Skip to main content

Tag: gazzetta filosofica

TERRA LAICA – perché i conflitti nel mondo islamico non hanno niente a che vedere con la religione

“I conflitti tra Occidente e Islam […] non toccano tanto i problemi territoriali, quanto più ampi temi di confronto tra civiltà”. Con queste parole, nel suo “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”, il prestigioso politologo statunitense Samuel P. Huntington dava inizio a una narrazione che, negli anni successivi, diventerà senso comune: l’idea che il mondo sia attraversato da uno scontro tra una civiltà occidentale e una islamica basate su valori radicalmente opposti e totalmente inconciliabili. E’ la sfumatura di suprematismo giusta al momento giusto: ridarà simpaticamente slancio a tutti i peggio pregiudizi razzisti contro le popolazioni di religione islamica – viste come inevitabilmente violente, rozze e premoderne – e, dopo l’11 settembre, servirà a giustificare senza se e senza ma tutti i crimini della war on terror che la propaganda spaccerà come una vera e propria moderna guerra di religione che, come nei bei tempi andati, vedrà nell’“Occidente” e nell“Islam” due mondi, due civiltà e due sistemi valoriali radicalmente opposti, del tutto impenetrabili. Ma quanto pesa davvero la religione negli innumerevoli conflitti che, negli ultimi decenni, hanno coinvolto in un modo o nell’altro il mondo islamico?

Arturo Marzano

“Che la religione – o meglio le religioni: islam, cristianesimo ed ebraismo – non sia la causa centrale dei conflitti in Medio Oriente” scrive Arturo Marzano nel suo “Terra laica. La religione e i conflitti in Medio Oriente”, “è qualcosa che chi si occupa di questa regione impara quasi subito”: secondo i media occidentali, al centro di tutti i conflitti in corso in Medio Oriente c’è sempre e solo l’Islam. Il Libano è uno stato fallito? Colpa dell’Islam. Iran e Arabia Saudita mettono a ferro e fuoco l’intera regione a suon di guerre per procura? Colpa dell’Islam. Il conflitto tra Israele e popolazione palestinese? Tutta colpa dell’Islam.
“A partire dal VII secolo fino all’età contemporanea” sostiene il celebre storico americano Zachary Lockman “l’Islam è stato il prisma privilegiato attraverso cui l’Europa si è rapportata alle esperienze imperiali e statuali esistenti in Medio Oriente”; “Una lettura stereotipata ed essenzialista dell’Oriente” continua Lockman “come se si trattasse di una regione incapace di mutamento, e impermeabile a qualsiasi forma di modernizzazione”. Un pregiudizio ampiamente diffuso anche nei più autorevoli ambienti accademici: l’idea di fondo è che se nell’Occidente contemporaneo l’unità di base dell’organizzazione umana è la nazione, capace di far convivere al suo interno identità religiose diverse, per il mondo musulmano – al contrario – sarebbe più opportuno parlare di un’unica religione divisa al suo interno in diverse nazioni; l’identità religiosa sarebbe quindi prevalente su quella nazionale. E di separazione tra stato e chiesa, ovviamente, manco a parlarne: mentre nell’Europa cristiana “La base religiosa dell’identità è stata sostituita dallo Stato nazione territoriale o etnico” teorizzava l’orientalista Bernard Lewis – poi ingaggiato come consigliere del governo USA ai tempi dell’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein – lo stesso non si può dire per i paesi del Medio Oriente, dove «Il concetto importato dall’Occidente di nazione etnica e territoriale rimane, così come quello di secolarismo, estraneo e non pienamente assimilato». Peccato però che in realtà, come ricorda Marzano, “Arabismo e nazionalismo arabo furono movimenti tendenzialmente laici che superavano le differenze religiose in nome di una più ampia identità araba”, e non è certo l’unico elemento macroscopico in grado di smontare a prima vista tutto l’impianto della narrazione propagandistica dell’impero: basta ricordare – ad esempio – come, durante la prima Guerra del Golfo, il grosso dell’opinione pubblica araba sosteneva il regime laico di Saddam Hussein per la sua opposizione alle mire imperialiste di Washington, mentre contestava ferocemente regimi arabi di matrice religiosa come quello saudita perché ritenuti, a ragione, filo – USA.
Anche per interpretare il conflitto tra Israele e Palestina come una questione prevalentemente confessionale ci vuole parecchia fantasia; come sostiene Marzano nel suo libro, piuttosto, siamo palesemente di fronte a un classico conflitto di natura meramente nazionale dove a scontrarsi sono due movimenti di liberazione nazionale, entrambi con l’obiettivo di creare un proprio Stato – nazione sulla stessa terra. Anche la contrapposizione tra Iran e Arabia Saudita non può essere analizzata solo come una questione religiosa tra sciiti e sunniti: numerosi analisti e giornalisti hanno fatto spesso ricorso alla guerra di religione tra sciiti e sunniti per leggere il conflitto tra Teheran e Riad, mentre si tratta di una rivalità di natura politica, economica e culturale che vede due potenze regionali contrapporsi utilizzando tutti i mezzi, incluso il ricorso all’elemento identitario. Nonostante in Arabia Saudita – in cui, tuttora, l’islam di stato è quello wahhabita – e nella Repubblica islamica dell’Iran – a capo della quale si trova il clero sciita – la dimensione religiosa sia importante, secondo Marzano questo conflitto va letto come uno scontro principalmente geopolitico e economico.

