo ricorda per l’ennesima volta – in questo bell’articolo pubblicato da Foreign AffairsHenry Sanderson, autore di “Il prezzo della sostenibilità. Vincitori e vinti nella corsa globale all’auto elettrica“: “The problem with de-risking” si intitola; il problema del de-risking, e cioè della politica che vorrebbe ridurre i rapporti commerciali dell’Occidente collettivo con la Cina per evitare di esserne troppo dipendenti e quindi, in soldoni, essere impossibilitati un domani a fargli la guerra. Sanderson ricorda come, per emanciparsi dalla dipendenza dalla Cina, nell’Occidente collettivo è partita la corsa agli incentivi alle aziende per spingerle a tornare a investire per produrre in casa, ma “Sebbene l’obiettivo di accelerare la produzione di energia pulita sia positivo” sottolinea Sanderson “questa strategia in realtà non è sostenibile”. “Se i governi occidentali iniziassero una guerra totale tra loro per i sussidi” riflette infatti Sanderson “ciò non farebbe altro che spostare gli investimenti verso il miglior offerente”, cioè farebbe svenare i singoli stati in concorrenza tra loro, arricchendo soltanto le oligarchie finanziarie e aumentando esponenzialmente i costi della transizione ecologica stessa che, d’altronde, è esattamente quello che le oligarchie hanno ottenuto in generale in tutti i settori industriali imponendo la libera circolazione dei capitali, con gli stati che regalano alle aziende i soldi delle tasse dei loro cittadini per elemosinare qualche posto di lavoro; solo che, in questo caso, c’è anche l’aggravante che oltre a rimetterci le casse dello stato e il portafoglio di tutti i cittadini, ci rimette anche il pianeta.

Henry Sanderson

Sanderson ricorda come “Quando si tratta di energia pulita, l’Occidente è molto indietro rispetto alla Cina, che è all’avanguardia non solo nella produzione e nella distribuzione, ma anche nell’innovazione”: è l’esito di 50 anni di scelte sbagliate imposte, in buona parte, dalla lobby del fossile. Sanderson ricorda come l’Occidente abbia inventato sostanzialmente tutte le principali tecnologie green disponibili: nel 1954 negli USA i laboratori della Bell inventarono le celle solari in silicio; 15 anni dopo, l’università di Oxford produsse la prima batteria al litio, giusto pochi anni prima che in Danimarca si cominciasse a sviluppare l’industria delle turbine eoliche, tutte tecnologie che negli anni ‘80, quando il prezzo del petrolio crollò, vennero sostanzialmente abbandonate. A parte in Cina, che il petrolio era costretta a importarlo in un mondo militarmente controllato da altri potenzialmente ostili; e così la Cina ha sempre continuato a investire, e piano piano si è conquistata il dominio incontrastato dell’intera filiera. Sanderson ricorda come la Cina produce oggi poco meno del 70% di tutta la grafite necessaria per le batterie, “elabora oltre il 90% del manganese, sempre per le batterie, produce la maggior parte del polisilicio mondiale per celle solari e produce quasi il 90% dei magneti permanenti in terre rare del mondo” ma soprattutto, investimento dopo investimento, ha creato una capacità produttiva che, molto banalmente, rende impossibile agli altri di competere sui costi. In un mondo normale dove, al di là della retorica green e a trovare il modo per riempire di quattrini i conti in banca delle oligarchie, si punta davvero alla decarbonizzazione, dovremmo esserne felici e, magari, dire anche grazie per aver investito in cose di cui ci sbattevamo allegramente il cazzo e oggi risultano indispensabili.
Ovviamente questo non significa consegnarsi mani e piedi alla Cina: per alcuni prodotti specifici che, magari, sono anche indispensabili per l’industria della difesa – come nel caso di alcune terre rare – è necessario che gli stati si facciano carico dei costi che comporta costruirsi una filiera autonoma e indipendente; per tutto il resto, molto banalmente, dobbiamo fare una scelta: transizione ecologica o guerra ibrida contro la Cina? Tanto più se l’obiettivo della transizione ecologica non deve essere semplice greenwashing, ma un modello di sviluppo realmente sostenibile. Prendiamo ad esempio il litio: per rispettare la tabella di marcia della decarbonizzazione, nell’arco dei prossimi 25 anni il consumo di litio dovrebbe decuplicare. Estrarre dieci volte il litio che estraiamo oggi con le metodologie utilizzate oggi vuol dire devastare in modo irrimediabile porzioni gigantesche di territorio; alternative più sostenibili esistono, ma costano enormemente di più: un costo che, fino a che continuerà a prevalere la competizione tra aziende e tra stati geopoliticamente ostili sulla cooperazione, ovviamente nessuno si accollerà per salvare il culo all’altro.
Chi ci prova non fa una bella fine: ad esempio i verdi tedeschi, che vorrebbero tenere insieme ferocia imperialista, speculazione finanziaria ed ecologismo e far pagare questa equazione irrisolvibile alla gente comune che, quando poi s’incazza, si sente anche dare della troglodita. Davvero strano che poi crollino nei sondaggi. Inspiegabile proprio.
La realtà è che senza pace non c’è giustizia, nemmeno climatica: sarebbe arrivata l’ora che gli ambientalisti se lo mettessero in testa. Aiutiamoli, con un media serio e credibile che, invece che ai suprematisti e agli speculatori, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Annalena Baerbock