Ruhollah Khomeyni

La rivoluzione iraniana del 1979 ha rappresentato chiaramente uno spartiacque nella storia del paese, così come – più in generale – del Medio Oriente nel suo complesso: a livello internazionale la conseguenza più importante fu la rottura tra Teheran e Washington a seguito del cambio di regime; se l’Iran era stato, negli anni ‘70, il difensore degli interessi americani nel Golfo, dal 1979 gli Stati Uniti dovettero rinunciare al loro più stretto alleato nella regione e l’alleanza tra USA e Arabia Saudita – attaccata con veemenza dalla retorica di Khomeini, che accusava il regime saudita di essere servo degli americani – fece sì che la rivalità tra i due giganti petroliferi, prima entrambi filo – americani, esplodesse in una competizione per la supremazia regionale. In questa logica politica la religione è stata usata strumentalmente per creare divisioni all’interno dei paesi rivali e indebolire l’avversario: tra i tanti mezzi messi in campo da Teheran in funzione anti – saudita vi fu anche il tentativo di “esportare la rivoluzione” utilizzando strumentalmente la popolazione sciita sparsa nei paesi del Medio Oriente per affermare la propria supremazia. A partire proprio dall’Arabia Saudita dove, dopo il 1979, si è andata rafforzando l’ «identità confessionale» della minoranza sciita, a lungo esclusa e marginalizzata. Ad aumentare la tensione tra popolazioni sunnite e sciite ci si sono messe, da un lato, la retorica anti – saudita del presidente iraniano Ahmadinejad, eletto nel 2005, e – dall’altro – la guerra tra Israele e Hizballah del 2006 che causò un’ondata pro – iraniana e pro – sciita in tutto il Medio Oriente e la forte reazione da parte di Egitto, Giordania e Arabia Saudita. Arabia Saudita e Iran, inoltre, sono intervenute in Bahrein, Yemen e Siria sfruttando il pretesto religioso per portare avanti le proprie strategie di influenza geopolitica e di sicurezza. Parafrasando quanto scritto dallo studioso Fanar Haddad si potrebbe quindi parlare, piuttosto, di confessionalismo laico, nel senso che identità confessionali basate su questioni teologico – giuridiche sono state – e sono tuttora – utilizzate e brandite contro “l’altro” per obiettivi puramente politici con strumenti strettamente secolari.
Per chi vuole approfondire come la retorica dello scontro di civiltà e religioni sia funzionale alle élite per non farci capire nulla di quello che sta avvenendo in Medio Oriente, l’appuntamento è per mercoledì 29 novembre a partire dalle 21 in diretta su Ottolina Tv. Oltre alla solita crew di Ottosofia, sarà con noi il prof. Arturo Marzano, docente di Storia e Istituzioni dell’Asia all’Università di Pisa. E – nel frattempo – contro la propaganda che fomenta le divisioni religiose per coprire le ambizioni geopolitiche di chi la finanzia abbiamo bisogno di un media indipendente che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è George W. Bush

[LIVE OTTOSOFIA] Fondamentalismo democratico

Live del 08/11/2023 ore 21.00 – Questa sera approfondiremo il tema della democrazia, tratto dal video pubblicato questa mattina.
Ospite della serata Emiliano Alessandroni, docente presso le cattedre di Letteratura italiana, Filosofia contemporanea e Filosofia politica all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo“ e autore del libro “Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici

Elogio della rivoluzione: perchè l’idea che non sia possibile cambiare radicalmente la storia è oggettivamente una puttanata

Quest’uomo deve regnare o morire”. Con queste semplici parole il giovane leader rivoluzionario Louis Antoine Léon de Saint-Just più comunemente noto semplicemente come Saint-Just si condannerà per l’eternità ad essere ricordato come il padre del populismo e del giustizialismo ma, come si dice, aveva anche dei difetti. E’ il 13 novembre 1792: a Parigi sono in corso i lavori della Convenzione Nazionale, l’organo rivoluzionario che dovrà scrivere l’impianto costituzionale della Republique, quando a prendere la parola, appunto, è il giovane Saint-Just, che pronuncerà un discorso destinato a dare avvio alla stagione rivoluzionaria che travolgerà il mondo per i due secoli successivi.

Ci si meraviglierà un giorno”, proclama enfaticamente Saint-Just, “che nel XVIII secolo si sia meno progrediti che all’epoca di Cesare. Allora il tiranno fu immolato in pieno Senato, senza altre formalità che ventitré colpi di pugnale, e senza altra legge che la libertà di Roma. Oggi invece” procede perculando il nostro appassionato tribuno “si fa con rispetto il processo a un uomo assassino di un popolo, colto in flagrante delitto, con la mano nel sangue, la mano nel delitto!”.

Secondo Saint-Just, questo ricorso ai guanti di velluto per il trattamento riservato al despota deposto non si addice a degli uomini che dicono di avere “una Repubblica da fondare”, perché fondare una Repubblica è roba da stomaci forti; e chi si perde in sofismi per decidere quale sia la punizione giusta e moralmente accettabile da riservare al Re, “non fonderà mai una Repubblica1. A voler garantire un processo equo e giusto a Re Luigi e, possibilmente, salvargli la vita, sono in particolare i rappresentanti dell’alta borghesia e gli eredi della tradizione liberale riuniti nella corrente dei Girondini. L’obiettivo è gettare un po’ di acqua sul fuoco della rottura rivoluzionaria e corrompere la sua spinta democratica ed egualitaria per arrivare il più pacificamente possibile a un nuovo ordine che gli consenta semplicemente di fare più soldi e in modo più dinamico e moderno, senza troppi preti e nobili parassiti tra i piedi.

Saint-Just, Robespierre e gli altri giacobini, però, non sono particolarmente d’accordo: esponenti dell’ala sinistra della rivoluzione – eredi del pensiero democratico moderno di Rousseau e fautori di un’alleanza tra borghesia progressista e ceti popolari – non si accontentano di niente di meno che rivoltare completamente la vecchia società francese come un guanto, ponendo fine ai secoli di terrore e ingiustizia dell’Ancien Règime.

E per farlo, sono convinti che la strada maestra sia fare saltare la testa del Re senza se e senza ma, e imporre così una discontinuità storica plateale dalla quale non sia più possibile tornare indietro.

In soldoni, vogliono anche loro uccidere il loro Cesare, “senza altre formalità che ventitré colpi di pugnale”, come aveva sottolineato Saint-Just.

Il vertice giacobino, che è formato in buona parte da brillanti e coltissimi giovani avvocati, è cresciuto infatti in un vero e proprio culto della storia di Roma: “il romano”, veniva soprannominato addirittura Robespierre stesso. Ad ispirarli, in particolare, la lunga sequenza di guerre civili e l’incredibile avventura della Repubblica, che leggevano come storia epica di uomini temerari in grado di deporre re, uccidere senza pietà tiranni e riprendere continuamente in mano il timone della storia.

I giacobini volevano fare come gli antichi, ed essere all’altezza del loro esempio. È una sorta di “ritorno ai princìpi”, o alle origini, che poi è il modo in cui si pensava il cambiamento storico prima della stagione rivoluzionaria delle società moderne, e che proprio i giacobini trasformeranno nel concetto di rivoluzione.

La storia è finita” ci dicono da trent’anni. Avevano iniziato personaggi privi di ogni credibilità, come quel tale – Francis Fukuyama -, recordman olimpionico di previsioni sballate; ma ciò nonostante, passo dopo passo, anno dopo anno, è diventata l’aria comune che si respira nelle università, nelle scuole, in tutta la società.

Presentismo”, lo definisce lo storico francese François Hartog. “Nulla può cambiare”, ci dicono, perché ogni ipotesi di trasformazione radicale del presente ha l’ambizione del tutto irragionevole di rompere per sempre non solo con la storia per come è stata fino a quel momento, ma addirittura con la natura profonda dell’essere umano, che invece quella è, immutabile. E tu, presuntosotto rivoluzionario di provincia, non ci puoi fare proprio niente.

Ma vanno anche oltre perché, visto che niente può cambiare e tutto è immutabile, anche solo provare a farlo è un atto criminale, e tutte le volte che si è tentato questo fantomatico salto nel futuro, millantando una cesura netta col passato e la tradizione, il sogno si è sistematicamente trasformato in incubo.

Bah, sarà.