Wall street consensus: come la Finanza trasforma la crisi climatica in guerra contro i poveri

È possibile essere a favore della transizione ecologica senza odiare i poveri?

Di fronte alla polarizzazione del dibattito sulla crisi climatica, tra chi la nega perché una volta sul manuale delle medie ha letto che Annibale ha attraversato le Alpi di gennaio in scooter con l’infradito e chi invece si indigna quando quei cafoni delle pevifevie s’incazzano se la benzina gli costa il doppio, effettivamente, il dubbio viene.

D’altronde, è uno dei dispositivi di dominio in assoluto più potenti dell’egemonia neoliberista: riuscire a spostare il dibattito in una puntata di Ciao Darwin tra due fazioni diverse, ma uguali di destra reazionaria, mentre dietro le quinte oligarchie finanziarie dedite al greenwashing e cari vecchi petrolieri si gonfiano le tasche.

Non è che per caso c’è un modo per mandare a cacare entrambi?

Shkusi, signor miliardario, che me la farebbe mica un poco di transizione ecologica?

L’appecoramento agli interessi dell’oligarchia finanziaria che sta determinando le modalità con le quali l’élite politica del Nord Globale sta affrontando la transizione ecologica, è senza pari: con la mano sinistra si fa finta di aderire senza se e senza ma alle indicazioni che arrivano dalla comunità scientifica; con la destra però poi si pone una condizione che è destinata inesorabilmente a far fallire miseramente ogni tentativo di cercare una soluzione ovvero va bene la transizione, ma solo se non mette in discussione il dominio delle oligarchie finanziarie. Anzi, è pure peggio di così: va bene la transizione, ma solo se riusciamo a trasformarla in un ulteriore gigantesco trasferimento di ricchezza nelle tasche della finanza. Nell’epoca dell’egemonia neoliberista, la guerra culturale tra scienza e superstizione viene trasformata senza ritegno in un altro capitolo della guerra dell’1% contro il 99%: se vuoi piegare le esigenze della transizione ecologica agli interessi della finanza, sei un illuminato progressista; se pretendi che la transizione non venga fatta sulla pelle del 99%, eccoti infilato automaticamente nel calderone del negazionismo più becero.

E il bello è che in questa dicotomia ci casca anche il grosso del 99%!

Invece di rivendicare con forza il fatto che la transizione è necessaria e che per effettuarla veramente, e non solo a chiacchiere, a guidarla non possono essere gli interessi economici immediati dell’1%, si nega la scienza. Per l’1%, è un doppio regalo: da un lato continuano tranquillamente a fare una montagna di quattrini con il fossile e il modello di sviluppo vecchio, e dall’altro si apprestano a imporre la transizione, che è inevitabile, alle loro condizioni.

Non deve per forza andare così.

Come scrive da anni l’economista Daniela Gabor infatti, ci sono sostanzialmente due modi per organizzare la transizione a un’economia a basso tasso di carbonio. Il primo, più efficace, lo chiama Green New Deal e “delinea un programma radicale di trasformazione ecologica ed economica guidato dallo Stato”. Secondo la Gabor: “questo comporta massicci investimenti in attività a basse emissioni di carbonio – politiche industriali verdi sostenute da politiche fiscali e monetarie verdi, garantendo al contempo che la decarbonizzazione avvenga in modo giusto. Fondamentalmente questo richiede la demolizione dell’ordine politico del capitalismo finanziario: annullare la sua avversione ideologica all’attivismo fiscale e all’intervento statale, il suo impegno per l’indipendenza” delle banche centrali e il potere politico dei finanziatori del carbonio”. Proprio come il New Deal di Roosevelt, insomma, presuppone uno spostamento del potere dal capitale al lavoro e allo Stato e, proprio come per il New Deal – contro il quale l’oligarchia finanziaria si è costruita a sua immagine e somiglianza lo Stato neoliberale in cui siamo immersi – anche a questo giro la risposta è già pronta. E visto che lo Stato neoliberale c’è già e il potere politico le oligarchie finanziarie ce lo hanno già, non ci sarà manco da aspettare che si organizzino per reagire: ogni alternativa è uccisa nella culla.
Sostenuta involontariamente da chi invece che giocarsi questa partita, preferisce negare la scienza, questa alternativa neoliberista al Green New Deal la Gabor l’ha chiamata Wall Street Consensus, e “promette che”, specifica la Gabor, “con la giusta spinta, il capitalismo finanziario può realizzare una transizione a basse emissioni di carbonio senza cambiamenti politici o istituzionali radicali”. Il mantra del Wall Street Consensus è creare le condizioni affinché sia possibile “sfruttare il capitale privato per lo sviluppo“.

Un po’ quello che dicono i cinesi insomma.

Peccato che nel nostro caso i rapporti di forza siano invertiti e ad essere sfruttato sia il miraggio dello sviluppo per favorire il capitale privato. “I finanziatori del carbonio”, infatti, scrive la Gabor, “vedono sempre più la crisi climatica non come una minaccia, ma come un’opportunità per realizzare profitti elevati, attraverso il greenwashing sovvenzionato”.

Greenwashing sovvenzionato: quanto amo la Gabor!

Significa in sostanza che creiamo le condizioni affinché la transizione sia una gigantesca opportunità di guadagno per le oligarchie finanziarie, ma senza manco pretendere che poi questa transizione la facciano davvero: basta che lo dicano! Ad esempio, attraverso il rating ESG, che sta per “Environment, Social and Governance”, e cioè la pagella delle aziende non in base agli indicatori economici e finanziari, ma appunto alla loro sostenibilità ambientale, sociale e di governance: una gigantesca presa per il culo!

Non tanto per il principio in sé, ovviamente – che sarebbe cosa buona e giusta – ma proprio perché in mano al mondo della finanza privata, e senza nessuna capacità da parte del potere politico di mettere dei paletti, e di controllare che vengano rispettati, s’è inevitabilmente trasformato in una barzelletta.

Il mercato delle agenzie di rating e dei fondi ESG è il cuore del greenwashing globale.

Se per anni ci siamo scandalizzati per lo strapotere di tre sole agenzie di rating finanziario, Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s, ecco, calcolate che quando si parla di rating di sostenibilità, una società da sola, MSCI, pesa per oltre il 60% del mercato globale e le sue valutazioni hanno dell’incredibile.

Nel 2021 fece scalpore la vicenda McDonald che, cuore di un modello economico incredibilmente insostenibile e predatorio, era stata promossa proprio da MSCI, nonostante generasse più gas serra di Stati come il Portogallo o l’Ungheria e le sue emissioni nell’arco di quattro anni fossero salite ulteriormente del 7%. McDonald ora ha un rating tripla B, che equivale ad una bella sufficienza. Ma niente al confronto con quello di JP Morgan, la più grande banca privata del mondo: nonostante con quattrocentotrentaquattro miliardi in sette anni sia in assoluto il più grande finanziatore al mondo di progetti legati al fossile, per MSCI s’è guadagnata una bella A, un bel sette in pagella. Non dovrebbe sorprendere. MSCI infatti, non valuta l’impatto che la singola azienda ha sul clima, ma l’impatto che il clima ha sui conti dell’azienda: cioè, puoi anche contribuire a devastare il pianeta, ma se il tuo modello di business ti permette di continuare a fare profitto anche in un pianeta ambientalmente devastato, sei promosso. Così se nel 2021 MSCI ha migliorato il rating di 155 grandi corporation, soltanto 1, RIPETO 1, aveva effettivamente registrato una diminuzione delle emissioni.