Ammesso e non concesso che le cose siano andate davvero in questo modo, in realtà, quello che non funziona in questa tesi è il fatto che per lunghissimi secoli gli uomini all’idea di poter cambiare la storia ci hanno creduto eccome e spesso ci sono pure riusciti. Ma non solo. Nel farlo, spesso, hanno imitato chi era venuto prima: riferendosi talvolta agli antichi, talvolta a un passato mitologico che in realtà non è mai esistito, il riferimento al passato, all’autorevolezza della tradizione, persino a un’idea di natura umana inventata di sana pianta per rispondere alle esigenze del momento, hanno a lungo rappresentato il motore della trasformazione politica e sociale. D’altronde, prima dell’Età moderna, si viveva in società molto più tradizionaliste in cui il passato, anche arcaico, era considerato un modello insuperabile di perfezione e bellezza; basti pensare al Rinascimento, ad esempio, quando la riscoperta della sapienza antica sembrava mostrare agli uomini del tempo un modello insuperabile al quale era doveroso ispirarsi, consapevoli però che quella perfezione purtroppo non era più alla nostra portata.

Ed è proprio dal cuore del Rinascimento che arriva Niccolò Machiavelli, l’autore, tra le altre cose, dei “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio”; fino ad allora, per secoli, l’esempio di Roma e della sua storia erano sempre stati caricati di significati negativi, come sequenza interminabile di conflitti durante i quali avevano fatto capolino forme inedite di potere popolare che non avevano fatto altro che sconvolgere il quieto vivere delle classi dirigenti.

Machiavelli però ne dà una lettura leggermente diversa: nel terzo libro, in particolare, si concentra proprio sugli infiniti cambiamenti che hanno attraversato la storia di Roma, su come si siano avvicendati diversi ordinamenti, e su come il popolo sia ingegnosamente ricorso agli strumenti più disparati per accrescere progressivamente il suo potere.

Una lunga serie di alterazioni, come le definisce Machiavelli, che però l’autore fiorentino ritiene salutari: “E perché io parlo de’corpi misti”, scrive, “come sono le repubbliche e le sette, dico che quelle alterazioni sono a salute, che le riducano inverso i principii loro. E però quelle sono meglio ordinate, ed hanno più lunga vita, che mediante gli ordini suoi si possono spesso rinnovare; ovvero che – per qualche accidente – fuori di detto ordine vengono a detta rinnovazione. E è cosa più chiara che la luce, che, non si rinnovando, questi corpi non durano2.

Sulla base della medicina antica, Machiavelli paragona qui un ordinamento politico a un corpo, solo che, a differenza di Ippocrate – il più grande medico dell’antichità – il corpo è per lui in salute quando al suo interno vive uno squilibrio, un conflitto. La vitalità del corpo politico, insomma, sarebbe data dallo scontro tra interessi e gruppi sociali diversi. Naturalmente i Grandi, come Machiavelli chiama le élites del suo tempo, questo conflitto con il popolo vogliono in ogni modo provare ad anestetizzarlo. Ma questo tentativo Machiavelli lo definisce nientepopodimeno che “corruzione”, rispolverando il termine che i medici antichi utilizzavano per indicare le malattie del corpo naturale. Ma come si fa a “rimediare” a questa malattia? Secondo Machiavelli è necessario che il corpo “ritorni ai princìpi”, riscopra cioè il fondamento del suo stato di natura, che appunto consiste nell’essere eternamente conflittuale. Fuori dalla metafora medica, Machiavelli ritiene cioè che, periodicamente, un ordinamento debba subire continuamente momenti di rottura e solo in questo modo può ritrovare la sintonia con la sua natura profonda.

Analizzando la storia politica di Roma Machiavelli traduce questa idea sul piano storico: ritornare ai princìpi significa in sostanza rifondare periodicamente la Repubblica da capo per riportarla così al suo momento costitutivo originario. Insomma, non si tratta di tornare all’indietro, di ripetere pedissequamente le azioni dei grandi padri fondatori, ma di rilanciare periodicamente lo spirito profondo dell’atto fondativo che, al contrario, implica proprio sempre una rottura col presente e una nuova apertura al futuro. “Fino al punto che” – sostiene ancora Machiavelli – “ogni corpo politico dovrebbe dotarsi di istituzioni che rifondino periodicamente il suo ordinamento. Addirittura una volta ogni 10 anni”, specifica. “Altrimenti la vita interna della comunità, la sua vitalità conflittuale, rischia di spegnersi perché corrotta dall’ambizione e dalla forza dei Grandi.” In effetti, per Machiavelli, il ritorno ai princìpi è un gesto traumatico di cambiamento: una secessione, una punizione esemplare, l’uccisione di un tiranno, un’invasione straniera. Solo eventi traumatici di questa entità possono concretamente riattivare il conflitto popolare e porre così un freno all’ambizione dei grandi e alla corruzione, rifondando ogni volta da capo l’ordinamento repubblicano”. Non è un caso che Gramsci definisse Machiavelli il primo dei giacobini: a tenerli insieme, infatti, è proprio questa concezione radicale e anche un po’ sanguinaria del cambiamento storico.