Ma non è ancora finita perché se MSCI pesa per il 60% del mercato, anche il restante 40% ha ovviamente il suo peso e la sua utilità che principalmente consiste nel fatto che se cerchi per una qualsiasi azienda un’agenzia disposta a dare un buon rating, la trovi

Qualche tempo fa fece scalpore il caso Enbridge. Era riuscita a farsi concedere un finanziamento di 1 miliardo di dollari, legato proprio alla sostenibilità: serviva per estrarre petrolio dalle sabbie bituminose.

Cosa significa?

Lo raccontava magistralmente il buon vecchio Andrea Barolini in un articolo su Valori.it , “Istruzioni per estrarre petrolio dalle sabbie bituminose. Per raggiungere gli strati di sabbia ricchi di bitume, radete al suolo le foreste sovrastanti; trasportate tonnellate di sabbia all’impianto; utilizzate enormi quantitativi di acqua e solventi per estrarre il bitume; raffinatelo consumando altra energia; e alla fine ottenete del petrolio un po’ scadente da bruciare allegramente, con un ciclo che produce tra le 3 e le 4 volte le emissioni che si ottengono quando si estrae petrolio con tecniche tradizionali”.

E così, dopo Enbridge, nel tuo fondo “sostenibile” ci puoi mettere letteralmente cosa ti pare.

Blackrock di fondi sostenibili, ad esempio, ne ha quanti ne vuoi e Larry Fink nel 2020 era salito alla ribalta per la sua famosa rituale lettera annuale agli investitori, che a questo giro annunciava una decisa svolta green. Tutt’ora Blackrock investe 85 miliardi in società che producono energia col carbone.

Quindi non è altro che greenwashing?”, chiedevano sempre gli amici di Valori un po’ di tempo fa a Tariq Fancy, un ex pezzo grosso proprio di Blackrock poi pentito.

Complessivamente sì, è assolutamente greenwashing”, è stata la risposta.

Per evitare queste distorsioni qualche anno fa il mondo della finanza ha messo in piedi uno strumento innovativo: si chiama TNFD, che sta per Taskforce on Nature-related Financial Disclosure. Si fonderà su dei report dettagliati, che però funzionano esattamente come il rating di MSCI: “i rapporti che le aziende saranno chiamate a stilare non riguardano direttamente l’impatto che la loro attività ha sulla natura”, scriveva nell’agosto scorso il nostro Lorenzo Tecleme. “Viceversa”, continuava, “alle corporation è richiesto di spiegare se il loro modello di business è messo in qualche modo a rischio da fattori legati alla natura. O, all’opposto, se dal rapporto con gli ecosistemi possano nascere nuove opportunità economiche”.

Non era il primo esperimento in questo senso.

L’anno precedente infatti era entrata in funzione un’altra taskforce, la taskforce on climate-related financial disclosure. A capo c’era un ambientalista senza macchia: Michael Bloomberg, il settimo uomo più ricco del pianeta. Siccome evidentemente questi sistemi di valutazione privati non servono a una sega-niente, le istituzioni hanno cominciato a elaborare i loro, in particolare l’Europa. Per farlo, indovinate chi hanno assunto come consulente? Blackrock.
Nel caro e vecchio tradizionale capitalismo di rapina, i ricchi dovevano investire quattrini per fare lobbying presso le istituzioni; ora le istituzioni li pagano. Alla luce di queste evidenze, la guerra civile tra ambientalisti delle ZTL e negazionisti dei bassifondi può essere riqualificata come una guerra tra due negazionismi: i secondi negano la realtà scientifica sul clima, i primi quella sul capitalismo, e – visto che per quanto complesso, per capire il capitalismo tutto sommato non servono complessissime equazioni differenziali non lineari – tra i due, se proprio vogliamo trarre le somme, le più capre sono abbastanza chiaramente i primi.

Lo scozzo un po’ si riequilibra però quando al discorso sul potere della finanza, ci aggiungiamo anche quello geopolitico. Gli ambientalisti delle ZTL infatti sono di fronte a un dilemma esistenziale straziante: sono carichissimi per la guerra che il Nord globale ha finalmente deciso di ingaggiare contro l’asse delle autocrazie; peccato però che quella guerra, significa fare “ciao ciao” con la manina alla tanto agognata transizione.

Mentre l’Occidente infatti si crogiolava nella sua manifesta superiorità, i cinesi la transizione cominciavano a farla concretamente e soprattutto, costruivano i presupposti per portarla a termine.

Ancora nel 2007 infatti l’Europa era il principale hub manifatturiero per l’industria solare al mondo con circa un terzo della capacità produttiva globale di pannelli. Da allora, i cinesi -che evidentemente non leggevano La Verità – come per l’auto elettrica, hanno investito una quantità clamorosa di soldi per diventare i primi della classe. E li hanno investiti bene: non regalandoli a pioggia ai petrolieri privati e ai finanzieri che si improvvisavano avanguardie delle rinnovabili, ma facendo trainare tutta la conversione dallo Stato.

Tre anni dopo, erano già diventati i primi della classe. Noi, da bravi amanti del libero mercato, abbiamo reagito con dazi che si avvicinavano al 50%. Conseguenza: la svolta green di Europa e USA si sono fermate, senza fare grosso danno alla Cina. Abituati a essere i maggiordomi della finanza, i politici europei non hanno calcolato che in un Paese dove a guidare la carretta è lo Stato, non sarà qualche scaramuccia commerciale a far sviare da quello che viene considerato un obiettivo strategico, e così, nonostante i dazi, dal 2011 a oggi la Cina nell’industria solare ha investito 50 miliardi: 10 volte l’Europa. Grazie a questi investimenti, oggi la Cina produce pannelli in modo incommensurabilmente più efficienti ed economici che chiunque altro al mondo, mentre l’Europa e gli USA, si limitano a provare a limitare i danni: regalando quattrini ai privati.

L’obiettivo ora in Europa sarebbe arrivare a prodursi da sola il 40% dei pannelli che le servono per fare la transizione. Auguri!

Non possiamo scalare abbastanza rapidamente per soddisfare la domanda europea“, avrebbe affermato al Financial Times Steven Xuereb, direttore del Photovoltaik-Institut Berlin. “Tutti sono entusiasti del nuovo impianto [Enel] in Sicilia, che produrrà 3GW. I colossi cinesi stanno annunciando nuove fabbriche da 20GW”.

Riprendersi un pezzo del mercato, oltre a costare una quantità di quattrini spropositata, e quindi rallentare la transizione, potrebbe in realtà essere proprio infattibile perché nel tempo la Cina non ha conquistato soltanto il quasi monopolio dei prodotti finiti, ma anche di tutti i prodotti intermedi che servono per farli.

Il grafico pubblicato qualche settimana fa dal Financial times è piuttosto impietoso: divide la filiera dei pannelli in quattro stadi: produzione di polisilicio, produzione di wafer di silicio, produzione di celle e infine di pannelli veri e propri. Se per gli ultimi due stadi, celle e pannelli, la Cina oggi controlla circa l’80% del mercato, ma già nel 2010 era sopra il 50%, per il polisilicio è passata in 12 anni dal 25 a oltre il 90% del mercato, e per i wafer di silicio è diventata sostanzialmente l’unico produttore al mondo.

Recuperare è impossibile e forse anche solo provarci. La produzione di polisilicio e quella dei wafer infatti è enormemente energivora e l’energia in Cina costa la metà che da noi, senza contare gli incentivi.

Difficile credere”, conclude il Financial Times, “che qualcuno investirà miliardi senza la sicurezza di prezzi competitivi e prevedibili dell’energia”.

Ed ecco così che dopo il negazionismo climatico e quello economico, abbiamo il terzo negazionismo che impedirà di farla davvero sta transizione: quello che nega il fatto che il Mondo Nuovo ci sta facendo un culo così!

Contro il negazionismo, la finanza che ci banchetta sopra e la politica e l’informazione che assistono senza avere niente da ridire, quello di cui abbiamo bisogno è sempre di più un media che dia voce al 99%.

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E chi non aderisce è Michael Bloomberg.