Ma l’idea del ritorno ai principi in realtà, dopo Machiavelli, è stata riformulata anche da pensatori ben più cauti e moderati, a partire da Spinoza, ammiratore e appassionato lettore dell’”acutissimo fiorentino”.

A differenza sua, infatti, Spinoza non ama i tumulti e le rivolte; ai suoi occhi, un corpo politico è in salute se e solo se al suo interno vige un rapporto di equilibrio tra le parti, come tra gli ingranaggi di un orologio ben funzionante.

Il ritorno ai princìpi però è un concetto importante anche per lui, perché quell’equilibrio non è mai dato una volta per sempre; anzi, viene perso di continuo, e con la perdita di quell’equilibrio ecco che si riaffacciano le ambizioni dei Grandi e la corruzione.

La soluzione però per Spinoza non sono le punizioni esemplari o le rivolte di piazza di Machiavelli;

piuttosto, un’accurata architettura istituzionale in grado di ricostruire l’equilibrio perduto, riconducendo il corpo politico allo spirito del momento fondativo.

In questa direzione va anche un grande padre del liberalismo come Montesquieu, che ai suoi tempi passava pure per essere conservatore perché non disdegnava l’ipotesi di una monarchia ben temperata, ma che oggi, di fronte al liberalismo aggressivo e imperialista uscito dalla guerra fredda, torna ad apparirci incredibilmente avanzato.

Nel liberalismo di Montesquieu, la ricerca di un equilibrio tra i poteri non deve tradursi in un ostacolo al cambiamento progressivo: anche per lui, infatti, ogniqualvolta una parte politica prevale in modo permanente sull’altra, ecco che torna l’abuso e la corruzione. Ed ecco allora che torna l’idea del ritorno ai princìpi come evento storico che ha la funzione di ristabilire l’equilibrio nei rapporti di forza tra i diversi attori sociali.

Nel frattempo, nel mondo anglosassone, l’idea del ritorno ai princìpi attraeva anche un altra famiglia di liberali, che però non si limitavano a darne un’interpretazione semplicemente più moderata e meno conflittuale, ma addirittura la rovesciavano in qualcosa di profondamente aristocratico. L’idea, infatti, è che i princìpi ai quali tornare siano una sorta di equilibrio ancestrale radicato in un periodo arcaico mitologico e antistorico, quando a regnare era una concordia immaginaria tra tutte le parti.

È la linea del cosiddetto “repubblicanesimo” aristocratico, che dopo essersi sviluppata tra gli interpreti inglesi di Machiavelli, attraverserà l’Atlantico e influenzerà in profondità la Rivoluzione americana, che da questo punto di vista tanto rivoluzionaria poi non era.

Affinché l’idea del ritorno ai principi si trasformi definitivamente nel concetto moderno di rivoluzione toccherà aspettare un’altra trentina d’anni, per tornare finalmente laddove eravamo partiti: a Saint-Just e ai giacobini – i tagliatori di teste – che però durano pochino.

Meno di due anni dopo l’arringa alla Convenzione Nazionale di Saint-Just sulla necessità di mozzare la testa al Re senza tanti fronzoli e rituali garantisti, ad essere mozzata di testa sarà la sua. Non aveva ancora compiuto 27 anni, e da lì in poi la rivoluzione assumerà tutt’altro carattere, riportando indietro bruscamente le lancette della storia.

Eccolo un esempio di rivoluzione che le “piccole groupies di Francis Fukuyama de noantri” ti tirano fuori quando ti vogliono spiegare che devi startene zitto e muto perché tanto “there is no alternative”.

Ovviamente, però, un alternativa c’è sempre: la nostra si chiama Antonio Gramsci,l’erede più prestigioso di quella storia di repubblicanesimo popolare, democratico e giacobino che si era interrotta con la debacle di Saint-Just e company, e che lui rende di nuovo incredibilmente attuale allargandola al suo erede più moderno e compiuto: il socialismo.

Gramsci riflette a lungo sulla sconfitta dei giacobini e individua un punto critico essenziale: il messianesimo, l’idea – appunto – di un evento traumatico che rompa definitivamente i cordoni con la continuità storica e fondi così da zero un mondo nuovo, senza legami con il passato e fortemente idealizzato.

Non funziona: lungi dal rompere con la tradizione nazionale, fatta di cultura popolare ma anche delle lezioni dei suoi intellettuali più rilevanti, la rivoluzione di Gramsci – pur mantenendo intatto tutto il suo carattere traumatico e fondativo – non ne è in realtà che l’esito più coerente e compiuto.

Se pensare il cambiamento come interruzione del tempo storico e apparizione messianica ha prodotto sconfitte e involuzioni reazionarie, l’utilizzo del meglio della tradizione nazionale per rompere con le distorsioni del presente continua a rappresentare una possibilità di cambiamento radicale, senza scadere nel velleitarismo.

Ripartiamo da lì: noi, proveremo a farlo su Ottolina tv con la nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica in collaborazione con Gazzetta filosofica.

Ospite d’onore è Francesco Marchesi, nostro graditissimo ospite già l’anno scorso, per parlare appunto di un Machiavelli paladino della lotta contro le oligarchie.

Nell’ultimo anno Francesco ha provato ad allargare lo sguardo e ha cercato di capire come il ritorno ai principi, teorizzato proprio da Machiavelli per primo, nel corso dei secoli ha influenzato la nostra capacità di pensare prima, e attuare poi, il cambiamento.

Noi, nel frattempo, se siamo all’altezza di pensare e sopratutto di attuare un qualsiasi cambiamento non lo sappiamo: quello che sappiamo è che continueremo a provarci.

Se sei dei nostri, faccelo sapere con qualche eurino. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Francis Fukuyama.

1 Saint-Just, Discorso per il processo di Luigi XVI, p. 54.

2 Discorsi, III, 1.

Fate fuori Berlinguer: La guerra dell’impero contro un patriota che sognava il multipolarismo

Giugno 1976

Puerto Rico

Le sette principali economie del Nord Globale si incontrano per il secondo vertice del G7. Tra loro, un osservato speciale: l’Italia.

Appena una settimana prima, infatti, in Italia si erano tenute le elezioni politiche, e il Partito Comunista aveva ottenuto la bellezza di oltre il 34% dei consensi, l’8% in più delle elezioni precedenti, avvicinando così il tanto temuto sorpasso sulla democrazia cristiana.

I presunti alleati sono terrorizzati. 

Fortunatamente per loro però l’Italia versava nel frattempo anche in condizioni economiche decisamente complesse.

Ed ecco allora la soluzione: USA, Gran Bretagna, Francia e Repubblica Federale Tedesca sottoscrivono un accordo segreto. Avrebbero concesso aiuti economici all’Italia, ma a tre condizioni: l’esclusione dei comunisti dal futuro governo, l’introduzione di alcune riforme di carattere neoliberale e il ricambio radicale della leadership democristiana.

Così, giusto se qualcuno ancora si chiedesse chi sono i mandanti dell’omicidio Moro.

Non ho esperienza o conoscenza di una politica di tale ingerenza nel passato nei confronti di un paese altamente sviluppato e stretto alleato”, avrebbe dichiarato poco dopo un funzionario inglese presente al vertice.

D’altronde, tutto sommato, le loro preoccupazioni erano più che giustificate.

Nell’Aprile del 1974 in Portogallo le forze popolari guidate dalla fazione progressista delle Forze Armate avevano messo fine ai 40 anni dell’Estado Novo di ispirazione clericofascista del dittatore Antonio de Oliveira Salazar.

Pochi mesi dopo, nel Luglio del ‘74, in Grecia cadeva il governo dittatoriale instaurato sette anni prima con il golpe dei colonnelli e nel novembre del ‘75, in Spagna, a rimandare definitivamente a marcire nelle fogne dalle quali era arrivato quell’essere vomitevole di Francisco Franco ci aveva pensato Madre Natura.

Questi eventi”, scrive lo storico Antonio Varsori, “parvero per qualche tempo far ritenere possibile uno spostamento a sinistra degli equilibri politici nell’intera Europa meridionale, nonché il collasso del blocco occidentale in questa parte del continente”.

La clamorosa avanzata elettorale del PCI avrebbe accelerato in modo probabilmente irreversibile proprio questo processo.

Il terrore del Nord Globale di fronte a questa evenienza fino ad oggi è sempre stato letto con la lente, tutto sommato comprensibile, della contrapposizione tra democrazie liberali e modello sovietico.

Preferivi vivere in Russia?”, è la domanda standard che viene rivolta ogni volta che si affronta questa incredibile storia di ingerenza e di limitazione della sovranità.

Che poi, è la stessa che ci sentiamo rivolgere ancora oggi ogni volta che parliamo di multipolarismo: “Se ti piace tanto la Cina, perchè non ci vai?”

Peccato però si tratti in realtà di una narrazione totalmente farlocca, nella quale è caduta appieno anche la stragrande maggioranza di quella che una volta era la sinistra.

Perché la realtà purtroppo è molto peggiore: la guerra senza frontiere del Nord Globale contro Berlinguer e l’idea stessa del compromesso storico infatti, ovviamente, non ha niente a che vedere con la lotta tra le democrazie e dittature.

Piuttosto, al contrario, è un esempio eclatante della guerra senza frontiere che il capitalismo oligarchico del Nord Globale ha ingaggiato da quasi 50 anni contro la democrazia stessa.

Io sono Letizia Lindi, di mestiere insegno Storia e Filosofia nelle scuole superiori, e questo è il primo episodio della nuova stagione di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di OttolinaTV in collaborazione con Gazzetta Filosofica.

E oggi parliamo di un grande eroe popolare: Enrico Berlinguer.

Al centro della nostra attenzione va posta la crisi che attraversano le società capitalistiche su scala mondiale in Europa e in Italia. Una crisi profonda e di tipo nuovo, dovuta al concorso di grandi processi di portata storica: l’ingresso e il peso crescente nell’arena mondiale di popoli e Stati prima soggetti al dominio coloniale; e l’esplodere delle contraddizioni che hanno caratterizzato lo sviluppo dei paesi capitalistici più progrediti.

Nell’ultimo anno, siamo giunti a tassi di aumento dell’inflazione che, per i principali paesi capitalistici, raggiungono cifre elevatissime […]. E gli Usa stanno cercando di riguadagnare con tutti i mezzi parte del terreno perduto […] con le manovre speculative, con una crescente invadenza di capitali, e con il ricatto tecnologico”.

Sembra l’ennesimo pippone del nostro Giulianino. E invece siamo nel 1974.

E la penna è nientepopodimeno che quella di Enrico Berlinguer: comunista, democratico e patriota.

Le relazioni speciali con gli Stati Uniti”, continua Berlinguer, “sono diventate un vero e proprio anacronismo […] e costituiscono una inaccettabile limitazione del diritto sovrano del nostro popolo di decidere in piena libertà le vie per risolvere i nostri problemi nazionali e le corrispondenti soluzioni di governo”.

Ma quella di Berlinguer non è semplicemente l’ennesima lamentela inconcludente. Al contrario, perché secondo Berlinguer, in realtà, una via italiana per emanciparsi dall’egemonia a stelle e strisce c’è.

Oggi”, scrive infatti, “è possibile una politica estera italiana che non sia più fattore di divisione del nostro popolo ma sia invece fattore di unità, ed in cui si possono riconoscere tutte le forze politiche e democratiche e le grandi correnti ideali del nostro paese”.

Secondo Berlinguer, in sostanza, la lotta per un ordine internazionale più democratico che garantisca all’Italia il pieno esercizio della sua sovranità non è appannaggio di una minoranza ideologizzata, per quanto vasta, che guarda con favore al modello sovietico, ma è un obiettivo molto più generale, in grado di tenere insieme famiglie politiche anche molto diverse tra loro, in nome dell’interesse della stragrande maggioranza della popolazione.

Come diciamo sempre a Ottolina, insomma, anche per Berlinguer sovranità e multipolarismo sono le parole d’ordine del 99%.

Ma Berlinguer va anche oltre: perché la conquista da parte dell’Italia di una vera sovranità non riguarda solo gli italiani, ma in generale la comunità umana, che vede minacciata la sua stessa sopravvivenza dalla reazione potenzialmente devastante del Nord Globale al tentativo di emancipazione dalle ingiustizie dell’ordine neocolonialista da parte dei paesi che allora definivano del Terzo Mondo.

Una politica estera che abbia a proprio fondamento la difesa della nostra autonomia da interferenze e condizionamenti stranieri”, scrive infatti Berlinguer, è la condizione per “un attivo contributo dell’Italia alla distensione, e alla cooperazione con tutti i paesi del Terzo mondo”.

Ma se la proposta politica di Berlinguer non ha niente a che vedere con la rivoluzione bolscevica e l’ingresso dell’Italia nella sfera di influenza sovietica, ed anzi è tutta volta al rafforzamento della democrazia italiana e alla sua indipendenza, perchè fa così paura agli alleati occidentali?

Per capirlo, bisogna forse intenderci un po’ meglio su cosa intendiamo davvero per democrazia.

Una riflessione che nel Partito Comunista Italiano era nata parecchio tempo prima.

Già nel 1964 Togliatti nel suo memoriale di Yalta notava infatti come “oggi sorge nei paesi più grandi la questione di una centralizzazione della direzione economica, che si cerca di realizzare con una programmazione dall’alto, nell’interesse dei grandi monopoli e attraverso l’intervento dello Stato. Questa questione”, osserva lucidamente Togliatti, non solo è all’ordine del giorno a livello interno in tutti i paesi dell’Occidente, ma “già si parla di una programmazione internazionale”.

Questa “programmazione capitalistica”, avverte Togliatti, “è sempre collegata a tendenze antidemocratiche e autoritarie”, contro le quali diventa assolutamente urgente e indispensabile “opporre l’adozione di un metodo democratico anche nella direzione della vita economica”.

Contro il formalismo democratico dei paesi imperialisti, Togliatti introduce un’idea di democrazia sostanziale come strumento per ribaltare i rapporti di forza tra dominanti e subalterni. È sostanzialmente il programma da contrapporre alla controrivoluzione neoliberista che travolgerà il pianeta a partire da una decina di anni dopo, ma che Togliatti con incredibile lungimiranza aveva cominciato ad avvertire già allora.

Contro la svolta autoritaria del neoliberismo che delega la programmazione economica dall’alto alle oligarchie, la soluzione non può che essere introdurre sempre più elementi di democrazia all’interno del sistema economico stesso.

Come affermava lucidamente Luigi Longo durante l’XI congresso del PCI del 1966, “si tratta di battersi per la conquista di nuove forme di partecipazione diretta, e di nuove forme di controllo, dal basso, delle molteplici attività che costituiscono la fitta rete del potere”.

Mentre le socialdemocrazie e il tradunionismo europei erano tutti concentrati esclusivamente verso l’estensione del sistema di welfare, il PCI puntava dritto al cuore del potere capitalistico, elaborando una strategia complessiva volta a spostare strutturalmente i rapporti di forza all’interno del sistema produttivo a favore dei lavoratori. Ed è proprio in questa ottica che va letta l’idea del compromesso storico che è al centro dell’elaborazione di Berlinguer. Contro la traduzione in potere politico delle grandi concentrazioni oligarchiche di potere economico, la ricetta di Berlinguer è quella di una grande alleanza popolare in grado di trasformare in profondità le istituzioni repubblicane in senso realmente democratico. A partire dalla centralità del parlamento, dove la sovranità popolare si traduce nel potere effettivo dei rappresentanti dei cittadini produttori di controllare il sistema produttivo, ponendo così un argine alle derive tecnocratiche al servizio degli interessi delle oligarchie.

Da questo punto di vista, appunto, il piano nazionale e quello internazionale appaiono inscindibili: non si dà democrazia al di fuori della possibilità di esercitare pienamente la sovranità e non si dà sovranità al di fuori di un nuovo ordine multipolare.

La Pace al primo posto, come ha deciso di intitolare la sua raccolta di scritti e discorsi di Enrico Berlinguer sulla politica internazionale una delle punte di diamante di questa famiglia allargata che è Ottosofia, il mitico Alexander Hobel, probabilmente il più profondo conoscitore e analista di quella incredibile avventura popolare che è stata la storia del Partito Comunista Italiano. Una pace che appunto è da ottenere e difendere proprio attraverso l’ampliamento continuo degli spazi di democrazia sia a livello nazionale che internazionale. Perché “una pace non precaria, ma solida e duratura, per essere tale non può che essere fondata sulla giustizia”.

Per riflettere insieme sull’incredibile attualità del pensiero di Berlinguer in questa nuova fase di contrapposizione tra la volontà di emancipazione del Sud Globale e la reazione potenzialmente devastante delle vecchie potenze imperialistiche, l’appuntamento è per stasera Mercoledì 20 Settembre a partire dalle 21 con una nuova imperdibile puntata di Ottosofia.

Ospite d’onore, ça va sans dire, il nostro amato Alexander Hobel.

E nel frattempo, se anche tu credi sia arrivato il momento di costruire un nuovo media che come Berlinguer metta LA PACE AL PRIMO POSTO, cosa fare probabilmente lo sai già.

Aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU)

E chi non aderisce è Francesco Cossiga.

Fonti:

Logo Gazzetta Filosofica: https://www.gazzettafilosofica.net/

Copertina libro: https://www.ibs.it/pace-al-primo-posto-scritti-ebook-enrico-berlinguer/e/9788855225168?gclid=CjwKCAjwjaWoBhAmEiwAXz8DBWgVYNzVbxBxTlEjlaIOylt54reg_LgWLZS5h6xh57sj9WQ6VJW9YRoC92UQAvD_BwE

Le immagini di pubblico dominio sono:

Simbolo PCI: https://it.wikipedia.org/wiki/Partito_Comunista_Italiano

Antonio de Oliveira Salazar: https://it.wikipedia.org/wiki/Ant%C3%B3nio_de_Oliveira_Salazar

Foto di Enrico Berlinguer: https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Berlinguer